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Gabriele Checchia

È Presidente del Comitato Strategico del Comitato Atlantico Italiano e Direttore per le relazioni Internazionali della Fondazione Farefuturo. Già Ambasciatore italiano n Libano, presso la Nato e presso l’OCSE/ESA/AIE a Parigi.

COSA RESTA DEL “NOSTRO” G7

È un G7 destinato a restare e a lasciare un segno, quello organizzato e presieduto da Giorgia Meloni in Puglia. Il primo vertice seguito alle significative elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo è stato un importante test per incardinare una serie di rapporti e di equlibri che – lentamente, come accade nelle relazioni internazionali – si vanno modificando a seconda delle sceklte degli elettori e del grado di autorevolezza, credibilità e coerenza messo in campo dagli attori politico-istituzionali.

Tre mi sembrano, nella sostanza, i tratti qualificanti del vertice di Borgo Egnazia..

1) Il primo è la confermata credibilità e autorevolezza della presidenza italiana e del nostro premier, al netto delle increspature registratesi nei rapporti con la Francia (su aborto e cosiddette questioni di “genere“) che non hanno però intaccato l’esito complessivo e largamente positivo del vertice grazie anche alle concessioni reciproche che hanno consentito di giungere a un testo condiviso delle conclusioni.

2) Il secondo è un’ulteriore testimonianza del fatto che il G7 si sta sempre più strutturando come “cabina di regia“ dell’ occidente globale in una fase in cui i nostri paesi e i nostri valori sono confrontati alle sfide poste dal cosiddetto “asse delle autocrazie”: Russia, Repubblica Popolare cinese, Iran e non solo……..

Si tratta di una “cabina di regia “ peraltro non chiusa in sé stessa ma opportunamente aperta a scambi proficui di valutazioni  con una varietà di potenze emergenti ed extra- europee. Come dimostrato dalla partecipazione alla sessione di outreach del vertice, in rappresentanza dei rispettivi paesi, di  figure cosi diverse come i presidenti di Argentina,  Brasile, Turchia e dello stesso Zelenski ( prodigo di elogi nei confronti dell’Italia e di Giorgia Meloni) del “leader” degli Emirati Arabi Uniti, Sceicco Mohammed Bin Zayed al Nayhan, del re di Giordania Abdallah II e del recentemente riconfermato primo ministro indiano Narendra Modi.

È una cabina di regia che, da ultimo, che mi sentirei di definire in continuità con il patrimonio pluri-secolare dell’occidente anche in termini valoriali e di eredità “classica”. Ne è prova, elemento del forte valore simbolico, l’appello dei leader del  G7 nelle conclusioni a una “tregua olimpica” in vista degli imminenti giochi di Parigi: “ Richiamiamo tutti i paesi a osservarla individualmente e collettivamente – si legge –  così come indicato nella Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottata il  15 dicembre del 2023”.

3) Il terzo elemento saliente risiede nella partecipazione per la prima volta di un Papa a un G7 (“una giornata storica“ l’ha giustamente definita Giorgia Meloni e anche, mi sento di aggiungere, un suo personale importante successo) con un focus sull’Intelligenza Artificiale (IA).

Tale approfondimento era una delle priorità indicate da Palazzo Chigi, in sintonia con il noto impegno di papa Francesco e della Santa Sede  “per dare un’etica agli algoritmi” ( la cosiddetta algoretica) e per pervenire  a una IA “ al servizio dell’uomo”. Promuoveremo una IA “sicura protettiva affidabile attraverso un approccio inclusivo”, si legge infatti nelle conclusioni  del Vertice.

 

I grandi “dossier” geo-politici

Doveva essere, quello di  Borgo Egnazia, il G7 di conferma della coesione occidentale a sostegno dell’Ucraina aggredita, anche attraverso l’utilizzo a beneficio di Kiev degli extra-profitti sugli asset congelati russi in Europa  e l’accordo, non scontato alla vigilia (ma cui si conferiva particolare valore in primis da parte della Casa Bianca) è  stato alla fine raggiunto grazie anche a un sostanziale contributo di  idee della presidenza italiana .

Nessun intoppo a livello politico, ma un cumulo di norme e tecnicismi applicativi sui quali però alla fine è stata trovata un’intesa di massima.

I Capi di Stato e governo si sono mossi lungo linee in buona misura già percepibili alla vigilia. Riaffermando cioè, da un lato, un “incondizionato sostegno all’Ucraina sin quando sarà necessario” e intimando, dall’altro, alla Russia di pagare i danni causati quantificabili a oggi, secondo la Banca Mondiale, in 486 miliardi di dollari .

Lo strumento per la gestione degli extra-profitti si chiamerà “Extraordinary Revenue Acceleration Loan for Ukraine“ e gestirà, rendendoli disponibili entro l’anno in corso, 50 miliardi di dollari a titolo di prestito a Kiev da parte di Paesi G7 garantito appunto dai sopra evocati extra-profitti sugli asset russi.

Che la  questione ucraina resti al centro delle preoccupazioni dei leader  del G7 è confermato del resto dalla partecipazione di questi ultimi (per gli Stati Uniti erano presenti la vice- Presidente Kamala Harris e il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan) al  “Summit per la pace in Ucraina “ svoltosi a Burgenstock – nei pressi di Lucerna – il 15 e 16 giugno.

Quello in Svizzera è stato un incontro dall’esito interlocutorio sia per l’assenza (peraltro scontata) di Russia  e Cina sia per la mancata firma del documento finale – centrato sul “rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità di tutti gli Stati”- da parte di 12 paesi (sui più di 90 partecipanti), tra i quali esponenti di spicco dei BRICS come India, Brasile  Sud-Africa ed Emirati  Arabi Uniti (EAU).  Ma dal quale è uscita, comunque, una conferma – anche in vista di un ulteriore possibile vertice entro l’anno aperto questa volta alla Russia se Mosca vorrà partecipare – del sostegno alla causa ucraina di una larghissima parte della comunità internazionale.

L’evento, tenutosi a seguire rispetto al G7, ha consentito al nostro presidente del Consiglio di ribadire in termini efficaci l’appoggio dell’Italia a Kiev e l’inaccettabilità, anche per l’Italia,  delle recenti  proposte  di Putin: “Pace non significa resa come sembra suggerire il presidente Putin con le sue ultime dichiarazioni. Confondere la pace con la sottomissione costituirebbe un pericoloso precedente per tutti”, ha sottolineato a Burgenstock Giorgia Meloni.

Cina e Medio Oriente

Per tornare al  G7 di Borgo Egnazia va detto che esso si è rivelato compatto anche su due altre questioni centrali: Cina e Medio Oriente.

A Pechino viene dai Sette mossa l’accusa, da un lato, di foraggiare tramite materiale dual use la campagna militare russa in Ucraina; dall’altro, di drogare il mercato globale delle tecnologie, delle batterie, dei pannelli solari, ad esempio attraverso sussidi e incentivi  distorsivi delle regole del mercato globale.

Si tratta in sostanza – a conferma di un G7 in presa diretta con la realtà a cominciare da  quella dei    mercati – di quella sovracapacità

(overcapacity) che Washington da tempo denunzia chiedendo agli europei, Germania in primis, di allinearsi alla linea dell’intransigenza. Anche se nella Dichiarazione finale del vertice, per tenere conto di tutte le sensibilità e su input anche del nostro paese, da un lato viene ribadito che il G7 non cerca lo scontro con la Cina e non mira a indebolirne la l’economia; dall’altro, si invita Pechino (tema ripreso dal presidente Meloni nella conferenza stampa conclusiva) a cessare le sue pratiche anticoncorrenziali.

Si è registrata sintonia anche sul complesso dossier medio-orientale . Il punto di partenza della pertinente sezione del Documento adottato dal G7 è opportunamente rappresentato dalla “più ferma condanna del brutale attacco condotto da Hamas e altri gruppi terroristici contro Israele  lo scorso 7 ottobre”.

Si schiera inoltre –  apportando così alla stessa   un rilevante valore aggiunto in termini di  peso politico –  con la proposta di “cessate il fuoco immediato, di rilascio degli ostaggi da parte di Hamas e di un incremento significativo dell’assistenza umanitaria a Gaza”. Nelle conclusioni si ribadisce poi “la preoccupazione per le conseguenze sui civili dell’operazione in corso a Rafah”.

Il  capitolo si chiude con il riferimento ai futuri assetti, con il supporto dell’Autorità Nazionale palestinese chiamata ad auto riformarsi e a contribuire alla gestione del potere nella West Bank  e  poi, “dopo la fine del conflitto”, a Gaza.  L’obiettivo cui tendere è naturalmente la soluzione dei due Stati. E qui il G7  – altro appello con evidenti implicazioni prospettiche – invita ad astenersi da soluzioni unilaterali (ovvero il riconoscimento sin d’ora, e senza condizioni,  dello Stato palestinese) ma allo stesso tempo – a conferma di una approccio  equilibrato- chiama Israele a “fermare l’espansione degli insediamenti e a non legalizzare gli avamposti”.

Piano Mattei per l’Africa

C’e poi il capitolo Africa e quello, correlato, dell’immigrazione illegale. Anche in questo caso la presidenza italiana può vantare risultati importanti. In primo luogo perché nelle conclusioni del Summit – in linea con l’agenda e le priorità di Palazzo Chigi – si impegna il G7 a concentrarsi “sulle cause profonde dell’immigrazione irregolare, sugli sforzi per migliorare la gestione delle frontiere, frenare la criminalità organizzata transnazionale   e promuovere percorsi sicuri e regolari per la migrazione”. Altrettanto significativo l’impegno dei Sette Grandi – comprensibilmente gradito dalla presidente  Meloni – a “intensificare il sostegno ai paesi africani nei  loro sforzi per raggiungere lo sviluppo sostenibile”.

In secondo luogo perché il linguaggio sul Piano Mattei è passaggio che rappresenta un indubbio successo per l’Italia, a smentita di quanti hanno per settimane tentato di screditare l credibilità internazionale dell’iniziativa in corso, come noto,  di progressivo affinamento.

“Il partenariato del G7 per le infrastrutture e gli investimenti globali (PGII) – si legge nelle dichiarazioni finali del vertice – offre una cornice che utilizzeremo per promuovere la nostra visione di infrastrutture sostenibili . In questo senso accogliamo con favore il Piano Mattei”.

Si tratta di un richiamo esplicito al Piano Mattei che avalla, indirettamente,  anche quella visione di partenariato tra eguali e di rifiuto di un atteggiamento predatorio da parte occidentale nei confronti dei paesi africani che Giorgia Meloni ha ripetutamente (e giustamente) tenuto a presentare come l’elemento concettualmente qualificante della nostra iniziativa.

E tanti e importanti gli eventi a margine ….

Non è questa ovviamente la sede per una disamina dei tanti eventi/incontri  politici svoltisi a margine del vertice ai quali  lo stesso ha però offerto  un moltiplicatore di visibilità, nella splendida e curata cornice del borgo pugliese, per molti versi unico al mondo. Mi limiterò a citarne due di più diretto interesse per il nostro paese in quanto rientranti nelle priorità del nostro governo.

1) Il primo è rappresentato dal bilaterale che Meloni ha potuto avere nell’occasione con il presidente Biden a conferma di un eccellente rapporto  anche sul piano personale, grazie a una fiducia che Giorgia Meloni si è per così dire conquista sul campo: dal mai venuto meno sostegno all’Ucraina aggredita, al convinto atlantismo, all’approccio non ideologico  del nostro governo sui temi migratori valutato con favore da Washington   sino alla linea sulla Cina circa la quale l’incontro a due di Borgo Egnazia ha fatto registrare significative convergenze.

2) Il secondo degli eventi in questione risiede nell’atteso e annunciato accordo di sicurezza  firmato da Biden e Zelensky a margine del G7. E’ accordo, salutato come “storico” dal Presidente ucraino,  che non impegna ovviamente gli USA a difendere l’Ucraina con l’invio di truppe in caso di rinnovata aggressione. Ma impegna più semplicemente gli Stati Uniti a tenere con Kiev consultazioni ad  alto livello con l’amministrazione Zelensky entro 24 ore se l’Ucraina verrà nuovamente attaccata e promette che il  presidente americano lavorerà con il Congresso per dare ad esso concreta attuazione.

Gli Stati Uniti continueranno inoltre ad addestrare l’esercito del paese invaso, ad approfondire la collaborazione sulla produzione dell’industria bellica e a condividere con Kiev informazioni ancor più di quanto fatto sinora. In altri termini un’intesa con una forte valenza politica e di segnale a Mosca che Washington non abbandonerà l’Ucraina.

In conclusione, è uscita dal vertice pugliese un’importante conferma della centralità e affidabilità del nostro Paese e del nostro governo nell’attuale delicato contesto geo-politico,  così come delle eccellenti relazioni dell’Italia con partner appartenenti alle più diverse aree del mondo a cominciare da quelli  espressione del Sud globale presenti ampiamente rappresentati a Borgo Egnazia .

E’ un capitale prezioso, basato su risultati concreti, che il nostro esecutivo – forte anche del l’eccellente risultato conseguito  dall’attuale maggioranza alle recenti elezioni europee –  dovrà ( e certamente saprà) impiegare al meglio. Al servizio – oltre che dell’interesse nazionale, a cominciare dagli aspetti legati alle prossime nomine europee – di una visione dei rapporti tra Stati centrata sul rispetto del diritto internazionale, sulla fedeltà  alle nostre alleanze e alla costruzione  europea in divenire  nonché, da ultimo, su una visione del mondo e della persona, ferma quando necessario ma “non predatoria” (è proprio questo non a caso, come detto,  lo spirito del Piano Mattei) e  coerente con la nostra Storia e i nostri valori.

Russia-Ucraina la “lezione” di questa guerra

A poco più di due anni dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin abbiamo (o dovremmo avere) appreso alcune significative lezioni. E utilizzando la prima persona plurale mi riferisco a tutti noi come cittadini, alla classe politica italiana, all’Unione europea nel suo complesso.

 

 

  1. La prima lezione è che la pace è fragile e non possiamo darla per scontata né acquisita a tempo indeterminato. La pace di cui abbiamo goduto per tanti anni su larga parte del nostro continente (con limitate seppur gravi eccezioni nello spazio ex-jugoslavo, al confine tra Ucraina e Russia e nel Caucaso) è andata drammaticamente in pezzi il 24 febbraio del 2022.

 

In altri termini, a partire da quel giorno, il mondo è cambiato repentinamente facendoci destare (questo vale per molti di noi, anche se in Italia e non solo c’è chi continua a non voler vedere e coltiva un “pacifismo” che sa molto di resa…) dall’illusione diffusa in larga parte della “vecchia Europa” – con la sola notevole eccezione della Francia – che l’investimento in Difesa non fosse più necessario. Che ad esso avrebbero comunque pensato gli Stati Uniti (“tanto c’è l’America…”) e che le forze armate dovessero servire ormai quasi solo per missioni di salvataggio e protezione civile.

 

Quanto sta avvenendo da più di due anni alla frontiera orientale del nostro continente ci fa invece comprendere che il tema della sicurezza – e quello correlato della pace in Europa da assicurare appunto, attraverso una credibile capacità di deterrenza – deve invece tornare al centro dell’agenda politica come la presidente Meloni non si stanca di ricordare e sottolineare, al pari della Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.

 

Tornare al centro dunque del discorso politico, accanto e non dopo altri temi che lo hanno in tutti questi anni dominato: come, ad esempio, la transizione ecologica, le migrazioni, l’aggiornamento dello Stato sociale.

 

L’ esigenza in parola è naturalmente accentuata dal fatto che, come nota Angelo Panebianco sul Corriere della Sera nel suo editoriale dello scorso 4 marzo, “c’è un’America che, Trump o non Trump, non ha più la voglia che aveva un tempo, di tenere in piedi una per lei sempre più costosa egemonia internazionale “. E, aggiungo, un America confrontata a quella che negli USA in maniera sostanzialmente “bipartisan” è ormai avvertita come la sfida principale: vale a dire quella cinese.

 

La domanda cui in via prioritaria si deve a questo punto cercare di fornire risposta è in sostanza, a mio avviso,  la seguente: come costruire in tempi rapidi (e non vanno sottovalutati al riguardo i recenti  inquietanti segnali di mire russe nei confronti di altri Paesi europei, specie ove il Cremlino finisca prima o poi col raggiungere i propri obiettivi in Ucraina….) un sistema di difesa europeo  che – se la NATO dovesse per qualsiasi motivo finire col perdere smalto e rilievo –  funzioni   appunto da  deterrente e ci protegga dal risorgente imperialismo russo.

 

Va detto, ed è segnale senza dubbio incoraggiante, che serie riflessioni al riguardo sono già in atto tanto a Bruxelles (in primis a livello Commissione) quanto nelle principali capitali europee tra cui la nostra.

 

Rivelatrice al riguardo è l’intenzione  di lavorare per un allargamento della base industriale europea nel settore della difesa, così come  per l’acquisto congiunto di equipaggiamenti militari  esplicitata nelle scorse settimane dalla presidente Von der Leyen e dal Commissario all’Industria, il francese Breton; dall’altro, le parole pronunziate lo scorso lo scorso 10 gennaio nell’aula di Montecitorio, durante il question time, dal vice-Presidente e Ministro degli esteri Tajani ( anche se, nel caso di specie, in relazione alla minaccia fatta gravare dagli Houthi sulla libertà di navigazione nel Mar Rosso): “Questa ennesima minaccia alle porte di casa ci ricorda che per giocare un ruolo più decisivo dobbiamo dotarci in prospettiva di un’autentica difesa europea” .

 

Tutti obiettivi il cui perseguimento potrebbe essere finanziato – e per questo ritengo dovrebbe continuare a battersi il nostro governo – se del caso. attraverso il ricorso a debito comune (non diversamente da quanto già fatto dall’UE per l’acquisto dei vaccini in occasione dell’emergenza Covid).

Per chiudere sull’argomento, una conferma della determinazione dell’Esecutivo comunitario nel perseguire il citato obiettivo è stata offerta dalla prima strategia per l’industria della difesa (europea) che l’alto Rappresentante per la Politica Estera Josep Borrell, il vice-Presidente della Commissione Margrethe Vestager e il commissario UE all’Industria  Thierry Breton hanno presentato lo scorso 5 marzo insieme al piano di investimenti da 1,5  miliardi presi dal bilancio UE ( forse pochi rispetto alle necessità ma è pur sempre un inizio) che ha la finalità di incentivare gli acquisti comuni e dunque la capacità di produzione .

 

Aggiungo che quella cui si sta lavorando a Bruxelles e in talune capitali UE è una difesa europea che nell’ottica italiana e non solo – come più riprese sottolineato dalla stessa Giorgia Meloni oltre che dai Ministri Tajani e Crosetto – dovrà naturalmente operare in spirito di complementarietà e non certo di alternativa alla NATO.

 

Osserva infatti giustamente il nostro titolare della Difesa   in una recente intervista – con riferimento alle spese che andranno iscritte a bilancio per rendere le nostre Forze Armate in grado di coordinarsi al meglio con quelle dei nostri alleati atlantici ed europei – che, per pervenire all’autentica difesa europea da noi auspicata, sarà necessario “organizzare forze comuni, addestramento comune, far dialogare sistemi di difesa diversi per integrarli”.

 

È infatti, prosegue il Ministro, “nei periodi di pace che si deve lavorare per una difesa solida e che un esercito va rafforzato, anche con l’inserimento di nuove professionalità e nuove tecnologie: da quelle cyber a quelle legate all’Intelligenza Artificiale “.

 

E’, in conclusione, dato positivo e decisamente apprezzabile che all’interno del nostro esecutivo si stia dedicando al tema in esame un’attenzione all’altezza dell’entità della posta in gioco e all’urgenza della questione. Attenzione e riflessioni che, mi preme ribadire, andranno portate avanti anche attraverso una costante e, se del caso, schietta interlocuzione con il nostro principale alleato.

 

Confortante sotto tale profilo è pertanto il buon esito della seconda visita a Washington in un ristretto arco di tempo effettuata lo scorso primo marzo di Giorgia Meloni così come del suo lungo colloquio alla Casa Bianca anche in tale occasione con il Presidente Biden, tanto a titolo bilaterale quanto in qualità di presidenza in esercizio del G7. Presidenza italiana che il nostro Presidente del consiglio sta giustamente cercando di valorizzare in ogni occasione, in uno spirito di sincero e mirato dialogo con tutti i nostri partner in seno al G7 e non solo, dunque, con gli Stati Uniti.

 

Ue e Nato, meriti e carenze

 

  1. Per tornare alle lezioni apprese, la seconda lezione riguarda il ruolo dell’Unione Europea.

L’Unione Europea, quale l’abbiamo conosciuta sinora, ha certo svolto un ruolo importante nel “curare la pace” in una parte significativa del nostro continente. Ma, come osserva il Professor Cotta dell’Università di Siena in una sua recente riflessione sulla materia, “la sua configurazione e le sue capacità di azione si sono rivelate chiaramente insufficienti rispetto alle sfide alla pax europea” insorte nell’ultimo decennio e in quell’area più ampia e difficile che congiunge la parte occidentale e orientale del nostro continente”.

Grazie alle sue innovative istituzioni l’Unione europea ha certamente mostrato una apprezzabile capacità di contribuire all’avvio a soluzione / contenimento di conflitti alle sue frontiere (basti pensare al suo importante contributo nel decollo del dialogo, che resta molto difficile, tra la dirigenza serba e quella kossovara) e alla promozione cooperazione tra un numero crescente di Paesi all’interno dei propri confini.

Tuttavia, nota sempre il Professor Cotta, senza nulla togliere ai meriti di questi successi, dobbiamo sempre ricordare che questo è potuto avvenire solo all’interno di un contesto più ampio “nel quale le esigenze fondamentali della nostra sicurezza sono state garantite dal ruolo degli Stati Uniti e della NATO”.

L’incorporazione nel sistema dell’Unione europea, dopo il crollo dell’URSS, di ben nove paesi dell’area post-sovietica (Bulgaria, Estonia , Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Ungheria) e a oggi di due dell’area post- jugoslava (Croazia e Slovenia), pur con le note difficoltà che ne sono derivate sul terreno della rapidità dei processi decisionali interni alla UE, ha indubbiamente contribuito alla stabilizzazione di una vasta porzione della nostra Europa  contenendone i potenziali conflitti.

 

Anche in questo caso è giusto però ricordare che le serie preoccupazioni di sicurezza di tutti questi paesi sono state prese in carico più dalla NATO che dall’Unione europea.

 

La concentrazione dell’Unione europea sulla dimensione economico- monetaria, e progressivamente anche sulle dimensioni delle garanzie sociali e dello “stato di diritto”, ha lasciato largamente scoperto il campo cruciale della politica estera e di sicurezza.

 

Aree di attività della UE le cui politicamente rilevanti potenzialità, come chi scrive ha avuto modo di osservare in precedenti contributi a “Charta Minuta”, sono fortemente condizionate anche dalla perdurante vigenza della regola dell’unanimità per l’adozione di qualsivoglia decisione in materia. Regola il cui superamento, nonostante gli sforzi posti in atto in atto da talune capitali come Roma, l’Aja e Parigi – continua a scontrarsi con le resistenze di un certo numero di Stati membri di più recente adesione di area est-europea.

 

Le aree grigie ai confini orientali

 

  1. La terza lezione è che nel nostro continente le aree grigie – non inserite cioè chiaramente in un quadro di integrazione e sicurezza- scaturite dal collasso dei due sistemi politici comunisti (Unione sovietica e Jugoslavia) si sono rivelate in molti di casi focolai di tensione e poi di aperto conflitto.

Questo vale per i paesi del Caucaso, per l’Ucraina e per i Balcani centrali.

 

Queste aree di incertezza avrebbero avuto bisogno, notano vari analisti, di   lungimiranti accordi internazionali e di solide istituzioni (in molti casi, vedasi il caso della Bosnia-Erzegovina, a oggi carenti o assenti) in grado di gestirne per quanto possibile le tensioni interne e proteggerli da interventi bellici dall’esterno.

 

Questo non è purtroppo avvenuto per una pluralità di ragioni che non possono essere approfondite in questa sede. Tale dato di cose ha comportato prezzi molto alti soprattutto per le popolazioni direttamente interessate ma anche il quadro europeo nel suo complesso ne è stato per certi versi condizionato.

 

Rimettere insieme i pezzi richiede e continuerà a richiedere, ma credo ne valga la pena, sforzi diplomatici e finanziari elevati.

 

L’inquietante fattore Putin

 

  1. La quarta e ultima lezione risiede nella mancata o tardiva comprensione da parte della maggioranza della classe politica culturale europea dell’emergere nell’entità statuale più cospicua sopravvissuta al collasso dell’Unione sovietica, cioè la Russia di Putin, di una stretta associazione tra autoritarismo interno e pulsioni espansionistiche.

 

Ciò ha fatto sì che l’aggressione all’Ucraina avviata da Putin il 24 febbraio dello scorso anno abbia trovato largamente impreparati i centri decisionali europei nonostante i segnali di allarme ripetutamente pervenuti da Washington.

 

Per altro verso, la legittimazione a livello popolare del disegno autoritario di Putin (invano contrastato da figure dal coraggio e dignità ammirevoli come quella dello scomparso Navalny e di altri intellettuali/resistenti  che vogliono continuare a credere e sperare… in una Russia diversa ) è venuta appoggiandosi in questi anni in maniera sempre più evidente su un nazionalismo accoppiato a un aggressivo revanscismo da grande potenza: binomio davvero  inquietante per la sicurezza e la pace in Europa che sarà però con ogni probabilità uno dei fattori alla base della prevedibile riconferma di Putin alle imminenti elezioni presidenziali in Russia .

 

L’Ucraina ha patito per ora le conseguenze più gravi del disegno autoritario/revanscista del Cremlino. Bene ha fatto dunque la Presidente Meloni a guidare nei giorni scorsi proprio da Kiev – in video-conferenza e con un vibrante omaggio al coraggio del popolo ucraino e ai valori “europei” che l’Ucraina aggredita oggi incarna – la prima riunione al più alto livello del G7 sotto presidenza italiana.

Ciò detto, finché il disegno di Putin non fallirà (ciò che, a oggi, non sembra purtroppo alle porte) parlare ed eventualmente negoziare con Mosca deve richiedere una chiara comprensione del perverso disegno del Cremlino.

Se queste sono le lezioni di questi due anni la classe politica dell’Europa occidentale dovrebbe studiarle con serietà (cosa che, come sopra accennato, sta su taluni versanti già avvenendo) per poter gestire al meglio il contesto attuale e costruire negoziati di pace non illusori e non alle spalle di Ucraina impegnata in una eroica guerra di resistenza all’aggressore russo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Occidente e la minaccia di Putin

Sono numerosi e molto allarmanti i segnali circa la gravità del omento presente: le recenti esternazioni di fonte tedesca ( Ministro della difesa, servizi di “intelligence”…..) quanto alla possibilità di un attacco russo a un Paese europeo della NATO entro i prossimi 5-8 anni; le recenti dichiarazioni del presidente della Commissione intelligence della Camera (il repubblicano Mike Turner) in merito alla “minaccia alla sicurezza nazionale americana” derivante da recenti iniziative russe nello spazio; gli ultimi sviluppi sul terreno caratterizzati da significativi successi tattici di Mosca sul fronte ucraino (da ultimo con la riconquista di Adiivka al termine di feroci combattimenti).

 

Ne derivano, nell’immediato, la necessità e l’urgenza per l’Europa di dotarsi di proprie capacità di deterrenza e difesa nei confronti delle mire del Cremlino, ancor più alla luce delle recenti affermazioni di Donald Trump circa un possibile disimpegno statunitense dalla NATO nel caso di un suo ritorno alla Casa Bianca a seguito delle presidenziali del prossimo autunno.

Nel secondo anniversario dell’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina (con un Putin più che mai padrone del campo nel suo Paese ancor più dopo la eliminazione della coraggiosa figura di Alexei Navalny ) è in sostanza il nostro Continente a trovarsi, per tutti motivi cui sopra, per così dire in prima linea.

 

La Conferenza di Monaco

Non a caso, se appena un anno fa gli occhi di tutti erano puntati alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco sul cosiddetto piano di pace cinese per Kiev, nella speranza a oggi rivelatasi purtroppo illusoria, che la Cina potesse esercitare una qualche pressione su Putin, oggi è all’Europa che spetta muoversi per garantire la propria sicurezza (naturalmente di concerto con la NATO) e quella della regione nel suo complesso.

Sicurezza e difesa devono in altri termini tornare in testa all’agenda europea, ma sul serio. E’ questo il messaggio uscito con forza anche dalla più recente edizione della Conferenza di Monaco tenutasi quest’anno al Bayerisher Hof, così come dalla riunione dei Ministri degli Esteri del G7 svoltasi a margine sotto la presidenza di Antonio Tajani nella veste di rappresentante del Paese che esercita la presidenza di turno del G7.

E’ stato lo stesso presidente ucraino Volodymir Zelensky , accolto a Monaco dai partecipanti con una “standing ovation”, a chiamare in causa I Paesi europei.

“Forse per l’Europa è arrivato il momento in cui la questione dell’articolo 5 del Trattato NATO (vale a dire quello, cruciale, sull’obbligo di difesa collettiva di un Alleato che si trovasse sottoattacco di uno Stato terzo) non è più una questione per Washington ma per le capitali europee” .Lo ha detto Zelensky dal palco di Monaco con formula non si può più chiara. Dobbiamo rendere la sicurezza nuovamente una realtà nel 2024 perché, ha proseguito Zelensky, “se non agiamo Putin renderà i prossimi anni catastrofici anche per altre Nazioni”.

D’accordo con lui si è detto, tra gli altri, il Cancelliere Scholz che si è così espresso al riguardo: “Indipendentemente da come finirà la guerra della Russia in Ucraina o dall’esito delle prossime elezioni sulle due sponde dell’Atlantico , una cosa è chiara: noi europei dobbiamo occuparci molto più della nostra sicurezza “.

Va nella stessa direzione la proposta avanzata a Monaco dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen di istituire – se confermata, dopo le elezioni europee del prossimo giugno, alla guida dell’esecutivo comunitario – un Commissario europeo per la Difesa: incarico, ha significativamente aggiunto, che potrebbe essere affidato a un esponente di un Paese membro diarea est-europea”.

E’ proposta fortemente innovativa, come il momento richiede, con la quale il Ministro Tajani si è detto pienamente d’accordo tenendo al contempo opportunamente a precisare (in linea con gli orientamenti più volte espressi al riguardo dal Presidente Meloni) che “NATO e difesa europea non sono e non debbono essere in contrasto tra loro e che un futuro esercito europeo potrà anzi rafforzare il peso e il ruolo dell’Europa nell’alleanza atlantica”.

 

Sostanzialmente sulla stessa linea il Segretario Generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, anch’egli presente a Monaco. Sono favorevole, ha detto, a maggiori sforzi complementari tra la UE e la NATO ma la NATO ( e mi sembra difficile non convenire) resta la pietra angolare della sicurezza europea.

Non è bene, ha aggiunto Stoltenberg “una competizione su tale terreno della UE con la NATO ma la von der Leyen è stata fortunatamente molto chiara al riguardo”.

Sostegno a Kiev

Vi è stato un punto di saldatura tra le discussioni svoltesi nel quadro della citata Conferenza di Monaco, alla quale gli Stati Uniti sono stati presenti anche quest’anno, a conferma del rilievo che la Casa Bianca conferisce all’evento, con la vice-Presidente Kamala Harris e col Segretario di Stato Blinken – e quelle tenutesi nell’ambito della riunione “a latere” dei Ministri degli Esteri del G7 – la prima sotto presidenza italiana. È emerso infatti  – il condiviso convincimento circa la necessità (e, direi, il dovere morale) di non abbandonare Kiev al proprio destino.

Ciò vale in particolare per la riunione informale del G7 a livello Ministri degli Esteri con la partecipazione del loro omologo ucraino , Dmytro Kuleba. Riunione apertasi, su proposta del vice-premier e Ministro Tajani, con un minuto di silenzio peronorare Alexei Navalny seguito da un invito al Cremlino dello stesso G7 “ a porre fine all’inaccettabile persecuzione del dissenso politico , nonché alla repressione sistematica della libertà di espressione e all’indebita limitazione dei diritti civili”.

Del prioritario rilievo conferito dai capi delle diplomazie del G7 alla questione ucraina è testimonianza tra l’altro il passaggio della dichiarazione rilasciata alla stampa di Antonio Tajani , in qualità di Presidente delle riunione, con il quale egli fa stato del fatto che “ i Ministri degli Esteri del G7- oltre a sottolineare una volta di più che “ la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina costituisce una palese violazione dei principi stessi della Carta delle Nazioni Unite – ribadiscono la loro “incrollabile determinazione a continuare a sostenere l’Ucraina nella difesa

della sua libertà, sovranità indipendenza e integrità territoriale all’interno dei suoi confini riconosciuti a livello internazionale” ed elogiano “l’eccezionale resistenza e perseveranza dell’Ucraina”.

Aggiunge il vice-premier e Ministro Tajani nella sua dichiarazione che i “membri del G7 hanno altresì confermato che, insieme ai partner internazionali, stanno facendo rapidi progressi con l’Ucraina su impegni e accordi di sicurezza specifici , bilaterali e lungo termine. Hanno anche espresso la loro determinazione a continuare a coordinarsi con i partner per fornire sostegno militare, finanziario, politico , umanitario, economico allo sviluppo dell’Ucraina e al suo popolo nonché a rafforzare le sanzioni contro la Russia e coloro che sostengono materialmente la sua guerra”.

In sostanza, come rileva Francesco Bechis in un recente articolo su “Il Messaggero”, “passa dal tavolo quadrato della riunione G7 (che ha trattato naturalmente anche altri temi: da quelli legati alla crisi di Gaza alle ribadite preoccupazioni per l’escalation del programma nucleare iraniano) il rilancio del soccorso occidentale all’Ucraina in guerra”. E se è lo stesso Tajani a precisare che “non siamo in guerra con la Russia”, resta ferreo il sostegno italiano all’Ucraina aggredita.

Da un lato, con l’ottavo pacchetto di aiuti con le munizioni per la difesa aerea richiesto con insistenza da Kiev (pacchetto che, secondo quanto anticipato a Monaco da Tajani sarebbe ormai in dirittura di arrivo); dall’altro, attraverso un accordo bilaterale di sicurezza fra Italia e Ucraina che, secondo quanto è dato sapere, il nostro Presidente del Consiglio è pronto a firmare con Zelensky nelle prossime settimane.

Si tratta di accordo, messo a punto a livello tecnico di concerto con la parte ucraina , che rientra sotto l’ombrello G7, non dissimile nella sostanza da quelli firmati con l’Ucraina da Francia e Germania in occasione delle recenti visite di Zelensky a Parigi e Berlino.

E’ intesa cui il nostro Presidente del Consiglio molto tiene – in coerenza con il suo costante sostegno alla causa ucraina- e che, stando a fonti stampa, potrebbe decidere di firmare di persona in occasione di una sua imminente visita a Kiev.

 

La tempistica conta ….

La tempistica in questo caso conta infatti, e non poco.

Mentre sull’Europa , si osserva da più parti , si staglia l’incognita Trump e quella di un possibile stop delle forniture americane di armi a Kiev gli alleati ( sia in ambito UE che G7 e NATO) stanno di fatto già lavorando a un piano B: un meccanismo di sostegno autonomo di cui, appunto, farà parte anche l’Italia .

E – a conferma della credibilità acquisita dal nostro Governo e dal nostro Paese anche su tale versante – proprio l’Italia ospiterà a Roma il prossimo anno la conferenza internazionale per la ricostruzione dell’Ucraina al cui buon esito stanno da tempo lavorando sia il Presidente Meloni che il vice-Presidente Tajani e il Ministro Urso .

Un momento in altre parole, quello che stiamo vivendo, nel quale si intersecano – con riferimento al nostro atteggiamento nei confronti della Russia di Putin ( non più invitata al Forum di Monaco da quando ha invaso l’Ucraina) – fattori di varia natura.

Fattori che riguardano a un tempo la nostra azione di contrasto all’autoritarismo dello Zar Putin e la nostra doverosa difesa dell’Ucraina, che di tale autoritarismo è vittima di eccellenza.

Non è un caso che proprio una russa in esilio , Marina Livtinenko, vedova di Alexander (fisico devastato dal polonio nel 2006 quale punizione per la sua coraggiosa opera di opposizione al regime) abbia osservato a margine dei lavori della conferenza di Monaco che “ la resistenza a Putin si trova ormai sulla linea del fronte tra Ucraina e Russia”.

In sostanza, ci fa capire la Russia del dissenso, nel difendere l’Ucraina si difendono ormai anche i valori di libertà e democrazia in Russia semmai un giorno essi dovessero prendere piede in quel tormentato Paese. E nello stesso senso va il messaggio lanciato nei giorni scorsi con il social X da Stoltenberg: “ E’ urgente e indispensabile continuare a sostenere l’Ucraina. E’ il miglior modo per rendere omaggio alla memoria di Navalny”.

 

Ora cosa ci aspetta

Osserva Stefano Stefanini in un suo recente editoriale su La Stampa: “c’era un’autentica commozione nella sala che ha accolto con una ripetuta “standing ovation” le parole pronunziate dalla vedova di Navalny, Yulia Navalnaya anch’ella presente alla conferenza di Monaco. Ma, calato il silenzio sul pathos, cosa rimarrà sul fronte della difesa dell’Ucraina dall’aggressione russa. Perché il problema, oggi , è tutto lì”.

Domanda più che legittima alla quale non è facile dare risposta. E’ certo però che i segnali emersi dalla Conferenza di Monaco e dal parallelo G7 a livello Ministri degli Esteri inducono a ritenere che, anche una volta “calato il silenzio sul pathos”, il fronte della concreta difesa dell’Ucraina non scomparirà dal radar apparendo anzi destinato a trovare nuova linfa (pur se non necessariamente nella misura richiesta dal drammatico frangente attuale ) proprio nelle iniziative del G7 a guida italiana che ho sopra evocato.

E deve essere per tutti noi motivo di orgoglio constatare che il Presidente del Consiglio e il nostro governo si stanno muovendo al meglio – in tutte le sedi appropriate e in raccordo con i nostri alleati -per scongiurare lo scenario di un’Ucraina abbandonata al proprio destino, così come quello non meno inquietante di una Russia imbaldanzita e convinta che la coesione sinora mostrata nei suoi confronti dall’ Occidente finirà, prima o poi, per cedere il passo a una rassegnata accettazione della legge del più forte.

Un’Italia, per riprendere le parole di Giorgia Meloni nel suo discorso di investitura, “ non più anello debole dell’Occidente e parte a pieno titolo e a testa alta dell’Alleanza atlantica“ costituisce infatti, di per sé, una garanzia importante contro i rischi di derive in Europa nel senso indicato.

Che è poi quanto i nostri alleati si attendono da noi anche come Presidenza in esercizio del G7 in un anno, come quello da poco iniziato, nel quale il confronto tra il mondo democratico e le autocrazie appare destinato a divenire se possibile ancora più aspro.

Rivelatrici al riguardo, e ragione di più per tenere alta la guardia anche nel nostro Paese, le parole pronunziate da Dmitry Medvedev , ex Presidente ed ex-premier russo, sull’esistenza di “forze anti-sistema nei Parlamenti nazionali e nel Parlamento europeo “ che Mosca “ deve sostenere perché porteranno alla fine del globalismo liberale”.

Sarà anche questa la posta in gioco in occasione delle elezioni europee del prossimo giugno del dalle quali c’è da augurarsi emerga un maggioranza (che sia una rinnovata “coalizione Ursula” o una basata su un solido asse PPE- ECR) in grado di tenere a bada i settori filo-putiniani presenti purtroppo anche in seno al Parlamento europeo.

G7, L’IMPRONTA ITALIANA

In un contesto geopolitico regionale sul quale gravano nubi pesanti, il 2024 si è tuttavia aperto per il nostro Paese in maniera promettente.
E’ un avvio che lascia ben sperare per quello che potremo conseguire, su una pluralità di versanti, anche come presidenza in esercizio di un G7 che sempre più sta acquisendo un ruolo di “cabina di regia “ del mondo.

Si tratta di un risultato importante e non scontato – sul quale vi è da augurarsi possano essere costruiti ulteriori successi – riconducibile soprattutto a due fattori: da un lato, il credito maturato in quest’anno e poco più dal nostro governo presso le principali capitali europee ed alleate; dall’altro, la credibilità personale che il nostro Presidente del Consiglio, che ha saputo conquistarsi e consolidare presso i suoi principali interlocutori europei e “atlantici” oltre che presso i vertici delle Istituzioni comunitarie.
Valgano, a conferma di questo, tre sviluppi registratisi in un ristretto arco di tempo: vale a dire a partire dalla fine del mese appena conclusosi .

  1. La conferenza Italia-Africa

Il primo è rappresentato dal successo di immagine e di sostanza della Conferenza Italia-Africa tenutasi presso il Senato della Repubblica lo scorso 28 e 29 gennaio.
Un evento che, per numero e qualità delle presenze nonché per il rilievo dei temi trattati nelle diverse sessioni (istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia: in quest’ultimo caso nel giusto convincimento del nostro governo “che l’Italia abbia tutte le carte in regola per diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa”) fa del nostro Paese un attore ormai imprescindibile nell’interazione tra l’Occidente e il Sud globale, a cominciare appunto dall’Africa.

Interazione più che mai necessaria in una fase in cui, com’è noto, l’interconnessione tra i diversi “dossier” non consente soluzioni a problemi globali (siano essi ambientali, economici o geo-politici) che non tengano nel debito conto le esigenze di un continente, come quello africano, che detiene il 30% delle risorse minerarie del mondo, il 60% delle terre coltivabili e il 60% della popolazione di età inferiore ai 25 anni.

Non a caso il Presidente Meloni ha tenuto a evidenziare, nel suo intervento di apertura, come la conferenza abbia rappresentato il primo appuntamento internazionale ospitato dall’Italia quale  Presidente del G; e come ciò sia non sia casuale bensì il frutto di una precisa scelta di politica estera “volta a riservare all’Africa un posto d’onore nell’agenda della sua Presidenza del Gruppo dei Sette”.
Il tutto, ha proseguito ( ed è aspetto di fondo che merita di essere sottolineato) con l’obiettivo di scrivere una pagina nuova nella storia delle relazioni tra l’Italia ( e l’Europa ) e l’Africa.
Quella, ha precisato, di ”una cooperazione da pari a pari, lontana da qualsiasi tentazione predatoria, ma anche da quell’impostazione “caritatevole “ nel nostro approccio con l’Africa che mal si concilia con le sue straordinarie potenzialità di sviluppo”.

Aggiungo che il vertice ha anche fornito al nostro Presidente del Consiglio (che si è espressa in sintonia con il messaggio veicolato ai partecipanti la sera prima dal Presidente Mattarella ) di fornire elementi di dettaglio in merito ad alcuni dei progetti intorno ai quali si articolerà il Piano Mattei.
Si tratta di un piano dotato di cospicue risorse finanziarie, nei 5 prioritari settori di intervento che ho sopra evidenziato, funzionali anche a contrastare il drammatico fenomeno dell’ emigrazione illegale e della tratta di esseri umani.

È dunque un’Italia determinata a porsi davvero come quel “ponte per l’Africa per crescere insieme“, che ha dato il titolo alla Conferenza.
In uno spirito di apertura e sincera condivisione con i nostri partner della “sponda sud” ben sintetizzato nelle parole conclusive della nostra premier: “l’Africa che noi vediamo è soprattutto un continente che può e deve stupire, ma che ha bisogno di essere messo alla prova e di competere ad armi pari nel contesto globale;

  1. L’Ucraina e il superamento del veto ungherese

Il secondo sviluppo che conferma la centralità acquisita in Europa dal nostro Paese risiede nel ruolo cruciale svolto da Giorgia Meloni, in occasione del più recente Consiglio europeo per giungere al superamento del veto ungherese allo sblocco del pacchetto di aiuti europei da 50miliardi di euro a beneficio dell’Ucraina aggredita.
Si è trattato, certo, di risultato ottenuto grazie anche a una stretta concertazione del Presidente Meloni con la von der Leyen, Scholz e Macron, nonché al ventilato ricorso da parte dell’UE al meccanismo di sospensione dalla vita comunitaria di uno Stato membro (nel caso di specie l’Ungheria) previsto, in casi precisi, dall’art.

7 paragrafo 2 del Trattato costitutivo dell’Unione con riferimento tra l’altro all’esercizio del diritto di voto.
Ma e’ indubbio – vanno in tale senso anche le valutazioni di qualificati commentatori e “thinktank” non riconducibili al centro-destra – che Orban non avrebbe con ogni probabilità rinunciato alle sue pretese (a quel che consta senza sostanziali contropartite, salvo forse quella -prospettata si dice all’interlocutore dal nostro Presidente del Consiglio – di un futuro ingresso di FIDESZ nel gruppo dei Conservatori e Riformisti/ECR al Parlamento europeo) in assenza dell’opera di “moral suasion” portata avanti con ammirevole determinazione da Giorgia Meloni.

La sua è stata un’azione di convincimento il cui buon esito è stato senza dubbio agevolato dal buon rapporto – basato sulla stima reciproca e su una convergenza su rilevanti temi identitari- che il nostro Presidente del Consiglio ha in questi anni tenuto a mantenere con il suo omologo magiaro.
E questo, nonostante le ripetute sollecitazioni a rompere quel legame, come le viene richiesto reiteratamente dalle famiglie politiche europee più critiche nei confronti delle componenti “sovraniste” come quella di cui Orban e il suo partito sono espressione.

Un atteggiamento coraggioso e coerente, quello di Giorgia Meloni, che ha ora portato i suoi frutti nel superiore interesse dell’Unione Europea e del sostegno alla causa ucraina, in un momento per giunta di particolare delicatezza, nel quale Kiev stenta purtroppo da qualche tempo a ottenere risultati tangibili nella sua coraggiosa resistenza all’aggressione putiniana.
In un recente lucido editoriale sul “Corriere della Sera” Federico Fubini ha ben sintetizzato le lezioni di ordine più generale che si possono trarre dall’accaduto.
La prima è che gli Stati dell’Unione europea non di prima fascia – come appunto l’Ungheria – non possono resistere a oltranza alla massa critica di Germania, Francia e Italia e di tutti gli altri insieme.
La seconda e forse ancora più importante lezione, ha scritto Fubini,  “è che per i principali leader europei – Ursula von der Leyen, Olaf Scholz, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni – la sopravvivenza di un’Ucraina indipendente è ormai una questione esistenziale“.

Meglio di una parte dei rispettivi elettorati, i quattro politici più in vista del Continente, ha aggiunto l’editorialista “hanno compreso che una vittoria di Vladimir Putin metterebbe in dubbio il futuro stesso dell’Unione europea”.
In sostanza – ed è difficile non convenire – una “sconfitta dell’Ucraina diverrebbe ancora più devastante per le democrazie europee perché il Cremlino avrebbe così dimostrato che può prevalere contro oltre 230 miliardi di euro di aiuti finanziari e militari già forniti a Kiev dai suoi alleati”.

Di qui,  la valenza (ben più ampia del riassorbimento delle rimostranze del leader di un Paese riottoso) che riveste, da un lato , il venir meno del veto di Budapest al pacchetto di aiuti; dall’altro, il ruolo centrale svolto a tal fine dal nostro Presidente del Consiglio in raccordo con la Commissione Europea e i Capi di Stato e/o di governo di Francia e Germania.
Un’Italia dunque non solo credibile e apprezzata in ambito NATO – nonché attenta a salvaguardare un rapporto privilegiato con Washington chiunque sieda alla Casa Bianca – ma anche entrata ormai a far parte a pieno titolo della ristretta “cabina di regia” di un’Unione europea sempre più chiamata a far fronte a sfide globali.

È un‘Europa che, c’è da augurarsi, riesca quanto prima a dotarsi anche di un ”esercito comune“ e di quel Commissario Ue per la Difesa auspicato nella lettera comune indirizzata nei giorni scorsi ai cittadini europei da Tajani e Weber, figure di vertice del PPE, sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina e delle inquietanti ulteriori mire europee di Vladimir Putin, della guerra di Gaza e degli attacchi alle navi mercantili nel Mar Rosso a opera degli Houthi con la regia iraniana.

  1. La scommessa vinta in Albania

Il terzo sviluppo che il governo Meloni può portare a credito in questo inizio del 2024 è di diversa natura ma non per questo meno importante, toccando un aspetto cruciale come quello della gestione e controllo dei flussi migratori.
Davvero “tout se tient ” direbbero i nostri cugini d’oltralpe.

Si tratta della recente pronuncia con la quale la Corte Costituzionale albanese ha convalidato l’Accordo con l’Italia per la costruzione di due centri di accoglienza/rimpatrio nel Paese balcanico.
Per la massima magistratura del vicino Paese l’intesa Meloni- Rama dello scorso 6 novembre “non lede infatti l’integrità territoriale dell’Albania“.
E’ quanto si legge nel comunicato stampa dell’organo albanese che ha così rigettato le istanze di 30 deputati dell’opposizione e di varie ONG, che avevano richiesto e ottenuto la sospensione del processo di ratifica del protocollo che dovrà ora passare ( ma non si prevedono sorprese) al vaglio dei due Parlamenti.

La ricerca da parte di Giorgia Meloni di una risposta al problema dell’immigrazione illegale che veda il coinvolgimento dei nostri partner di area balcanica e nord-africana (vedasi il caso del noto accordo con la Tunisia ) fa cosi registrare un ulteriore passo avanti.
Passo avanti che vi è da sperare possa poco a poco portare a quell’ approccio globale al problema per il quale il nostro Presidente del Consiglio si sta adoperando sin dall’inizio del suo mandato in stretto raccordo, per quanto possibile, con le istanze comunitarie a cominciare dalla Commissione europea a guida von der Leyen.
E la sintonia, consolidatasi in queste ultime settimane, tra quest’ultima e Giorgia Meloni costituisce un altro dei tratti politicamente qualificanti dell’attuale momento politico a livello europeo, con verosimili ricadute sulle scelte non facili (per una pluralità di motivi) cui il nostro governo si troverà confrontato allorché si tratterà di rinnovare i vertici della stessa Commissione dopo le elezioni europee del prossimo giugno.

  1. C’è anche il Mar Rosso

A conferma del positivo momento che sta vivendo la nostra politica estera e della credibilità del nostro governo e Paese sulla scena internazionale vi è poi uno sviluppo più recente.

Mi riferisco al fatto che l’Unione Europea ha deciso di affidare proprio all’Italia il comando tattico, cioè la guida sul campo con un nostro Ammiraglio, della missione aeronavale nel Mar Rosso (che prenderà il via il 19 febbraio) per vigilare sul traffico marittimo messo in pericolo dagli attacchi missilistici con droni da parte degli Houthi .
Eravamo in lizza per la guida di “Aspides” con la Francia e la Grecia .
Alla fine l’abbiamo spuntata noi.

“Si tratta di un ulteriore riconoscimento – ha commentato il Ministro Crosetto – dell’impegno del governo e della Difesa e della competenza e professionalità della nostra Marina Militare “.
Alla scelta in parola non è poi estraneo, come ha opportunamente ricordato il vice-Presidente e Ministro Tajani, il fatto che il lancio della missione sia soprattutto il frutto di “un’iniziativa politica del nostro Paese che ha portato con sé Francia e Germania“.

La missione a guida italiana ( con proprie distinte regole di ingaggio, di natura squisitamente difensiva) affiancherà quella a guida anglo-americana “Prosperity Guardian” che da settimane si scontra con gli Houthi anche colpendo le loro basi in territorio yemenita.

Siamo dunque in presenza, è lecito dire, di una politica estera del nostro esecutivo articolata su vari e interconnessi versanti, innovativa nella scelta delle soluzioni ai problemi che di volta in voltasi pongono e sorretta da una apprezzabile visione d’insieme (quella che la stessa Giorgia Meloni ha più volte esplicitato anche in Aula) che ha fortemente contribuito, in questi mesi, a fare del nostro governo e della nostra Nazione un interlocutore ascoltato e credibile su entrambi i lati dell’Atlantico.
È una visione d’insieme che dovrebbe ora trovare nella nostra Presidenza del G7 un’ulteriore preziosa d’opportunità di esprimersi al meglio, al servizio dei valori dei quali l’Italia e l’Occidente tutto sono espressione.

Le crisi in atto e il G7 “italiano”

Sul terreno geo-politico, ma anche del confronto tra democrazie e autocrazie,  il 2024 si è aperto nel segno di una perdurante pluralità di crisi  (le cosiddette “poli-crisi”) che porranno a dura prova le diplomazie occidentali impegnate a disinnescarle con sforzi certo lodevoli ma con risultati non sempre all’altezza delle aspettative.

Sono crisi, per non citarne che alcune, che vanno dal serrato confronto in atto nell’Indo-Pacifico tra Cina e Stati Uniti con al centro la libertà di navigazione e il futuro della democrazia taiwanese ( la cui difesa non può non costituire una priorità per i nostri Paesi), all’irrisolta  questione ucraina  – con uno scontro tra l’aggressore russo e Kiyv che ha assunto ormai i caratteri di una vera e propria guerra di attrito – alla vicenda di Gaza con le forze israeliane impegnate nel tentativo di sradicare dalla Striscia, una volta per tutte, Hamas e movimenti affiliati e con un futuro per la Striscia (ma anche per la Cisgiordania e per lo “status” di Gerusalemme) tutto da definire.

Su tutti questi versanti il nostro Paese e il nostro governo (che sull’insieme dei dossier in parola si sta muovendo in maniera impeccabile) avrà modo e motivo di far sentire la propria voce in ambito europeo e alleato e, per molti versi, di indirizzare il dibattito. Potrà farlo – oltre che grazie alla credibilità acquisita sul piano internazionale dalla Presidente Meloni e dal suo esecutivo – in virtù della presidenza del G7 che l’Italia esercita dal primo gennaio di questo anno.

Ciò offrirà al nostro Paese l’opportunità di apportare per tutto il 2024 un contributo qualificante alla formazione degli indirizzi e delle scelte scelte delle principali economie occidentali (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti) su una varietà  di tematiche: da quelle legate al cambiamento climatico e all’impatto trasversale dell’Intelligenza Artificiale al rapporto con l’Africa e il cosiddetto Sud Globale, a partire dal ruolo dell’Italia nel  Mediterraneo allargato.

La presidenza del G7 ci consentirà in particolare (a partire dalla riunione dei ministri degli Esteri del G7 in programma a Capri dal 17 al 19 aprile in vista del vertice dei Capi di Stato e Governo a Borgo Egnazia in Puglia dal  13 al 15 giugno) di dare sostanza a quel nuovo, e non predatorio, approccio nei confronti dell’Africa caldeggiato dal nostro governo anche a livello europeo.

E’ un approccio che troverà espressione, a livello nazionale, col Piano Mattei di prossima presentazione ma il cui significato e obiettivi sono già stati a più riprese anticipati da Giorgia Meloni e dal Vice Presidente e Ministro Tajani. Non a caso proprio lo scorso anno l’Unione Africana è diventata un membro permanente del G20 grazie anche all’impulso italiano.

Giorgia Meloni si sta accuratamente preparando a esercitare la presidenza del G7, diventato ormai per così dire la “cabina di regia “ dell’Occidente globale. Lo sta facendo anche attraverso una serie di incontri internazionali ad alto livello che le permetteranno di aver approfonditi bilaterali sui principali temi geo-politici con i suoi omologhi di Paesi cruciali  non necessariamente membri del G7.

È in questo quadro che rientra, ad esempio,  la imminente visita in Turchia (la prima dal suo insediamento) per un colloquio a Istanbul con un interlocutore difficile ma imprescindibile, in primis sui temi medio-orientali, quale il Presidente Erdogan e quella di poco successiva a Tokio – probabilmente il 4 febbraio – per un incontro col suo omologo giapponese Fumio Kishida che segnerà anche il passaggio di consegne ufficiale tra i due paesi alla guida del G7.

 

Dalle due guerre al caso Taiwan

Non minore rilievo rivestiranno all’interno dell’ agenda della nostra  Presidenza laltri due dossier : 1)  la questione ucraina (e il nostro governo ha già fatto sapere di volere continuare a fare del G7, sempre in  raccordo con la NATO e la UE,  un forum di perdurante sostegno a un’ Ucraina   più che mai confrontata all’aggressione russa); 2) l’intricata vicenda  medio-orientale tornata di prepotente attualità dopo la feroce incursione di Hamas lo scorso 7 ottobre nel sud di Israele.

Il G7 ovviamente non ha poteri risolutivi in merito ma i Paesi membri hanno tutto l’interesse a cercare soluzioni per raffreddare la crisi nel più breve tempo possibile , consapevoli che solo un soluzione negoziata – come ripetutamente fatto valere dal nostro Governo – può porre le basi per una speranza di convivenza pacifica.

 

Su tale sfondo – e con riserva di tornare in altra occasione sulla guerra russo-ucraina e sulla questione Taiwan ( anche alla luce delle ricadute che sugli sviluppi della stessa non mancherà di produrre l’affermazione  dell’ ”indipendentista”  William Lai in occasione delle elezioni presidenziali nell’isola) – può essere utile in questa sede tentare di fare il punto sulla crisi di Gaza. Con riferimento, da un lato, alla prosecuzione delle operazioni sul terreno; dall’altro , alle  dinamiche che quanto sta avvenendo ha innescato a livello regionale.

Circa il primo aspetto appare evidente che gli appelli soprattutto americani (ma non solo) alla dirigenza israeliana a limitare nella massima misura possibile il numero delle vittime civili nell’azione di legittima difesa dalla minaccia terrorista  hanno, a oggi, solo in parte sortito gli effetti sperati nonostante la recente ulteriore tornata di incontri avuti da Blinken in Israele tra cui quello con lo stesso Netanyahu.

Non è detto però che questo non possa prossimamente avvenire, soprattutto nel nord della Striscia (dove le capacità operative di Hamas sono state considerevolmente depotenziate) con la sostituzione di azioni mirate di eliminazione dei leader del movimento terrorista – alcune peraltro già avvenute con successo – ai bombardamenti a tappeto tipici della prima fase della controffensiva israeliana.

E’ chiaro che da sviluppi in tal senso trarrebbe beneficio non solo la duramente provata popolazione civile palestinese nella Striscia ma anche l’immagine, a livello  internazionale, dello Stato ebraico: dato quest’ultimo che potrebbe rivelarsi decisivo allorché si tratterà, ad esempio, di coinvolgere nella definizione del futuro di quel territorio , ma forse anche nella gestione securitaria e amministrative di una Striscia finalmente sottratta al controllo di Hamas, gli Stati arabi moderati e forse ( oltre agli USA) altri soggetti quali l’Unione Europea.

Tali considerazioni (oltre alle pressioni americane in tal senso) non sono verosimilmente estranee all’anticipazione rilasciata la scorsa settimana  al “Wall Street Journal” dal Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant secondo le quali nella Striscia l’offensiva sta per cambiare passo, anche se solo nelle zone dove Hamas è già stata colpita duramente . Secondo quanto indicato da Gallant la “fase delle manovre intense “ si trasformerà infatti in “differenti tipi di operazioni speciali”

In pratica gli attacchi massicci con bombardamenti, carri armati e artiglieria dovrebbero essere a breve  sostituiti da azioni mirate contro le postazioni jihadiste , cercando  nella massima misura possibile di limitare i danni ai civili palestinesi.

Da un approccio più mirato delle IDF nel perseguimento dei propri obiettivi strategici potrebbe inoltre scaturire (nei tempi che si riveleranno necessari; e dunque con ogni probabilità non a breve) un relativo riassorbimento della tensione in Cisgiordania. Area nella quale – stando recenti sondaggi di autorevoli centri di ricerca – il sostegno ad Hamas da parte della locale popolazione palestinese sarebbe, dall’inizio delle operazioni israeliane nella Striscia a oggi, in  crescita .

È chiaro che un recupero di credibilità dell’ Autorità. Nazionale Palestinese/ANP nella West Bank (mentre il suo prestigio sembra  paradossalmente in  ascesa nella Striscia) ne accrescerebbe non poco il peso negoziale allorché si tratterà di ragionare con Israele e con gli altri soggetti regionali coinvolti a quali assetti futuri assetti promuovere – una volta auspicabilmente neutralizzata la variabile Hamas/Jihad Islamica – tanto nella Striscia quanto in Cisgiordania.

Il negoziato resterebbe naturalmente complesso con ostacoli a livello sia regionale che locale difficili da superare: a cominciare da quello del destino da riservare ai circa 500.000 coloni, e relativi insediamenti, in Cisgiordania  cui vanno aggiunti i più di 200.000 coloni a Gerusalemme est.

Ma un’ANP che si presentasse al tavolo con una ritrovata credibilità non potrebbe che essere di aiuto nel mettere a fuoco e dar  voce a istanze palestinesi sottratte al condizionamento delle frange più radicali . Frange che – vi è motivo di credere – continueranno a operare per il perseguimento dei propri traguardi anche nel caso di una messa fuori gioco, almeno a livello militare, di Hamas e alleati.

L’obiettivo cui da parte occidentale si continua a guardare in via prioritaria – fatti salvi i meccanismi che andranno comunque individuati per una gestione transitoria della Striscia nel post- Hamas – è quello di una soluzione, per quanto difficile e secondo taluni ormai superata dai fatti,  basata sulla formula dei “due popoli e due Stati”. La stessa – nella quale si riconosce anche il nostro Governo che si sta lodevolmente adoperando a tal fine – cui ha fatto riferimento il Pontefice nel suo recente discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede

Così Papa Francesco nella allocuzione di cui sopra: “Auspico che la Comunità internazionale percorra  con determinazione la soluzione dei due Stati , uno israeliano e uno palestinese, come pure di uno statuto speciale internazionale garantito per la città di Gerusalemme , affinché  israeliani e palestinesi possano finalmente vivere in pace e sicurezza”.

 

Crisi di Gaza e fattore Iran

Gli sviluppi di questi ultimi giorni (dall’uccisione da parte israeliana nella  periferia sud di Beirut, feudo di Hezbollah, del numero due di Hamas Saleh Arouri all’eliminazione, sempre per mano israeliana, di Wissam al Tawil comandante della unità di élite di Hezbollah all’attacco, questa volta da parte di Hezbollah,  con razzi lanciati dal Libano meridionale contro una base militare israeliana nel nord del paese)  confermano, ove mai ve ne fosse bisogno, che resta concreto il rischio di una regionalizzazione del confronto; regionalizzazione che secondo taluni sarebbe di fatto già in atto, anche se per il momento contenuta nelle sue dimensioni.

Nella stessa direzione di possibile regionalizzazione va il fatto, di portata strategica, che più di recente dallo Yemen i ribelli Houthi (filo- iraniani) hanno colpito con missili e droni decine di navi nel Mar Rosso, inducendo sempre più compagnie a sospendere il transito attraverso lo Stretto di Bab el Mandeb, da cui passa il 12% del commercio globale, e a circumnavigare invece l’Africa con correlato forte allungamento della rotta e aumento dei costi delle merci.

Una situazione, dunque, densa di incognite  (col rischio concreto di derive non controllabili) che trova nel duro confronto tra Israele e l’Iran degli Ayatollah il suo punto  focale.

Significative  in proposito  le parole che proprio all’Iran  rivolge sempre Yoav Gallant nel già citato colloquio con il “Wall Street Journal”: “Dovremmo permettere a Hamas, a Hezbollah e all’Iran di decidere come dobbiamo vivere in Israele? Non lo accettiamo. Noi stiamo combattendo contro un’alleanza, non contro un singolo nemico”.

L’Iran, aggiunge Gallant con formula rivelatrice dei timori di Tel Aviv, “sta costruendo una potenza militare intorno a noi, preparandosi a utilizzarla”. E non manca, nello stesso spirito,  un suo duro avvertimento alla principale pedina dell’Iran nella regione, Hezbollah: “Hanno visto cosa sta accadendo a Gaza, sanno che possiamo fare la stessa cosa a Beirut”.

A tale quadro di per sé già inquietante si aggiungono i giustificati timori di Israele e dei suoi alleati derivanti dall’accelerazione del programma di arricchimento dell’uranio in Iran, che sarebbe ormai vicino alla soglia per produrre la bomba.

La conferma è arrivata a fine dicembre dagli ispettori internazionali. Secondo stime di “intelligence” citate dal New York Times in un suo recente articolo sulla materia, l’Iran avrebbe oggi il carburante per almeno tre bombe atomiche; tutto questo nel momento più difficile nei rapporti dell’Iran con l’occidente dalla presa dell’Ambasciata americana nel 1979.

Il quadro è poi ulteriormente complicato dal fatto che mentre ai tempi dell’accordo sul nucleare di epoca Obama (2015) Cina e Russia appoggiavano gli Stati Uniti nel tentativo di contrastare le ambizioni nucleari degli Ayatollah, oggi la Russia importa droni Shaded dall’Iran per la guerra in Ucraina e sarebbe, si dice, in procinto di ricevere anche missili a corto raggio.

E certo non aiuta la notizia , diffusa dalle Forze di Difesa israeliane /IDF, che Hamas avrebbe appreso proprio dagli iraniani le tecniche di sviluppo dei missili da crociera.

In un contesto così denso di condizionamenti della più diversa natura è ovviamente difficile formulare previsioni attendibili sulle possibilità di “regionalizzazione” del conflitto in atto  nella Striscia di Gaza e di quello, correlato, che vede confrontarsi sinora ,senza che si sia superata la soglia di guardia , Israele e Hezbollah.

Le previsioni della maggioranza degli analisti sono nel senso che né l’Iran né gli Stati Uniti (con un  Biden impegnato in una difficile campagna per la rielezione) abbiano allo stato interesse a un confronto diretto. Tutto potrebbe però anche repentinamente cambiare per esempio nel caso di massimi attacchi di Hezbollah contro obiettivi civili e/o militari israeliani o, ancora, un ulteriore avvicinamento dell’Iran al livello di soglia per la produzione dell’atomica.

Scenario quest’ultimo che figure di vertice della dirigenza dello Stato ebraico  (anche in ambienti non riconducibili al partito Likud ) hanno a più riprese dichiarato di ritenere inaccettabile in quanto “minaccia esistenziale” per Israele. Non si può infatti escludere, almeno in via di principio, che con un Iran alla soglia dell’atomica  (un Iran pericoloso e giustamente definito da Federico Rampini in un suo recente editoriale “ la cabina di regia del caos “) Israele possa essere tentato di giocare d’anticipo con un attacco mirato agli impianti nucleari di quel Paese .

Difficilmente, si osserva, gli Stati Uniti potrebbero esimersi dal prestare sostegno all’alleato israeliano a fronte della prevedibile ritorsione iraniana. A quel punto un allargamento all’intera regione del conflitto in atto diverrebbe scenario pressoché inevitabile con una probabile entrata in campo anche della Federazione Russa oggi, come sopra accennato, legata al cinico regime iraniano – maestro delle “guerre per procura” – da una molteplicità di interessi.

Ovviamente tutto andrà fatto per scongiurare il rischio che tali prospettive prendano corpo e anche sotto tale profilo il 2024 potrebbe rivelarsi anno cruciale. Un anno nel quale il nostro governo e la nostra diplomazia saranno chiamati a dare il meglio di sé tanto in ambito bilaterale, europeo ed atlantico quanto nella veste di Presidenza in esercizio del G7.

Come sopra accennato le premesse perché ciò possa avvenire – e questo è unanime auspicio della nostra Fondazione e dei lettori di “Charta Minuta”- ci sono tutte .

 

Essenziale il dialogo con gli USA

 

Ne è prova, da ultimo, la  sintonia registratasi tra Italia e Stati Uniti su tutti i principali dossier internazionali -nel segno di una condivisa volontà di difesa dei valori democratici  e di ritorno a un ordine internazionale basato sulle regole – nel corso della lunga conversazione telefonica che il Ministro Tajani ha avuto con l’omologo Blinken lo scorso 2 gennaio in occasione dell’assunzione, da parte italiana, appunto della  presidenza del G7.

Ulteriore conferma del costruttivo dialogo che, anche quale presidenza in esercizio del G7, stiamo intrattenendo con gli Stati Uniti è offerta dagli assidui contatti in essere tra lo stesso Blinken e Tajani con riferimento alla risposta da fornire ai più recenti attacchi da parte degli Houthi al naviglio commerciale diretto verso il Mediterraneo attraverso il Mar Rosso.

Da parte italiana, come ribadito dal nostro Ministro degli Esteri, si continua a lavorare per una “missione europea” di protezione del nostro traffico mercantile con proprie regole di ingaggio. Ma non si ritiene sussistano, almeno al momento, le condizioni per una nostra partecipazione a un intervento militare contro le basi della milizia sciita nello Yemen, come quello che ha trovato espressione lo scorso nei raid mirati anglo-americani contro le basi  in questione .

In sostanza il nostro governo – in doveroso raccordo su tutti i dossier geo-politici con il Quirinale- è convinto che la diplomazia, nella migliore accezione del termine, resti elemento centrale e decisivo per scongiurare una escalation della situazione, già molto critica, nella regione. E che una concertazione con il nostro principale alleato d’oltre oceano sia fondamentale a tale fine, pur nella legittima diversità di posizioni su taluni specifici aspetti ma con una convergenza sugli obiettivi strategici .

 

Il tutto nel segno di quell’Italia in prima linea, a testa alta anche sul versante del dialogo trans-atlantico che Washington apprezza e che la Presidente Meloni aveva indicato fin dal suo discorso di insediamento, come uno dei tratti qualificanti dell’approccio del governo da lei guidato. Ciò che è poi avvenuto e sta continuando ad accadere.

La crisi di Gaza e la “terza guerra mondiale a pezzi”

Sullo sfondo della perdurante tragedia ucraina per la quale una soluzione diplomatica continuaad apparire remota, gli orrori perpetrati da Hamas lo scorso 7 ottobre sul suolo israeliano a ridossodella Striscia di Gaza ( immagini di violenza al di là dell’immaginabile, difficili da dimenticare)hanno aggiunto un‘ulteriore nota di drammaticità a un quadro internazionale già denso nubi e dalleimplicazioni geo-politiche ramificate e, allo stato, solo in parte prevedibili.Un contesto geo-politico che, anche per le più o meno evidenti interconnessioni tra le diversearee di crisi, non può non far tornare alla mente quello scenario di “terza guerra mondialecombattuta a pezzi” profeticamente evocato da Papa Francesco.Non vi è dubbio che – anche senza parlare delle perduranti tensioni nell’Indo-Pacifico, il mondostia vivendo una delle sue fasi più cupe e pericolose dalla fine del secondo conflitto mondiale con ilriemergere di vecchie ferite ( come quelle legate al conflitto israelo-palestinese ) che eranoparse alla maggioranza delle dirigenze occidentali non più di stringente attualità eprogressivamente riassorbibili grazie a una modifica in senso positivo, che sembrava in atto, degliequilibri medio-orientali: dagli Accordi di Abramo a una possibile normalizzazione delle relazionitra Israele e l’ Arabia Saudita custode delle due Sacre Moschee.
Tutto questo sembra ora appartenere al passato, a fronte della lacerazione profonda di taliincoraggianti dinamiche come quella prodotta, appunto, dalla feroce incursione dei militanti diHamas nel territorio dello Stato ebraico lo scorso 7 ottobre. Un giorno già carico di simboli ,collocandosi a 50 anni esatti dall’inizio della guerra dello” Yom Kippur”, che più d’uno ha già definito l’11 settembre di Israele.Tanti interrogativi gravano sull’episodio: dai motivi all’origine dell’impreparazione mostrata nell’occasione dai solitamente efficienti apparati di sicurezza e di intelligence israeliani al grado di coinvolgimento nella preparazione e messa in atto del sanguinoso raid di attori regionali tutti appartenenti al cosiddetto “asse della Resistenza” , in primis la Repubblica Islamica di Iran e Hezbollah, al peso rivestito nella sottovalutazione del rischio-Hamas dal sordo contrasto da tempo in atto tra Netanyahu e settori importanti del “deep state” israeliano .

Hamas, metodo e follia

Occorre tentare di comprendere quali motivi possono avere indotto Hamas a un’operazione di tale natura proprio ora e con tali efferate modalità . E’ mia sensazione che il movimento islamista abbia inteso perseguire con la stessa tre principali obiettivi, verosimilmente d’intesa o su ordine ( troppo presto per dirlo ma non da escludere..) del suo grande sponsor regionale: l’Iran degli ayatollah, con la dirigenza di hezbollah che da Teheran strettamente dipende almeno per le scelte strategiche .Il primo motivo – come da più parti si è voluto sottolineare – è quello di far deragliare ilprocesso di graduale riavvicinamento tra Tel Aviv e Riad cui ho sopra accennato. Un positivosbocco di tale percorso diplomatico ( che la dirigenza del Regno sembra peraltro almeno a oggi,ed è dato positivo, avere deciso di congelare ma non definitivamente gettare alle ortiche ) avrebbeinfatti comportato un significativo rasserenamento del clima complessivo nella regione: concorrelato ridimensionamento degli spazi di manovra di un regime come quello iraniano, cheproprio nei contrasti tra Israele e il mondo arabo- musulmano ha trovato, dal 1978 a oggi,terreno fertile per portare avanti la propria opera di destabilizzazione in chiave anti-israeliana eanti-occidentale nell’area .L’arresto , auspicabilmente temporaneo, del processo in questione non può d’altra parte – rilevoper inciso – non risultare gradito a Mosca e Pechino: vale a dire altre due componenti chiave, conl’Iran di Khamenei, del fronte delle autocrazie. Nel primo caso, per i vantaggi oggettivi che ilCremlino può sperare di trarre dall’apertura per Washington di un “secondo fronte “ mediorentale proprio nel momento in cui la compattezza nel sostegno in seno al Congresso all’Ucrainaaggredita comincia a mostrare qualche segno di cedimento.Nel caso della Repubblica Popolare cinese, per il colpo di freno che il ritorno di un clima direlativa freddezza tra Tel Aviv e Riad inevitabilmente comporta per l’avanzamento di quel progettodi collegamento multi-modale tra l’India, il Mediterraneo e l’Europa lanciato su iniziativa di Modial recente G20 di Delhi, con il sostegno del Presidente Meloni, quale efficace alternativa alla “ Viadella seta” così cara a Pechino.Progetto alternativo di collegamento tra l’Oriente e l’Europa ( la cosiddetta “Via del cotone”) cheavrebbe dovuto trovare proprio in uno Stato ebraico finalmente in pace con la potenza sauditauno dei principali snodi operativi e logistici.Il secondo motivo sta nell’obiettivo perseguito da Hamas con il suo devastante attacco a Israele: accreditarsi come unico credibile rappresentante della causa della Palestina in seno alla laceratadirigenza palestinese, a tutto scapito di una Autorità Nazionale Palestinese ( ANP) da relegare(nella visione di Hamas) alla Cisgiordania e già da tempo oggetto di una pesante campagna didelegittimazione a opera dei movimenti palestinesi più radicali: dalla “ Jihad islamica” allo stessoHamas.Il terzo motivo nella strategia di Hamas mi sembra essere quello di una delegittimazione agli occhi delle masse islamiche (dall’Indonesia, al Marocco alla stessa Turchia ) delle dirigenze arabe moderate. In un’ottica di radicalizzazione dello scontro con lo Stato ebraicoe i suoi alleati occidentali funzionale non tanto agli interessi della causa palestinese – dellaqualche ritengo che la dirigenza di Hamas poco si curi se non in chiave strumentale – quanto,piuttosto, a quelli della Fratellanza mussulmana della quale Hamas è comunque una costola edella teocrazia sciita iraniana .Né prova tra l’altro l’ondata di assalti registratasi in questi giorni alle rappresentanze diplomatiche israeliane e /o americane in vari Paesi dello scacchiere medio-orientale ( dal Libanoalla Giordania), ancor più dopo l’asserito bombardamento da parte israeliana ( è la tesi checontinuano a sostenere Hamas e affiliati ) del Baptist Hospital di Gaza City , nonostante le proveche stanno affiorando da fonti attendibili di una esclusiva responsabilità della jihad islamica perl’accaduto.

Gli sforzi diplomatici

Gli sviluppi di queste ultime ore confermano la gravità del momento.E’ gravità testimoniata a livello politico, in primo luogo, dalla densa visita a Tel Aviv lo scorso18 ottobre, con rilevanti risvolti simbolici, dello stesso Biden con tre principali obiettivi in buonaparte parte raggiunti: 1) quello di confermare il forte e trasversale sostegno di Washington alloStato ebraico in uno dei momenti più drammatici (se non il più drammatico) della sua storia; 2) quello di convincere Netanyahu ( amico di vecchia data del Presidente statunitense anche se conmomenti di rapporti difficili) a porre in essere una reazione alle atrocità commesse da Hamas inlinea con il diritto bellico e umanitario e, soprattutto, a non avventurarsi in una nuova occupazionedi Gaza; 3) quello di ottenere , ciò che è poi avvenuto ma non era scontato prima dell’arrivo diBiden , una disponibilità di Netanyahu a garantire infine l’accesso dall’Egitto via valico di Rafah diassistenza umanitaria per la popolazione di Gaza : da tenere ben distinta – come il Presidente USAha opportunamente tenuto a sottolineare – dai terroristi di Hamas e Jihad islamica .Altrettanto rivelatore è poi il discorso alla Nazione tenuto, on tutta la “gravitas” del caso, dalPresidente Biden dallo Studio Ovale al suo rientro a Washington.L’allocuzione gli ha consentito , in un accorto equilibrio, di ribadire i punti qualificanti dellaposizione sua e della sua Amministrazione: dalla certezza che sia ormai in atto un alleanzaoggettiva in chiave anti-americana e anti-occidentale tra Putin e Hamas in quello che definito “asse del male” ( “vogliono annientare le democrazie. Hamas e Putin rappresentano minaccedifferenti ma hanno questo in comune”) al convincimento che, su tale sfondo, gli Stati Unitisiano oggi più che mai la “the indispensable Nation“; alla necessità di “battere ogni strada perriportare a casa gli ostaggi ( tra i quali, si dice, tra i 10 e i 12 americani con la doppia nazionalità);e di assistere in ogni modo possibile la popolazione palestinese vittima essa stessa di Hamas ; all’esigenza che Israele reagisca in maniera proporzionata e compatibile col dirittointernazionale umanitario ( “ non possiamo essere come i terroristi”); da ultimo all’esigenza , dasempre a lui cara, di tenere viva nonostante le apparentemente insuperabili difficoltà del momentola soluzione dei “due popoli, due Stati”.In piena sintonia, merita rilevare, anche su tale ultimo aspetto con quanto auspicato nei giorniscorsi a chiare lettere – e con accenti di forte vicinanza non solo a Israele ma anche allesofferenze del popolo palestinese – dal Presidente Meloni al Consiglio europeo straordinario e dalMinistro Tajani in una recente intervista , nonché dallo stesso Segretario di Stato vaticano,Cardinale Parolin “ ( “ è la soluzione prevista dalla Comunità internazionale . Ultimamente èsembrata ad alcuni , sia da una parte che dall’altra, non più realizzabile . Per altri non lo è maistata. La Santa Sede è convinta del contrario e continua a sostenerla”).

Gestire la crisi

Non può stupire che in situazione fluida come quella sopradescritta ( e col rischio concreto diun’entrata in campo a supporto di Hamas delle milizie hezbollah , ciò che obbligherebbe ladirigenza israeliana a distribuire le proprie forze di difesa/ IDF tra il fronte sud , quello di Gaza, e ilfronte libanese a nord) la diplomazia internazionale – Stati Uniti in primis – si sia immediatamente attivata ai più alti livelli per impedire che la crisi assuma contorni ancora più larghi potenzialmente ingestibili, specie ove le dinamiche di azione- reazione dovessero finire col coinvolgere lo stesso Iran.Un Iran dalla postura aggressiva come testimoniato tra l’altro da recenti dichiarazioni di quelMinistro degli Esteri, Hossein Amir – Abdollaian, al termine delle sue visite nei Paesi dell’areapoliticamente più vicini a Teheran ( Iraq, Siria e Libano). Dichiarazioni secondo le quali seHezbollah si unisce allo scontro “questo costituirà un enorme terremoto per Israele”.Non è del resto un caso che, proprio in concomitanza con il citato attivismo iraniano, la CasaBianca abbia deciso il rischieramento al largo delle coste israeliane delle porterei Ford eEisenhower, affiancate dai rispettivi gruppi navali in una chiara logica di deterrenza nei confronti dimosse avventate da parte del regime degli ayatollah.E’ quanto ha del resto detto a chiare lettere Blinken nel corso del suo denso periplo nella regioneall’indomani dell’incursione di Hamas: Israele (per rassicurare quella dirigenza sull’incrollabilesostegno di Washington pur accompagnato da un fermo invito alla dirigenza israeliana a unareazione in linea con il diritto bellico e a lasciar passare dal valico di Rafah gli aiuti umanitari)Arabia Saudita, Qatar, Giordania , Bahrein , Egitto ed EAU . Il dispiegamento nella regione deinostri due più grandi gruppi di battaglia per portaerei, ha dichiarato il Segretario di Stato-,“ non èinteso come una provocazione (ndr: nei confronti di Teheran) è inteso come un deterrente “. Enessuno, ha aggiunto con riferimento a possibili iniziative di hezbollah a partire dal sud del Libano,“dovrebbe far nulla che possa aggiungere carburante al fuoco in nessun altro posto”.L’obiettivo americano è chiaro: bloccare l’”escalation” prima cha la crisi possa generare unterremoto in tutto il Medio Oriente. Anche se i risultati si sono rivelati purtroppo, almeno sinora ,inferiori alle aspettative visto che la posizione dei Paesi arabi visitati ha mostrato non pochediscrepanze con quella segnata nell’agenda statunitense. C’è chi ha definito la visita di Blinken (lui stesso di religione ebraica) “missione impossibile” dovendo tra l’altro convincere gli alleati delGolfo a non criticare lo Stato ebraico mentre questi gli chiedono di frenare Israele e arrivare a uncessate il fuoco. Tutto questo accade mentre Mosca sta tentando di posizionarsi comeleader del movimento contro il “neocolonialismo” pur apparendo anche Putin preoccupato dellapossibile estensione del conflitto israelo-palestinese ad altri fronti come , stando a fonti stampa,emergerebbe dall’intensa serie di telefonate da lui avuta in questi giorni con vari leader dellaregione: dall’egiziano Al Sisi, al siriano Assad, all’iraniano Raisi al leader dell’Autorità palestineseAbu Mazen.

Gli sforzi italiani

In questo quadro così confuso e per molti versi drammatico il nostro Governo si sta muovendo bene.L’ immediata forte vicinanza a Israele e al suo popolo, cosi come il chiaro riconoscimento del suodiritto a difendersi, manifestata da Giorgia Meloni nel corso del suo colloquio telefonico conNetanyahu, è stata infatti seguita il 10 ottobre dalla partecipazione della stessa Meloni allariunione “virtuale” in formato Quint ( Stati Uniti, Italia, Regno Unito, Francia , Germania ) promossa da Biden . La riunione si è conclusa con una Dichiarazione congiunta di appoggio a Israele e al suo diritto all’autodifesa nonché di forte condanna del terrorismo di Hamas che i leader hanno opportunamente tenuto a ben distinguere dalle “legittime aspirazioni del popolo palestinese”precisandosi che Hamas non le rappresenta offrendo ai palestinesi “null’altro che terrore esangue”.La partecipazione di Giorgia Meloni al vertice Quint – in un contesto per giunta così grave edenso di incognite – conferma infatti, seppur ve ne fosse bisogno, la credibilità goduta dal nostroPresidente del Consiglio e dal nostro esecutivo a livello internazionale con buona pace di quantiperiodicamente la pongono in dubbio.La coerenza dell’azione del nostro governo ha poi trovato ulteriore espressione nella pressochécontestuale visita nella regione ( Egitto , Israele , Giordania e poi Tunisia ) del Ministro Tajani inun’ottica volta , da un lato, a ribadire ai suoi interlocutori israeliani il messaggio di solidarietàveicolato da Giorgia Meloni al premier Netanyahu; dall’altro, a contribuire – con tutto il peso e ilprestigio di cui gode il nostro Paese nell’area- agli sforzi internazionali per la liberazione degliostaggi, la de-escalation del conflitto , il sostegno alla popolazione civile palestinese e perpervenire più in generale a una stabilizzazione dell’area.Il tutto in una cornice concettuale che Tajani ha voluto ben precisare in una sua recente intervistaal Messaggero della quale credo meriti riportare il passaggio saliente: “ stare , come l’Italia, conIsraele non significa essere contro la Palestina o il popolo palestinese. Anzi loro sono vittime diHamas , che li usa come scudi umani: Israele ha detto loro di uscire, i terroristi impongono direstare . Noi diciamo no al terrorismo, alla malvagità , alle immagini raccapriccianti che abbiamovisto. Ma ovviamente siamo al lavoro per arrivare a una stabilizzazione definitiva dell’area delMedio Oriente”.Se questa è allo stato, e a grandi linee, la cornice entro la quale si sta muovendo la diplomaziainternazionale più difficile appare prevedere quali sviluppi potranno verificarsi sul terreno nei giornia venire, in una fase nella quale non è ancora chiaro se e quando Israele lancerà la più volteannunziata offensiva di terra . E quali conseguenze tale offensiva potrà innescare tanto a Gaza,così fittamente popolata con cunicoli e tunnel dalle ramificazioni ben conosciute dai militanti diHamas, quanto nelle aree a ridosso di Israele .

Riflettori su Iran e Siria

Sotto tale profilo individuo, in prospettiva, due ordini di problemi.Il primo è quello delle quasi certe reazioni che un’operazione di terra a Gaza comporterebbe daparte degli sponsor di Hamas nella regione: Iran in primis o direttamente ( con un suo attaccomissilistico a Israele ma mi sembra poco probabile) o iniziative mirate a opera di Hezbollah -grazie al suo vasto e diversificato arsenale ben più imponente di quello di Hamas – contro obiettivinel nord di Israele ( e già si sono registrate inquietanti avvisaglie ) se non contro la stessa Tel Avivalla portata, almeno stando ai dirigenti di hezbollah, dei missili della milizia sciita.Ma da monitorare attentamente credo sia anche il quadrante siriano , in particolare le zone delPaese a ridosso delle strategiche alture del Golan, occupate da Israele nel 1967 ( al termine della“guerra dei Sei Giorni” ) e “annesse” dallo Stato ebraico nel 1981. In Siria il regime degli Ayatollahpuò infatti contare sulla perdurante lealtà di Bachar Assad e del suo regime così come sull’ormaisolido radicamento e libertà di manovra del “Partito di Dio “ ( appunto hezbollah) nelle zone aridosso del Golan che la formazione sciita potrebbe tentare , su richiesta iraniana, di strappare aIsraele con Damasco già pronta a rivendicarne nuovamente il possesso.Problemi seri di gestione dell’ordine pubblico potrebbero però scaturire per Israele daun’eventuale operazione di terra anche in Cisgiordania e nella parte araba di Gerusalemme , connon impossibili azioni violente contro i “coloni” e le forze di sicurezza israeliane da parte dellacomponente palestinese e , in taluni casi, arabo-israeliana. Ne deriverebbe tra l’altro la necessitàper Tel Aviv di rischierare parte delle IDF appunto in Cisgiordania ( oltre che, per i motivi di cui alprecedente paragrafo, nel nord e nord-est del Paese) con conseguente riduzione delle forzemobilizzabili per giungere alla eradicazione di Hamas e delle decine di migliaia di suoi combattenti.

Il futuro di Gaza

Il secondo ordine di problemi , dando per certa un’operazione di terra e qualora essa abbia abbiasuccesso, è come gestire Gaza “il giorno dopo” .Poco plausibile apparendomi una nuova diretta presa di controllo e gestione della Striscia daparte di Tel Aviv, sia alla luce delle pregresse esperienze in materia che dell’appello ad astenersida una scelta di tale natura rivolto da Biden e da Blinken ai loro interlocutori israeliani.Sarà certamente necessario un periodo di raffreddamento delle tensioni , prima di ritornare allapresa in esame, se mai ciò avverrà, di una soluzione politica equa e sostenibile nel lungo periodocome quella sin d’ora apertamente auspicata da Giorgia Meloni e da Antonio Tajani oltre che dallaCasa Bianca e altre capitali occidentali.Le ipotesi allo studio per tale fase di “decantazione”/stabilizzazione sono molteplici e in partesovrapponibili. Esse vanno dall’idea di dar vita per Gaza ( impresa che appare invero ardua) a un“protettorato “ sotto egida onusiana sulla falsariga del modello a suo tempo adottato per il Kossovo, fino al dispiegamento nella Striscia di una forza composta per lo più di Paesi arabi ( è quantoprospettato tra gli altri dall’ex Primo Ministro Ehud Barak, il cui peso è ancora di un certo livelloall’interno dell’establishment israeliano ) in grado di cedere a termine il controllo della Strisciaall’ANP di Abou Mazen ( “ è un’idea bella a anche se non so se fattibile”, ha dichiarato Barak alquotidiano “El Pais”) ; alla costituzione di una “coalizione di volenterosi” – del genere di quellamessa in piedi dalla Comunità internazionale in Afghanistan dopo l’11 settembre – che riunisca adesempio USA, UE, Arabia Saudita e Autorità Nazionale palestinese ( è quanto prospetto, adesempio, dallo storico israeliano Yuval Noha Harari).E’ chiaro che si tratta solo di ipotesi da vagliare , quando sarà, alla prova dei fatti.Ipotesi certo ragionevoli per una via di uscita politica al dramma in atto – e il conseguente rilanciodi formule come quella dei “due popoli, due Stati” che potrebbe però difficilmente prescindere ,secondo la maggioranza degli analisti, da un ricambio ai vertici sia in seno a Israele che allaAutorità Nazionale palestinese .

Il rischio piu’ grande

Tutte tale ipotesi verrebbero naturalmente a cadere – per lasciare spazio a scenari imprevedibilie ancora più inquietanti- ove lo scontro in atto tra Israele e Hamas dovesse, per qualsiasi motivo,finire col coinvolgere altri attori di peso della regione e non solo.Attori quali la già citata Repubblica Islamica di Iran, gli Stati Uniti e la stessa Russia di Putindella quale a nessuno sfuggono gli stretti legami sviluppati con Teheran in relazione al conflitto inUcraina nel segno di una comune avversione all’Occidente e ai valori di cui i nostri Paesi sonoespressione . Senza dimenticare la “variabile” Turchia: Paese membro della NATO e con unesercito potente ma con una opinione pubblica in larga maggioranza sensibile alle ragioni diHamas . E un Presidente , Recep Tayyp Erdogan, spintosi ad accusare Israele di star “rasentandoil genocidio” con le operazioni avviate nella Striscia di Gaza e che notoriamente aspira alla“leadership” del mondo sunnita anche cavalcando , con spregiudicatezza se non cinismo , lacausa palestinese .E’ su tale complesso e mutevole sfondo che si è svolta al Cairo la Conferenzaper la Pace promossa dal Presidente egiziano Al Sisi. Un appuntamento – al quale haopportunamente partecipato Giorgia Meloni, tra i pochi leader europei presente con gliomologhi di Grecia e Spagna e del Presidente del Consiglio europeo Charles Michel – conclusosicome era nelle previsioni senza una Dichiarazione finale .Troppo grandi le distanze tra i Paesi europei e i Paesi arabi partecipanti. : dallo stesso Egitto alla Giordania presente col re Abdullah, al Sultano dell’Oman, allo stesso AbouMazen. Un vertice , in sostanza , delle buone intenzioni. Grandi assenti Israele e l’Iran e con gli USA rappresentati soltanto dall’Incaricato d’affaridell’ambasciata , il che ha ulteriormente indebolito le possibilità di una reale svolta diplomatica .Presenti comunque anche Russia e Cina: per la prima il viceministro degli Esteri; per Pechinol’inviato per il Medio-Oriente.Il nostro Presidente del Consiglio – che ha avuto al Cairo due bilaterali, una con Al Sisi e una conAbou Mazen- ha tenuto a veicolare due importanti messaggi in sintonia con quelli trasmessi aivertici israeliani dal Presidente Biden in occasione della sua recente visita a Tel Aviv.Il primo: obiettivo di Hamas era il processo di normalizzazione di alcuni Paesi arabi con Israele. Hamas non difende la causa palestinese ma la “jiyhad” islamica , vogliono creare uno scontro diciviltà , ma non lo deve diventare perché non lo è. Il secondo: Israele è pienamente legittimatoalla sua esistenza e alla difesa dei confini ma la reazione non può mai essere motivata dasentimenti di vendetta , dove fondarsi su ragioni di sicurezza , commisurando la sua forza etutelando la popolazione civile.
Lo stesso messaggio ha tenuto ha trasmettere nel corso della sua successiva tappa a Tel Aviv (dove ha avuto una conversazione telefonica col presidente Herzog e un incontro di quasi un’oracon Netanyhau) con una significativa postilla : “Occorre lavorare per scongiurare una guerra direligione, per un’iniziativa politica che contempli la soluzione di due popoli e due Stati, con unatempistica definita e concreta, perché i palestinesi hanno diritto a uno Stato e a governarsi da soliin libertà e gli israeliani hanno diritto all’esistenza e all sicurezza”.Nessuno può ptevedere che piega prenderanno gli eventi nei prossimi giorni, se nonnelle prossime ore…., tante essendo le variabili in gioco. Si può solo sperare (“spes contraspem” avrebbe detto Paolo di Tarso) che il sottile filo di dialogo tra l’Occidente, del quale Israele apiù di un titolo è parte, e il mondo arabo moderato non si spezzi e che possano prima o poiricrearsi le condizioni perché il percorso politico-diplomatico delineato dal nostro Presidente delConsiglio possa ritrovare linfa e ragione di esistere.

Meloni alla Casa Bianca Un meritato coronamento

La tanto attesa visita a Washington di Giorgia Meloni, su invito del Presidente Biden, ha infine avuto luogo lo scorso 27 luglio . Si è trattato di missione importante preparata con particolare cura dai rispettivi staff. Al di là dei contenuti dei colloqui sui singoli punti con i suoi autorevoli interlocutori d’oltre-oceano (dal Presidente Biden appunto ai “leader” di maggioranza, rispettivamente repubblicana e democratica, di Camera e Senato) la visita rappresenta il suggello delle scelte di politica estera compiute dal nostro Presidente del Consiglio e dal suo governo dall’ insediamento a oggi.

Si tratta di scelte visibilmente apprezzate dalla Casa Bianca, dal Congresso e, più in generale, dall’establishment statunitense. E non vi è dubbio che Giorgia Meloni abbia saputo toccare corde sensibili dell’animo dei suoi interlocutori come quando – in risposta alle lusinghiere parole nei suoi confronti del leader della maggioranza repubblicana alla Camera, Kevin McCarthy – ha definito il Congresso “il tempio delle democrazia”. Ha ripreso anche, in altro contesto , la definizione della compianta Oriana Fallaci dell’America come “nazione speciale perché nata dall’idea più sublime: quella di libertà sposata con l’idea di eguaglianza”.

La nostra Premier ha ottenuto un apprezzamento tutt’altro che scontato da parte di un’Amministrazione a guida democratica il cui senso è stato ben sintetizzato dall’ambasciatore Volker (diplomatico, già rappresentante del suo paese alla NATO, che gode di stima “bipartisan” ) nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera subito dopo la conclusione della visita. Mi sembra utile riportarne per esteso , a beneficio dei lettori di Charta Minuta, il passaggio saliente: “A Washington c’era un po’ di preoccupazione quando si formò il governo Meloni: c’era il timore che sarebbe stato un governo di estrema destra, che il suo partito arrivasse da una tradizione post-fascista, che potesse simpatizzare con Putin, che avrebbe distanziato l’Italia dalla politica occidentale sulla Cina, sull’Ucraina e così via.

E’ successo il contrario: Meloni ha rafforzato la NATO e il ruolo dell’Italia nella NATO, è stata costruttiva nel lavorare con altri partner del G7, l’Italia ha politiche molto forti nell’appoggio all’Ucraina, ha dato pieno appoggio alle sanzioni contro la Russia, ha gli occhi aperti sulla Cina, non corre nelle braccia di Pechino a spese degli Stati Uniti.

Tutto questo è stato ricevuto molto positivamente a Washington. C’è la sensazione dell’Amministrazione che la Presidente Meloni è qualcuno con cui si può lavorare”. A conferma del clima particolarmente positivo che ha caratterizzato l’insieme dei colloqui anche la durata ( più di un’ora) del faccia a faccia con Biden e il riconoscimento esplicito, da parte del Presidente americano, del fatto che Giorgia Meloni “ è una partner affidabile, capace di una leadership importante per noi americani”. I temi trattati Nel merito l’incontro con Biden, a quanto è dato sapere, ha offerto l’opportunità di passare in rassegna tutte le tematiche di natura geo-politica (ma vi è stato ovviamente modo per i due leader di soffermarsi anche su quelle di valenza più strettamente bilaterale, a cominciare da un interscambio in costante crescita con un ormai storico eccedente per la parte italiana ) intorno alle quali si articola oggi il forte partenariato tra Italia e Stati Uniti.

In primo luogo, i contenuti del G7, che sono sempre più la vera cabina di regia del cosiddetto “Occidente globale”, che spetterà al nostro Paese organizzare il prossimo anno quale presidenza di turno. Si tratta di appuntamento cui , come noto, la Casa Bianca guarda con forti aspettative e marcata attenzione e i cui contenuti verranno condivisi e valutati insieme da Roma e Washington passo dopo passo. Nel comune convincimento che uno spazio particolare dovrà essere riservato al sud del mondo: area cruciale per la tutela dei nostri interessi che non può essere abbandonata ai tentativi penetrazione dell’asse autocratico russo-cinese.

In secondo luogo, lo stato e le prospettive della guerra lanciata contro l’Ucraina dalla Russia di Putin: con una Casa Bianca che sa di avere nel nostro Paese e nell’esecutivo Meloni un alleato di prima fascia nel contrasto senza ambiguità all’aggressività del Cremlino e nel sostegno all’Ucraina aggredita.

E’ certamente anche questo che ha indotto Biden a sottolineare, a margine del colloquio, che “i rapporti tra Italia e Stati Uniti restano solidi al di là dei colori politici“ e il fatto – giustamente considerato da Washington elemento cruciale – che “ dopo l’aggressione russa all’Ucraina Italia e Stati Uniti hanno deciso entrambi di difendere il diritto internazionale“. In terzo luogo, l’Africa e le sue problematiche ancora una volta con un’amministrazione Biden e, più in generale, con un “establishment” statunitense che conoscono e apprezzano quanto l’Italia sta facendo (da ultimo con il decisivo contributo alle iniziative UE per evitare il collasso della Tunisia di Saied e con la conferenza internazionale su migrazione e sviluppo tenutasi nei giorni scorsi alla Farnesina) per costruire un nuova relazione con l’Africa.

Una nuova relazione su basi non egemoniche – per usare una felice espressione della stessa Meloni – che consenta, da un lato, di contenere le citate mire di Mosca e Pechino; dall’altro, di combattere l’immigrazione illegale. E non è certo un caso se Biden idea si è voluto spingere sino a un esplicito apprezzamento, con quella che è parsa ai più una implicita promessa di sostegno anche finanziario, “ per il lavoro eccellente, sorprendente che il governo italiano sta svolgendo nel Mediterraneo e verso l’Africa”. Non è dato sapere se nel colloquio della Presidente Meloni con Biden, improntato a una visibile cordialità, vi sia stato spazio anche per uno scambio di vedute sulla situazione in Niger: l’ultima democrazia dell’area sub-sahariana (il Niger è per giunta ricco di uranio) a cadere nei giorni scorsi in mano ai militari con la rimozione del filo-occidentale e democraticamente eletto Presidente Bazoum. Ma – a prescindere dal fatto che il tema sia stato o meno evocato – si tratta di sviluppo inquietante che ancor più legittima le nostre preoccupazioni per un’Africa sempre più esposta alle manovre di destabilizzazione di Mosca (destabilizzazione che l’accordo sul grano non rinnovato da Vladimir Putin non mancherà di acuire) in un’area che è vero e proprio crocevia nei flussi migratori verso il Mediterraneo. La questione cinese Da ultimo (last but not least…) la postura verso la Repubblica Popolare Cinese e il tema dell’investimento nelle catene industriali “strategiche” indispensabili per far riacquistare all’Occidente nel suo complesso un’autonomia che, nel corso degli ultimi anni si è persa in omaggio a una globalizzazione non regolata.

E che (cosa di cui l’Occidente si è purtroppo accorto con colpevole ritardo) troppo spazio ha lasciato alle spregiudicate manovre di Pechino fatte anche di massicci aiuti di stato oltre che di dumping sociale e ambientale. Tre mi sembrano, sulla base di quanto a oggi noto, gli elementi salienti emersi dal colloquio alla Casa Bianca con riferimento alla questione Cina ( che è stata peraltro dai due leader evocata , nei contatti con la stampa, solo in maniera indiretta probabilmente per non irritare oltre misura Pechino oggetto, nel corso di queste ultime settimane, di diverse seppur non troppo pubblicizzate visite ad alto livello da parte statunitense) : 1) la conferma della percezione americana – pur nel dichiarato rispetto delle decisioni che il nostro esecutivo sarà chiamato ad adottare entro la fine dell’anno , qualunque esse siano – che il governo italiano stia prendendo in seria considerazione le inquietudini di Washington per un nostro eventuale rinnovo del memorandum italo-cinese del 2019 sulla Vita della Seta. Percezione che l’influente leader della minoranza repubblicana al Senato Mitch McConnell aveva così riassunto alla vigilia: “ siamo incoraggiati dal fatto che il governo italiano stia sciogliendo il suo coinvolgimento nella cosiddetta Via della Seta” , definendo lo sviluppo in parola “un’altra indicazione del fatto che gli alleati europei stanno adottando provvedimenti per proteggersi dalla coercizione economica della Cina”; 2) la non scontata disponibilità americana, – frutto verosimilmente degli intensi scambi di vedute in materia tra la Casa Bianca e Palazzo Chigi / Farnesina nel corso di questi ultimi mesi- a inquadrare la problematica in un contesto che va al di là del semplice prendere o lasciare .

E’ quanto ha lasciato intendere la stessa Presidente Meloni allorché, rivolgendosi alla stampa italiana a al seguito, ha osservato : “Con Biden abbiamo parlato anche della Via della Seta. Ma se voi immaginate che l’approccio degli USA sia chiedere o pretendere qualcosa dall’Italia, non è così. Si fidano dell’Italia , della nostra postura e quindi il ragionamento sui rapporti con la Cina è più ampio”. Mi sembra risultato per noi tutt’altro che irrilevante del quale va dato merito al Presidente Meloni e alla nostra diplomazia; 3) la apparente disponibilità americana a far rientrare nel citato ragionamento più ampio anche il tema di eventuali compensazioni da riconoscere all’Italia in caso di mancato rinnovo del Memorandum.

E’ in tale ambito che si colloca con ogni probabilità anche la aspettativa manifestata a più riprese dal nostro Presidente del Consiglio di uno sforzo maggiore da parte di Washington per la stabilizzazione dell’Africa, per esempio – ma non solo – spingendo l’FMI a sbloccare il noto prestito di 1,9 miliardi alla Tunisia in cambio delle riforme richieste a Saied anche sul terreno del rispetto dei diritti civili Sono tutte percezioni che dovranno, naturalmente, trovare conferma nei fatti ma è un dato di fatto che i colloqui nella capitale americana di Giorgia Meloni abbiano fornito un impulso importante, forse decisivo, alla rimessa in moto tra Roma e Washington di dinamiche di reciproco ascolto e attenzione dalle potenzialità più che promettenti ( che dovranno essere affinate, ai livelli appropriati, nei mesi a venire).

Quel che resta

In termini squisitamente politici, mi sento di dire che la visita a Washington ha rappresentato: 1. Un ulteriore successo dell’azione diplomatica ad ampio raggio portata avanti, sin dal momento della sua formazione nei più diversi scacchieri, dal dal nostro governo e dal nostro Presidente del Consiglio confermando al più alto livello la ritrovata autorevolezza del nostro Paese sulla scena internazionale; 2. Una ulteriore testimonianza del ruolo centrale che Giorgia Meloni (e i diversi Ministri di riferimento ) ha saputo ritagliarsi all’interno delle principali istanze nelle quali è chiamata ad esprimersi la comunità occidentale : dalle Nazioni Unite , alla NATO ( basti pensare al rilievo che siamo riusciti a conferire allo scacchiere mediterraneo e nord-africano in occasione dell’ultimo vertice dell’Alleanza), alla UE, al G7. Non possono dunque sorprendere le aspettative con le quali i nostri partner all’interno di tale ultima istanza guardano alla nostra ormai imminente presidenza e al vertice dei Capi di Stato e Governo G7 del prossimo anno. Vertice che spetterà proprio a Giorgia Meloni presiedere e indirizzare con una marcata attenzione, che possiamo sin d’ora dare per acquisita, alle tematiche del sud globale e alle sfide e opportunità che scaturiscono da tale scacchiere per noi decisamente cruciale

Ucraina Russia: cosa cambia dopo il “quasi golpe“

Il tentato golpe posto in essere lo scorso 23 Giugno da Yevgeny Prighozin e dai suoi miliziani ( da lui peraltro sempre definito nulla più che un “marcia della giustizia”, lanciata con il dichiarato obiettivo di scongiurare l’integrazione forzata della Wagner nelle forze regolari russe, con il conseguente paventato passaggio della stessa sotto il comando di quei vertici militari) ha confermato, una volta di più, la fondatezza dell’ aforisma di Churchill secondo il quale “ la Russia è un rebus avvolto in un mistero racchiuso in un enigma”.

Tali e tante sono infatti le chiavi di lettura che gli analisti, anche i più raffinati, hanno dato e continuano a dare dell’accaduto che nutrire certezze circa le cause, le dinamiche e le ricadute della vicenda sui rapporti di forza all’interno della Federazione Russa è dar prova quanto meno di presunzione .

Non a caso le letture della vicenda divergono: vari commentatori propendono per la tesi di un Putin indebolito altri lo vedono, piuttosto, uscire consolidato dall’esito del confronto mentre a me sembra trattarsi di un sostanziale “pareggio” se non appunto di un rafforzamento di Putin che ha retto la sfida e la cui popolarità resta alta a livello di russo medio .

Ciò non toglie che poco dopo l’avvio della marcia su Mosca dei “miliziani” lo zar Putin, nel suo appello alla popolazione, appariva turbato. Perché ovviamente una cosa è additare all’esecrazione collettiva il nemico “esterno” (ad esempio la vicina ”Ucraina in mano a una cricca di filo- nazisti”) ; ben altra, additare un nemico interno pur trattandosi, nel caso di specie, di soldati di ventura non privi peraltro di “appeal “ almeno per una parte del popolo russo come dimostrato dal tributo loro riservato dalla città di Rostov.

Come è stato osservato “le dodici ore che hanno condotto i ribelli, senza incontrare una vera resistenza , a duecento km dalla capitale restano ( e sono probabilmente destinate a restare) un esercizio da cruciverba“.

Dove abbia trovato riparo il “traditore” Prighozin , subito dopo lo stop alla sua “marcia della giustizia”, è ancora un arcano anche se il luogo più gettonato resta la Bielorussia del più fedele alleato di Putin. l’autocrate Lukashenko.

Ma permangono anche altri quesiti. Quali: i termini esatti dell’intesa intercorsa tra Lukashenko e Prighozin che ha portato al termine della sedizione; il ruolo svolto nella vicenda dai servizi segreti russi-FSB, dall’esercito regolare, dagli oligarchi, dallo stesso Lukashenko che aveva accolto la richiesta di aiuto di Putin affermando che “la rivolta della Wagner è un regalo all’Occidente, una provocazione davanti alla quale non possiamo restare indifferenti , saremo la voce della ragione in questi tempi così difficili”; il futuro dei nemici dichiarati di Prighozin: il Ministro della Difesa Shoigu e il Capo di Stato Maggior Gerasimov; la permanenza o meno della Wagner come principale “milizia privata” al servizio degli interessi russi sulla scena internazionale.

Difficile, su tale sfondo , non convenire con Ezio Mauro quando afferma che “dopo l’invasione dell’Ucraina e la sfida all’Occidente per Putin, dopo gli eventi del 23 giugno , si è aperto un terzo fronte: quello interno”. E tuttavia egli continua a mostrarsi sicuro di sé ( come testimoniato anche dal mantenimento nell’incarico di Shoigu la cui rimozione era stata una delle principali richieste di Prighozin per porre fine all’insurrezione) e convinto di poter a breve archiviare l’ammutinamento della Wagner come poco più di un incidente di percorso .

Contribuisce certamente a tale convincimento il rinnovato sostegno ricevuto nei giorni scorsi dai Capi di Stato dell’asse anti-occidentale , o comunque non allineati, riuniti un per il vertice virtuale della “Shangai Cooperation Iniziative” (SCO) ospitato dall’India. A cominciare dal cinese Xi Jinping che si è avvalso dell’occasione per ribadire il proprio sostegno a Putin e l’ opposizione di Pechino alle sanzioni “unilaterali” nei confronti di Mosca “ imposte dall’Occidente”.

Più in generale vi è poi da chiedersi se l’accaduto non sia che un un nuovo episodio di quelle ricorrenti convulsioni interne note in Russia come il “periodo dei torbidi “ ( “smutna vremja”), con riferimento – ma lo stesso può dirsi per la fase precedente e immediatamente successiva alla Rivoluzione d’Ottobre – all‘ interregno , dominato da un’anarchia assoluta , successivo alla fine della dinastia dei Rurikidi ( 1598) e precedente l’avvio di quella dei Romanov (1613).

O non rappresenti , piuttosto, il segnale di anticipatore di dinamiche a venire suscettibili di produrre un impatto durevole e di ampio respiro sulla stessa tenuta della Federazione come entità statuale.

Le sue possibili ricadute sulla guerra in Ucraina e sul futuro della Federazione Russa:

Nel breve /medio periodo due mi sembrano – da questa angolazione più ampia di natura – i versanti da considerare in via prioritaria: quello dell’impatto della insubordinazione della Wagner sulle operazioni belliche in Ucraina e quello , cui ho sopra accennato, della tenuta stessa della Federazione Russa. Quesito , quest’ultimo, non dissimile per portata e valenza da quello che ci si era posti in Occidente – alla vigilia della dissoluzione dell’URSS , nel 1991- sul futuro dello spazio ex-sovietico .

Circa il primo versante , merita rilevare che la sollevazione della Brigata non ha, almeno a tutt’oggi, bloccato l’andamento delle operazioni militari in Ucraina. Anzi, dopo un primo momento di confusione, le forze armate di Kyiv risultano aver intensificato le loro operazioni tattiche nell’area di Bakhmut nel tentativo di trarre vantaggio dalla seppur breve crisi interna dell’avversario e per dare maggiore slancio alla controffensiva che sembra ormai essere iniziata anche se i progressi sono più lenti delle attese e l’esito resta incerto anche per la condizione di inferiorità aerea – non ancora colmata dalle promesse forniture occidentale – delle forze di Kyiv rispetto a quelle russe.

Stando a quanto riportato dall’intelligence britannica le unità ucraine starebbero comunque guadagnando terreno sia a nord che a sud della città, in ciò apparentemente aiutate dal fatto che mancherebbero ai comandi russi sufficienti riserve operative per rinforzare proprie linee difensive lungo una parte del fronte di circa 200 km. L’avanzata della Wagner verso Mosca di sabato scorso è quasi certamente responsabile di questo parziale cedimento russo: i combattenti della Wagner erano infatti di stanza proprio in quelle zone , pronti in caso di emergenza ad abbandonare le retrovie e a riprendere i combattimenti ove necessario.

Non solo l’abbandono delle posizioni ha lasciato per qualche tempo un pericoloso vuoto ma, per reagire ai problemi che si stavano verificando all’interno dei confini della Federazione, il Ministero della Difesa russo ha dovuto dirottare uomini e mezzi anche da questi settori del fronte ucraino. La situazione è naturalmente in costante, direi quotidiana, evoluzione e un ritorno della Wagner sulle posizioni occupate precedentemente non è da escludere ma neanche da dare per scontato e le ricadute della dinamica in atto difficilmente prevedibili.

Osserva Lorenzo Piccioli sul periodico Formiche che le milizie di Prighozin potrebbero effettivamente essere in via di ritorno nelle posizioni precedentemente occupate in Ucraina ma potrebbero anche star facendo qualcosa di diverso.

Riposizionarsi cioè non già in Ucraina bensì in Bielorussia: con l’obiettivo non confessabile non già di trovare rifugio quanto, piuttosto, di lanciare da li un attacco terrestre in direzione di Kyiv: particolarmente vulnerabile a partire da Minsk. Scenario, quest’ultimo, non scontato ma tutt’altro che impossibile .

E che permetterebbe – secondo l’ex- Capo di Stato Maggiore dell’esercito britannico Richard Dannat, che ha lanciato l’allarme – di interpretare i fatti degli ultimi giorni , compresa la “marcia verso Mosca” di Prighozin e dei suoi , in chiave radicalmente diversa dall’interpretazione prevalente e secondo una logica tipica della storia russa: quella della “maskirovska” intesa come depistaggio /camuffamento dei propri obiettivi .

Circa il secondo versante – quello della tenuta o meno della Federazione Russa – non vi è dubbio che l’insubordinazione di Prighozin abbia dato corpo , seppur solo per qualche ora, a una prospettiva inquietante: quella di una Russia con poco meno di 6000 testate nucleari precipitata nel caos e nell’anarchia. Scenario da incubo che nessuno auspica salvo forse i polacchi e gli ucraini, per motivi in quest’ultimo caso dopo tutto comprensibili alla luce di quello che stanno subendo per mano del Cremlino.

Gli Stati Uniti notoriamente non vogliono che questo scenario possa anche solo adombrarsi ( non è un caso che, terminata la guerra fredda, la prima preoccupazione di Bush padre, allora Presidente degli Stati Uniti, era che l’Unione Sovietica , e quindi anche la stessa Russia, non si disgregasse per divenire un “puzzle” di 50 repubbliche dotate di armi atomiche e in lotta tra loro) .

Quello che l’avanzata verso Mosca della Wagner , seppur poi rientrata, ha riproposto è dunque uno scenario che a oggi non appare realistico. Ma che in Occidente, partendo dagli Stati Uniti e passando per la quasi totalità dei paesi europei, si teme fortemente anche per una ragione di ordine geo-politico e di equilibri di potere su scala globale.

Se questo un giorno dovesse avvenire si creerebbe infatti, nel cuore dello spazio euro-asiatico, un vero e proprio “buco nero” che qualcuno dovrebbe gestire e, per quanto possibile, contenere.

Per Washington – chiunque sieda alla Casa Bianca – sarebbe un problema gigantesco. Prevalentemente assorbiti come già sono ora dalla sfida cinese e dall’Indo-Pacifico , gli Stati Uniti a quel punto si impantanerebbero in Europa sul serio e per un tempo indefinito. E con risvolti imprevedibili avendo a che fare col più grande arsenale atomico del mondo: con un territorio immenso e frammentato, quello dell’attuale Federazione Russa, gestito da signori della guerra, per giunta corrotti, alla testa di Repubbliche sparse e in lotta tra loro.

In sostanza quanto avvenuto lo scorso 23 giugno ha contribuito a far emergere lo spettro di una Russia fuori controllo tanto da indurre molti a Washington e non solo a dare priorità, rispetto a qualsiasi altro obiettivo, all’esigenza di evitare che la Russia piombi nel caos . In base alla considerazione di più di una capitale secondo la quale “ è, dopo tutto, preferibile un Putin a 10 o più sconosciuti in possesso di armi nucleari”.

Senza che ciò debba comportare , ovviamente , cedimenti da parte nostra o sconti al Cremlino sul versante della difesa della sovranità e indipendenza ucraina.

Le sfide per il Il fianco sud dell’Alleanza Atlantica, il ruolo della Wagner in Africa e l’azione dell’Italia

E’ chiaro peraltro che la tentata sedizione della Wagner – alla luce del ruolo di difensore degli interessi geo-politici russi svolto da anni dalla stessa nei più diversi scacchieri a cominciare dall’Africa – pone interrogativi che vanno al di là dei confini della Federazione e dello stesso conflitto in Ucraina .

Infatti, da un lato sul fianco nord-est dell’Alleanza gli indicatori inducono a ritenere che la guerra di attrito in Ucraina sia destinata a durare ancora a lungo e la preoccupazione della NATO cresce cosi come lo schieramento di armi nucleari tattiche russe in Bielorussia. Non è un caso che la stessa Germania contribuirà a sostenere il fianco orientale dell’alleanza dispiegando in permanenza 4 mila soldati aggiuntivi nell’ambito dell’”Enhanced Forward Presence” /EFP in Lituania: una missione istituita dalla NATO già nel 2017, tre anni dopo l’annessione della Crimea da parte di Mosca ,proprio per proteggere il suo confine orientale dalle minacce russe.

Dall’altro, una partita non meno importante – in particolare per i Paesi alleati del fianco sud come l’Italia – si gioca nel continente africano, in particolare nella fascia sub-sahariana.

E’ là infatti che le attività della Wagner – sfruttando le crisi che affliggono l’area e dispiegando lo sforzo espansionistico della Russia di Putin – hanno contribuito ad alimentare, anche attraverso il sostegno a colpi di stato , le instabilità locali. Nonostante la poi rientrata “marcia su Mosca “dei miliziani appunto della Wagner, nulla allo stato induce a ritenere che quest’ultima smetterà di svolgere il ruolo per la quale è nata: quello cioè di principale “ organismo privato di sicurezza “responsabile dei conflitti ibridi della Russia a suo tempo teorizzati, guarda caso, proprio dal generale Gerasimov.

Ed è proprio sul fianco sud che l’Europa e i paesi -alleati del fianco sud ( a cominciare dal nostro, che lo sta peraltro egregiamente facendo ) dovranno a mio avviso porre in essere ogni sforzo per liberare quei territori dal gioco dei miliziani della Wagner.

Intervenire alla radice dei problemi è opera certo non facile ma ormai non più rinviabile.

Le crisi in atto nell’area mediterranea e centro/nord africana sono infatti troppo importanti per la sicurezza dei nostri Paesi, senza parlare degli aspetti umanitari legati alle inaccettabili violenze sui civili nell’area sovente spinti anche da questo fattore a cercare rifugio e una nuova vita in Europa.

Bene fa dunque il nostro Governo ad agire al riguardo (più di qualsiasi altro esecutivo in Europa) in maniera pro-attiva e bene ha fatto la Presidente Meloni a coinvolgere la Von der Leyen nella gestione della drammatica crisi tunisina nelle sue diverse angolazioni: da quella economica a quella energetica a quella migratoria.

Solo un approccio europeo e occidentale innovativo , non predatorio e corale (come quello che sta appunto promuovendo il nostro Governo, e che ha ricevuto l’avallo dell’ultimo Consiglio Europeo) può infatti davvero aiutare i Paesi africani più esposti a liberarsi dalla pressione russa (e cinese…) e dalle milizie della Wagner.

Per creare infine quelle condizioni di sicurezza che sono precondizione per quello sviluppo economico – sociale di cui quel Continente ha bisogno e dal quale dipende anche il nostro futuro.

Il vertice NATO di Vilnius

Un’ultima notazione: la NATO ha tenuto a Vilnius l’11 luglio il suo vertice. Un appuntamento particolarmente importante per l’Alleanza ancor più dopo i recenti eventi nella Federazione Russa .

Si è discusso tra i 31 Stati membri – oltre che della sfida cinese e di come assicurare all’Alleanza un capacità di deterrenza a 360 gradi – di Russia , di andamento della guerra in Ucraina, di garanzie di sicurezza di lungo periodo da fornire a Kyiv nonché di un suo possibile futuro ingresso nell’Alleanza in tempi e modi da definire, e comunque non prima della fine del conflitto. Gli Stati Uniti paiono da qualche tempo ben più prudenti riguardo a una Ucraina nella NATO più prudenti di taluni alleati europei – quali la Polonia, gli Stati Baltici e il Regno Unito – probabilmente nel timore che un Putin che si sentisse con le spalle al muro possa davvero ricorrere a un certo punto all’utilizzo di armi nucleari tattiche (e non rassicurano al riguardo le recenti minacciose esternazioni dell’ex- Presidente Medvedev ampiamente riprese dai “media “ occidentali ). L’Ucraina ha palesato il suo risentimento per il vistoso rallentamento del suo ingresso nell’Alleanza. Ma la ragion politica spesso si sposa l’esercizio di prudenza e trova in questa motivazioni che la legittimano quale scelta saggia e quasi obbligata.

Il nostro Paese sta svolgendo un ruolo di primo piano anche quale facilitatore di compromessi sui temi maggiormente sensibili come quelli accennati. Lo riesce a fare per tutta una serie di motivi: dal prestigio indiscusso di cui godiamo in ambito atlantico, alla credibilità acquisita dal nostro Governo, a cominciare dalla Presidente Meloni , in termini di applicazioni delle sanzioni alla Russia e di convinto sostegno alla causa ucraina, al ruolo centrale che stiamo svolgendo per stabilizzazione dello scacchiere mediterraneo e dell’area nord-africana (tanto che il tipo di dialogo con la Tunisia avviato da Giorgia Meloni in raccordo con la Commissione è stato definito un modello dalle conclusioni dell’ultimo Consiglio Europeo).

Né è da trascurare l’eccellente rapporto stabilito dal nostro Primo Ministro col Presidente Biden, che c’è da augurarsi possa fessere confermato e confortato dalla visita a Washington fissato a fine luglio.

Come confermato proprio in questi giorni dal richiamo Primo Ministro britannico, in un suo messaggio a Giorgia Meloni, “al ruolo centrale dell’Italia nel sostenere la difesa dell’Ucraina e nel difendere i principii della Carta delle Nazioni Unite”. Non è riconoscimento scontato da parte di una potenza che si vuole globale come il Regno Unito né , mi sembra, una notazione da poco.

ROMA, LONDRA, WASHINGTON TRIANGOLAZIONE VIRTUOSA

Ben oltre la cronaca delle giornate londinesi – giornate ricche di incontri e di intese, di riconoscimenti e di diffusa, rispettosa attenzione – la visita del presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha rappresentato un passaggio fondamentale nella definizione del ruolo e delle alleanze dell’Italia nella complessa scacchiera geopolitica.

Rivela, ad esempio, che il calore con cui il premier Rishi Sunak l’ha accompagnata nella visita privata all’abbazia di Westminster (sede della solenne incoronazione di Re Carlo III, privilegio per pochissimi) è sintomatico di un profondo rispetto nei confronti del nostro governo.

Significa che l’Italia è consierata l’interlocutore forse più credibile per il Regno Unito oltre che essere la punta di lancia dell’atlantismo sul versqnte europeo dell’oceano. È così per Londra, come pure per Washington, in una triangolazione che non è eccesivo definire virtuosa. È la conferma che l’azione condotta nel tempo da alcuni esponenti del governo – da Meloni a Urso, da Tajani a Crosetto– abbia prodotto un positivo “allinemento dei pianeti” che consente al nostro governo di giocare un ruolo crescente nel contesto internazionale.

A Londra, i segnali di attenzione, anche al di fuori del protocollo, sono stati numerosi. Non solo la visita a Westminster. Un altro elemento che merita attenzione è la foto del colloquio tra i due capi di governo, pubblicata in prima pagina sul Financial Times: una calorosa stretta di mano nel quadro di un articolo dedicato al memorandum of understanding firmato in occasione della visita. La cooperazione bilaterale tra Italia e Regno Unito è a 360 gradi e include settori importanti: difesa, energia, agroalimentare. I documenti sottoscritti sono ricchi di sostanza. Si pensi all’affermazione che la Nato è la pietra angolare della sicurezza euroatlantica, su cui Italia e Regno Unito vogliono e debbono collaborare insieme per migliorare il loro coordinamento e il loro allineamento nell’ambito atlantico.

Lo stesso vale per l’attenzione e l’impegno condiviso a continuare a sostenere l’Ucraina a fronte della brutale aggressione russa, fintanto che sarà necessario. Si tratta di segnali inequivocabili, che a me paiono confermare un dato oggi difficilmente contestabile, se non inforcando gli occhiali del pregiudizio e dell’opposizione preconcetta: all’interno dell’Unione Europea l’Italia del governo Meloni è diventata con ogni probabilità l’interlocutore più credibile per il Regno Unito, oltre che essere la punta di lancia dell’atlantismo. È così su questo lato dell’oceano, ma anche per gli Stati Uniti, in una triangolazione davvero importante che schiude grandi prospettive.

Ma il ruolo italiano si dipana a tutto campo. Giorgia Meloni ha un eccellente rapporto anche col primo ministro della Polonia, una sorta di punta di diamante all’interno della Nato, fortemente impegnata com’è nel sostegno all’Ucraina e nella deterrenza nei confronti di eventuali mire ulteriormente espansioniste di Putin. Si può dire che davvero – secondo l’impegno assunto dalla stessa Meloni fin dal suo discorso programmatico in Parlamento – l’Italia non è più l’anello debole dell’Occidente, svolge un compito e riveste un ruolo essenziali in seno all’Unione Europea e nell’alleanza atlantica.

Vero è che il Regno Unito non è più nell’Unione europea. Ma resta intatto il livello di collaborazione anche politica, in vista di quell’asse popolari-conservatori che potrebbe determinarsi in occasione delle elezioni del Parlamento europeo del 2024. La voce del Regno Unito in seno al Parlamento europeo resta una voce importante, al netto della Brexit, perché furono proprio i conservatori britannici, nel 2009, a dar vita alla formazione dei conservatori e riformisti, oggi presieduta da Giorgia Meloni.

Qualcuno ha notato taluni accenti “thatcheriani” nelle posizioni assunte dal nostro capo del governo, ad esempio nella relazione tra la libertà quale valore assoluto e il connesso dovere di difendere l’Ucraina anche con l’invio di armi. È così, anche a mio giudizio. La tesi sostenuta da Giorgia Meloni durante la conferenza romana sulla ricostruzione dell’Ucraina, e ribadita a Londra – cioè nel cuore dell’atlantismo europeo – mi spinge a individuare, nella linea del governo italiano, anche taluni accenti “churchilliani”, soprattutto nel discorso tenuto alla Policy Exchange Foundation, quando le è stato consegnato il Premio Grotius. In quella occasione, Meloni ha parlato dei valori fondanti del movimento conservatore; e di libertà, sovranità e indipendenza rispetto delle nostre tradizioni. La reazione dei presenti è stata una vera standing ovation. Tutto questo mi induce a pensare che, a fronte degli smarcamenti del presidente francese Macron rispetto alla coesione atlantica, soprattutto dopo il viaggio a Pechino con quelle frasi infelici a proposito di Taiwan, questa nostra posizione ribadisce la nostra coerente e profonda lealtà atlantica. È una lealtà profonda ma ragionata: non è un atlantismo acritico né privo di riflessione.

La strada tracciata nel nuovo rapporto con gli Usa va coltivata e approfondita, perché la visita a Washington si possa svolgere presto, sull’onda anche delle garanzie ulteriori che Giorgia Meloni ha potuto e saputo fornire proprio durante la visita a Londra. L’Ucraina certamente è importante simbolicamente, come ha confermato la conferenza di Roma, cui seguirà quella di Londra nel prossimo mese di giugno. Ciò accresce il nostro profilo internazionale in seno all’Occidente e giocherà sicuramente un ruolo a nostro favore anche la presidenza italiana del G7 nel 2024.

In questo senso, c’è da guardare con fiducia all’imminente vertice Nato di Vilnius. Sarà un’ulteriore occasione di chiarimento che, forse, culminerà nella designazione del prossimo segretario generale della Nato. Sembra vi sia un interesse del ministro della Difesa britannico Ben Wallace per quella posizione, evidentemente con l’appoggio del proprio governo. Non mi sento di escludere che, nei colloqui londinesi, a suggello di un’intesa positiva e proficua tra Roma e Londra (e dopo il dichiarato non-interesee di Mario Draghi per quella posizione) si sia parlato anche di questo.

Sovranità tecnologica e indipendenza nazionale

La conferenza promossa dalla nostra Fondazione in collaborazione con il Digital Policy Council, presieduto da Valerio De Luca, su “La sovranità tecnologica e l’indipendenza nazionale” ha confermato il ruolo acquisito da FareFuturo come fucina di idee sui temi interni e internazionali maggiormente sensibili e come espressione culturale una destra di governo in presa diretta con la realtà e aperta al mondo e alle sue complessità.

E’ una destra di governo che, nella fedeltà ai propri valori, intende da un lato riflettere in termini operativi – con contributi di alto profilo e varia provenienza – sulle maggiori le sfide,  a cominciare da quella oggetto del convegno,  cui il nostro Paese è confrontato; dall’altro, mira ad anticipare per quanto possibile gli sviluppi che è lecito attendersi: compito indispensabile per chiunque voglia fornire al vertice politico elementi fattuali e argomentate riflessioni frutto di un confronto senza barriere ideologiche e finalizzate all’assunzione di decisioni consapevoli e responsabili. All’evento sono sono intervenute in apertura figure di spicco del nostro panorama politico accademico e istituzionale: dal Ministro delle” Imprese e del Made in Italy” Adolfo Urso, al Ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani ( che,  impossibilitato a partecipare in presenza per concomitanti impegni istituzionali, ha inviato un apprezzato messaggio del cui testo è stata data lettura dal Sen. Gelmetti, Segretario Generale di Farefuturo),  al Presidente della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati Professor Giulio Tremonti, al Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega all’innovazione Alessio Butti, al Presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati Federico Mollicone, al Vice- Direttore Generale dell’Agenzia nazionale per la cybersicurezza Nunzia Ciardi.

Il convegno si è poi sviluppato intorno a 4 tavoli tematici: “Lo stato stratega”, “La sovranità tecnologica oggi”, “Difesa e industria della difesa”, “Sicurezza energetica materie prime/terre rare”. Tutti temi – resi di particolare attualità dai profondi mutamenti nelle dinamiche internazionali,  securitarie e della globalizzazione innescati dall’aggressione russa all’Ucraina – richiamati nei saluti istituzionali sopra evocati. Interventi il cui comune denominatore è stato rappresentato dalla consapevolezza dell’impossibilità per l’Occidente, e per il nostro Paese, di fare fronte alle sfide poste dalle autocrazie ai nostri sistemi democratici e e ai nostri valori in assenza di una forte e strutturata coesione euro-atlantica. Coesione, è stato da tutti riconosciuto,  che fortunatamente sta reggendo alla prova ma che va alimentata e difesa e con determinazione. Nel suo messaggio il Ministro Tajani, si è soffermato tra l’altro sull’importanza della “connessione tra sovranità tecnologica e indipendenza nazionale” come “tema di prioritario interesse per il governo”, data la cruciale esigenza di “tutelare e rafforzare la nostra sovranità tecnologica per affrontare minacce vecchie e nuove alla nostra sicurezza, incluse quelle sempre più frequenti provenienti dall’ambito cibernetico”.

 

Tajani ha anche sottolineato come sia fondamentale rafforzare il partenariato strategico tra l’Unione europea e l’Alleanza Atlantica “stelle polari della nostra politica estera e di sicurezza “ nonché il “ ruolo fondamentale svolto dall’Italia in ambito NATO per la nostra speciale amicizia con gli Stati Uniti e in vista della nostra Presidenza G7 nel 2024”. Orientamenti condivisi e ribaditi dal Ministro Urso, il quale ha aggiunto che “l’Europa deve raggiungere, in sintonia con gli Stati Uniti, una piena autonomia e sovranità sia sul campo delle materie prime critiche sia sul piano tecnologico ed energetico. “C’è bisogno di una politica che sia di alto respiro, e che, sviluppata insieme ai paesi del blocco euro-atlantico, sia in grado di indicare la via” alle imprese e alle forze produttive”. In tale contesto il Ministro ha invitato FareFuturo a proseguire nel suo ruolo di stimolo intellettuale ed elaborazione di idee sui vari versanti che vedono impegnato il nostro Esecutivo a livello internazionale anche nella prospettiva della presidenza italiana del G7 il prossimo anno. Degno di nota altresì l’accento posto dal Ministro sul fatto che ”nell’epoca attuale è necessario un governo con una visione strategica “ e che “oggi con il tornare in campo della storia torna in campo anche l’Italia”. Collegata a tali riflessioni la sua ulteriore considerazione – in sintonia con il titolo del convegno – secondo la quale “tornano oggi in campo gli Stati con la loro sovranità e indipendenza nazionale minacciata e ci costringono a interrogarci su un’ Europa che deve fare tutto il possibile per non trasformarsi in un museo della storia”. In linea con tale visione la conferma poi,  da parte del Ministro, del fatto che il nostro Esecutivo è impegnato in Europa “ anche per far capire che il 2023 dovrà essere l’anno di una politica industriale comune e della realizzazione di una sovranità tecnologica europea, fondamentale perché si possa infine pervenire a una nostra vera indipendenza strategica” – Lo Stato Stratega Una visione ripresa durante il primo tavolo tematico dell’evento sullo “Stato Stratega”,  moderato da chi scrive e aperto dall’intervento del Professor Tremonti che ha nell’occasione espresso apprezzamento per le linee di politica industriale tratteggiate dal Ministro Urso.

 

Oltre la globalizzazione

Avvalendosi di ampli riferimenti storici,  Tremonti ha evidenziato la necessità di un ripensamento del ruolo degli Stati e delle catene globali del valore di fronte alle sfide di un mondo in via di “de-globalizzazione ” e caratterizzato da un ordine internazionale in cui il ruolo degli Stati sta tornando fondamentale nella gestione del cambiamento dopo un lungo periodo dominato da un “mercatismo” di fatto privo di regole. Non bisogna naturalmente tornare al dirigismo ma più semplicemente “ ricorrere al mercato dove è possibile, allo Stato dove è necessario”.

 

Forte la sua valorizzazione della libertà ( in senso direi quasi “crociano” ) come elemento indispensabile anche della crescita scientifica ( “ la Cina comunista non ha la libertà e quindi non ha la scienza,  come dimostrato dal caso dei vaccini anti-covid e,  se la competizione è con la Cina, questo punto è essenziale: Occidente batte Oriente 2 – 0”) Sul ritrovato ruolo dello Stato si è successivamente soffermato il Professor Paolo Quercia,  docente di studi strategici presso l’Università di Perugia,  che ha rilevato come le democrazie debbano ormai “ripensare il proprio orizzonte strategico e definire un ruolo dello Stato che consenta a quest’ultimo di fa refronte in maniera adeguata alle sfide attuali “ senza cadere, naturalmente, nello statalismo”.

 

Un credibile stato stratega, ha concluso il Professore con felice sintesi deve, in sostanza, basarsi su tre elementi : una valida e provata teoria della realtà ( “ decifrare cosa succede nel mondo”); una visione valoriale ( “ altrimenti è solo una tecno-struttura destinata al decadimento”); una capacita di azione strategica collettiva. Ove dotato di tali caratteristiche,  ha concluso Quercia, lo stato stratega potrà rappresentare non solo un modo efficiente di allocare le risorse ma soprattutto una condivisa e praticabile visione del futuro Il Professor Pasca di Magliano, ha,  a sua volta, elaborato sulle mutazioni in atto nelle catene globali del valore e sulla nascita in atto di un nuovo orientamento volto a creare aree di espansione commerciale accomunate non solo da necessità appunto commerciali, ma soprattutto da comuni orizzonti strategici.

 

Ha poi invitato il nostro Governo a lavorare,  come sta peraltro avvenendo, a una rimodulazione del PNRR e alla messa a fuoco di una possibile politica industriale europea basata su progetti di media-grande dimensione da realizzare anche attraverso la costituzione,  ove si raggiunga il necessario accordo tra gli Stati-membri,  di un Fondo Sovrano europeo. La dottoressa Ciardi ha, dal canto suo, tenuto a evidenziare a nome della Agenzia cyber nazionale come la sicurezza del nostro sistema digitale e la sicurezza delle nostre vite rappresentino ormai un binomio inscindibile, e come solo la “tecnologia proprietaria” sia in grado di assicurarci quella indipendenza e sicurezza anche della nostra “privacy” che altrimenti non potremmo avere.

 

Il peso della tecnologia digitale e della sua incidenza sulle nostre vite, ha proseguito, riveste anche una profonda implicazione culturale trattandosi- ha opportunamente sottolineato- di una rivoluzione “ non solo tecnologica ma antropologica che ha cambiato in profondità il nostro rapporto con la realtà anche se tale ultimo aspetto non è stato purtroppo ancora metabolizzato a sufficienza da tutti”. Una visione dello stato stratega, che ha costituito in sostanza il filo conduttore dei vari interventi,  caratterizzata sostanzialmente da due elementi : la crescente necessità per l’Occidente di dar vita a un sistema di scambi internazionali fondato non più soltanto sul calcolo del rapporto costi/benefici bensì,  e sempre più, su una comunanza di orizzonti etico-valoriali ( il cosiddetto “friend-shoring”) e l’affrancamento delle democrazie dal ricatto di potenze antagoniste quali le autocrazie : nell’ottica di un ripensamento della propria bussola strategica nella quale sovranità tecnologica e l’indipendenza dai condizionamenti dei regimi autoritari sono ormai necessità fondamentali.

 

La sovranità tecnologica

Proprio la sovranità digitale che ha costituito il tema principale del secondo tavolo tematico: “ La sovranità tecnologica oggi”, moderato dal direttore scientifico di Farefuturo, professor Di Gregorio. Sovranità digitale che, come osservato dal Sottosegretario Butti, si dovrà fondare sulla tutela e sulla difesa dei dati, poiché “saranno i dati a determinare l’evoluzione e la distribuzione del potere, diventandone il vero ‘sistema di gestione operativa’. La cyber sicurezza è -infatti- la necessità di fondo di entrambi i sistemi sia democratici che autocratici”. Per tale motivo “nel XXI secolo le informazioni sono il bene più prezioso e per questo è necessaria un’azione congiunta e comune sul tema della sovranità digitale”.

 

La tutela dei dati personali è, infatti, necessaria sia per la difesa delle forze produttive del paese che per quella del settore culturale, poiché, come ha dichiarato il presidente della Commissione Cultura della Camera On. Mollicone, “sovranità digitale significa anche contrasto alla tendenza accentratrice dei tecnopoli informativi per riconoscere la garanzia della concorrenza e la tutela dei diritti d’autore. I principi del copyright devono essere tutelati per difendere la filiera culturale”. A tali considerazioni sono seguite le presentazioni di Rosario Cerra, fondatore e presidente del “Centro Economia Digitale” e dell’amministratore delegato del Polo strategico nazionale, Emanuele Iannetti.

 

Entrambi hanno ribadito l’ esigenze di un forte investimento da parte italiana nel settore tecnologico. “Senza innovazione non vi è sovranità tecnologica né concorrenza” ha affermato, da parte sua, Giuseppe Notarnicola, presidente di STMicroelectronics Italia. Egli ha proseguito sottolineando che “vi è bisogno di una strategia che possa promuovere ricerca e sviluppo sia a livello italiano che europeo.” Una strategia che, come ha spiegato dal vicepresidente di Global Market Development Antonio De Palmas,  deve partire dall’assunto che “la tutela dei dati è fondamentale sia per la sicurezza nazionale che per lo sviluppo sociale. È necessaria una visione comune sulla questione in divenire degli standard che riguardano la sovranità digitale e tali standard devono essere ancorati ai progressi tecnologici”. Tesi di fondo che sono state sviluppate nell’intervento conclusivo di Franco Spicciarello, responsabile delle relazioni istituzionali di Amazon Web Services,  per il quale per poter creare una vera alternativa alle big tech extraeuropee è necessario imparare a “saper sfruttare le tecnologie, in sinergia e in maniera complementare con con gli Stati Uniti”.

 

Tutti gli interventi si sono in sostanza soffermati sulla necessità di dar vita a una sovranità tecnologica europea in collaborazione con l’alleato atlantico, e sulla la connessa esigenza di una “nuova sovranità digitale” in grado di tutelare i cittadini e gestire correttamente la mole di dati prodotta per realizzare al meglio le aspettative della popolazione nelle società democratiche. Al contempo – ha osservato in una visione d’insieme il già citato Rosario Cerra, – “ il potenziamento della sovranità tecnologica attraverso adeguati investimenti in ricerca e innovazione rappresenta la chiave per rafforzare il posizionamento dell’economia italiana ed europea lungo la catene di valore internazionali,  stimolare la crescita e aumentarne il peso economico”.

Nulla è come prima

Difesa e Industria della Difesa. In questo scenario il tema della difesa non è un problema, bensì il problema dell’era presente “per questo è prezioso e necessario ascoltare la voce delle aziende protagoniste come ha affermato in apertura dal moderatore della sessione Mauro Mazza, direttore di “Charta Minuta”. Sull’ argomento si sono pertanto confrontati il presidente di Fincantieri e già presidente del Comitato Militare della UE, Gen. Claudio Graziano, e gli amministratore delegati di Elettronica, Domitilla Benigni, di Rheinmetall Italia,  Alessandro Ercolani, e di Avio, Giulio Ranzo. Il direttore Mazza, ha avviato a discussione osservando che “ a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina ci siamo accorti che nulla è più come prima e che la nostra vita è cambiata e non stato un cambiamento in positivo”. Tutto questo ha modificato anche il senso e il ruolo della difesa e della sua industria. Per il Gen. Graziano, peraltro il cambiamento era in atto da tempo e il 24 febbraio 2022 è servito solo a far si che ciò emergesse con la necessaria chiarezza. “L’obiettivo NATO del 2% del PIL alla difesa o le iniziative europee di sicurezza erano in atto da prima del 2022 e l’invasione russa ha solo fatto tornare attuali parole come guerra o ricerca della pace”.

 

Tutto ciò,  ha proseguito il presidente di Fincantieri, “richiede di essere preparati con maggiore consapevolezza nazionale” come per esempio, ha opportunamente sottolineato, l’aver sempre presente che “sostenere l’Ucraina è un dovere e che, aiutando Kiyv a difendersi, indirettamente difendiamo anche la nostra libertà”. Il nemico, ha proseguito, “non è infatti direttamente ai nostri confini ma poco al di fuori”. Si tratta di sfida,  secondo Graziano, che non può naturalmente essere affrontata da un solo Paese. Per questo, ha aggiunto, è necessario lavorare alla costruzione di una difesa europea e al rafforzamento di quella nazionale in un’ottica di scala, fermo restando che “l’autonomia strategica europea non sarebbe in ogni caso in competizione con la NATO “ dovendo piuttosto consentire alla UE “ di operare da sola se necessario,  insieme alla NATO se possibile”.

 

Allo stesso modo la difesa nazionale deve essere in grado di fare la stessa cosa con la UE e con la NATO, ma rimanendo in grado di agire anche da sola a tutela dell’interesse nazionale italiano”. Questo però, ha concluso il Generale, dsi può fare solo con un’industria nazionale forte,  e per tale motivo bisogna investire in difesa e far parte in pari tempo a pieno titolo del quadro di sicurezza internazionale (ONU, NATO, UE)”. Altro aspetto cruciale del nuovo scenario di sicurezza,  è stato osservato, è l’emergere di nuove tecnologie e nuovi domini di competizione,  primo fra tutti quello del “cyber-spazio. “ La prima parte dell’invasione dell’Ucraina è stata una vera guerra ibrida, una guerra cyber”, ha sottolineato Domitilla Benigni.

 

La stessa ha poi attirato l’attenzione sul fatto che dal punto di vista della rete “siamo tutti sotto attacco,  in una situazione vera e propria pandemia digitale, endemica, globale,  con una crescita esponenziale degli attacchi” anche contro strutture italiane. Tanto che non a caso, ha fatto notare, “la NATO ha recentemente inserito lo spazio cyber tra quelli coperti dall’articolo 5 sulla difesa collettiva ”. Uno dei maggiori problemi,  ha proseguito l’AD di Elettronica, è è il basso costo degli attacchi,  per cui per sferrarli servono solo competenze e software non costosi; l’altro problema di peso è quello dell’impossibilità di identificare con sicurezza la minaccia : “ in una cyber-guerra non sai contro chi stai combattendo”. Il nostro Paese però non è rimasto a guardare “ e ha accelerato sulle sue difese cyber istituendo ad esempio l’agenzia nazionale per la cybersicurezza e dando vita presso il Comando operativo di vertice interforze il centro militare per le operazioni cyber”.

 

Per fare fronte a tutte queste sfide sarà naturalmente cruciale, come ha rilevato a seguire l’AD di Rheinmetall- Italia,  “ la dimensione tecnologica e il mantenimento di un costante vantaggio competitivo rispetto ai potenziali avversari”. Tuttavia,  ha aggiunto, “ se per le dottrine militari vale il principio quasi darwiniano di adattamento all’ambiente per il quale vengono sviluppate, lo stesso può dirsi per le tecnologie. In assenza di un ambiente operativo per il quale testare non sappiamo se funzionano “ Prima dell’invasione del 24 febbraio in Europa era in sostanza mancata l’idea di un ambiente che comprovasse l’efficacia delle sanzioni e delle tecnologie. “ Dalla guerra in atto dobbiamo apprendere delle lezioni per il futuro,  come il fatto che abbiamo riscoperto che le guerre senza munizioni non si fanno”. L’Ucraina ha dimostrato, ha concluso Ercolani, come Europa ( e Italia) non siano ancora pronte da questo punto di vista ad affrontare le sfide del futuro. Come confermato da Ranzo “il rateo di consumo di missili nel conflitto ucraino, in alcuni momenti di picco, ha superato ad esempio in un giorno la produzione di un anno”.

 

Un condizione, ha evidenziato l’AD di Avio, che dovrebbe mettere in allarme sia l’Europa che gli USA “ che pure hanno una produzione dodici volte superiore” a quella europea. Tutte valutazioni,  ha continuato, che vanno fatte in tempi calmi. Come per gli attacchi cyber “ se ci si pone il problema della cyber-sicurezza dopo che l’attacco è avvenuto, è troppo tardi”. La sovranità tecnologica è dunque aa suo avviso qualcosa su cui ragionare quando si è in pace “ per identificare le aree da presidiare assolutamente sia in Europa sia a livello nazionale in modo da garantirci un contributo che non sia da gregario ma da leader “ La guerra in Ucraina deve essere allora,  ha osservato in chiusura,  un fattore di stimolo “per individuare i diversi comparti nei quali l’autonomia è indispensabile. Uno tra tutti quello dell’energia “ ma anche,  nella prospettiva di prossimi conflitti, quello dei semiconduttori: risorsa scarsa e importante perché a rischio indisponibilità in quanto concentrata in Paesi essi stessi oggetto di tensioni e contrasti geopolitici”. –

Materie prime e terre rare

La sezione conclusiva dell’evento ha avuto ad oggetto il tema della “Sicurezza energetica e delle materie prime/terre rare”. Essa ha preso avvio con l’intervento di Alessandro Aresu, analista di Limes, che ha esaminato il presente sulla base del percorso intrapreso dalla Cina.

Nel piano strategico cinese, ha osservato, c’è sin dall’inizio un “pensiero profondo” innescato decenni orsono dalla volontà della Repubblica Popolare di dotarsi di un’industria automobilistica nazionale e competitiva anche avvalendosi di politiche volte ad aumentare la capacità estrattiva di “ materie prime critiche”, indispensabili per la componentistica del settore, sia sul piano interno che attraverso accordi a lungo termine con i paesi più rilevanti ( ad esempio il Congo per il cobalto). E’ una strategia, ha proseguito, sviluppatasi tanto sul piano micro ( vale a dire delle singole aziende) quanto su quello macro. Le trasformazioni tecnologiche, ha proseguito Aresu, generano infatti anche opportunità politiche che hanno dei costi e dei benefici su scala internazionale. Noi dobbiamo aumentare le nostre capacità conoscitive, ha rilevato, e quindi pensare che gli oggetti che fanno parte della nostra vita quotidiana e la loro digitalizzazione sono elementi di mercato e di potere tecnologico oltre che di condizionamento.

Bisogna quindi essere in grado di affrontare tali nodi attraverso una strategia a più livelli. La corsa alla sicurezza energetica e alle materie prime necessarie per la trasformazione ecologica non è infatti fissata come una strada a senso unico, ha concluso. Al contrario “essa va analizzata nella sua complessità per trovare un ruolo per l’Europa ed in particolare per la nostra Nazione.” Alle considerazioni di Aresu ha fatto seguito,  prima della riflessione in chiusura del Professor Pelanda, l’intervento del presidente gruppo Iren Luca Dal Fabbro. Questi ha tra l’altro osservato,  con riferimento al Mediterraneo allargato e con espressioni di apprezzamento per la politica seguita in materia dal governo Meloni (a cominciare dalla sua decisione di fare proprio lo spirito delle scelte a suo tempo compiute da Enrico Mattei ), che “l’Italia diventerà, lo si voglia voglia o no, il nodo strategico di tutto l’approvvigionamento europeo. E,  dunque, “ un Paese resiliente con le carte in regola per acquisire in campo energetico un ruolo di leadership in Europa e che non dovrà più importare per i prossimi trent’anni – grazie alla diversificazione delle fonti nella quale è impegnato il nostro Esecutivo- gas da un potenza autocratica come la Russia”.

 

Il Professor Pelanda ha, dal canto suo, evidenziato come pure sul piano puramente commerciale la competizione sia ormai tra macro – aree/blocchi anche a livello valoriale (“ democrazie contro autocrazie”). Su tale sfondo,  ha rilevato come la stessa Unione Europea non sia più in grado di fare fonte da sola alle sfide poste dai regimi che non si riconoscono nei nostri valori. Egli ha fatto invece sua la tesi di un’ “alleanza delle democrazie” ( di area UE, indo-pacifica e altre : “una sorta di G7 plus”) quale unico approccio per produrre una massa critica e valoriale sufficiente a contrastare i condizionamenti e ricatti esercitati sul mondo liberal-democratico dall’asse delle autocrazie. Nel corso del suo intervento, riallacciandosi ad alcuni dei temi toccati in mattinata dal Ministro Urso e dal Professor Tremonti, ha poi sviluppato una sofisticata analisi delle dinamiche che stanno caratterizzando gli attuali processi di “deglobalizzazione” esprimendo l’avviso che si stia andando in Occidente,  per i motivi sopraccennati, verso quella che ha definito con formula efficace una “ ri- globalizzazione selettiva”.

 

Alleanza delle democrazie

In estrema sintesi, dalla giornata di studio  è emersa la condivisa consapevolezza della necessità di una ridefinizione del ruolo strategico dello Stato nonché quella di una difesa europea che possa “agire in complementarietà con l’alleato atlantico in un’ottica di difesa dei valori occidentali di libertà e la democrazia”. Su tale sfondo tutti i relatori hanno, seppur da diverse angolazioni, auspicato un impegno assiduo e di lungo periodo da parte del nostro Paese e del nostro attuale Esecutivo,  peraltro già attivo a tal fine, per una crescita degli investimenti nel settore della ricerca e dell’innovazione digitale.

Settori da tutti ritenuti indispensabili – ho rilevato nelle mie conclusioni- per riuscire a restare in partita in un’epoca, come la presente, di profondi e incrementali mutamenti tanto sul piano delle dinamiche dei grandi flussi commerciali ( deglobalizzazione e affiorante “ri-globalizzazione selettiva”, per riprendere l’efficace espressione del Professor Pelanda ) quanto su quelli cruciali dell’ indipendenza energetica e della difesa nonché,  infine, su quello del ruolo dello Stato che,  nelle circostanze in atto, non può più limitarsi a compiti di mera allocazione delle risorse e gestione “tecnocratica” delle criticità senza un visione strategica.

Visione strategica e valoriale che non potrà non avere in un’”alleanza delle democrazie “ per fare fronte alle sfide dei regimi autocratici e nella sovranità tecnologica e indipendenza strategica dell’Occidente unito ( Occidente del quale il nostro Paese è componente essenziale sia per la sua storia che per le eccellenze, anche nel campo digitale e della difesa, di cui l’Italia è portatrice ) due dei suoi tratti qualificanti.