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Mauro Mazza

Mauro Mazza è direttore editoriale di FareFuturo. Ha diretto Tg2 e RaiUno. Ha scritto numerosi libri. Il romanzo più recente è “Diario dell'ultima notte. Ciano Mussolini lo scontro finale” (La Lepre) e l'ultimo saggio “Lo Stivale e il Cupolone. Italia-Vaticano, una coppia in crisi” (Il Timone) Nel giugno '23 è stato nominato Commissario straordinario per l'Italia, che sarà ospite d'onore alla Buchmesse di Francoforte 2024

L’ITALIA CHE CONTA

Sono trascorsi due anni e ne dovranno passare altri tre. Insomma, dobbiamo abituarci a convivere con una situazione che difficilmente muterà. I primi tempi – vittoria elettorale del centrodestra, nascita del governo Meloni – pensavamo si dovesse attendere che un po’ tutti prendessero atto di quanto gi elettori avevano voluto e scelto.

Ci stava un po’ di stordimento post-sconfitta. Erano prevedibili anche il rodaggio e l’inesperienza della nuova leader del Pd. Ok, nella prima fase poteva trovare spazio la polemica sul fascismo (il calendario offre tante occasioni) che qualche professore pretendeva di riconoscere in pensieri parole e omissioni di Caio o di Sempronio. Addirittura un intero canale televisivo era (ed è ancora) impegnato dalle sette del mattino a mezzanotte (poi ci sono le repliche degli stessi programmi) a denunciare i pericoli che corrono la democrazia e gli italiani tutti condannati ad essere governati da Giorgia Meloni & C.
(Poi è divertente che nella stessa tv il telegiornale ogni lunedì sera mostri un sondaggio che segnala un consenso stabile o in crescita per i partiti del deprecato governo. Ma tant’è)

Era così nei primi mesi ed è ancora così. Ce ne siamo fatti una ragione. Anche perché (al netto dei sondaggi) è la realtà che s’incarica di smentire cantori di sventura, disperati opinionisti e intellettuali morti di fama (by Dagospia). Prendiamo la vicenda della Commssione Ue. La nomina di Raffaele Fitto quale vice presidente esecutivo rappresenta un grande successo dell’Italia e del presidente del Consiglio. Giorgia Meloni ha giocato anche questa partita con grande maestria, senza compromessi al ribasso. Ma per due mesi (tra il primo voto alla presidente von der Leyen e il secondo alla Commissione) giornaloni di casa nostra e i programmi tv (vedi sopra) avevano raccontato una catastrofe incombente: il no iniziale avrebbe isolato, emarginato, affossato l’Italia.

È accaduto l’esatto contrario. Con l’indicazione di Fitto quale commissario (con deleghe importanti) si è portata a termine una decisiva operazione politica. È stato un mix interessi nazionali da tutelare e di coerenza da onorare; di calcolo e di rapporti personali; di alleanze da ripettare e di obiettivi da realizzare.
Non è la prima volta che intuito e saggezza di Giorgia Meloni hanno la meglio su riserve, timidezze e miopie di pochi o molti cagadubbi.
Ricordo personalmente una vicenda di alcuni anni fa, quando si lavorava alla formazione del governo Draghi. Nella destra si aprì un dibattito che non ebbe molta visibilità, ma fu piuttosto acceso. Taluni sostenevano che FdI dovesse far parte a pieno titolo di quella maggioranza, perché starne fuori avrebbe significato un isolamento pesante e duraturo. Giorgia Meloni tirò dritto, Fratelli d’Italia fu la sola forza di opposizione parlamentare e politica; un’opposizione non pregidiziale, pronta a sostenere le leggi giudicate positive per il Paese, ma critica nei confronti dell’ennesino governo nato al di fuori della volontà degli elettori.

Come siano andate le cose lo sappiamo.
E sappiamo come stanno andando ora. Mentre i soliti noti seguitano a profetizzare sciagure imminenti, l’Europa si è detta molto soddisfatta della manovra economica del governo italiano; la medesima manovra che il capo della Cgil definisce così pericolosa da meritare una rivolta sociale. Ma quella di Landini è un’opposizione politica, non una protesta sindacale. Lo hanno capito tutti. Il gioco è scoperto. E fortunatamente ci sono i lavoratori – la maggioranza – che non ascoltano più il canto selle sirene. Ci sono i cittadini che non ne possono più dei mille scioperi che hanno dovuto subire nel 2024, il più delle volte con motivazioni deboli o strumentali. E ci sono gli elettori che, nel caso (puramente teorico) si dovesse tornare al voto prima della scadenza naturale del 2027, beh, saprebbero bene cosa fare e a chi dare (ridare) la fiducia. Ma non sarà così. Passeranno altri tre anni, chissà se gli indignati speciali se ne faranno una ragione.

Genova per loro…

Mettiamoci nei loro panni, anche solo per un momento. L’esito sorprendente delle elezioni regionali in Liguria, che hanno confermato la fiducia al centrodestra, è stato l’ennesima smentita di un’opposizione articolata e irriducibile che da due anni annuncia l’incombente, immanente e imminente crollo del governo Meloni e della sua leadership. Stavolta, in Liguria, erano sicuri che la vittoria sarebbe andata al candidato della sinistra, l’ex ministro Orlando. Gli ingredienti c’erano tutti: la disavventura giudiziaria che travolse la giunta del presidente Toti; la difficoltà oggettiva di affrontare l’appuntamento elettorale anticipato nel pieno della bufera; qualche scricchiolio nella coalizione di governo, talvolta alle prese con eccessivi personalismi e competizioni interne.

Invece, a ridosso della convocazione dei comizi, una telefonata personale di Giorgia Meloni al sindaco di Genova lo ha convinto ad accettare la scommessa, ha sbloccato la situazione e ha creato le premesse di un successo inatteso e clamoroso.

Ora, come sempre, chi vince festeggia e chi perde spiega. Ma nell’opposizione “larga” (quella sì, altro che campo…) politici, opinionisti, intellettuali spiegano poco, perché dopo una brevissima autocritica di maniera, hanno ricominciato a dire peste e corna della coalizione che invece continua a godere del consenso degli italiani.

Chiariamo. Nessuno si aspetta che in quella opposizione “larga” – diciamo da La7 a Repubblica – si manifesti un qualche riconoscimento, almeno parziale, dei meriti e dei risultati di un governo che dopo il primo biennio può puntare credibilmente al traguardo della legislatura. Ma onestà imporrebbe, quanto meno, di smetterla con la tiritera della destra illiberale, della democrazia in pericolo e del totalitarismo dietro l’angolo.

Qualche attenuante la si può riconoscere a quegli scrittori che hanno fatto del fascismo l’oggetto dei loro libri (o delle loro ossessioni) e quindi promuovono le loro opere (o se stessi) secondo la categoria del “fascismo eterno”, che peraltro gli studiosi meno impregnati di ideologismi  considerano fuorviante e lontana dalla verità storica. Ma i politici no. Loro avrebbero il dovere di opporsi al governo Meloni con proposte alternative, prefigurando un’alternativa per il prossimo futuro da sottoporre a  un elettorato che – come dimostrano i risultati delle consultazioni negli ultimi due anni – non se la bevono più, non vogliono piagnistei né grida “al lupo! al lupo!”, ma programmi e proposte convincenti.

È vero. Esiste il problema della scarsa affluenza alle urne; questione che sarebbe sbagliato liquidare con sufficienza ricordando (ad esempio) che in molte democrazie consolidate, come gli Stati Uniti, gli elettori “attivi” sono da anni meno della metà degli aventi diritto. Ma una cosa va detta: un astensionismo così elevato è un problema per tutti, anche per i partiti di maggioranza; ma è un dramma per le forze politiche di opposizione che non riescono ad essere credibili né convincenti.

Il senso del voto italiano del 9 giugno Ecco il nuovo bipolarismo

Tanto tuonò che piovve. E nulla sarà più come prima. Doveva essere una tornata elettorale importante e lo è stata davvero.

Salvo catastrofi improvvise la legislatura andrà fino in fondo: altri tre anni con il governo a trazione-Meloni. Le elezioni del 9 giugno – vero e proprio voto di midterm – hanno dato un responso chiarissimo; incoraggiante per FdI e per i partiti del centrodestra (un po’, anzi molto meno per la Lega ora in piena autoanalisi con esiti tutt’altro che scontati). Quello di Giorgia Meloni può diventare governo di legilaslatura e non sarebbe un risultato da poco. Se realizzasse anche le riforme già “messe a terra” – fisco e giustizia; premierato e autonomia – avrebbe buone carte da giocare anche per il successivo quinquennio.

L’analisi sul centrodestra è semplice. Dall’altra parte la situazione è maledettamente più complicata. Il centro è stato bocciato nella duplice versione: Renzi-Bonino e Calenda in solitaria. Impensabile che dopo un simile fallimento quei politici abbiano ancora voglia d’insistere. I rischi sono molteplici. Forza Italia, che si credeva in articulo mortis, potrebbe calamitare altri consensi da quelle parti, mentre la capacità di attrazione che il Pd potrebbe esercitare da sinistra sarebbe fatale per calendiani e post-radicali. Problema ulteriore (non trascurabile) è la consolidata trasformazione del Pd-Elly in partito radicale di massa, paladino di eutanasie, uteri in affitto, Lgbt eccetera.

L’immagine di Elly allegra ballerina sul carro del Pride romano vale più di tanti discorsi: la linea-Zan è ormai nel Dna del Pd, ne costituisce il cuore. Il dirittificio ha trovato una sua nuova casa rendendo del irrilevante il microcosmo radicale con annessi e connessi (seggi parlamentari e finanziamenti sorosiani). L’altra faccia della medaglia è l’innegabile incompatibilità tra questa sinistra ellyzzata e quella parte del mondo cattolico (quel che ne resta) non del tutto rassegnato alla resa – in politica e nella vita – sui principi non negoziabili e, quindi, obbligato a cercare altrove attenzioni e possibili sintonie.

Il capitombolo dei Cinque Stelle somiglia a uno sfarinamento irreversivile (e veloce) che – attenzione! – non prelude affatto a una obbligata intesa con il Pd. Gli stellini sono piuttosto tentati da un ritorno alle origini con la voglia matta di dare il benservito a Conte e alle sue ambizioni personali ormai naufragate.

L’indubbia affermazione del Pd apre un capitolo nuovo. Impegna Schlein & C. a cercare alleanze per una credibile alternativa. Ma sarà molto difficile coordinare, federare, unire tutte le forze in campo. Quella della sinistra è una storia molto particolare. Ha avuto in passato leader di partito diventati presidenti del Consiglio (D’Alema, Letta, Renzi) ma mai alla guida di un governo legittimato dal voto popolare. Eccolo, il punto.

Solo Romano Prodi riuscì (per due volte) nell’impresa: dapprima con l’Ulivo, poi con l’Unione imbarcò praticamente tutti e sconfisse Berlusconi. Prodi non era un capo-partito e la sua debolezza divenne la sua forza. Se l’opposizione vuole ambire ad essere maggioranza deve fare altrettanto: individuare un nuovo Prodi e affidarsi a lui, mettendo insieme Pd e M5S, centrini e Verdi-Sinistra. Da Ilaria Salis alla Boschi. Un ex di lusso, Francesco Rutelli ha già detto no grazie. Avanti un altro!

Più in generale le europee hanno confermato la potente spinta egli elettori italiani verso una polarizzazione / semplificazione del quadro politico. Accadde così nel  1994 e per tutto il quindicennio della sfida Berlusconi/Prodi, allora con una legge elettorale che favoriva coalizioni e intese pre-elettorali.

Stavolta è ancora più significativo il favore degli elettori per una a prospettiva bipolare, perché la legge proporzionale (a parte lo sbarramento al 4 per cento) spinge piuttosto a dividere e distribuire a più soggetti la rappresentanzai. Le indicazioni elettorali non lasciano spazio a diverse interpretazioni: gli italiani preferiscono che per la guida della Nazione si fronteggino due poli o coalizioni, meglio ancora – in prospettiva – due partiti con i rispettivi programmi e leader, impegni e “squadre”.

A lungo termine è destinata a prevalere chi, tra destra e sinistra, risponderà meglio a queste aspettative. L’elezione diretta del Premier sarebbe un ulteriore passo nella giusta direzione. C’è tempo per questo. Ma chi saprà mostrare prontezza e capacità di iniziativa politica (promuovendo omogeneità programmatiche e federazioni politiche) avrà messo a segno punti preziosi in vista delle nuove decisive scadenze.

 

Europee, ma voto anche “italiano”

Si vota per l’Europa, per il rinnovo del parlamento di Bruxelles e Strasburgo. Si vota perché l’Europa che scaturirà dal voto dei cittadini dei 27 paesi somigli a una Unione reale, responsabile e forte, capace di assumere posizioni nette, di armonizzare i singoli paesi con compromessi “alti”, che dia al mondo la certezza di avere di fronte un soggetto politico ambzioso e consapevole delle sfide che incombono e delle risposte che sarà doveroso dare.

Ma queste elezioni sono molto importanti anche per l’Italia. È un voto di “medio termine” che peserà sulla seconda parte della legislatura, sulle scelte che saranno compiute, sulla tenuta del governo, sul grado di  consenso delle opposizioni, finora irrimediabilmente divise e (quasi sempre) sconfitte.

Una riflessione è d’obbligo. Anzi, due. La prima: molte mosse dei politici non sono dettate dalle prospettive europee, ma dalla paura matta che queste elezioni siano una sconfitta. La seconda: le percentuali che punteggiano questa nota non sono frutto di fantasia ma rispecchiano sogni e incubi di ciascun partito, linee che dividono la vittoria dalla sconfitta.

26 per cento. È l’obiettivo che si pone Giorgia Meloni. Per molti osservatori si tratta di una stima molto/troppo prudente – ché l’effetto “vota Giorgia” potrebbe ottenere un più importante riscontro – ma sarebbe certamente di conforto per il governo ribadire l’altissimo consenso del settembre ’22.  Detta diversamente: una conferma di quei voti darebbe al governo una prospettiva di legislatura, quale che sia il consenso per tutte le atre forze politiche. Chi si azzarderebbe a far cadere il governo, col rischio di nuove elezioni e di un plebiscito per la stessa Meloni?

10 per cento. Per la Lega (meglio: per Salvini) è l’ambizione più alta, al di sotto della doppia cifra il leader leghista dovrebbe pensare seriamente a difendere la sua segreteria.

Dice 10 ma pensa a un 8 per cento Forza Italia. È la soglia indicata da Tajani. Sotto quella percentuale sarebbero dolori, il resto del cammino sarebbe costellato da riaccese polemiche. Tornerebbero a galla i pessimisti che dicevano nei mesi scorsi: senza Berlusconi per il partito non c’è futuro. Per ora prevalgono gli ottimisti, che sognano un sorpasso ai danni della Lega. Non resta che attendere.

20 per cento. Sarebbe meno di quanto ottenuto alle politiche dal Pd di Enrico Letta. Ma sarebbe la soglia di sopravvivenza per Elly Schlein. Difficile dare l’assalto alla sua segreteria senza una sconfitta più netta. Una cosa è certa. La linea del Pd-Elly non è mutata: i cosiddeti diritti individuali sono al primo posto, non c’è spazio per chi la pensa diversamente. Che il Pd non sia un partito per cattolici è scontato. Molti sono stati costretti all’abbandono, la candidatura dell’iper-pacifista Tarquinio è più una foglia di fico che non una possibile convivenza nello stesso partito di Zan (quello dell’omonimo ddl e dei Pride …) e dei sopravvissuti a Dc, Ppi e Margherita.

18 per cento. Vorrebbe aggangiare quella soglia il M5S. E sogna di sorpassare il Pd, con Giuseppe Conte possibile leader della potenziale coalizione alternativa al centrodestra. È uno scenario improbabile, non impossibile. Nei discorsi a porte chiuse che si fanno le prospettive sono altre: un ulteriore triennio di scontri tra Pd e Cinque Stelle, nessun accordo vero e duraturo. E, sullo sfondo, Giorgia Meloni che continuerebbe a governare senza troppi disturbi.

4 per cento. Si sopravvive (al di sopra) si muore (al di sotto). Quella percentuale toglie il sonno a Renzi e Bonino, alleati senza troppo entusiasmo. Resta defilato Calenda, forse già rassegnato a restare fuori dal parlamento di Strasburgo. Il duo Fratoianni-Bonelli punta quasi esclusivamente sull’effetto della candidatura Salis, anche se il  trasferimento della signora agli arresti domiciliari in Ungheria potrebbe aver spento gli ardori di un voto “ad personam”, per la libetrtà di una detenuta.

CENTRODESTRA 2.0 COME ERAVAMO, COME SAREMO

Se trent’anni vi sembran pochi, provate ad osservare le enormi difficoltà in cui tutt’ora si dibatte il centrosinistra… Compie trent’anni la coalizione di centrodestra con le elezioni di quel 27 marzo 1994 che, con la fine della prima Repubblica sancirono (in un frettoloso abbozzo di bipolarismo) la prima chiara e netta vittoria di una parte politica su un’altra. Per comprendere la portata storica di quella vittoria bisogna mettere in moto la macchina del tempo e rivivere la pazza corsa intrapresa da Silvio Berlusconi, in compagia di quanti gli prestarono ascolto e decisero di seguirlo.

All’inizio non ci credeva praticamente nessuno. Le elezioni per i sindaci di grandi città, con la nuova legge elettorale, avevano premiato i candidati della sinistra. Con l’eccezione di MIlano, col sindaco leghista Formentini. E (attenzione!) con la sconfitta “vittoriosa” di Gianfranco Fini a Roma, battuto da Francesco Rutelli al ballottaggio, ma in grado di raccogliere un 47 per cento di voti nella Capitale; un risultato “storico” che significava l’ingresso della destra missina (non ancora Alleanza nazionale) nell’agone della politica quale forza centrale, potenzialmente pronta alla prova del governo, dopo decenni di emarginazione.

Il capolavoro fu compiuto dal Cavaliere: interpretò magistralmente la legge elettorale Mattarellum e riuscì a costruire due distinte alleanze: al nord con la Lega di Bosssi, al centro-sud con il MSI di Fini. Si aggregarono alla compagnia alcuni dirigenti post-Dc (Casini, Mastella, Follini) e arrivò il 27 marzo. La “gioiosa macchina da guerra” guidata dal leader del PDS post-comunista Achille Occhetto fu battuta nettamente, il centro con Partito popolare (Martinazzoli alleato con Segni) divenne residuale.
Era cambiato tutto. L’Italia sceglieva il bipolarismo – con evidenti limiti e contraddizioni – e lo avrebbe ribadito in ogni occasione. Nel 1996 e nel 2006 premiando l’eterogenea coalizione guidata da Romano Prodi e lo stesso centrodestra nel 2002 e nel 2008, ma riconoscendosi nella proposta del centrodestra ogni qualvolta lo schieramento riuscì va a mostrarsi unito e credibile.

Molta acqua in questo trentennio è passata sotto i ponti, ma quell’alleanza fra le tre forze politiche che si trovarono assieme le ‘94 ha sempre retto e spesso vinto, con l’unica eccezione delle fasi di passaggio, quando le leadership di Berlusconi e di Fini (più o meno contemporaneamente) entrarono in crisi.
C’è un particolare non irrilevante che a tutt’oggi ribadisce – quasi plasticamente – la differenza tra i due schieramenti in campo. Nel centrodestra si è sempre considerato meritevole di guidare lo schieramento il leader del partito con maggiori consensi: allora Berlusconi, poi Salvini, ora Meloni. Sul versante opposto, anche al netto delle differenze programmatiche (addirittura incolmabili in settori rilevantissimi) non si è più potuto/voluto individuare un federatore che dopo Prodi riuscisse nell’impresa facendo tesoro degli errori e delle contraddizioni cui andò incontro prima l’Ulivo (199672001) poi l’Unione 8200672008).

In politica nulla è mai immobile e proprio la storia degli ultimi decenni insegna che, mutata la forma-partito in senso molto leaderistico, lo stesso consenso si è fatto mutevole, limitando temporalmente e accorciandole, le stagioni dominate da questa o quella leadership. Si pensi a Matteo Renzi, a Matteo Salvini o alla parabola dei Cinque Stelle, in pochi anni passati dalla rivoluzione grillina del “vaffa” alla pochette dell’avvocato Conte che( nonostante le dimostrate capacità camaleontiche) non possiede certo un carisma barricadiero.
L’assetto e i rapporti di forza sanciti dei elettori nel settembre ‘22 (ora attesi alla verifica del voto europeo di giugno) hanno aperto una fase nuova del bipolarismo e del centrodestra.

Insisto sul bipolarismo perché considero questa evoluzione della dinamica politica davvero decisiva per consolidare il sistema democratico e per offrire alla valutazione degli elettori partiti-contenitori di idee e di valori, di proposte e di programmi tra cui scegliere, non solo per chi votare ma sopratutto quello con cui schierarsi, partecipare, militare. La direzione di marcia non può che essere questa, altrimenti non si potrebbero spiegare il rifiuto e il rifugio di quasi metà elettorato nell’astensionismo.

Molti italiani si sono allontanati dalla politica per colpa dei politici e del ripetersi di rappresentazioni deprimenti che hanno svilito il Parlamento e ribadito l’italiaca ricorrente tentazione al trasformismo. Ci sono stati anche ribaltoni nell’ultimo trentennio, con la Lega nord bossiana ribattezzata “costola della sinistra” da un D’Alema alla ricerca di scorciatoie per sconfessare le svelte degli elettori. Abbiano memorizzzato cognoni altrimenti dimenticabili di parlamentari – da Razzi a Turigliatto – che salvarono (o provarono a salvare) col loro sostegno governi agonizzanti. Come non bastasse, proprio nella stagione dell’ascesa grillina si è registrato il numero record di parlamentari transfughi, voltagabbana e saltafossi.

Anche, forse soprattutto per questo, il compito che spetta all’attuale governo e alla ribadita maggioranza di centrodestra è quello di rilanciare il valore della politica, rivitalizzarne l’anima per renderla più attrattiva, culturalmente attrezzata, moralmente presentabile, concretamente competente. Questa maggioranza ha la missione di realizzare quelle riforme che le stagioni berlusconiane hanno potuto solo avviare, talvolta semplicemente auspicare. La situazione oggettiva è difficile, i conti pubblici ereditati sono allarmanti, i vincoli europei stringenti come non mai, ma il vantaggio di non avere a contrasto un’opposizione compatta e agguerrita deve essere utilizzato per procedere speditamente lungo la strada delle riforme. Perché alla fine dell’attuale legislatura si sarà giudicati per il lavoro fatto, per gli impegni mantenuti, per le riforme portate a termine.

Forse è la volta buona

La presentazione ufficiale del disegno di legge sull’elezione diretta del capo del governo un risultato lo ha già raggiunto: ha costretto tutte le forze politiche a ragionare di riforme istituzionali, com’è necessario (non da oggi) e come di sicuro NON avrebbero fatto i partiti di opposizione. Probabilmente ci sarà più di un retropensiero nel modo e nei tempi scelti dal governo per imporre al Parlamento un tema che sarà al centro dei lavori in Senato già nella prossima primavera. Primo Meloni-pensiero: sarebbe un sogno riuscire dove tutti gli altri hanno fallito. Secondo pensiero: vediamo se, costringendo Camera e Senato a preoccuparsi del domani e del dopodomani delle istituzioni repubblicane, le opposizioni sentiranno il dovere di dedicarsi a questioni più importanti delle polemicucce quotidiane che si esauriscono nei pastoni dei tg e nei talk di seconda serata.

Circola un certo scetticismo sulla possibilità che la riforma possa giungere in porto così come è uscita dagli uffici del ministro delle riforme Casellati. La stessa formulazione concisa dell’articolato e il “cappello” politico messo dalla presidente del Consiglio in testa al ddl confermano il carattere aperto della riforma, emendabile e migliorabile in ogni suo punto, fatta salva – naturalmente – l’elezione diretta del Premier.

In ogni caso sembra impossibile che la riforma, sia pure emendata, possa essere votata da una maggioranza qualificata dei parlamentari, sola condizione per evitare la convocazione di un referendum confermativo. A tutt’oggi – ed è questa la vera novità come cui tutti dovranno fare i conti – tutte le ricerche demoscopiche hanno confermato un consenso largamente maggioritario in favore dell’elezione diretta. Poco importa che si tratti del presidente della Repubblica o del Consiglio, gli italiani hanno comunque voglia di decidere, quindi di delegare meno possibile le segreterie dei partiti. Certo, il consenso degli elettori alla riforma che oggi pare molto probabile sarà una potenziale arma nelle mani di Giorgia Meloni che certo rischierebbe, e molto, nella consultazione popolare, ma sulla carta il pericolo maggiore sarebbe quello delle opposizioni. In caso di vittoria dei sì al Premierato, la leadership meloninana sarebbe nuovamente consacrata e destinata a lunga vita…

La riforma istituzionale è probabilmente la sfida più impegnativa del governo Meloni: riuscire laddove tutti gli altri hanno fallito. La maggioranza degli intervistati si esprime ancora così, nonostante sia già cominciato un poderoso fuoco di fila, che in alcuni giornali (e in più di un programma televisivo) tenta di demonizzare la riforma annunciata: “Assalto alla Costituzione”, “Attentato al Quirinale “ eccetera.

In realtà nessuno, nemmeno tra i più accaniti difensori della Costituzione “più bella del mondo”, se la sente di dire che una riforma strutturale non sia necessaria, anzi indispensabile. Per districarsi, occorre evitare la trappola su “premiarato sì o no” e concentrarsi piuttosto su quale sarebbe il miglior assetto possibile per rendere più solida la democrazia e soprattutto più forte il governo (attenzione al tranello: la scommessa è il rafforzamento dell’istituzione-governo, non dell’attuale o di un governo qualche che sia). Ma quali sono le vere questioni che porranno al centro della riflessione non appena si abbasserà il polverone polemico sollevato dalle opposizioni “conservatrici”, aggrappate allo status quo nonostante gli enormi problemi che solo una riforma strutturale potrebbe tentare di risolvere?

  1. È decisamente malato un sistema politico che negli ultimi dieci anni ha avuto ininterrottamente governi – tecnici o politici – mai legittimati dal voto degli elettori.
  2. Ha sicuramente bisogno di innovazioni un sistema che nella scorsa legislatura ha visto il partito più votato (il M5S) allearsi al governo prima con la Lega poi col Pd e infine partecipare all’esecutivo guidato dal “tecnico” Mario Draghi.
  3. È davvero in sofferenza un sistema che, incapace di decidere normali avvicendamenti al vertice delle istituzioni, ha costretto a un secondo mandato (dopo sette anni!!!) gli ultimi due presidenti della Repubblica.
  4. Probabilmente la consapevolezza di esprimere un voto utile e decisivo potrebbe contrastare l’elevato astensionismo e riportare alle urne quote consistenti di elettorato.
  5. Se si conviene sull’obiettivo di dare stabilità ai governi futuri non si potrà non ricalcare il modello (istituzionale ed elettorale) che da decenni regola, e positivamente, regioni e comuni.

Se questo è il quadro, difficilmente contestabile, cosa osta ad un dibattito utile, a un confronto costruttivo fino al traguardo di una riforma concordata? Come al gioco dell’oca il rischio è quello che sia torni alla casella di partenza. Sicché, il sogno di Giorgia Meloni di essere il primo capo di governo a condurre in porto una riforma strutturale, diventa l’incubo delle attuali minoranze (e forse agita anche il sonno di alcuni alleati di governo).

I prossimi mesi ci diranno se una riforma necessaria, anzi indispensabile, si rivelerà inevitabilmente una missione impossibile. È accaduto almeno altre quattro volte, tra commissioni bicamerali e referendum andati male. Certamente, potrebbe accadere di nuovo. Ma stavolta anche no…

 

Governo Meloni, cresce la fiducia

A leggere le articolesse dei giornaloni o, ancor peggio, ad ascoltare sino allo sfinimento la maggior parte dei talk televisivi, dopo un anno di governo Meloni l’Italia sarebbe sull’orlo del baratro. Si ripetono e rimbalzano sulle prime pagine o nei dibattiti tv le parole “fallimento”, “inadeguatezza”, “incompetenza” e via denunciando. Un onnipresente opinionista ha definito l’attuale compagine governativa “la peggiore classe dirigente degli ultimi decenni”. L’elenco sarebbe sterminato; e comunque sappiamo tutti di cosa e di chi sto scrivendo.

Le poche voci diverse, che provano a ragionare contrapponendo cifre e provvedimenti, azioni e iniziative, faticano a farsi ascoltare, perché accusatori e odiatosi professionali sembrano muoversi in branco, paiono vivere all’interno di una bolla, immersi dentro una realtà parallela che non ha punti di contatto con il mondo reale. Eppure non sarebbe difficile prendere atto di verità inconfutabili. Una su tutte? Ad un anno dal voto del settembre 2022 il giudizio degli elettori non è cambiato affatto. Anzi. Tutti i sondaggi – letti singolarmente o secondo la media ponderata tra le diverse rilevazioni – forniscono un dato oggettivo: l’insieme dei partiti del centrodestra aumenta i consensi, in particolare Fratelli d’Italia.

Viene da sorridere ripensando a un titolo de “la Repubblica” che sottolineava come il partito di Giorgia Meloni fosse sceso sotto il 30 per cento attestandosi quasi al 29; come dire che FdI avrebbe subìto un calo rispetto a un sondaggio precedente e non fosse invece aumentato (com’è realmente accaduto) di quasi tre punti rispetto al voto di anno fa.
Proprio osservando attentamente i numeri del presente (ipotetici ma consolidati da tutte le rilevazioni) dovrebbero fornire alle opposizioni tutte – intendo quelle politiche, come quelle mediatiche e intellettuali – molti spunti di riflessione.

Cosa vuol dire che il centrodestra ai confermerebbe nettamente maggioranza, se si votasse ora? Proviamo a darci delle risposte.

La prima. Chi voterebbe di nuovo per l’attuale maggioranza è evidentemente convinto che, nella difficilissima e complicata situazione (guerra in Ucraina, politica dei tassi della Bce, immigrazione incontrollata) nessun altro governo, tecnico o di diverso colore politico, riuscirebbe a fare di più e meglio dell’attuale. Anzi…
La seconda. Gli elettori confermerebbero le scelte del ‘22 perché, con quel voto “utile” sanò l’anomalia italiana che aveva visto una parte politica ritrovarsi stabilmente al governo (con l’eccezione di un anno sugli ultimi dieci) senza avere mai vinto le elezioni.

Terza risposta, legata alla seconda. I ribaditi orientamenti degli elettori confermano che, nella maggioranza degli italiani, esiste e resiste un sentimento radicato e tuttora fortissimo. Berlusconi negli anni Novanta lo chiamava anticomunismo e vinse le elezioni per tre volte le elezioni anche su questo tema. Oggi lo si potrebbe definire sentimento anti-sinistra, ma la sostanza è identica. Per il 60/70 per cento degli italiani la sinistra deve essere tenuta alla larga dal governo della Nazione; una sinistra, peraltro, che ha sostituito le lotte sociali con la proposta della settimana breve (quattro giorni di lavoro e tre di riposo) che sembra una scenetta del programma “Scherzi a parte”. Non solo. Ma avendo scelto una lista di priorità che vede al primo posto i diritti delle minoranze Lgbtq eccetera, il Pd della Schlein (e di Zan) si autocondanna a diventare un vero e proprio partito radicale sede di Pannella (come peraltro è confermato anche dalla scelta di sostenere il radicale Cappato nelle elezioni di Monza per sostituire Silvio Berlusconi in Senato.

Quanto ai Cinquestelle, il declino pare irreversibile e il cammino verso la fine dei sogni di gloria (e di Conte) si misura anche nella stridente contraddizione tra la difesa del reddito di cittadinanza e la paghetta che il partito elargisce (300mila euro annui) al suo fondatore/affondatore Beppe Grillo.

Delle due l’una. O queste opposizioni presuntuose e ottuse cambiano paradigma, smettendola di gridare “al lupo!” e provando a elaborare una proposta credibile e alternativa alle scelte del governo in carica, oppure torna valida la battuta di chi ha tratto la conclusione che, fino a quando ci saranno queste opposizioni sconclusionate e inconcludenti, Giorgia Meloni ha davvero i… decenni contati.

Una bussola per le europee

L’abbiamo capito. Ci serve una bussola, per orientarci e per (provare a) capire. Senza la bussola, molte delle cose che accadono sotto il cielo della politica resterebbero incomprensibili. Invece, se consideriamo valore e importanza delle elezioni europee 2024 e ci annotiamo la data (domenica 9 giugno) quella bussola ci sarà di grande aiuto. Perché molto, se non tutto – insomma: tensioni e polemiche, gomitate e calci negli stinchi, uscite estemporanee e sortite singolari – si spiega solo così, col sistema elettorale proporzionale che spinge ciascun partito ad accentuare il proprio profilo e a competere con ogni mezzo soprattutto con le forze politiche limitrofe, che si contendono il medesimo elettorato.

Un paio di esempi per rinfrescarci la memoria? Quando esplose il caso-Santanchè, problema non di poco conto per Giorgia Meloni, nessuno pensi che Matteo Salvini abbia condiviso apprensioni o angoscia con la premier. E, nel loro piccolo, quando i radicali di Più-Europa presentarono un emendamento per legittimare la pratica dell’utero affitto? Lo fecero sapendo benissimo che non avrebbero concluso nulla, unicamente per mettere in difficoltà il PdElly (effettivamente scoppiò un gran caos).

La faccenda è la seguente. Le prossime elezioni europee saranno le più importanti della storia (dal 1979) perché stabiliranno equilibri e alleanze in tutti gli organismi della Ue (Commissione su tutti) e perché essendo già mutati i rapporti di forza in molti paesi membri, quando si comporrà il nuovo Parlamento di Strasburgo, i numeri sveleranno una realtà inedita. Ad esempio, potrebbe essere ad altissimo rischio la storica alleanza tra popolari e socialisti, per la prima volta potrebbero non bastare supporti “verdi” a ribadire un duopolio che si protrae da decenni. Pensiamo all’attuale, ridottissima rappresentanza del partito di Giorgia Meloni. Un tema che si dibatte animatamente (e già da tempo) riguarda il ruolo prossimo venturo dei Fratelli di Giorgia: supporto da destra alla maggioranza uscente e non sconfessata del tutto? Ovvero perno centrale di una inedita coalizione che spinga all’opposizione i socialisti e riconverta in senso più moderato il Ppe?

C’è poi il campionato italiano, con numerosi big match in calendario. Dall’esito delle europee dipenderanno moltissime cose. Per citarle così, alla rinfusa. Dall’ambizione, attribuita a Giorgia Meloni, di varare un grande partito conservatore, una “nuova Fiuggi” per la destra italiana alla speranza di Forza Italia senza Berlusconi di conservare i voti necessari a svolgere un ruolo non marginale nella coalizione di centrodestra. Dalla necessità di Matteo Salvini di ridurre il gap tra Lega e FdI (che ora ha il triplo dei voti leghisti) alla problematica sopravvivenza di partiti di centro che non abbiano numeri da prefisso telefonico. A sinistra, l‘appuntamento europeo sarà decisivo (che sia il primo di una serie o si riveli un unicum…) per il futuro di Elly Schlein quale leader del Pd. Né può stare tranquillo Giuseppe Conte, in sella ai Cinque Stelle, ché un movimento destinato a una lunga traversata all’opposizione potrebbe aver bisogno (se ulteriormente ridimensionato) di un diverso leader, più barricadiero, all’insegna di un ritorno alle origini (beh, una suggestione sarebbe il ritorno di Alessandro Di Battista nelle vesti di salvatore della piccola patria pentastellata. Insomma, avere sott’occhio quella bussola, da ora ad allora, potrebbe rivelarsi di grande aiuto.

Opposizioni in crisi impaurite dal futuro

Questa può essere davvero la volta buona per la Grande Riforma che serve all’Italia. Tanto “necessaria e urgente” che verrebbe voglia d’invocare un decreto legge e un veloce dibattito parlamentare perchè si approvi in fretta…. Ma, ovviamente, non si può. E allora è giusto fissare l’orizzonte della presente legislatura perché tutto si compia.

L’impresa è impegnativa, soprattutto se – come sarebbe giusto – governo e maggioranza volessero (e riuscissero) a far marciare assieme, con percorsi paralleli, nuovo assetto istituzionale, autonomia differenziata e riforme importanti come quelle della giustizia e del fisco. La posta in gioco è altissima e non riguarda il destino della coalizione di centrodestra; e nemmeno la conferma o meno della leadership di Giorgia Meloni. Sono in gioco il futuro dell’Italia, la stabilità dei suoi futuri governi legittimati dall’elezione diretta del premier. Un nuovo patto fondativo per una Nuova Repubblica: ecco quel che serve all’Italia. E per tutti noi: un fisco più equo, una giustizia più giusta, Ogni potere, nei suoi diversi gradi, ispirato al principio di sussidiarietà: governatori regionali vicini ai rispettivi governati e un esecutivo centrale stabile, capace di affrontare i problemi della Nazione e di rappresentarla al meglio nel contesto internazionale.

C’è un rischio concreto, nell’immediato. E cioè che, forse con l’eccezione dei parlamentari centristi (vicini a Renzi o a Calenda) le opposizioni di sinistra, pur divise tra loro, si confermino fortemente, irriducibilmente contrarie ad ogni innovazione. Lo faranno con ostruzionismi e azioni dilatorie. Attueranno campagne di stampa gridando al pericolo incombente di totalitarismo o di democratura modello-Putin. Forse è il caso di chiedersi le ragioni profonde di tale atteggiamento, così refrattario a qualunque innovazione. A spiegare ogni cosa non basta la retorica, recitata con sincera o fasulla convinzione, sull’intoccabilità della Costituzione più bella del mondo.

Per provare a capire bisogna fare ricorso ad altre motivazioni, più profonde e meno visibili. È molto probabile che le forze politiche che si oppongono al governo Meloni abbiano anche un problema psicologico. Dal voto del settembre 2022 con il suo chiaro responso, soffrono di crisi d’identità, non credono in se stesse, nelle loro capacità di contrasto, disperano di poter vincere alle prossime occasioni elettorali. Lo si capisce dalla diffidenza con cui seguono i primi passi della riforma istituzionale che il governo ha in animo di realizzare. Da una parte c’è Giorgia Meloni che spiega e ripete: l’elezione diretta del presidente del Consiglio serve a dare stabilità, autorevolezza e credibilità all’esecutivo. E ricorda che, dopo 70 anni di precarietà, una vera Grande Riforma gioverà davvero all’Italia, sicché i prossimi governi dovranno ringraziare chi oggi assume questa iniziativa e getta le premesse di una democrazia forte, matura ed efficiente. Il messaggio è chiaro: quanti oggi sono minoranza potranno esprimere, col voto degli italiani, il futuro governo della Nazione. Invece,  i diretti interessati – PdElly e Movimento Cinque Stelle contizzato – rispondono picche. Accusano Giorgia Meloni di volere una riforma tagliata su misura per se stessa. Sospettano che stia cercando un plebiscito popolare che la consacri leader per almeno dieci anni. E qualcuno – con voce tremante e cuore in gola – fatti un po’ di conti (con la storia e con l’anagrafe) teme che l’attuale premier possa governare per il prossimo… ventennio.

Insomma, siamo di fronte a forma di grave auto-disistima. È un sintomo allarmante soprattutto in politica, ché se non credi in te stesso, non puoi nutrire nessuna speranza che gli altri possano darti credito. Prendi i Cinque Stelle. Dopo dieci anni di consensi alti e poi altissimi (alle stelle, per l’appunto) devono fare i conti con una realtà complicata, che sarà ancor più ostica una volta archiviato il reddito di cittadinanza quando (c’è da sperarlo davvero) ci saranno nuove garanzie per i meno abbienti e, soprattutto, occupazioni dignitose per chi il rdc aveva impigrito ed escluso, avvilito e relegato ai margini. Quanto al Pd, la nuova gestione pare spaesata (meglio: spatriata) avvoltolata in un lessico astruso, impaludata in un radicalismo scioccamente elitario (elllytario…) che esclude cattolici e riformisti, ma resta  confusionario e inconcludente. Il solo pensiero di dover affrontare in mare aperto una sfida alta sulle regole del gioco (quando ancora non è dato sapere quale sia il suo gioco) genera ansia e angoscia.

In assenza di opposizioni incalzanti e attrezzate, quasi si arriva a giustificare una certa dose di competizione dialettica, anche asprigna, dentro la maggioranza di centrodestra. In effetti, tra un anno esatto, la conta delle rispettive truppe sarà impietosa e inequivocabile, nelle elezioni europee con il loro rigoroso conteggio proporzionale.

Per curare le opposizioni forse ci vorrebbe uno psicologo, un mental-coach. Anche se perfino il più navigato dei motivatori (un tipo alla Julio Velasco, quello che, per vincere,  pretendeva dai suoi giocatori gli occhi di tigre) trovandosi di fronte Giuseppe Conte ed Elly Schlein… Beh, probabilmente rinuncerebbe all’incarico. Direbbe: no grazie, per i miracoli non sono attrezzato.

Liberazione e Libertà

Ha il sapore delle occasioni perdute, questo 25 aprile 2023. Poteva essere una festa di tutti e per tutti gli italiani. È stata trasformata in una ricorrenza di parte, riedizione della vecchia convention ad excludendum che segnò per alcuni decenni la prima Repubblica. C’era l’arco costituzionale, allora. C’era un reiterato tentativo di tener fuori dal sistema delle alleanze la destra politica, che sedeva in Parlamento ed aveva consensi (quasi mai rilevantissimi) radicamento e diffusione in tutta Italia, ma dalle altre forze politiche era considerata figliastra (salvo ricorrere ai suoi voti in passaggi politici e parlamentari importanti). Era, già allora, un meccanismo artefatto, che sussultava di tanto in tanto, quando si chiedeva a gran voce lo scioglimento del Msi; partito a sua volta in progressivo viaggio dentro la democrazia, nato nel ’46 per ricordare e non rinnegare, ma soprattutto, e assolutamente, per non restaurare alcunché.

Poi venne il ciclone Berlusconi, la chiamata di quella destra al governo per volere degli elettori, con una nuova leadership, pronta a recitare un ruolo da protagonista, nel pieno di una svolta che dimostrasse – sotto le insegne di Alleanza nazionale – di avere tutte le carte in regola. Trent’anni dopo quella svolta, ecco la grande occasione, che ha proiettato la destra – la creatura Fratelli d’Italia – alla guida della Nazione con la sua giovane leader Giorgia Meloni. E subito, come per un riflesso pavloviano, è scattato l’allarme. Divise, a corto di consensi e di programmi, incapaci di costruire un’alternativa politico-programmatica, le sinistre (ex e post tante cose) hanno preso a scannerizzare il calendario, segnando col pallino rosso tutte le ricorrenze e le occasioni per reiterare richieste e pretese ultimative; ogni vota per misurare il tasso di antifascismo nelle vene di questa destra: l centenario della marcia su Roma; l’anniversario del rastrellamento nel ghetto ebraico della Capitale; le Fosse Ardeatine; e, soprattutto il 25 aprile. Di colpo, tutti i passaggi – chiari e netti, decisi e reiterati – compiuti dalla destra nel segno della democrazia e nella condanna del fascismo – senza se e senza ma – sono stati dimenticati. Come se FdI non fosse figlio di Alleanza nazionale, come se non ci fosse stata la svolta di Fiuggi, come se, in tutti questi anni, non fossero state confermate, ogni volta, prese di posizioni inequivocabili, in Italia, in Europa e in Israele.

Il presidente del Consiglio ha respinto al mittente quella pretesa inquisitoria. Autonomamente ha commentato e ricordato, condannato e deprecato.  Ma non ha consentito a nessuno di dettare l’agenda né di fissare le regole d’ingaggio nel club dei veri democratici. Ha compreso che, accettando quel gioco, l’asticella si sarebbe ogni volta alzata, inesorabilmente. Ma qualcuno, sbagliando, ha offerto il fianco, esaltando la voglia matta di stracciarsi le vesti per dichiarazioni apparse fuori luogo, inopportune e sbagliate, nelle modalità, nei tempi, nei contenuti. Queste sgrammaticature non hanno impedito di rilevare incongruenze e contraddizioni da parte di quanti intendono coprire pochezza politica e scarsità d’idee con urla ed esorcismi, anatemi e condanne, che trovano ampio riscontro nelle pagine di giornali-partito a loro volta pronti a mitragliare Palazzo Chigi, a lanciare allarmi e sulla democrazia in pericolo, eccetera.

È un gioco scoperto. Se credessero davvero che, con questo governo di destra-centro, l’Italia è alle soglie di un’involuzione autoritaria (per non dire dittatoriale) ben altre dovrebbero essere le azioni coerenti e conseguenti. Si è davvero convinti che la democrazia italiana sia in pericolo? Si ritiene sul serio che il governo Meloni (e la presidenza del Senato di La Russa) siano la premessa di una restaurazione proto-fascista? Se ci fosse tale convincimento, ben altro ci sarebbe da fare: manifestazioni di piazza attorno e contro Palazzo Chigi; richiesta forte al capo dello Stato di sciogliere le Camere e indire  al più presto nuove elezioni. E se anche si mettesse nel conto la ritrosia di Mattarella, tale e tanto forte dovrebbe essere l’allarme antifascista, così inquietante l’involuzione messa in atto dal governo in carica, che dovrebbe realizzarsi un’azione fortissima, senza precedenti ma assolutamente doverosa: dimissioni in massa dei parlamentari delle opposizioni per costringere il capo dello Stato alla decisione definitiva. Poi spetterebbe al popolo sovrano votare secondo i desiderata di maestri e maestrini del pensiero… Se ci si limita, invece, ai peana e alle dichiarazioni allarmate (modello al lupo! al lupo!) per provare a mettere in difficoltà il governo, allora il gioco è scoperto e le strumentalizzazioni smascherate.

Nella sostanza c’è anche altro. C’è, ad esempio, la ferrea volontà di mantenere il monopolio del 25 aprile e delle altre ricorrenze comandate. Dalla sinistra manichea è stato respinto il generoso tentativo del presidente della Canera Luciano Violante, che nel 1996 lanciò un ponte verso i “ragazzi di Salò” impegnandosi a superare la frattura storica che impediva (e impedisce, oggi come allora) una vera e definitiva ricomposizione nazionale. Non a caso oggi è lo stesso Violante che depreca l’ossessiva richiesta a Giorgia Meloni perché dichiari e condanni, obbedendo ai comandi di suoi avversari/nemici.

In realtà, la Liberazione del 1945 che si festeggia il 25 aprile, storicamente fu consacrata e resa irreversibile tre anni più tardi, quando gli italiani – elettori ed elettrici – nel primo vero suffragio universale – scelsero la Libertà. Preferirono De Gasperi a Togliatti e a Nenni (Premio Stalin 1950) e la Chiesa cattolica di Pio XII all’Urss comunista di Stalin. Ma questo legame indissolubile tra Liberazione e Libertà non è stato inserito  nelle celebrazioni a senso unico di questo 2023. Si è scelta una lettura politica partigiana, che ha condannato ancora una volta il 25 aprile ad essere cosa loro impedendo che diventasse – quasi ottant’anni dopo – una festa di tutti.