Vittorio Casali De Rosa

NUOVE SFIDE E SISTEMA PAESE

Archiviata la stagione del Covid-19, la Unione Europea si muove rapidamente verso la chiusura di quelle ferite che hanno rivelato tutta la debolezza del mondo globalizzato così come pensavamo che si stesse affermando dal crollo della Unione Sovietica ad oggi. La frattura delle catene del valore createsi, è il caso di dire, da una parte all’altre del globo ha ricordato alle industrie continentali e nazionali come uno dei primi fattori per la riduzione del rischio di investimento sia la prossimità delle materie prime alla base dei processi produttivi.

Se i grandi gruppi industriali si stanno già muovendo in una ottica di reshoring almeno parziale delle catene del valore, sembra proprio che il mondo politico di un continente come quello europeo, abituato da tempo ad essere consumatore finale di prodotti fabbricati ed assemblati altrove, non stia seguendo gli stimoli del mercato con la grave colpa di perdere opportunità che in inglese, si direbbe, avvengono una volta per generazione.

Tesla, Enel, Intel, sono solo tre dei grandi gruppi che hanno previsto investimenti miliardari nel vecchio continente per facilitare e prendere parte alla decarbonizzazione ed elettrificazione dell’industria che porta con sè una riorganizzazione del comparto della elettronica, che, complice le tensioni nel mar della Cina, prevede in parte di abbandonare Taiwan.

Con esse si è riaffacciato dunque un vecchio protagonista delle rivoluzioni industriali che hanno permesso il percorso delle genti europee verso lo sviluppo ed il benessere dei giorni nostri, sto parlando della industria mineraria.

Relegato ai musei cittadini di qualche ex distretto estrattivo ormai convertito in riserva naturale il comparto minerale europeo se non sarà parte integrale del ritorno in Europa della produzione industriale ne sarà uno dei principali fattori di insuccesso.
La riduzione del rischio che giustifica investimenti di lungo periodo e con essi i livelli occupazionali caratteristici della industria manifatturiera, deriva dalla prossimità almeno parziale dei prodotti su cui si basano le produzioni. E se l’industria italiana ha a lungo favorito l’approvvigionamento di questi ultimi dalla catena di commercio mondiale (intermedi tessili, metallici, legno, minerali energetici,…) sarebbe un grave errore perdere l’opportunità di riconsiderarne alcuni aspetti, ora che l’occasione si presenta per tutti i paesi europei.

Due sono le notizie che hanno colpito chi scrive e che nonostante la portata delle cifre in gioco (questo dà una misura della febricità con cui il mercato sta reagendo ai nuovi stimoli) si sono susseguiti nel volgere di pochi mesi :
1 – Il più grande gruppo minerario al mondo, RioTinto, annuncia a metà 2021 l’imminente avvio di un progetto di investimento (2 miliardi di euro) in Serbia per la ricerca, l’estrazione e la produzione di carbonato di litio per fornire, fra gli altri, il nascente mercato europeo delle batterie elettriche. Due mesi di proteste dei cittadini per delle condizioni non chiare del sito di sfruttamento sono sufficienti per la marcia indietro del governo serbo che pone una pietra tombale a fine Gennaio 2022 sulle iniziative del gruppo angloamericano.

2 – Uno dei più grandi gruppi minerari francesi, Imerys, annuncia un progetto di investimento (1 miliardo di euro) nella Francia centrale per estrarre e processare volumi di idrossido di litio sufficienti alla produzione di batterie per circa 700.000 macchine all’anno (la mega fabbrica Tesla prevista in costruzione vicino Berlino prevede di costruire almeno 100.000 ogni anno). Il progetto contirbuirà a creare più di 1000 nuovi posti di lavoro e a favorire l’indipendenza francese ed europea nel settore. Così riporta il comunicato stampa, assicurando al governo francese la dedizione della società nel contribuire allo sviluppo delle comunità con cui si troverà a collaborare e dell’ambiente in cui opererà.

In Italia una ricerca del 2007 dell’ISPRA commissionata dal Ministero della tutela dell’ambiente e del territorio ha individuato 3.000 siti minerari, ubicati soprattutto fra Sardegna (427), Sicilia (724), Toscana (416), Piemonte (375), Lombardia (294), Veneto (114). Di questi siti, oggi ne sono attivi solo 300. Il motivo della loro dismissione, nella maggior parte dei casi, fu legato agli alti costi di produzione rispetto al costo del materiale d’importazione, alle tecniche di estrazione troppo impattanti non più al passo coi tempi, ma anche alla forte pressione ambientalista.

L’abolizione dei distretti minerari, le cui prerogative sono ora gestite dalle Regioni, ha determinato un aggravio ulteriore per il possible sviluppo di collaborazioni fra società private ed enti pubblici con funzioni di raccordo e facilitazione nella nuova composizione di una catena del valore di carattere locale, nazionale ed europeo.
Le opportunità ci sono. Adesso è il momento per la politica di coglierle e di fornire un indirizzo in grado di convincere le aziende che tutto il sistema paese è pronto a supportare lo sforzo industriale richiesto per fronteggiare le sfide che lo attendono.

Le criticità della decarbonizzazione

Lo scorso 14 Luglio la Commissione Europea ha rilasciato una nota stampa in cui venivano annunciate delle
pesanti modifiche alla strategia di decarbonizzazione che vedrà impegnata l’Unione da oggi al 2030.
Benché l’impianto si allinei sostanzialmente a quanto proposto e perseguito negli scorsi decenni (riduzione
delle emissioni e dei gas serra attualmente in atmosfera) le misure sono decisamente più drastiche, puntando
ad una riduzione del 55% delle emissioni di gas serra sulla base di quelle del 1990 entro il 2030.
Gli assi di intervento mostrano una certa organicità, volendo da una parte affrontare il dumping ambientale con il nuovo
meccanismo di quote carbone (CBAM) e dall’altra quello incentivare misure di efficientamento energetico e
riconversione verso fonti sostenibili, in questo modo si cercherebbe di tutelare la competitività del tessuto
industriale europeo.
Incomprensibile ed estremamente pericolosa per l’interesse nazionale italiano, come sostenuto anche dal
ministro della Transizione ecologica Cingolani, è invece la posizione sulla logistica ed in particolare sul settore
automobilistico.
Nelle intenzioni della Commissione infatti l’intero settore dovrà raggiungere entro il 2035 non la neutralità
carbonica, ma la neutralità emissiva. Ovvero, tutti i veicoli immatricolati a partire da quell’anno dovranno
sostanzialmente fare a meno del motore a combustione interna, quello, per intendersi che attualmente
permette di produrre energia a partire da carburanti come il diesel, la benzina il GPL ed il metano. Questa
posizione rischia di far letteralmente evaporare centinaia di migliaia di posti di lavoro solo in Italia (l’ultimo
dato del 2019 dell’Associazione Nazionale Filiera Automobilistica parla di circa 270.000 addetti) ed un settore
che contribuisce per il 6% al nostro Prodotto Interno Lordo, ovvero 106 miliardi di fatturato e 76 di prelievo
fiscale, oltre alla proiezione fondamentale che industrie di altissimo livello nei segmenti del lusso come
Lamborghini e Ferrari (ma la lista sarebbe lunga) danno al nostro paese contribuendo alla creazione del
brand del made in italy
In questo modo rinunceremmo ad uno degli asset fondamentali della crescita a lungo termine della nostra
nazione, che in un mercato di 7 miliardi di abitanti e di milioni di aziende, ha deciso di scommettere su un
upgrade qualitativo in tutti i propri settori industriali e manifatturieri creando prodotti ad alto valore aggiunto
e facilmente riconoscibili, come riportato dall’ultimo report di Confindustria.
Si può dire senza paura di essere contraddetti che la tutela del motore a scoppio, o a combustione interna è
ad oggi tutela dell’interesse nazionale e non solo italiano e tedesco (noti gli strettissimi legami fra le filiere
automotive due paesi), ma anche europeo.
La tecnologia alla base delle auto elettriche è strettamente legata allo sfruttamento delle cosiddette terre rare
ad oggi importate al 98%, secondo lo stesso studio sulle materie prime critiche condotto dalla Commissione,
dalla Cina.
Sempre la Repubblica Popolare è il primo produttore al mondo di auto elettriche, con una previsione sul
periodo 2018-2023 di circa 14 milioni seguita da Germania e Francia che insieme potrebbero fornirne al
mercato altri 6, con le materie prime prodotte ed importate però dal primo paese, quindi con una potenziale
operazione al più di reshoring parziale della catena produttiva che rimarrebbe comunque dipendente dal
monopolio cinese delle materie prime.
Le criticità non sono finite tuttavia, poiché la strada intrapresa dalla Commissione pone dei seri interrogativi
per tutta la filiera della logistica (strada, mare e aria). Le quote carbone infatti con i relativi sovraccosti
andrebbero ad applicarsi in modo più estensivo sul trasporto aereo e per la prima volta anche su quello
navale che come è noto ad oggi rimane il più difficile da decarbonizzare, con costi aggiuntivi che graveranno sulla logistica Asia-Europa, imprescindibile in uno scenario di mobilità civile completamente elettrica e già oggi segnata da un profonda crisi di prezzi e di affidabilità dopo lo scoppio della pandemia.
Rendere carbon-neutral il settore della logistica è probabilmente una delle sfide più complesse della
transizione ecologica ma dati i presupposti, scegliere di dismettere il motore a combustione interna è una
scelta miope che non tiene conto delle esigenze e delle reali potenzialità del continente.
Le stesse proposte al Green Deal riportano più tecnologie a bassissima o nulla emissione per ridurre l’impatto
del settore sull’ambiente. Vengono ad esempio citati gli e-fuel ovvero i carburanti di sintesi per favorire la decarbonizzazione del settore aeronautico e marittimo, ma inspiegabilmente questi vengono esclusi a priori per quello automobilistico.
Questi ultimi potrebbero essere l’elemento pivotale per conciliare esigenze ambientali ed economiche del
continente europeo.
I carburanti di sintesi infatti, altro non sono che gli stessi carburanti disponibili oggi (diesel, benzina, kerosene,
GPL,…) prodotti però attraverso una reazione di sintesi catalizzata fra anidride carbonica ed idrogeno, due
elementi su cui si sta focalizzando l’attenzione e la ricerca industriale degli ultimi anni: la prima perché un
problema da dismettere ed il secondo perché di difficile utilizzo in forma gassosa.
Scommettendo sulla produzione di idrogeno da elettrolisi (come già sta facendo il nostro campione nazionale
SNAM) e disponendo di grandi quantitativi di anidride carbonica già stoccata (come progetta di fare ENI nei
pozzi esauriti dell’Adriatico o catturandola dall’atmosfera) è possibile ottenere per via catalitica combustibili
liquidi da immettere nell’attuale rete di distributori e che possono alimentare le tecnologie di combustione già
presenti nelle nostre autovetture.
Questo fermo restando gli sforzi necessari per ridurre le emissioni di NOx e particolato dannosi per la salute umana prima che per l’ambiente ma potendo riconvertire molto più facilmente la forza lavoro e gli impianti industriali legati all’indotto dell’ oil and gas già presenti sul continente.
Inutile illudersi sulla maturità della tecnologia: i costi sono ancora elevati (circa 8 eur/l con una previsione
potenziale per il 2030 di 1,7 eur/l) e la produzione non pronta per lo scale-up industriale, ma lo stesso si può
dire della mobilità elettrica e dell’intero settore delle energie rinnovabili, reso forzosamente competitivo con
onerose sovvenzioni statali e ad oggi gravato dal pericoloso monopolio del gigante asiatico.
La transizione ecologica sarà un successo se sapremo declinarla su scala regionale e nazionale, trovando
soluzioni adatte all’economia del vecchio continente come è spontaneamente avvenuto in tutte le precedenti
rivoluzioni industriali altrimenti non solo sarà un fallimento ma segnerà anche la fine dell’Europa industriale.
*Vittorio Casali De Rosa, ingegnere Chimico

Per una Italia più forte e più verde

In previsione della convocazione del G20 a Roma il 30-31 Ottobre di quest’anno, la Fondazione Edison ha pubblicato un fascicolo intitolato G20 and the Italian economy, key indicators to be kept in mind, tanto prezioso per i contenuti raccolti quanto chiaro nell’esporli.

L’incredibile combinazione fra alta efficienza nell’uso dell’energia (l’Italia è il secondo paese meno energy-intensive del G20 dopo Regno Unito) e ridotte emissioni di anidride carbonica (terzo dopo Argentina e Francia con 302.8 MTons di CO2 emesse), rendono il Bel Paese un caso più unico che raro nel panorama delle potenze occidentali, specie se si considera che la Francia, che produce più del 40% della propria energia con centrali nucleari ad emissione praticamente zero, emette annualmente circa 293.2 MTons di CO2. Storicamente povera di materie prime, di minerali sia energetici che non, l’Italia è sempre stata in grado di “fare molto con poco” e ne è un chiaro esempio il proprio mix energetico, specchio di un paese geograficamente ed economicamente molto disomogeneo ma al contempo paradigmatico della transizione verso un’economia ad emissione carbonica zero, per la quale non solo partiamo avvantaggiati, ma in grado di dettare la linea.

Il mix energetico italiano si basa su tre assi portanti: derivati liquidi del petrolio (circa 37%), gas naturale (circa 35%) e rinnovabili (circa 20%). Le recenti scoperte di giacimenti nel mar Mediterraneo, l’inizio dello sfruttamento dei pozzi a largo di Ravenna e nell’Adriatico e i nuovi gasdotti col vicino oriente (TAP e EastMed) aumentarenno rapidamente il contributo del gas naturale, destinato ad avere un ruolo cruciale nella transizione energetica per le basse emissioni e la grande disponibilità in natura, a scapito del petrolio liquido soppiantandolo già dal 2030.

La riduzione ulteriore delle emissioni di anidride carbonica deve rientrare infatti nella strategia economica e commerciale del sistema paese dei prossimi anni, ispirandone l’approccio verso le nuove tecnologie, aprendo la strada, in intesa coi nostri partner, al meccanismo tariffario carbonico che l’Unione Europea sta preparando e facendoci guadagnare vantaggio sui memorandum degli accordi di Parigi.

La decarbonizzazione dell’economia deve essere un’opportunità per l’Italia per azzerare la dipendenza energetica dai paesi del nord Europa e riportare il baricentro dell’economia comunitaria nel bacino del mediterraneo. In questa direzione va la nuova geopolitica del gas naturale ma anche le fonti rinnovabili, che sfruttano soprattutto l’energia solare e quella eolica verso le quali la transizione completa è prevista entro il 2050.

La maggior limitazione all’uso su larga scala di queste fonti, che sono lo step successivo all’uso del gas naturale, è dato dal basso rendimento (circa il 20% per i pannelli fotovoltaici e 40% per le pale eoliche), l’intermittenza della produzione di energia e la difficoltà nel trasporto. Sfruttare un vettore energetico puo’ essere la soluzione. La SNAM, controllata cdp ed eccellenza italiana nella distribuzione di gas naturale, sta scommettendo nella produzione e distribuzione, ormai dal 2019, di una miscela di idrogeno e gas naturale per consumo industriale, partendo dal 5%, fino ad arrivare pochi giorni fa (19/05/2021) all’uso di una miscela al 30% H2 e gas naturale in un forno per la forgiatura di acciaio.

L’uso di tale vettore energetico pone molte criticità a causa delle elevate pressioni di stoccaggio e dalla tendenza del gas ad interagire con i metalli normalmente usati nelle condotte di distribuzione del gas provocandone un severo infragilimento che porta spesso a rottura improvvisa compromettendo la vita di tutto l’impianto.

Lo sviluppo di una filiera tecnologica per la produzione, la distribuzione e lo sfruttamento di questo elemento rientra nel perimetro dell’interesse nazionale per varie ragioni:

1 – l’Italia è uno dei primi paesi al mondo per la produzione di valvole, turbine a gas ed elementi di condotte per l’oil and gas (il solo export dei primi due elementi vale 8.21 e 4.9 miliardi di euro all’anno). Lo sviluppo di acciai speciali adatti al trasporto di idrogeno sarebbe un volano per i nostri settori industriali, ridando vitalità a tutto l’indotto, dalla ricerca e sviluppo, alla produzione e fino ai trattamenti superficiali del manufatto.

2 – Si potrebbe creare una filiera tutta italiana di sviluppo della tecnologia su cui già siamo leader, con potenzialità dell’ordine di grandezza del commercio mondiale.

3 – Sfruttando la produzione per idrolisi dell’idrogeno è possibile raggiungere l’indipendenza energetica abbinando le celle idrolitiche a centrali fotovoltaiche o eoliche offshore che servirebbero da veri e propri giacimenti di gas a largo delle coste italiane o nei deserti nord africani ricchissimi di luce solare, laddove le condizioni lo permettessero.

La transizione energetica richiederà una formula mista di produzione dell’energia per la quale siamo già preparati ma serviranno sforzi significativi di riconversione, data l’insostenibilità economica di ricreare un sistema di distribuzione e produzione dell’energia ex novo. Riuscire a governare il cambiamento in atto nel settore dell’energia sarà la vera sfida del sistema paese e questo sarà possibile solo in sinergia col nostro tessuto industriale, sfruttando le nostre eccellenze nazionali ed europee e mettendole a sistema. Solo su queste basi possiamo costruire l’Italia e l’Europa di domani, più forte e più verde.

*Vittorio Casali De Rosa, ingegnere chimico 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La transizione ecologica nell’interesse nazionale

La transizione ecologica è il grande tema al centro degli sforzi della Unione Europea almeno dalla sottoscrizione degli accordi di Parigi il 19 Dicembre 2015. Attorno ad essa si è sviluppata una delle principali critiche all’amministrazione Trump e al contempo delle ragioni della Commissione Von der Leyen; ed anche in questo caso la crisi sanitaria dovuta al covid-19 ha svolto una funzione catalizzatrice imprimendo una decisa accelerazione.

L’ambizione del Vecchio Continente di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 ha definito un orizzonte temporale ristretto che richiede sforzi ulteriori e quindi è stata accolta a partire da quest’anno una iniziativa dell’europarlamentare francese Yannik Jadot (Greens/EFA) volta ad inserire un sistema tariffario sui beni importati nel mercato comune basato sulla quantità di anidride carbonica ‘incorporata’ in essi.

L’introduzione della misura, chiamata CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism), mira a realizzare più obiettivi in un’ottica di sostenibilità economica ed ambientale: 1 – porre un freno al fenomeno cosiddetto della dispersione carbonica (carbon leakage), 2- incentivare misure di decarbonizzazione dell’economia in paesi esterni alla UE, 3 – finanziare i 750 MLDEUR di Next Generation EU necessari per il rilancio economico del post pandemia oltre che a sostituire l’attuale sistema di allocazione di certificati per l’emissione di anidride carbonica, l’Emissions Trading System (EU ETS).

Le opportunità sono molte, ma anche i rischi e quindi occorre individuare sin da subito il perimetro dell’interesse nazionale italiano al fine di contribuire alla definizione della misura (ancora in nuce) in sede europea per adeguarla alle esigenze del nostro sistema economico e produttivo.

Lo sviluppo di un piano paritario di competizione per i diversi protagonisti dei settori produttivi è una esigenza per le economie di mercato occidentali che sono sottoposte a costi elevati della forza lavoro, delle materie prime, dell’energia e operativi per il rispetto delle giuste normative ambientali. Un quadro normativo che miri a riequilibrare lo squilibrio di condizioni di mercato in cui ci troviamo ad operare, a svantaggio della competitività e della produttività delle nostre aziende, è quindi la giusta direzione.

Il CBAM ha infatti le potenzialità per ridurre il fenomeno della dispersione carbonica, che consiste o nella delocalizzazione delle imprese verso paesi meno ambientalmente ambiziosi, pur continuando a vendere nello spazio comunitario (aspetto già affrontato dalle quote carbone gratuite dell’ETS), oppure nell’importazione del bene da industrie già presenti nei paesi terzi nel mercato comune causando comunque un aumento netto (o una non riduzione) delle emissioni a livello globale, prospettiva nella quale la lotta al cambiamento climatico si muove.

Applicando tale tassa ulteriore sui beni di importazione, l’industria europea dell’acciaio che è una delle più soggette al fenomeno del carbon leakage, potrebbe riacquisire competitività almeno nello spazio del mercato comune ed uscire dalla crisi che attraversa ormai da più di venti anni in un contesto di regionalizzazione delle catene di produzione a livello europeo-mediterraneo in sostegno e stretta collaborazione alla nostra industria manifatturiera.

Tuttavia per un paese a forte vocazione esportatrice come il nostro, il rischio di introdurre una misura tariffaria sulle importazioni, che puo’ essere vista come una misura protezionista di dazi, è senza dubbio quello di suscitare presso i paesi terzi allo spazio comune azioni ritorsive che si tradurrebbero a loro volta in dazi sulle importazioni danneggiando immensamente la nostra economia e rischiando di mettere in pericolo la proiezione stessa che il sistema Italia si è data come orizzonte di sviluppo per il lungo termine: quella di un paese ‘rampa naturale’ sul mar Mediterraneo, fucina di prodotti ad altissimo valore aggiunto in tutti i comparti dove esso è protagonista (chimico, manifatturiero, alimentare, moda, mobili) che richiedono per loro stessa natura un posizionamento strategico nei mercati esteri: europei e soprattutto extraeuropei.

Tale pericolo è ancor più evidente quando si incrociano i dati relativi ai paesi importatori per i settori sensibili al carbon leakage, quelli esportatori europei per gli stessi settori e l’andamento dell’export complessivo italiano nel decennio 2009-2019.

Quello che risulta è che contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i paesi con una impronta carbone più profonda per i settori di interesse sono: Federazione Russa, Stati Uniti, Emirati Arabi, Libia al settimo posto e solo all’ottavo la Cina. Mentre sul versante europeo l’Italia è il terzo paese per esportazione di prodotti ‘carbon intensive’, ben avanti alla Francia, se si escludono Belgio e Paesi Bassi che per la loro struttura di hub commerciali si trovano ad esportare beni le cui catene del valore non sono prevalentemente sul territorio nazionale. Guardando al solo contesto nazionale il dato allarmante è che i paesi potenzialmente più interessati dal CBAM hanno visto nello scorso decennio un aumento positivo per tutti, marcato per alcuni e straordinario per altri del valore complessivo dell’export italiano. L’esempio degli Stati Uniti è sicuramente eccezionale ma eloquente al riguardo: siamo passati da un valore complessivo di circa 24.2 MLEUR nel 2009 a 51.8 MLEUR nel 2019, per un aumento percentuale del 114%, ma anche la Federazione Russa ha visto un aumento percentuale del 2.57%, con un valore complessivo di export per 8.79 MLEUR.

Ne deriva l’assoluta priorità per il nostro paese di tutelare in sede europea la nostra proiezione commerciale internazionale che deve essere al servizio dell’industria nazionale passando obbligatoriamente per la tutela ambientale e non al servizio della sola tutela ambientale, altrimenti il rischio è quello di ottenerla desertificando l’industria europea con i gravi problemi economici e sociali che ne conseguirebbero.

Un meccanismo di compensazione carbonica dovrà quindi prima di tutto partire da una stretta collaborazione, anche nell’iter legislativo, coi nostri partner commerciali e politici di eccellenza, gli USA fra tutti, dovrà prevedere dei periodi di prova reversibili per poter invertire la rotta se necessario, partire da settori pilota, sui quali i benefici in termini economici ed ambientali sono più evidenti (come il settore degli acciai) e non avere carattere di dazi per evitare un conflitto con le regole del WTO.

*Vittorio Casali De Rosa, ingegnere