Michele Napoli

La scuola non è un parcheggio

La scuola non è un parcheggio sociale. Ciò nonostante si paventa la riapertura in orari tali da garantire alle madri lavoratrici di avere un luogo dove poter “parcheggiare” i figli.
Dalle 8.00 alle 14.00 o nel caso del tempo prolungato fino alle 16.30 o magari sino alle 19 per i progetti extracurriculari di danza, teatro, pallavolo.
La verità nota a tutti e che con gli spazi a disposizione della scuola pubblica non ci sono le condizioni di sicurezza per un rientro in sicurezza.
E certo non basta lasciarsi andare a rassicuranti proclami privi di fondamento.
L’ideale sarebbe garantire un rientro in totale sicurezza, investendo i denari pubblici in beni permanenti: in beni immobili, per essere più chiari nel mattone.
Per garantire la sicurezza c’è bisogno di spazi dove poter agevolmente collocare gli alunni ed i loro banchi, senza dimenticare la questione dei servizi igienici che andrebbero anche essi moltiplicati per evitare sovraffolamenti.
Qualcuno è mai stato nel bagno di una scuola? Ha idea della situazione attuale? Sa che, già in condizioni normali, i bagni di cui dispongono le scuole sono inferiori al fabbisogno degli alunni?. Sa dei disagi che vivono i ragazzi disabili?
E cosa dire delle classi nelle quali si è addossati gli uni altri?.
La memoria storica, con le soluzioni adottate da Roosvelt nel periodo della grande crisi, avrebbe dovuto supportare le scelte di un Governo palesemente inadeguato.
Investire in opere pubbliche, ecco cosa occorreva fare.
Con tutta una serie di risvolti, oltre che la tutela della salute e la sicurezza.
Ricorrere ad investimenti avrebbe significato rimettere in moto l’economia per esempio, ma anche assicurare dei beni che sarebbero rimasti al servizio della scuola.
Insomma una occasione propizia andata sprecata quando invece poteva essere l’occasione per ripensare ad una riforma epocale della scuola che puntasse alla qualità dell’insegnamento/apprendimento che certo non può passare attraverso le classi pollaio alle quali siamo abituati.
Un ministro con un poco di sale in zucca e contezza dello stato in cui versa la scuola italiana avrebbe potuto cogliere la palla al balzo e, lasciando da parte le soluzioni tampone, proporre una riforma strutturale della scuola col numero standard di massimo 15 alunni per classe.
Una soluzione coraggiosa che, a fronte di un massiccio investimento in termini di assunzioni e di opere pubbliche, restituirebbe alla scuola il suo ruolo centrale di ascensore sociale ed agenzia educativa.
Questa soluzione fin troppo ovvia sfugge al MIUR e all’Onorevole Ministro Azzolina, presa da mille conferenze stampe nelle quali parla di massicci investimenti in digital devices.
In realtà siamo di fronte al famigerato “tanto rumore per nulla”.
Certo i digital devices sono stati acquistati dalle scuole e distribuiti alle famiglie che ne hanno fatto richiesta, ma ci si è domandati chi, nel 2020, non avesse un tablet o un computer? Certamente le famiglie meno abbienti, dove le difficoltà economiche si aggiungono a condizioni di arretratezza culturale e sociale. Ed allora siamo al gatto che si morde la coda.
Che senso ha dare questi dispositivi e pensare che in questo modo la scuola possa continuare a svolgere il suo ruolo di agenzia educativa?
Il digital device, distribuito in comodato d’uso gratuito dalle scuole, non è una bacchetta magica. Non azzera i disagi economici, sociali e culturali.
E’ solo ed esclusivamente una soluzione tampone che ha consentito di continuare a mantenere un ideale legame umano tra studenti e docenti in un momento di assoluta emergenza.
I docenti, quelli ovviamente più scrupolosi, a dispetto di chi scioccamente pensa che si siano goduti tre mesi di ferie anticipate, hanno lavorato tanto e altrettanto si sono industriati per non lasciare indietro nessuno, specialmente gli ultimi. Non inganniamoci però: miracoli non se ne possono fare ed uno schermo, anche quello di ultima generazione, non può sostituire quella indicibile ed indescrivibile alchimia che si crea nella quotidianità del rapporto umano e professionale vissuto in classe.
Una cosa è certa dare i digital devices agli studenti in condizione di disagio non è differente dal dare una canna da pesca a chi non ha braccia e mani per usarla.
Mi domando…..quando il nostro ministro, oggettivamente il peggiore degli ultimi anni, va in conferenza stampa a dichiarare che la DAD (didattica a distanza) è stata un successo anche grazie ai milioni di euro investiti dal MIUR per l’acquisto di dispositivi digitali, ci fa o ci è? Mi domando….il ministro ha mai partecipato ad una video lezione che, anche se svolta sulla migliore delle piattaforme acquistate dalla scuola, si svolge in modo a dir poco rocambolesco tra le mille difficoltà di connessione con audio e video intermittente?
Molto meglio insomma sarebbe stato fare altri tipi di investimento.
Ed avremmo avuto anche il tempo, a partire dal mese di giugno, a circa due mesi dalla tanto paventata ripresa delle attività didattiche, di poter dire in quante e quali strutture si sarebbe tornati a fare scuola.
Nulla di tutto questo, purtroppo, con la confusione che regna sovrana. Con linee guida che dicono tutto e non dicono nulla, generiche e caotiche al tempo stesso, che hanno finito per scontentare tutti: dirigenti, docenti e sindacati.
Pensate ai timori, fondati, dei presidi, che diverranno i veri protagonisti dei prossimi mesi.

Per una Basilicata più libera, più forte e più giusta

Investimenti, credito e innovazione. Il futuro della Basilicata si costruisce intorno a questi tre pilastri.

Piaccia o no, gli investimenti pubblici sono i drivers della crescita economica e del benessere sociale.

Ecco, la Basilicata ha la necessità di colmare un deficit che assai rilevante con riferimento ai più importanti servizi pubblici.

Ferrovie, strade, scuole, asili, reti idriche e fognarie, posti letto in ospedale, assistenza domiciliare integrata, in nessuno di questi ambiti la Basilicata sta meglio rispetto ad altri contesti territoriali.

Trattasi di deficit determinati dalla mancanza di investimenti pubblici come testimonia, nell’ambito delle spese in conto capitale, il rapporto tra stanziamenti e impegni che in Basilicata si attesta tra il 20 e il 23 per cento.

Ciò significa che solo il venti per cento degli stanziamenti, essenzialmente le risorse europee, si traducono in investimenti, utilizzandosi le stesse per fare fronte alla spesa corrente, ripianare i buchi derivanti dalla gestione ordinaria del servizio sanitario, per i trasporti, per l’istruzione e la formazione.

Mai per ridurre i divari esistenti con le Regioni più virtuose.

Una circostanza non sfuggita al Governo centrale che, nella legge di stabilità dello scorso anno, sottolineò l’esigenza di un riequilibrio territoriale della spesa pubblica, con il rispetto, da parte delle pubbliche amministrazioni, di un vincolo annuale di destinazione degli investimenti pubblici al Sud, proporzionale alla popolazione di riferimento.

Quella felice intuizione, la famosa regola del 34%, rimasta tra l’altra inattuata, opportunamente rivista sulla scorta della proposta avanzata da Fratelli d’Italia che propone di incrementare detta percentuale al 50% in favore del Mezzogiorno, favorirebbe stanziamenti in conto capitale da parte dei Ministeri di gran lunga superiori a quelli a tutt’oggi ricevuti dall’area più debole del Paese.

L’effetto sarebbe salvifico perché eviterebbe quello che è stato il male assoluto per la Basilicata e per il Mezzogiorno negli ultimi 15 anni: l’utilizzo delle risorse strutturali europee non come aggiuntive rispetto ai finanziamenti statali ma come sostitutive degli stessi.

Partendo da tale assunto, occorrerà poi riqualificare la spesa pubblica al fine di porre rimedio alle diseconomie regionali.

La Basilicata, ad esempio, è tra le regioni d’Europa con maggiori risorse idriche.

Garantisce l’approvvigionamento idrico a 4,2 milioni di cittadini abitanti nelle regioni limitrofe, eppure fa registrare una percentuale di dispersione idrica pari al 52%, con il Capoluogo di regione, Potenza, in vetta alla classifica nazionale relativa alla dispersione (68,8).

E’ la testimonianza dell’incapacità di valorizzare questa risorsa attraverso un piano di ristrutturazione delle rete idrica che, coinvolgendo anche le altre regioni del Sud, favorirebbe nuova occupazione, secondo un modello ottimale di utilizzo delle risorse messe a disposizione delle regioni del Mezzogiorno dal Fondo Sviluppo e Coesione.

Se l’acqua è unanimemente considerata la risorsa del futuro, è per davvero inconcepibile che oltre il 50% una volta immessa nei tubi non arrivi al rubinetto a causa di condutture obsolete che mai nessuno ha pensato di sostituire nonostante, ad esempio, il Fondo Sviluppo e Coesione 2007-2013 mettesse a disposizione della Basilicata risorse pari a 911 mln di euro, di cui appena il 17,81% ovvero 162 mln di euro sono stati spesi.

Ma quali i settori nei quali promuovere gli investimenti? Penso alla rete infrastrutturale, all’edilizia scolastica e sanitaria, alle infrastrutture immateriali come la fibra ottica e le autostrade elettriche finalizzate a rendere effettivi i progetti di mobilità sostenibile.

E poi come dimenticare le difficoltà connesse al credito. I tassi di interesse che le imprese lucane sono costrette a pagare sulle operazioni a breve termine sono più severi di quelli medi nazionali di quasi due punti percentuali (5,20% contro un dato medio nazionale di 3,56% e un dato del Sud del 4,83%).

E’ una circostanza che rende oggettivamente più difficile l’esercizio del diritto d’impresa in Basilicata rispetto a quanto avviene in altri territori.

Creare una società regionale di intermediazione (Sviluppo Basilicata) che abbia il compito di sostenere i settori più vitali dell’economia regionale, erogando credito a condizioni di vantaggio, utilizzando come capitale sociale originario una quota delle royalties petrolifere, che costituiscono risorse autonome della Regione, in quanto non derivanti dalla fiscalità generale, può senz’altro essere una soluzione concreta e fattibile.

La crescita economica della Basilicata, e del resto di tutto il Mezzogiorno, passa inevitabilmente dalla  capacità di mettere le imprese al centro della scena.

Nonostante la Basilicata sia da quindici anni regione convergenza, e in quanto tale destinataria più di qualsiasi altra regione d’Italia delle risorse europee rinvenienti dai cosiddetti fondi strutturali, non è riuscita ad implementare la progettualità europea che sta alla base di queste risorse e che individua nell’intreccio tra centri di ricerca e apparato produttivo l’elemento di svolta verso una maggiore produttività e competitività del sistema economico regionale.

La Basilicata spende oggi solo lo 0,62% del PIL in ricerca e sviluppo, meno della metà di quanto spende l’Italia (1,53%) e molto meno dell’obiettivo Europa 2020 (più del 2%).

Noi vogliamo che le imprese dialoghino costantemente e strutturalmente con i centri di ricerca pubblici e privati, in forza di regole certe volte a stimolare gli investimenti in ricerca e sviluppo così promuovendo i concetti di trasferimento tecnologico, ricerca applicata e innovazione incrementale.

Non solo quindi una legge che destini risorse all’asset “Ricerca, Sviluppo e Innovazione” ma anche incentivi, con l’eliminazione o la riduzione dell’imposta IRAP in favore delle aziende che programmano investimenti in progetti di ricerca industriale applicata.

E però la Basilicata non può prescindere da una politica dei fattori: moderni sistemi logistici e di mobilità, validi sistemi scolastici e di formazione, fonti di innovazione e sviluppo tecnologico.

Certo la nuova dimensione globale dell’economia spinge l’acceleratore della competitività in ambiti prima sconosciuti e questo crea incertezza, paura, perché prevalgono i più forti e gli ultimi sono sempre più lontani dai primi.

La soluzione, però, non può consistere in istanze di protezione o in  tentativi di arroccarsi su se stessi attraverso la valorizzazione di identità culturali, o puntando sui settori maturi quali il turismo e l’agricoltura.

A parte il fatto che oggi l’agricoltura non può fare a meno della chimica, come il turismo delle strategie di internazionalizzazione di un territorio, alcuni processi, primo tra tutti quello della globalizzazione, sono di fatto irreversibili e la Basilicata non po’ chiamarsi fuori, non può rinunciare alla sfida che punta su produzioni ad alto investimento, alta innovazione, alta capacità competitiva, alto valore aggiunto.

Senza investimenti in capitale umano e ricerca scientifica qualsiasi territorio è destinato al declino, anche se a taluni tale declino può apparire felice se fatto di spiagge assolate, sagre popolari o luoghi dell’anima.

Nessun declino o decrescita potrà mai essere felice, perché è un obiettivo scarno per un territorio che ha assistito allo sviluppo di civiltà del livello della Magna Grecia.

*Michele Napoli, consigliere regionale Basilicata, candidato Fratelli d’Italia