Fernando Adonia

Basta divisioni. 4 novembre festa nazionale

Fra le tante anomalie italiane, quella di aver sbiadito la ricorrenza della «Vittoria» nella Grande guerra, per derubricarla in festa delle forze Armate, è quella che meglio descrive la schizofrenia di un popolo votato all’autolesionismo. La ragione vuole che si debbano festeggiare i trionfi, le conquiste, i balzi avanti nello scacchiere della storia. Invece no: nel calendario della Repubblica italiana, il rosso pennella una data che a ben vedere non decifra la vittoria di un’intera comunità nazionale, semmai la sua lacerazione. Una distorsione bella e buona. Quel che resta del 25 aprile è una somma di livori e rivendicazioni incompiute. Ma non poteva essere altrimenti se, come data, essa evoca la fine di una guerra civile, di una lotta fratricida, che ancora oggi non può dirsi totalmente pacificata. Tant’è che neanche sul versante partigiano, all’indomani della caduta della Milano mussoliniana, è stato possibile stabilire una narrazione che mettesse alla pari bianchi e rossi in un unico progetto di democratizzazione patriottica.
A cent’anni di distanza dal 4 novembre del 1918, non si tratta di rilanciare una guerra a muso duro tra due date che legittimamente rappresentano due snodi della vicenda nazionale. Per una volta almeno, questo Paese non deve andare di bianchetto o promuovere dei tentativi di rimozione forzata della memoria collettiva. L’Italia deve invece promuovere un movimento che la aiuti invece a ristabilire delle priorità e fissare nuovi obbiettivi. Riscrivere le tappe della coscienza comune a partire da una data luminosa, riscriverebbe le sorti di una compagine nazionale che ancora oggi non sa trovare pacificamente le ragioni del proprio stare assieme. Neanche le vittorie dei mondiali del 1982 e del 2006, riescono a stabilire un nuovo inizio. Appunto perché c’è sempre chi – convinto della propria superiorità morale – è lì a ricordare i misfatti di Calciopoli o i peccati sportivi che hanno preceduto il trionfo spagnolo di Paolo Rossi.
Se quella del calcio è una metafora, anche sul fronte antimafia i se e i ma sono lì ad azzoppare la costruzione di un patrimonio comune. Ce lo ricorda lo storico Salvatore Lupo, quando afferma – in soldoni – che il processo Trattativa ha dato adito di parlare a quei tanti che non riescono ad accettare che lo Stato, all’indomani del terribile 1992, ha comunque vinto. Roba a cui neanche i neuroscienziati saprebbero dare risposte. L’Italia è questo, un Paese fermo psicologicamente all’8 settembre 1943. Giorno in cui, in tanti, si trovarono a gioire per un tragico atto di viltà. Strana gente gli italiani, che per fare un dispetto alla moglie taglierebbero volentieri “il naso”. Vittime del campanilismo, dei pantheon a porzione singole e delle scomuniche continue.
La vittoria nella Prima guerra mondiale va festeggiata perché ci ricorda che in un determinato momento storico, mentre la classe dirigente  di questo paese – assieme ai suoi intellettuali – era palesemente incapace di comprendere il tempo presente, la gente comune seppe comprendere il valore della sfida e vincerla. Una vicenda che pare dirci qualcosa anche sul tempo attuale. È un dato storico ormai acquisito che furono le trincee a cementificare le passioni di una nazione giovanissima. Fu l’altissimo contributo di sangue versato dai ragazzi provenienti sia dal nord sia dal sud a difesa dei confini nordorientali, a rendere l’Italia una nazione di eroi. Mutilata o no, la vittoria ci fu. Obliare quella stagione perché in qualche modo fece da propellente al fascismo, è sminuire i fatti e continuare nella sostanza un errore grossolano.
L’errore cioè di una parte del mondo progressista che allo scoppio della Guerra non riuscì a mettere in discussione il dogma neutralista, neanche davanti all’aggressione delle truppe del Kaiser ai danni di un Belgio inerme. Fu quello il momento in cui parte del mondo socialista, capitanato da Benito Mussolini da un lato e dal riformista Leonida Bissolati dall’altro, fiutò un’ opportunità irripetibile. Tornati dai campi di battaglia, i combattenti compresero (anche se in direzione non unitaria) che quell’esperienza avrebbe potuto offrire spunti di modernizzazione sociale anche in tempo di pace. Il quadriennio successivo è tra le fasi più vivaci, fantasiose e vitali, ma anche tra le meno digerite, della storia italiana. Ciò che venne dopo, ma molto dopo, fu invece l’ascesa di quei maitre a penser che sbagliarono prima e che in un certo modo continuano ancora oggi con presunzione a dettare le coordinate sbagliate dello storicamente corretto.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

L’isteria contro i "sovranisti"? Non orienta né sterilizza più il dissenso identitario

Dilemmi attuali: a una settimana dai fatti in Baviera hanno vinto i Verdi di Katharina Schulze o l’Alternative für Deutschland? La risposta è tutta da interpretare, soprattutto quando le due forze antagoniste, da destra e da sinistra, al sistema cristiano-sociale hanno raccolto rispettivamente il 18 e l’11%. Passi in avanti straordinari che fanno il paio con il collasso delle famiglie popolari e socialiste di una delle aree più ricche e propulsive della Germania a trazione grosse koalition. Ci sono voti che contano e voti che pesano. Ma anche che si raccontano, sia prima sia dopo l’apertura delle urne. Quello bavarese è soltanto l’ultimo esempio in ordine di tempo di come lo strumento elettorale sia sempre più accompagnato dallo sventolio di spauracchi e allarmi chiamati a orientare o sterilizzare culturalmente gli umori del popolo sovrano.
La reductio ad hitlerum dell’Afd portata avanti dalla stampa mainstream e dall’establishment, non può non suscitare un’obiezione legittima. Perché la scoperta che la leader Alice Weidel sia sposata con una donna – addirittura –  cingalese, fa saltare uno schema precostituito. Se si aggiunge poi che la formazione populista è dichiaratamente amica dello Stato d’Israele, ecco che l’ingresso nel parlamento bavarese dei rappresentanti della formazione sovranista merita almeno di essere reimpostata con categorie nuove e riancorate al dato reale. Stessa cosa dovrebbe valere a sinistra per l’avanzata dei Verdi. La spigolatura di Pietrangelo Buttafuoco che richiama gli analisti italiani a non confondere i Pecoraro Scanio de’ noantri con chi invece ha nello zainetto i libri dell’etologo Konrad Lorenz, apre una prateria di considerazioni inattese.
La polemica tra Repubblica ed Espresso versus Luigi Di Maio di fatto non sta appassionando gli italiani, né tantomeno innescando girotondi o ventate di disobbedienza civile. E un motivo ci sarà. Lo strumento dello spauracchio è stato utilizzato fin troppe volte di recente e con risultati poco lusinghieri. Non ha funzionato con il Regno Unito, né prima né dopo Brexit. Le annunciate sette piaghe d’Egitto non hanno portato ad alcun deprezzamento della forza economica e morale del reame di Elisabetta II, né trascinato il resto del continente nell’abisso. Semmai, è stata la derisione del corpo elettorale pro leave a soffiare sul bisticcio globale tra sentire comune e opinion leader.
Esemplificativo il caso Usa, dove non bastano la demonizzazione di Trump, gli errori dei rilevatori demoscopici in vista del voto presidenziale, a riscrivere le pulsioni del tempo attuale, anzi. L’occupazione in crescita e la mancata esplosione della terza guerra mondiale sul fronte nord coreano e neanche su quello siriano, a questo punto, sono un motivo d’imbarazzo per chi è chiamato a interpretare i fatti. E se il tycoon alla Casa Bianca è bersaglio generalizzato, impossibile pensare che il principale spin doctor, Steve Bannon, non sia dipinto alle stregua di una eminenza grigia del sovranismo internazionale. Mario Sechi nel frattempo dal salotto di Agorà chiama l’alt generale, ricordando che è una sproporzione stimare alle stregua di un “grezzo e ignorante cowboy” il titolare di un Mba con lode alla Harward business school.
Ma se il caso Usa è sovraesposto, le recenti tornate in Olanda e Svezia sono state teatro del medesimo schema. Il 13,1% di Geert Wilders con il Partito delle libertà e il 17,6% di Jimmie Akesson e dei Democratici Svedesi, sono stati preceduti da spavento e poi dalla miope esultanza di chi alla fine ha gridato «l’Europa è salva». La doppia cifra raggiunta in paesi notoriamente liberal dovrebbe essere invece un dato da maneggiare con cura, spia della sofferenze di sistema attuale e della capacità della politica di base di produrre nuovi linguaggi. Fuori dal vecchio continente, la strada che porterà al ballottaggio brasiliano tra il populista di destra Jair Bolsonaro (46,1% al primo turno) e  Fernando Haddad (29%) del Partito dei Lavoratori, è lastricata d’isteria.
I risultati sono però quelli che contano. Sia in termini percentuali sia alla prova dei fatti. Se è vero infatti che alle scorse presidenziali francesi Marine Le Pen è stata sconfitta da Emanuel Macron rimanendo molto al di sotto della soglia psicologica del 40%, è vero pure che attorno a lei sono stati issati oltre ogni soglia lecita gli scudi della dis-onestà intellettuale. La chiusura dei confini francesi e i migranti scaricati letteralmente sul territorio italiano dalla polizia d’Oltralpe, ci dicono dell’ipocrisia del modello En Marche e della doppia morale europeista dell’inquilino dell’Eliseo. Le rilevazioni sul gradimento, intanto, segnalano il solco attuale tra Macron e il popolo francese.
Errori di valutazione, sviste e non solo. Più il sovranismo viene demonizzato e sottodimensionato e più la reazione popolare va in direzione totalmente opposta rispetto agli orientamenti autoreferenziali della cabina di regia continentale. Magari, e ce ne siamo già scordati, è stato il tono sprezzante di Matteo Renzi durante la scorsa campagna elettorale soprattutto in direzione dei Cinque stelle, a produrre gli effetti contrari. E dire che il referendum costituzionale aveva già dato delle chiare indicazioni sui disagi del popolo italiano. Una lezione che evidentemente pare ancora non essere stata digerita. Almeno in alto.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

L’Onu e Bachelet contro l’Italia? E’ l’insopportabile "razzismo" degli antirazzisti

Procedendo di assurdità in assurdità il rischio è quello di non capirci più nulla. Salta dalla sedia Matteo Salvini e con lui quanti sono ancora dotati di un briciolo di buon senso e visione d’insieme. Italia-paese-razzista? La pensa così l’alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, l’ex presidente socialista del Cile, che intende inviare addirittura gli ispettori per verificare chissà che cosa.
Cosa, appunto; ma anche come. Difficile capire come si dovrebbe verificare, infatti, se un Paese è o no razzista, soprattutto se il capo della polizia, nominato peraltro da governi di centrosinistra, Franco Gabrielli, avverte che non vi è «alcun allarme» in tale senso. Passeggiando al parco, andando in pizzeria o – peggio ancora – leggendo i giornali del gruppo De Benedetti? Si scherza, anche se da ridere c’è ben poco. Prima ancora della crisi Diciotti, la home page del sito di Repubblica era una collezione di notizie (vere o presunte tali) sull’allarme xenofobo che attraverserebbe il Paese.
Basta ricordare il caso dell’atleta azzurra di origini nigeriane Daisy Osakue. Bene, è lì che sta o cade ogni ipocrisia. Sarebbe bastato spulciare il primissimo lancio d’agenzia per scoprire che i carabinieri nell’immediato avevano escluso la matrice razzista di un gesto comunque criminale (e demenziale). Invece no, la campagna stampa è andata subito a braccetto con la mobilitazione indetta da Maurizio Martina, il reggente Pd. Salvo poi scoprire che prima di nascondersi, la mano che aveva lanciato quell’uovo infame aveva sventolato il tricolore dem. Mamma mia che vergogna!
Italia-paese-razzista? Torniamo quindi  al punto di partenza, alle preoccupazioni «inappropriate» della Bachelet – per dirla con il ministro degli Esteri Moavero. «Il governo italiano – dice lei – ha negato l’ingresso di navi di soccorso delle Ong» e «questo tipo di atteggiamento politico e di altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili». Ecco la «lezione». Che però è debole di contenuto, perché parte dall’assunto ideologico che la condizione migrante sia di per sé benedetta, al di là della sua regolarità e del rispetto delle norme che uno Stato sovrano detta in funzione di un bene che sia allineato sì alla universale dignità umana, ma anche – e simultaneamente – all’interesse particolare di una comunità nazionale.
Se l’acronimo Onu sta per organizzazione delle nazioni unite, e non nell’organizzazione dei popoli uniti, un motivo ci sarà. La forma nazionale è l’unica che ancora oggi individua e garantisce concretamente i diritti dei popoli in relazione agli altri popoli e alle sovrastrutture istituzionali. Passassero le inventive no-borderline di certa intellighenzia, salterebbe la funzione – già in affanno – del Palazzo di Vetro e delle sue protesi.
Ancora però non siamo arrivati al vero nodo della questione. Perché, se razzista è chi crede il proprio “ceppo” superiore agli altri, siamo davvero fuori strada. Gli Italiani non hanno di se stessi questa presunzione, semmai il contrario. Una volta si sarebbe parlato di santi-poeti-e-navigatori. Oggi, invece, resta l’ombra sbiadita di un popolo sfiduciato, stanco, questo sì. Arrabbiato con la propria classe dirigente, che sulla questione migranti (come in altre) non è riuscita a dire tutta la verità: che è un fenomeno quasi mai privo di complicazioni. Non esiste grande nazione, a partire dagli Usa, che non è stata scossa da profondi attriti di classe e razza connesse alle migrazioni.
L’Italia oggi è attraversata da profonde incertezze e se è sbagliato riversare sacche di frustrazione sui più deboli, è altrettanto grave dipingere una nazione razzista sol perché fa comodo al coro dei benpensanti e ai loro conati. La presunta superiorità morale di certe élite – stando allo schema già proposto sopra – crea discriminazioni ben più gravi: ma non in senso razziale, ma verticale. Si può essere violenti (cosa che si condanna a prescindere) e si può essere anche “aggressivi passivi”. Fare i buoni scatenando, per reazione, i pruriti più abietti di chi sta in basso, non può valere come alibi. Non per sempre, almeno. Se il razzismo è di per sé un male sine glossa, il razzismo antirazzista di matrice ideologica, è un virus assai più ambiguo e sospetto.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

Un laboratorio "tricolore" per l’Europa identitaria: ecco l’asse italo-ungherese

«Salvini è il mio eroe!» Viktor Orban utilizza una parola tanto cara al popolo ungherese per benedire il ministro dell’Interno italiano. Quella magiara è infatti terra di eroi; dove le strade, le piazze e persino le pietre raccontano le storie di quei tanti che nei secoli hanno lottato e vinto per la difesa dell’indipendenza e la fede di una delle nazioni più orgogliose e fiere della Mitteleuropa. Se le parole hanno quindi un peso, l’incontro tra i due leader si conclude con un evidente segno più. Ovvia e chiara l’unità d’intenti sui temi dell’immigrazione e della difesa dei confini continentali. «Noi ungheresi abbiamo dimostrato che può essere fermata sia sul piano giuridico che fisico. Salvini è popolare in Ungheria perché sta dimostrando che l’immigrazione può essere fermata anche in mare, solo lui lo ha fatto».
Ma c’è di più, perché è sui temi economici che l’intesa tra i due è addirittura su tutta la linea. A partire dalla flat tax, cavallo di battaglia Matteo Salvini e del centrodestra che sulle sponde del Danubio è già realtà. Ed è appunto da lì che quello ungherese si presenta come un laboratorio tutto da esplorare, dove al contenimento della tassazione corrisponde anche un basso tasso di disoccupazione. Insomma, «la dimostrazione che un Paese può crescere investendo, spendendo e non tagliando e sacrificando», commenta il segretario del Carroccio. Fuori dall’Eurozona, dunque, l’Ungheria cresce economicamente mantenendo tuttavia i prezzi sotto controllo. Nazione in cui la ricetta liberale, corretta però in chiave identitaria, fa correre in tandem lo sviluppo con la tutela del bene comune.
Insomma, si piacciono i due. E mentre le manifestazioni di protesta dell’area antagonista sono sullo sfondo, Orban si concede persino una civetteria stilistica: la cravatta verde. Un segnale che trasforma un’intesa in una vera e propria sinergia transnazionale in vista della prossima scadenza Europea. «Stiamo lavorando per un’alleanza che escluda le sinistre  – ha spiegato a sua volta Salvini – e riporti al centro le identità che i nostri governi rappresentano, ognuno con la sua storia. Possiamo unire energie diverse con un obiettivo comune».
Il premier magiaro ha dunque le idee chiare. E a fronte della geografia centrodestra/centrosinistra, non può non sentirsi culturalmente e strategicamente alternativo al socialismo europeo. «Gentiloni ha sempre parlato male del popolo ungherese, mentre la Lega ci ha sempre difesi. All’amico Berlusconi, invece, ho chiesto: appoggi il fatto che io incontri Salvini? Lui mi ha risposta “Certo”». Della simpatia con Giorgia Meloni, ne ha parlato lei stessa al Tempo e sulla scorta di approcci comuni ai medesimi temi continentali. Insomma, guarda all’Italia Orban e vede un altrettanto interessante laboratorio politico da studiare. E non è evidentemente quello del governo gialloverde, i cui nodi sono in parte già venuti al pettine a latere della crisi Diciotti sulla scorte delle incertezza pentastellate. Il laboratorio è semmai tricolore. Proprio come la bandiera ungherese.

*Ferdinando Adonia, collaboratore Charta minuta

Una Rai non populista ma aderente all’interesse nazionale

Di tutto, di più? Per ora a farla da padrona è semmai il segno meno. Rai, è lì che alla fine i nodi del centrodestra vengono tutti al pettine. Forse un contrappasso. O forse l’amaro epilogo di una formula politica che deve tanto – forse troppo – alla galassia televisiva made in Milano. Silvio Berlusconi – “Sua Emittenza”– cuce e scuce l’alleanza che lui stesso ha creato a partire dal nodo editoriale, confermando alla lontana i sospetti di chi ha sempre sostenuto che l’unico ed esclusivo interesse dietro la discesa in campo del ’94 fosse proprio quello di salvare il Biscione. Se tale assunto è difficile da dimostrare, lapalissiano è invece – come ha detto giustamente Pietrangelo Buttafuoco – che sia la destra la principale nemica della destra stessa, anche e soprattutto in questo caso. Un tafazzismo vecchio quanto il cucco che prima o poi sarebbe ora di cestinare.
Sulla bocciatura tattica di Marcello Foa alla presidenza di viale Mazzini, si è già detto e scritto parecchio. E da qualsiasi angolatura si guardi la vicenda c’è da mettersi le mani nei capelli. A partire dal dettaglio, neanche troppo marginale, che sull’appartenenza sia culturale sia aziendale del diretto interessato, l’ex Cav avrebbe dovuto avere ben poco da obiettare. Al di là del ritorno del patto del Nazareno e degli eventuali sviluppi di una faccenda ormai paludosa, il problema connesso alle future linee editoriali della tv di Stato merita una profonda riflessione. Andando oltre alla conta delle poltrone, c’è infatti da capire quale sia l’idea di Paese che dovrebbe informare il nuovo palinsesto Rai. La Rai targata M5s + Lega, per inciso.
Un interrogativo non da poco, perché prima ancora c’è da individuare quale narrazione culturale complessiva dovrebbe fare da ancella alla stagione giallo-verde al governo. Stando al versante Cinquestelle si potrebbe andare tranquillamente di sciabola: no vax, no tav, no tap. Una filosofia al negativo che non sappiamo, però, quanto possa stuzzicare gli inserzionisti pubblicitari. Facendo leva sul versante giustizialista – main theme del primo grillismo – qualche spunto per il palinsesto lo si troverebbe: Report a go go e maratone di Torto o Ragione? Verdetto finale (Forum versione Rai, per intenderci). Decisamente poco, suvvia.
Foa o no, la presidenza Rai tocca alla Lega. Una responsabilità non da poco. Facciamo allora un passo indietro, a quando cioè il Carroccio pensò bene di sfruttare l’emittente di Stato per imporre il verbo padano sulla Roma lottizzatrice. A dirla tutta, la produzione del film Barbarossa di Renzo Martinelli (2009) non fu indimenticabile.  Per quanto goffo, però, il tentativo aveva delle premesse coerenti. In fondo, anche Il cuore nel pozzo (2005), miniserie che raccontava il dramma delle foibe, aveva come obbiettivo di offrire ai telespettatori un’alternativa ai tentativi politicamente connotati quali la Meglio Gioventù di Marco Tulllio Giordana. Mancò però la costanza, la qualità e la volontà di proseguire un percorso chiamato a dare dignità all’altra metà del Paese. In tal senso, la responsabilità di Berlusconi ha pesato parecchio e non in funzione di un’autocensura, ma perché l’idea d’intrattenimento proposta dalle sue stesse reti non è mai andata oltre un certo sentire tutt’altro che impegnato.
Quell’epoca però è superata e la distanza del sistema editoriale e il sentire del Paese non sono  mai state così ampie, tanto che il linguaggio da prima e seconda Repubblica sta stretto soprattutto a tutti coloro che pagano il canone in bolletta. Se il caso Foa ha qualcosa di allarmante, il dramma sta tutto in chi lo ha voluto dipingere il suo ritratto a tinte fosche sol perché da giornalista serio qual è, tenta di raccontare la realtà secondo categorie aderenti ai fatti e non filtrate da alcune centrali di potere. Ecco, appunto: la nuova Rai dovrebbe aggiornare il comparto dell’informazione e dell’approfondimento verso non una svolta populista, ma vicina semmai alla sensibilità popolare e all’interesse nazionale. Che non passa soltanto dalle fortunate serie quali Don MatteoIl commissario Montalbano o Tutto può succedere.
Raccontare la famiglia ai tempi del precariato evitando le declinazioni di una certa borghesia avvizzita sarebbe un buon inizio. Raccontare la forza dei territori, al di là dei soliti cliché turistici pure. Mettere al centro le capacità di un Paese che lavora e produce al di là delle narrazioni autolesionistiche che esso stesso produce, ovviamente. In ultimo: smontare gli ultimi ridotti della partitocrazia d’opposizione primorepubblicana – Rai3, per intenderci – non dovrebbe essere una opzione tra le altre. Semmai un dovere.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

Vade retro Salvini? Il "peccato" (di convenienza) di Famiglia Cristiana

Se la tentazione era di dividere il palco della politica italiana tra buoni e cattivi, Famiglia cristiana c’è caduta in pieno. Ecco la prossima copertina: “Vade Retro Salvini”. Addirittura. Il settimanale del gruppo San Paolo scende in campo e raccoglie l’invito arcobaleno di Rolling Stone, “Da adesso chi tace e complice!”. Ma di che, di che cosa? Del fiume di livore, odio e banalità che sta ammorbando il Paese? Salvini uguale a Satana. Peggio di così, a questo punto, non resta che appendere il cartello wanted nelle edicole e nelle parrocchie e tirare a vista. Una chiesa così forse piace ad Antonio Padellaro che invoca «metodi bruschi» per far fuori il ministro dell’Interno dalla scena pubblica. Perché la critica (legittima) ha ormai varcato il Rubicone del buon senso assumendo toni apocalittici e febbrili. Intanto le chiese si svuotano e una parte del mondo cattolico vota per la Lega e per quei partiti che sulla questione migranti hanno almeno una visione pragmatica, aderente al reale.
Per carità, la crisi della Chiesa ha ragioni più vaste, più profonde, da studiare seriamente. Appunto per questo le sirene del politicamente corretto di scuola clintoniana andrebbero rifiutate di netto, dai vescovi e dagli intellettuali di una certa gauche ormai increspata. Invece no, paraocchi e non solo. Altrimenti la riflessione di un Orban che da iscritto al “pericolosissimo” Partito popolare europeo dice che è contro le migrazioni perché in difesa dell’identità cristiana ungherese andrebbero vagliate con maggior beneficio d’inventario. Siccome però anche lui rientra tra i satanassi del ventunesimo secolo, meglio non ascoltarlo. Peccato che il consenso sulla sua persona sia un fatto vero e misurabile a suon di voti e Pil. Metri di misura forse inefficaci, ma almeno da valutare.
Vade retro Salvini. Mai però dire vade retro barconi scricchiolanti. Vade retro scafisti. Vade retro trafficanti di uomini. Vade retro a tutti coloro che con la loro ipocrisia fanno sì che delle zattere siano messe in mare per poi affondare. Oppure, se proprio si vuole parlare del depauperamento dell’Africa, come ha fatto di recente il vescovo di Palermo Corrado Lorefice, sarebbe più opportuno stigmatizzare la violenza armata dell’intervento francese in Libia. Da lì partono molti degli attuali problemi del Mediterraneo. Quelli che l’Italia ha dovuto gestire in solitario.
Ammettere però che il no italiano all’attracco dell’Aquarius ha costretto le principali cancellerie europee a rivedere le proprie posizioni in tema d’immigrazione, significherebbe ammettere che forse il capo del Viminale non è poi così scellerato. Urlare “Vade retro Salvini” è molto facile, e porta molti meno problemi di relazione con certi poteri rispetto ai quali le Chiese giocano ormai di rimessa. Meglio le copertine dedicate a Matteo Renzi e Laura Boldrini. Soprattutto se c’è la convinzione che la crisi migranti, la crisi delle morti in mare, possano essere risolte con appelli al veleno. Quello è il fumo di Satana. A loro piace così.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

Pensioni & immigrazione. Se Tito Boeri "dà i numeri" (e non le soluzioni)

Se i conti non tornano neanche a Tito Boeri, non resta che tornare al pallottoliere e ai conteggi carta, penna e saliva. Il presidente Inps è tornato a parlare di pensioni e immigrati disegnando un quadro tanto apocalittico davanti al quale è difficile non storcere il naso e non invocare il time-out. L’aveva già detto nelle scorse settimane ma ora è tutto nero su bianco nella relazione annuale alle Camere. «Senza nuovi ingressi, niente previdenza per i nostri anziani», suonano più o meno così le parole di Boeri. Ufficialità e numeri non rendono però la questione meno opinabile, anzi. Appunto perché mai come ora i numeri «fanno politica» e servono da foglia di fico a una classe dirigente che non ha saputo leggere con attenzione il tempo presente.
Perché è difficile credere che in un Paese che fa fatica a trovare un’occupazione sempre meno precaria ai propri figli – con le aziende che chiudono o delocalizzano – la risposta a una crisi di sistema siano i barconi, le Ong battenti bandiere straniere o i porti aperti. Suvvia, posta così la questione è facile scivolare nel grottesco, nel ridicolo. Chi sussurra analisi di tal portata è chiaro che non ha mai visto una nave carica di migranti attraccare al porto. Oppure, che non si è mai avvicinato a un Cara e non ha percepito il dramma patito da una massa umana in cammino. La risposta ai problemi del Paese non è nelle analisi di Boeri. No, non può: è una questione morale, prima ancora che politica.
L’emergenza migranti è seria. Sarebbe altrettanto serio ammettere quanto sia impossibile ricollocare i “nuovi italiani” nel tessuto sociale e lavorativo entro un lasso di tempo dignitoso. Quanti migranti di seconda e terza generazione hanno qui vissuto la povertà più bieca appunto perché gli è stata raccontata una favola condita da una prosperità a copertura parziale prima di partire? Dovremmo chiedere scusa loro e inchinarci davanti alle storie di chi è riuscito a garantire futuro e italianità ai propri figli percorrendo la via della legalità.
I migranti fanno i lavori che gli italiani non vogliono fare più? Mamma mia! Una banalità. Una fake, per non dire altro. Sarebbe più onesto dire che spesso i migranti sono costretti a essere impiegati in quei settori a rischio dove non c’è uno straccio di diritto e garanzia. Dove sta il contributo pensionistico nelle venti euro giornalieri in nero per raccogliere i pomodori nei campi siciliani o pugliesi? Dov’è nell’elemosina chiesta ai semafori? O nei traffici gestiti dalle organizzazioni criminali che devono assoldare manovalanza straniera? Sarebbe ora che si mettessero in riserva gli slogan da giornaletto studentesco e si parlasse con serietà di un problema che in ordine di tempo anticipa la pensione, il lavoro.
È tutta lì la questione. L’uscita di Giorgia Meloni mette ordine alla faccenda: «Il presidente dell’Inps debba sapere che il problema dell’Italia, per cui non vengono pagate le pensioni, è che non c’è abbastanza occupazione, che l’Italia è quasi dieci punti sotto la media delle altre nazioni europee. Quindi basta favorire nuova occupazione per i cittadini italiani per avere più persone che producono e che quindi mettono da parte i soldi per pagare le pensioni». Lavoro, speranza. E speranza di un lavoro certo. Non può non essere quella la ricetta per invertire la crisi demografica che attanaglia l’Italia da anni. Chiaro che non è facile. Intanto però la fuga dei cervelli italiani all’estero continua. E i numeri li dà proprio Boeri. Ma non le soluzioni.
*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

Non solo civici e grillini: ecco come avanza la "cantera" nazionale

La scorsa tornata amministrativa ha smentito un mantra che negli ultimi anni era diventato quasi inemendabile, una sorta di gabbia d’acciaio asfissiante. Quello cioè che il voto locale dovesse essere ostaggio in via esclusiva dei signori dei patronati, degli apparati consociativi o dei portatori di interesse fin troppo particolari che fanno l’ossatura del territorio. E invece no, il 10 giugno ha dimostrato che non tutto procede secondo una rassegnazione vincolata a narrazioni di bassa gittata. L’ampio civismo di maniera ha infatti palesato un camaleontismo politico di scarsissima qualità intellettuale e decisionale. Di spazio per la formazione umana, per i valori ce n’è eccome. Un risveglio. Il quadro è parziale e parte da Catania, dove a incassare poltrone che contano sono esponenti nati e cresciuti nel movimenti politici della destra nazionale, una classe dirigente venuta su a pane, militanza e buone letture. Il neo sindaco del capoluogo etneo, Salvo Pogliese, prima ancora di essere eletto a Bruxelles nelle fila di Forza Italia, è stato addirittura segretario provinciale del vecchio Fronte della Gioventù e regionale di quell’Azione giovani che ha raccolto l’eredità della fiaccola tricolore.

Il sindaco di Biancavilla, Antonio Bonanno

Ma nel catanese la conta non si ferma qui, perché l’appena eletto sindaco di Biancavilla (comune di 25mila abitanti) è Antonio Bonanno, trentaquattro anni di età e già presidente provinciale di Ag. A pochi chilometri di distanza, il neo primo cittadino di Gravina è Massimiliano Giammusso, anche lui trentenne e un curriculum assai denso: non solo assessore, ma leader degli universitari dell’ex Alleanza Nazionale. E ancora: una volta laureato fonda il movimento politico Avanguardia, che nell’ultima tornata ha incassato l’elezione di Erio Buceti alla presidenza di una delle Municipalità (San Giovanni Galermo) ad altissimo rischio povertà e penetrazione criminale; e l’ingresso in consiglio comunale del capoluogo etneo di Luca Sangiorgio. L’ondata siciliana ha tuttavia dei precedenti importanti: la recente elezione dello storico esponente dell’Msi Nello Musumeci alla presidenza della Regione e la bandierina issata nel 2016 a Vittoria, comune del Ragusano, con l’FdI Giovanni Moscato sindaco e l’ingresso dell’attivista No Muos Alfredo Vinciguerra in consiglio.
La cantera del Nordest
Se il sindaco di Vicenza Francesco Rucco è un’esponente di razza di Alleanza Nazionale, in consiglio comunale entra Silvio Giovine che di Azione Giovani è stato il presidente provinciale. Scendendo lo Stivale, in quel di Massa Alessandro Amorese, volto assai noto negli ambienti della destra, torna a sedere nel senato cittadino. Oggi milita nell’FdI di Giorgia Meloni, ma la sua storia è legata a doppia mandata alle vicende della destra giovanile nazionale: come attivista, come intellettuale e come editore. Con la Eclettica ha infatti pubblicato tre saggi da lui firmati che rappresentano altrettante tappe fondamentali della storia della fiamma:  Beppe Nicolai. Il missino e l’eretico (2010) e i due monumentali Fronte della Gioventù. La destra che sognava la rivoluzione (2013), Fuan. Prima parte: dai Guf al ’68. Gli studenti nazionali tra piazze e atenei (2017). Il dato nella provincia apuana fa il paio con l’elezione di Francesco Torselli con FdI, ma in quota Casaggì, nel 2014 nel consiglio comunale fiorentino.

Stella Mele

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Proviene da qui infatti «la Le Pen italiana». Un personaggio tutto da scoprire per bellezza e pragmatica, l’elezione di Stella Mele a Barletta è un caso. Un talento già scovato e raccontato da Pietrangelo Buttafuoco su Panorama, eccolo: «Non è mai stata la pupa di nessuno – ha scritto – Anzi. Lei è nata nel ghetto odoroso di giardino. Sa tenere a bada le vanità di una vita in pubblico perché non ha le ambiguità del carrierismo e non ha neanche tentazioni da fighetta perché non le manda a dire». E ancora: «Organizza cortei, sveglia l’identità, non sta ferma mai e tutti gli attivisti di destra, in Italia, la conoscono non solo perché quando sbuca, buca. Buca “il video” come si dice in gergo televisionese, ha quella bella spalmata di parola meridiana ma si prede l’attenzione perché arriva prima con gli argomenti e la velocità della sintesi». Insomma, dove è stato seminato, i frutti si cominciano a raccogliere. E dove c’è buona formazione politica c’è pure una caparra di qualità sul futuro. Una speranza.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

Caso Fontana. Se l’Inquisizione "delle élite" è più oscurantista

Giusto criticare, giusto dissentire. Ma c’è un limite a tutto e risiede nella concretezza degli atti da giudicare. Il vizio di trasformare il dibattito italiano in un processo continuo alle intenzioni e alle idee, condito da manganellate, sta trasformando da cima a fondo l’anima di questa nazione a uso e consumo di chi ha la capacità di urlare più forte. Come se non bastasse l’impasse del caso Paolo Savona, ora è la volta di un nuovo nemico sul quale scaricare i conati pavloviani di una certa cultura dell’anti a prescindere. Nel centro del mirino c’è ora Lorenzo Fontana, il ministro per la Famiglia e la Disabilità nel governo a guida Giuseppe Conte.
A domanda il leghista ha risposto sulle cosiddette “famiglie arcobaleno”. Ha detto che «per la legge, al momento, non esistono». Apriti cielo! Inutile disquisire qui sul caleidoscopio linguistico che distingue le situazioni de jure da quelle de facto. Come lo è specificare che nel frammento di risposta offerto da Fontana c’è un’affermazione e non una negazione (di diritti). Ma la disquisizione ci porterebbe lontano, verso argomentazioni scivolose e da evitare a tutta prima. Piaccia o non piaccia, il governo giallo-verde si è dato un programma, addirittura un contratto. Benché decisamente pingue, di uscita dall’euro o di questioni etiche, tra le quaranta pagine, non c’è traccia. L’alzata di scudi su Fontana, posta così, rischia di gettare tanto fumo negli occhi dei cittadini e accarezzare soltanto un’esigua parte (seppur rumorosa) della cosiddetta élite intellettuale di questo Paese.
Ciò che serve decisamente all’Italia è una chiara politica che metta al centro la famiglia, il futuro, il lavoro e il sostegno (economico e morale) a favore di quelle donne che vogliono essere contemporaneamente madri e soggetti attivi nel vasto campo pubblico e sociale. Al netto di un’Italia che si è riscoperta ultimamente patria di santi, poeti, navigatori e costituzionalisti, rispolverare quel favor familiae che ha ispirato buona parte della Carta del 1948 aiuterebbe a comprendere meglio la situazione attuale e la legittimità culturale delle posizioni di Fontana. C’è da temere però che a non piacere del neo ministro non siano le sue uscite, ma il suo vissuto. La vera indigestione è sul suo essere credente e sull’idea poco approfondita che taluni hanno della visione cattolica del mondo, che non è ferma al Medio Evo, ma è impregnata di realismo.
Evitiamo di aprire quindi tribunali dell’Inquisizione al contrario, scongiuriamo la messa in graticola di intelligenze libere e non allineate a certuni e superficiali dettami mainstream. Avessimo perso qualche minuto a schivare le ipocrisie, non avremmo abortito la possibilità di mandare in Commissione Europea un intellettuale di livello quale Rocco Buttiglione. Ricordate il caso esploso nel 2004? Una campagna mediatica assolutamente nemica di ogni liberalità e intelligenza. Una ferita non ancora guarita.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

Caso Alfie. Chi decide che il principio di "autodeterminazione" per lui non vale?

Magari sarà solo una sensazione, un retropensiero infondato. Peccato però che la questione sia delle più serie e irreversibili: perché quando c’è da scegliere tra la difesa della vita e l’opzione per la morte, il pendolo – ormai – oscilla quasi sempre su quest’ultima? Un piano inclinato a cui il nostro mondo pare essersi consegnato mani e piedi legati. La tragica vicenda del piccolo Alfie Evans è l’ultima in ordine di tempo che sembra confermare un teorema indimostrabile ma che lacera di netto la coscienza occidentale. Integro resta invece l’orientamento dell’Alta Corte di Londra, pronta a sentenziare su quali vite siano «futili» e quali addirittura «inutili». Altro che parole eque, si tratta invece di vere e proprie pietre tombali che si accompagnano all’immagine feroce di una pattuglia di polizia inviata in ospedale per impedire a una coppia di genitori di accompagnare il figlio in un’altro centro pediatrico, magari al Bambin Gesù di Roma. Insomma, se non è una scena tragica questa, che rivela una sproporzione ineluttabile tra le istanze del potere e le lacrime di un uomo e una donna immersi nel dolore, poco ci manca.
È chiaro che gli strascichi della vicenda di Charlie Gard siano ancora lì sul campo dove il common law ha fatto a sportellate con il principio di speranza, o meglio con i paradigmi più evidenti e immediati della natura umana. È nel codice genetico di ogni essere vivente lottare per garantire la sopravvivenza dei propri figli, anche a costo di sfidare la pubblica autorità e la sorte. Pare però che su tutto questo i giudici inglesi siano nel piano diritto di sorvolare, calpestando anche la liberalità del sistema britannico a tutto favore di un pensare dove lo Stato si arroga una missione etica finalizzata a un mero calcolo costi-benefici nemico di ogni dignità o pretesa di autodeterminazione personale. E se il Regno Unito è spesso l’antenna anticipatrice dei dettami mainstream c’è davvero di che preoccuparsi. È qui che sta o cade tutta la questione: perché se a prendere piede è l’idea cotonata che il fine vita debba essere sempre rispettato, anche pennellando l’idea di un’Italia arretrata perché non ha “ancora” una legislazione pro-eutanasia, vuol dire che una nuova ipocrisia sta prendendo velocemente piede.
Chissà cosa avrà pensata il sindaco di Roma Virginia Raggi quando ha fatto oscurare la cartellonistica pro-life che proponeva una riflessione provocatoria sugli stadi della vita prenatale. Non ne condivideva il contenuto del manifesto o la sua presenza era semplicemente imbarazzante in forza di chissà quale vezzo salottiero? Qualunque risposta le abbia suggerito il foro interno, il risultato finale è un atto di censura culturale da brivido nella schiena. Ma anche la cartina tornasole che rivela come sia ormai fastidioso ammettere che la scelta di proseguire o no una gravidanza, o le cure, debba poter aggrapparsi su di un confronto libero con la propria coscienza. Se questa poi è informata, tanto peggio. Detta in soldoni, per alcuni la scelta è legittima solo quando spinge sull’acceleratore del Thanatos. Diversamente, è da biasimare.
Tutto questo perché dei diritti acquisiti sull’onda lunga di un certo radicalismo sessantottardo non è lecito fare passi indietro, neanche per addrizzare il tiro su alcuni punti aperti in favore degli argomenti pro-vita. Semmai c’è la volontà di rimettere in discussione l’obiezione di coscienza. Oltre la retorica, manca la consapevolezza che erodere uno degli istituti giuridici che segna l’incontro tra il cristianesimo e il mondo romano aprirebbe a scenari inquietanti. Perché si tratta di uno strumento che ha garantito il principio entro il quale il potere politico, in ultima istanza, non può mai violare l’interiorità personale.  Perdere questa coordinata non sarebbe tanto un salto indietro, ma nel vuoto. Intanto però il diritto e le sue ragioni scricchiolano, perché se c’è una cosa che dovrebbe realmente imbarazzare tutti è il fatto che si stia discutendo a livello planetario sulla liceità di due giovani genitori a potere sperare il meglio per la propria creatura. Ecco: tutto questo è davvero poco libertario. Poco civile, poco umano.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta