Felice Giuffrè

Una riforma costituzionale per la Nazione

Le Costituzioni non sono “foreste di pietra”. Sono, piuttosto, documenti giuridici solenni, che consacrano i valori identificanti per una comunità politica e che disciplinano gli strumenti organizzativi – i poteri, gli organi e i procedimenti – necessari per garantire ed attuare i primi in un determinato contesto storico, politico, sociale ed economico. Le Costituzioni sono, quindi, destinate a durare nel tempo; ma non sono e non devono essere immodificabili. Se muta il contesto storico, se si trasforma il quadro politico e ideologico di riferimento, se si evolve in modo significativo lo scenario sociale, economico e geopolitico che ne costituiva lo sfondo sarà necessario intervenire con opportune revisioni, per evitare una progressiva delegittimazione della Carta.
Nessuno può negare che molta, moltissima acqua è passata sotto i ponti edificati dalla Costituzione del 1948. Ponti che hanno consentito in settant’anni – grazie alla forma di governo parlamentare e al sistema elettorale proporzionale – di riguadagnare al comune denominatore dei valori di libertà, pluralismo ed eguaglianza sostanziale forze politiche radicate in orizzonti ideologici e valoriali inizialmente distanti dal comune denominatore democratico-pluralista, a destra (il MSI) come a sinistra (il PCI). Forze che, dopo la caduta del muro di Berlino e l’esplosione di Tangentopoli, hanno cambiato nome e fisionomia, accettando i principi della Repubblica quale cornice entro cui svolgere la competizione politica, anche grazie ad un quadro geopolitico, europeo e mondiale, liberato dalla camicia di forza della “Guerra fredda”. Era proprio questo, in fondo, l’obiettivo della democrazia consensuale delineata dal Testo costituzionale. Una democrazia “interloquente” – per richiamare le parole utilizzate da Giorgia Meloni nel suo intervento alla Camera in occasione del voto di fiducia – che spingeva al compromesso e al necessario coinvolgimento delle opposizioni nei processi decisionali (ma pur sempre entro il recinto dell’arco costituzionale). Una democrazia compromissoria, che, tuttavia, era progressivamente scivolata nel consociativismo, nell’esplosione del debito pubblico, nella cronica instabilità dei Governi e nella chiusura autoreferenziale dei partiti tradizionali rispetto alle istanze profonde della comunità. Non fu un caso, dunque, che i partiti tradizionali, proprio quelli che avevano costituito per decenni il perno della costituzione materiale della Repubblica, si disintegrarono nel giro di qualche mese agli inizi degli anni Novanta. Le inchieste della magistratura milanese offrirono solo l’innesco di una deflagrazione che era destinata, comunque, a determinarsi, aprendo la strada a nuovi soggetti politici e a diversi tentativi di riassetto politico-istituzionale. Tentativi di riforma che, a distanza di trent’anni e nonostante la spinta popolare referendaria del 1993, non possono dirsi ancora compiuti.
Il Presidente Cossiga – da statista navigato e ormai libero da condizionamenti – già agli inizi degli anni Novanta aveva ben compreso che – riconquistati alla democrazia i partiti antisistema e naufragato il comunismo, la cui minaccia aveva imposto all’Italia una democrazia bloccata – sarebbe stato necessario giungere al più presto alla riforma della seconda parte della Costituzione. Occorreva urgentemente rivitalizzare le istituzioni repubblicane e colmare il fossato che ormai le separava dalla comunità popolare. Spingendo le sue funzioni agli estremi limiti della “garanzia attiva” e come “rappresentante dell’unità nazionale” iniziò a sollecitare energicamente le forze politiche, conquistandosi il soprannome di “picconatore”, e indicando, con il messaggio alle Camere sulle riforme del 26 giugno 1991, le priorità da affrontare con le riforme: la forma di governo e il sistema elettorale, il ruolo delle autonomie, la disciplina dell’ordine giudiziario, i nuovi diritti di cittadinanza e gli strumenti relativi alla finanza pubblica. Fa impressione osservare come, nonostante tre Commissioni bicamerali (“Bozzi”, “De Mita-Iotti” e “D’Alema”) e almeno un paio di procedure di revisione bloccate ad un passo dall’approvazione con la bocciatura dei referendum confermativi nel 2006 (riforma “Berlusconi”) e nel 2016 (riforma “Renzi-Boschi”), tutti i temi reclamino ancora urgenti interventi riformatori.
Su tutti, ovviamente, spicca l’urgenza di intervenire sulla forma di governo. La difficoltà di formare maggioranze coese – che hanno condotto negli ultimi anni ad una successione di governi “tecnici” e a coalizioni (o, addirittura, a mere aggregazioni) tanto ibride, quanto precarie – si rispecchia in una diffusa sfiducia nella politica e nella ormai cronica disaffezione dell’elettorato. D’altra parte, la sempre crescente esigenza di una proiezione solida ed autorevole delle istituzioni nazionali negli scenari geo-politici ed economico-finanziari, internazionali ed europei inducono al superamento della forma di governo parlamentare per approdare a modelli di “democrazia decidente”. Tanto il modello semi-presidenziale gollista, quanto l’elezione diretta del capo dell’Esecutivo – secondo gli schemi ampiamente sperimentati ed apprezzati nelle regioni e nei comuni italiani e declinati a livello statale con la formula del “Sindaco d’Italia” – probabilmente varrebbero a riparare, anche al più elevato livello di governo, il tessuto sfibrato della sovranità popolare, come già, almeno in parte, avvenuto al livello delle istituzioni regionali e locali. L’elezione diretta del vertice dell’Esecutivo colmerebbe quel vuoto lasciato dalla crisi dei vecchi partiti politici, che nel primo modello repubblicano, con il loro profondo radicamento nella comunità, costituivano il principale veicolo di legittimazione democratica delle istituzioni e uno strumento essenziale della sovranità popolare.
Come procedere, dunque? Nel citato messaggio alle Camere del 1991 il Presidente Cossiga prospettava le tre vie alternative per la riforma delle istituzioni: 1) il ricorso alle procedure di revisione previste dall’art. 138 Cost.; 2) l’utilizzazione di procedure di revisione differenti rispetto a quelle prevista dall’art. 138 Cost., da introdurre, tuttavia, con specifica legge costituzionale; 3) l’elezione di una vera e propria Assemblea costituente.
Per far bene e per far presto (cioè entro l’orizzonte della XIX Legislatura) è da escludere soltanto l’Assemblea costituente. Quest’ultima, infatti, evoca per sua stessa natura momenti di frattura dell’ordinamento – spesso legati a fortissime crisi dell’identità e del sentimento di solidarietà politica di un popolo e di una nazione – cioè una crisi dei presupposti fondamentali dell’unità statale.
È, dunque, più opportuno seguire le strade già tracciate: la procedura ordinaria di revisione costituzionale dell’art. 138 Cost. o, meglio, quella della Commissione bicamerale. In quest’ultimo caso, secondo quanto già avvenuto in passato, sarebbe auspicabile l’approvazione di una specifica procedura volta a rafforzare le modalità di partecipazione dei corpi intermedi e del corpo elettorale al procedimento di riforma.
Ciò nella consapevolezza che ogni ipotesi di riforma della Costituzione deve tendere ad esprimere una visione della Nazione e a non coincidere, invece, con un vessillo di parte.

Felice Giuffrè
Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Catania

Draghi, Meloni e le generazioni future

L’incarico a Mario Draghi – da molti preconizzato – è maturato dopo le convulsioni della maggioranza del “Conte bis” e ha sparigliato il quadro politico, tagliando trasversalmente le alleanze tra i partiti.

La sciabolata improvvisa del Presidente Mattarella ha gettato nello scompiglio l’alleanza giallorossa.  PD e M5S avevano coltivano l’illusione di poter fare a meno di Italia Viva per andare avanti con la rinnovata formula politica di centro-sinistra saldata dalla figura di Giuseppe Conte, magari attraverso l’utilizzo dei miliardi del Recovery Fund. Sino alla conclusione dell’esplorazione di Roberto Fico i partiti della vecchia maggioranza si sono mostrati sin troppo sicuri che sarebbero riusciti a varare un “Conte ter” con l’aiuto dei soliti “responsabili”. Invece, come spesso accade in politica, si è imposta una realtà differente da quella immaginata ed è improvvisamente crollato il castello di carte di chi pensava di aver costruito – anche con l’uso mediatico dell’emergenza pandemica – il nuovo orizzonte strategico della sinistra di governo giallorossa.

Ma anche nel campo del centrodestra non sono tardate le divaricazioni. Alcune erano ampiamente previste, come quella che riguarda Forza Italia e la sua adesione ad ipotesi di governi tecnici o istituzionali, che potessero consentire il superamento della formula di governo giallorossa.

Altre, invece, erano sicuramente meno prevedibili, come quella derivante dalla disponibilità della Lega a partecipare ad un Governo di unità nazionale presieduto da Draghi.

L’unica eccezione alla grande alleanza per affrontare la crisi pandemica e provare a rilanciare l’Italia con l’utilizzo del prestito europeo del Recovery Plan è, dunque, quella di Fratelli d’Italia. Solo Giorgia Meloni ha volontariamente declinato l’invito del Presidente Mattarella, non chiudendo, tuttavia, la porta ad un concreto sostegno parlamentare su singoli provvedimenti nell’interesse della Nazione.

Anche questa scelta ha suscitato perplessità e un acceso, ma interessante dibattito nei circuiti politici, culturali ed editoriali della destra italiana. Da un lato, chi sostiene che in periodo di guerra (ormai consueta metafora dell’emergenza pandemica) nessuno dovrebbe sottrarsi alle istanze di una solidarietà politica nazionale, espressa con un corale appoggio al “Gabinetto bellico”.

Con il suo celebre “Whatever it takes” e con l’invenzione del Quantitative Easing l’ex Presidente della BCE ha salvato la moneta europea dalla speculazione internazionale e ha imposto, esponendosi agli anatemi dei rigoristi teutonici, un primo importante cambio di passo rispetto alle cieche politiche economiche depressive, fondate sull’ossessione tedesca per la stabilità monetaria.

Inoltre – last, but not least – il sostegno a Mario Draghi avrebbe potuto mettere in soffitta, definitivamente, i tentativi di riedizione, sotto mentite spoglie, del vecchio “arco costituzionale”. La conventio ad excludendum della destra, infatti, nella strategia del PD zingarettiano varrebbe ad imporre il ritorno ad una “democrazia bloccata” e il conseguente restringimento dell’area di governo al perimetro di un centro-sinistra con tonalità giallorosse.

Nell’interesse del Paese e non solo dei partiti che si collocano a destra dell’arco parlamentare, è fondamentale disinnescare questo grave rischio, la cui concretizzazione riporterebbe le lancette della democrazia italiana indietro di trent’anni. Si deve, tuttavia, riconoscere che l’ingresso in maggioranza della Lega di Salvini renderà spuntata quest’arma di delegittimazione rispetto a chi intendesse utilizzarla contro chicchessia e, a maggior ragione, nei confronti del partito nazionale che esprime il presidente dei Conservatori e riformisti europei.

D’altra parte, non mancano le ragioni a sostegno di quello che inizialmente è apparso come un “gran rifiuto” di Giorgia Meloni, ma che, con il passare delle ore, è stato messo a fuoco nei termini di una “opposizione patriottica”. La crescita progressiva di Fratelli d’Italia si spiega anche con una linea di rigorosa coerenza e con una visione dell’interesse nazionale (dalla economia agli assetti istituzionali, dal modello di sviluppo alla collocazione geo-politica del nostro Paese) non sempre espresse, con altrettanta organicità, da altre componenti del centro-destra. Probabilmente è vero che la visione “nazionale” di Fratelli d’Italia avrebbe faticato ad esprimersi con un governo di emergenza, magari sottoposto ai veti delle componenti grilline, democratiche e post-comuniste. La scelta, dunque, quella di convergere con la maggioranza che sosterrà il Governo Draghi, se e quando giungeranno in Parlamento indirizzi di politiche pubbliche coerenti con un disegno di riscossa dell’Italia e dell’Europa condivisibile per la destra identitaria e popolare.

Archiviato, dunque, il fisiologico, quanto utile dibattito interno su una scelta fondamentale per il destino del Paese (come si conviene ad un partito che possa dirsi veramente tale e non un mero coacervo di interessi elettorali), si tratta adesso di percorrere sino in fondo la via della “opposizione patriottica”.

Occorre, innanzi tutto, smascherare la falsa narrazione oppositiva tra europeisti e (presunti) antieuropeisti. Nessun europeo può e vuole oggi dire no all’Europa; ma ogni europeo può pretendere che il progetto di integrazione avanzi verso un modello di unione politica confederale. Una Unione che si regga sulle radici di una identità bimillenaria e sia capace di proiettarsi, non solo economicamente, nello scenario globale come potenza continentale. Una confederazione europea fondata sulla partecipazione politica dei suoi cittadini e sulla eguaglianza delle opportunità nell’intero suo territorio. Una comunità di Stati che sappia difendere i suoi ceti produttivi dall’economia finanziaria e dalla concorrenza sleale dei liberi battitori dei mercati internazionali. Un ordinamento sovrastale che, riavviando il processo di integrazione, restituisca le scelte monetarie e gli indirizzi di politica economica e fiscale alla sovranità di istituzioni politiche continentali, democratiche e rappresentative.

Del resto, proprio il “Whatever it takes” di Mario Draghi ha tutti i caratteri di una potente affermazione di sovranità rispetto alle dinamiche adespote dell’economia finanziaria globale. Una decisione politica anomala e in un certo senso paradossale, perché assunta da una autorità tecnica e “non politica”, che ha però dimostrato come, anche nel mondo globalizzato, non si possa fare a meno di istituzioni di governo dell’economia.

Un disegno, in definitiva, profondamente diverso dall’attuale Unione europea, troppo spesso concepita quale fonte di legittimazione tecnocratica e non, invece, come proiezione politica continentale di una concreta comunità democratica di cittadini e di Stati.

In questo senso, i conservatori possono essere, al contempo, europei e sovranisti. Nella tradizione del diritto pubblico europeo, infatti, al contrario rispetto a quanto sostenuto da alcune superficiali narrazioni, la sovranità è democrazia e partecipazione, universalismo inclusivo di cittadini, di comunità intermedie, di imprese e di lavoratori, nel quadro unificante di comuni principi di civiltà.

Una visione “patriottica europea”, dunque, può ben conciliarsi con la tutela degli interessi nazionali. Anche sul piano interno, quindi, l’opposizione costruttiva potrà esprimere il suo sostegno a tutte le iniziative di modernizzazione del Paese fondate sull’utilizzo razionale dell’enorme massa finanziaria del Recovery Plan. La risposta alla crisi indotta dalla pandemia ha, infatti, determinato un primo momento di rottura rispetto alle politiche rigoriste che rifiutavano l’idea di un debito comune per alimentare la solidarietà politica, sociale ed economica dell’Europa.

Un piano che dovrà sostenere, in Parlamento e nel Paese, il rilancio infrastrutturale dell’Italia e la ricucitura delle distanze fra il Nord e il Sud, con il potenziamento delle reti e con la valorizzazione delle identità territoriali. Un programma di supporto per assicurare nuova libertà di azione al genio nazionale sul piano della cultura, dell’impresa, dell’arte, della tecnica, della ricerca e dell’innovazione, da troppo tempo strozzato dalle rigidità burocratiche o dalle false rappresentazioni di una possibile “decrescita felice”. Un progetto di rilancio che sprigioni le energie individuali e collettive della nazione con il sostegno dello Stato e dell’Europa, garanti delle regole del gioco e delle infrastrutture strategiche. Una visione di competizione aperta al mondo nei termini della migliore tradizione dell’universalismo europeo, anziché sulla fiducia ingenua e incondizionata nel mercato globale.

In questo scenario dovrà misurarsi il contributo della maggioranza che sosterrà il Governo Draghi e il ruolo dell’opposizione costruttiva della destra italiana, con il pensiero rivolto alle generazioni future.

*Felice Giuffrè, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico, Università di Catania

LA VERA AUTONOMIA È NELLA REPUBBLICA

Questo saggio di Felice Giuffrè,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

La legge regionale costituisce espressione fondamentale dell’autonomia regionale e, dunque, della democrazia territoriale. La massima espressione della capacità delle comunità regionali di definire propri indirizzi politici in un rapporto di concorrenza e integrazione con l’indirizzo politico nazionale. Un modello dialettico tra concorrenza e integrazione che rimanda direttamente ai principi fondamentali della Carta costituzionale del 1948, dove, con l’art. 5 Cost., si afferma che «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Il disegno è completato dall’art. 114 Cost., modificato dalla l. cost. n. 3 del 2001, dove la Repubblica non coincide più interamente e solo con lo Stato (a sua volta ripartito in regioni, province e comuni, come nell’originario testo costituzionale), per identificarsi con una «istituzione complessa», che deve racchiudere, nel segno di valori unificanti, comuni, province, regioni, Città metropolitane e Stato; vale a dire, tutte le articolazioni territoriali della comunità politicamente organizzata.

Il riferimento alla Repubblica come Istituzione delle istituzioni (per usare il lessico di Santi Romano, ancora attualissimo) consente di ricostruire la trama delle istanze autonomistiche, che si affacciarono già prima dell’unità d’Italia e anche nel dibattito post-unitario, con le posizioni espresse da Farini e da Minghetti nel 1860, ma che furono presto messe da parte in favore di un modello centralista, capace di meglio rassicurare dinanzi ai timori sulla tenuta dell’unità del neonato Regno d’Italia. Nell’esperienza repubblicana l’assetto regionalista è stato lo strumento prescelto per costruire un ordinamento che partisse dall’individuo e dalle sue comunità originarie per risalire sino allo Stato. Una formula adeguata, oggi come ieri, ma a patto di riconoscere – come faceva già Luigi Sturzo nella prima metà del secolo scorso – che le regioni possono essere considerate elementi cardine di un assetto pluralista e partecipativo solo se si rifiuta qualsiasi cedimento rispetto al valore fondante del principio di unità e indivisibilità dell’ordinamento politico. Le regioni italiane (o, almeno, la maggior parte di esse) hanno, certo, una precisa identità geografica, storica, culturale e socio-economica, ma – utilizzando ancora le parole del sacerdote e politico siciliano – sono «una realtà esistente e vivente nella unità nazionale e nella compagine statale».

Lo Stato regionale può consentire l’apporto partecipativo delle comunità territoriali alla determinazione degli indirizzi della Nazione e, al contempo, il rafforzamento della tradizionale separazione verticale dei poteri con una divisione anche orizzontale. Il regionalismo, tuttavia, muove da un presupposto teorico fondamentale che appare irrinunciabile, ovverosia dal carattere ontologicamente limitato dell’autonomia. Così, non vi è autentica autonomia senza il riconoscimento dei limiti dell’ordinamento territoriale autonomo rispetto ad altra istituzione riconosciuta come sovrana. È questo il senso profondo della dialettica unità-autonomia nell’art. 5 Cost. ed è questa la ragione per cui la storia della legge regionale nel nostro ordinamento può essere letta come storia dei suoi limiti. I limiti, in definitiva, ci dicono quanta autonomia politica l’ordinamento costituzionale ritiene compatibile con l’istituzione politica sovrana o, se si vuole, con il principio dell’unità e dell’indivisibilità. Ebbene, già nel quadro dell’originario regionalismo, nel vigore del vecchio titolo V, la valenza fondamentale dell’interesse nazionale ha condotto ad un modello di integrazione tra legge statale e leggi regionali, in cui le seconde si trovavano incastonate in un più ampio ordinamento a geometria variabile. Ciò vuol dire che l’esatta portata degli ambiti di competenza regionale veniva determinata dall’azione di istanze costituzionali superiori (di interesse nazionale, appunto), capaci di fondare l’espansione o la contrazione della competenza normativa di Stato e regioni.

La legge regionale, almeno per le regioni ordinarie, era limitata sul piano «materiale» dall’elenco dell’art. 117 Cost. ed era, inoltre, limitata dai principi fondamentali, che, in ciascuna materia, erano espressamente fissati dalla legislazione statale o, comunque, da questa ricavabili. Vi erano, inoltre, una serie di ulteriori limiti che rappresentavano altrettante declinazioni di interesse nazionale o, comunque, di istanze ricollegabili al principio unitario enunciato dall’art. 5 Cost. (principi generali dell’ordinamento; diritto privato; diritto penale; obblighi internazionali e vincoli europei; principi delle leggi di grande riforma economico-sociale; limite territoriale; materie statali «trasversali»; potestà statale di indirizzo e coordinamento; poteri sostitutivi). Come strumento di chiusura del sistema (sebbene, mai utilizzato) era prevista, infine, la potestà del Parlamento di annullare, su ricorso del Governo, le leggi regionali per violazione dell’interesse nazionale (originaria formula dell’art. 127 Cost.). Potere che valeva a garantire la prevalenza dell’indirizzo politico nazionale su quelli, eventualmente incompatibili, delle regioni.

Come è noto, con la legge costituzionale n. 3 del 2001 – per un disegno che mirava a contenere le istanze autonomistiche dell’allora Lega Nord – fu modificato il Titolo V, alterando un assetto che aveva trovato una lenta razionalizzazione anche attraverso la legislazione statale attuativa e la giurisprudenza costituzionale. È stata, quindi, prevista l’enumerazione tassativa delle competenze legislative statali (art. 117, II comma, Cost.) e delle materie di potestà concorrente Stato-regioni (art. 117, III comma, Cost.); mentre, con una certa dose di ingenuità (o, forse, di malizia illusionista) tutte le materie residue sono state assegnate alla competenza della legge regionale (art. 117, IV comma, Cost.).

Al contempo, dal nuovo titolo V è scomparso ogni esplicito riferimento all’interesse nazionale e si afferma una presunta pari dignità tra leggi statali e regionali, sottoponendole ai medesimi limiti della Costituzione, degli obblighi internazionali e vincoli europei (art. 117, I comma, Cost.). Il carattere illusorio dei principi della riforma approvata nel 2001 dalla maggioranza del centro-sinistra si è presto manifestato con un’esplosione del contenzioso costituzionale, che ha condotto ad un ulteriore sforzo della giurisprudenza per ricondurre il nuovo regionalismo al quadro delle istanze unitarie su cui si regge ogni ordinamento sovrano, sebbene territorialmente articolato. Si è, dunque, presto compreso che la scomparsa dell’interesse nazionale dal Testo costituzionale è stata soltanto una «morte apparente», perché il principio di unità della Repubblica determina inevitabilmente la trasfigurazione di competenze, istituti e procedure costituzionali in vista della garanzia del medesimo. In particolare, la potestà esclusiva statale comprende materie c.d. «trasversali», che esprimono livelli di interesse o finalità da perseguire in modo unitario dall’ordinamento (tutela dell’ambiente, livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, principio di concorrenza, etc.). In molte materie statali, peraltro, si esprimono direttamente profili di quell’interesse nazionale che si assumeva scomparso (difesa, sicurezza, moneta, equilibri di bilancio, etc.).

Non solo. Il principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.) si manifesta soprattutto nella sua dinamica ascendente (a favore della concentrazione delle competenze e delle funzioni), piuttosto che in quella discendente (come strumento di dislocazione di compiti in capo agli enti più vicini ai cittadini). Per di più, dopo la sentenza n. 303/2003, è stata considerata pienamente legittima l’assunzione statale in sussidiarietà anche delle competenze legislative e non soltanto delle funzioni amministrative che appaiono meritevoli di essere esercitate al livello più alto dell’ordinamento. Da ultimo – soprattutto in seguito alla crisi finanziaria dello Stato e all’assunzioni di stringenti vincoli economici nei confronti di istituzioni sovranazionali – l’esigenza di assicurare gli equilibri di bilancio (art. 81 Cost.) attribuisce ulteriore forza espansiva ad altri limiti, rafforzandone la capacità di penetrazione e condizionamento nei confronti della potestà legislativa regionale (Corte cost. n. 168/2018).

Nel quadro appena delineato emerge un duplice rischio, giuridico-istituzionale e politico, che occorre disinnescare con opportune riforme costituzionali. Il rischio, del resto, si è purtroppo già improvvisamente  e drammaticamente concretizzato con l’esplosione dell’emergenza epidemiologica determinata dal Covid-19. Infatti, tra le molteplici e pesantissime conseguenze della pandemia esplosa lo scorso inverno (sanitarie, economiche, sociali, relazionali, etc.) vi è stata anche il cortocircuito nelle relazioni istituzionali tra Stato, regioni e minori enti territoriali. Se, infatti, i rapporti tra i differenti livelli di governo della Repubblica sono andati avanti, sebbene in modo claudicante, in condizioni di normalità; le eccezionali condizioni dell’emergenza hanno svelato tutta l’inadeguatezza della riforma costituzionale del titolo V, approvata dalla maggioranza di centro-sinistra nel 2001. Sul piano giuridico-istituzionale è, allora, urgentissimo un intervento di razionalizzazione dei rapporti tra Stato e regioni, frettolosamente alterati con la richiamata riforma «neoregionalista» e faticosamente ricomposti con l’attività continua della Corte costituzionale in sede di definizione del robusto contenzioso sul riparto delle competenze.

Al riguardo, è opportuno – senza ipocrisie o false illusioni autonomistiche – riportare espressamente alla competenza statale ambiti materiali che non possono che essere tali. Emblematica, al riguardo, è la materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», oggi, secondo l’art. 117, III co., di competenza concorrente. Ma non ci si può nemmeno esimere da una seria riflessione in ordine alla competenza in materia di sanità ovvero, ancora, sui meccanismi di gestione di funzioni e competenze, normalmente attribuite alle regioni, nei casi di grandi emergenze di rilievo nazionale. Infine, nell’attuale contesto economico e geopolitico, sarebbe opportuna una ulteriore riflessione in ordine all’opportunità della citata previsione dell’art. 117, I comma, Cost., che, prevedendo espressamente come limite alla legislazione statale e regionale «gli obblighi internazionali e vincoli europei», rende gli stessi indiretto parametro di legittimità costituzionale degli atti normativi di Stato e regioni.

Nell’ambito di una complessiva rivisitazione dei rapporti tra Stato e autonomie, è importante rafforzare le sedi che valgono a garantire la leale collaborazione tra i diversi livelli di governo (sistema delle «conferenze» e, magari, raccordi parlamentari) e, dunque, una visione integrata degli interessi locali e degli interessi unitari, anche a prescindere dalla formale attribuzione delle competenze e in vista del complessivo interesse della Repubblica. Sul piano politico, d’altra parte, la razionalizzazione delle competenze, per andare oltre le illusioni del nuovo Titolo V, contribuirebbe a scongiurare i rischi per il sentimento unitario, che, in certe aree del Paese, potrebbero essere alimentati da un eccessivo carico di aspettative sul modello regionale. Un carico eccessivo, difficilmente compatibile con l’interesse nazionale, che recentemente ha trovato momenti di emersione nel dibattito sul regionalismo differenziato, confusamente innescato dalle richiese di maggiore autonomia di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, ai sensi dell’art. 116, III comma, Cost. Quale norma di chiusura del sistema occorre, infine, disciplinare a livello costituzionale lo stato di emergenza, come avviene nella maggior parte delle costituzioni.

Una chiara attribuzione delle competenze emergenziali, l’espressa disciplina degli strumenti normativi da utilizzare per fronteggiare l’emergenza, un ben definito quadro di limiti e procedure dello stato d’eccezione appaiono ormai indispensabili, non solo per una efficace capacità di gestione delle situazioni emergenziali, ma anche per un ordinato svolgimento dei rapporti centro – periferia anche nel caso di grandi emergenza nazionali. Anche su questo piano è, dunque, necessario rimettere le idee a posto, ricordando che la vera tutela dell’autonomia non può non comprendere, anche e innanzi tutto, la piena garanzia degli interessi unitari della Repubblica.

*Felice Giuffrè, professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico Università di Catania

Un SI per innovare le istituzioni

La scelta tra il Si e il No alla riduzione del numero dei parlamentari, a cui saremo chiamati il 20 e il 21 settembre, costituisce l’ultima tappa in una serie ormai consistente (e, invero, estenuante) di tentavi di riforma istituzionale. Si parte addirittura nel 1983 con i lavori della “Commissione Bozzi” e si giunge alla riforma “Renzi-Boschi”, bocciata dal referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Nel mezzo le commissioni “De Mita-Iotti”, la bicamerale “D’Alema”, il Comitato “Speroni” e la riforma costituzionale promossa dalla maggioranza di centro-destra, bloccata dalla vittoria dei No nel referendum costituzionale del 2006. Ebbene, già gli esponenti più avveduti e lungimiranti della classe dirigente della c.d. “I Repubblica” si erano accorti che il nostro modello costituzionale non avrebbe potuto reggere, senza adeguati interventi di manutenzione, alle trasformazioni del quadro geopolitico ed economico mondiale, in rapidissima trasformazione già dalla seconda metà degli anni Ottanta.
Del resto, la forma di governo parlamentare disegnata nella Costituzione del 1948 è decisamente influenzata dalla necessità di favorire il coinvolgimento nei processi decisionali delle opposizioni e, in particolare, del PCI, che, per molti decenni successivi al Dopoguerra, non avrebbe potuto realisticamente sperare nell’ingresso nella area di governo, essendo l’Italia saldamente ancorata al “blocco occidentale”. Il “bicameralismo perfetto” e l’elevato numero di deputati e senatori erano, dunque, elementi di una impostazione istituzionale spiccatamente garantista, che, evidentemente, scontava un prezzo in termini di minore efficienza della forma di governo, che nei primi decenni della Repubblica era compensato (solo in parte) dalla solidità e dalla credibilità dei sistema dei partiti e della loro classe dirigente.
Della dialettica oppositiva tra rappresentanza e governabilità vi sono tracce evidentissime nei lavori preparatori, soprattutto nelle posizioni contrapposte di Terracini – il quale, in linea con l’indirizzo del Partito comunista, spingeva per l’ampliamento della rappresentanza – ed Einaudi – che, invece, segnalava i gravi rischi che tale scelta avrebbe determinato per la governabilità e per l’efficienza dell’organo legislativo della Repubblica. Il contrasto si concluse con la previsione di un numero variabile di parlamentari in rapporto alla consistenza della popolazione: un deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila (art. 56 Cost.); un senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila (art. 57 Cost.) Nel 1963, invece, una legge di revisione costituzionale stabilì il numero fisso di 630 deputati e 315 senatori (oltre, naturalmente, i senatori a vita).
Ebbene, già dalla fine degli anni Ottanta lo scenario è profondamente cambiato, tanto sul versante politico (e geopolitico), quanto sul piano istituzionale, così da rendere indispensabile un riequilibrio dei meccanismi della nostra forma di governo, all’epoca appositamente predisposti per rallentare i processi decisionali e spingere ad una gestione necessariamente compromissoria dell’indirizzo politico del Paese. Invero, di fronte al venir meno di ogni conventio ad excludendum, tanto nei confronti della sinistra, quanto nei confronti della destra, appare evidente come sia necessario recuperare le istanze della governabilità (inizialmente sacrificate in vista della ricostruzione di quel minimo di omogeneità necessaria per l’esistenza di ogni comunità politica) affinché la Repubblica possa essere in grado di affrontare efficacemente le sfide turbinose del mondo contemporaneo. Le riduzione del numero dei parlamentari rappresenta un tassello di questo necessario processo di razionalizzazione, che potrà e dovrà certamente essere completato con altri interventi di riforma.
Ed ecco, allora, che una prima ragione per votare “Si” è proprio quella che attiene al “metodo” delle riforme istituzionali. Sono ormai diversi decenni che il Parlamento italiano e le forze politiche provano a riformare la seconda parte della Carta fondamentale con un disegno complessivo ed organico, ma ogni volta gli sforzi si sono arenati. Sia nella campagna referendaria del 2006, sia in quella del 2016, uno degli argomenti più utilizzati da chi avversava le riforme “Berlusconi”, prima, e “Renzi-Boschi”, dopo, era quello della presunta inidoneità del referendum costituzionale al fine di assicurare una scelta libera e consapevole degli elettori sui differenti profili di una revisione complessiva del Testo costituzionale (struttura delle Camere, rapporti tra Governo e Parlamento, regionalismo, etc.) Ci fu addirittura chi si appellò (invano) alla Corte costituzionale, affinché fosse consentito il c.d. “spacchettamento” del quesito referendario. Se è così, allora, quale migliore occasione per riavviare i motori delle riforme istituzionali, se non quella offerta da un quesito chiaro e univoco per gli elettori? La riduzione del numero dei parlamentari non sarà la panacea di tutti i mali, ma contribuirà alla necessaria razionalizzazione della forma di governo.
In questo senso, vale innanzi tutto sottolineare come, in realtà, se vincesse il Si non vi sarebbe alcuna riduzione dei canali della rappresentanza rispetto al 1948 o al 1963. Innanzitutto, dal 1948 ad oggi si sono moltiplicati i canali rappresentativi attraverso cui le istanze della comunità possono essere veicolate nelle istituzioni; oltre al Parlamento, infatti, oggi i cittadini eleggono i Consigli regionali e i rappresentanti italiani al Parlamento europeo. Inoltre, dal 1993 è stata introdotta l’elezione diretta dei sindaci e, dal 1999, quella dei Presidenti di Regione. Dunque, le istanze dei cittadini possono essere veicolate nel quadro di un sistema di rappresentanza multilivello, che, peraltro, è stato ulteriormente amplificato grazie allo straordinario balzo tecnologico degli ultimi decenni, che assicura una circolarità di informazioni e di istanze inimmaginabile al tempo della Costituente. Al riguardo, basti pensare come oggi i lavori e gli atti del Parlamento siano direttamente e immediatamente accessibili dai siti della Camera e del Senato (cosi come anche per la altre assemblee rappresentative), mentre i cittadini, attraverso i social network e la posta elettronica istituzionale hanno sempre la possibilità di instaurare o stimolare un contatto con i proprio rappresentanti. Ma v’è di più. Negli ultimi decenni, in Italia come negli altri Paesi occidentali, accanto alle istituzioni parlamentari che ormai condividono le competenze legislative con altre assemblee territoriali, rilevanti settori di normazione sono assegnati ad istituzioni indipendenti (ad esempio, alle c.d. authority), che sempre più spesso assicurano la partecipazione di cittadini e di portatori di interessi qualificati nell’ambito di un nuovo modello di legalità di tipo procedimentale o, se si preferisce, di democrazia partecipativa.
Di fronte, alla riduzione degli ambiti di competenza del Parlamento e alla diffusione del canali rappresentativi, risalta ancor di più l’elemento comparatistico quale argomento a favore delle ragioni della riduzione del numero dei parlamentati. Il Parlamento italiano, infatti, non ha eguali in termini di consistenza numerica nel panorama occidentale; per di più con un bicameralismo che, assegnando a Camera e a Senato le medesime funzioni, vale a rendere assai laboriosi i procedimenti di formazione della legge e più incisivi gli strumenti di interdizione delle minoranze parlamentari. Non a caso, infatti, già dagli anni Ottanta il Parlamento ha perso in modo consistente capacità di iniziativa a favore dell’Esecutivo. Ciò è vero, in campo legislativo, come rivela la crescita ipertrofica degli strumenti del decreto-legge e della delega legislativa. Ma è vero anche sul piano dell’indirizzo e del sindacato politico, come dimostra il numero elevatissimo di Governi (talvolta “tecnici”, ma pur sempre in realtà politici) che, negli ultimi decenni, sono stati sorretti da maggioranze estemporanee e poco rappresentative degli orientamenti dell’elettorato. Maggioranze, magari distanti dal sentimento degli elettori, ma certosinamente raccolte proprio sfruttando l’elevato numero di parlamentari, la presenza di piccoli gruppi espressivi di personali “rendite di posizione” e quella degenerazione del (pur sacrosanto) divieto di mandato imperativo, che è il transfughismo parlamentare.
In definitiva, anche sul piano della rappresentanza politica, si può concludere che la “quantità” non corrisponde affatto alla “qualità”. Non conta, dunque, il numero di deputati e senatori eletti dai cittadini, quanto la loro capacità di raccogliere e veicolare le istanze dei cittadini rappresentati, filtrandole e sintetizzandole in politiche pubbliche che esprimano, comunque, l’interesse generale (o l’interesse della Nazione, secondo il richiamo dell’art. 67 Cost.)
Un Parlamento relativamente meno numeroso (deputati e senatori elettivi sarebbero, comunque, seicento) potrebbe svolgere meglio quel necessario confronto dialettico con il Governo, da cui dipende il buon funzionamento della forma di governo parlamentare, e potrebbe riconquistare legittimazione ed efficienza. Serve, dunque, un “Si” per un Parlamento più funzionale e autorevole, capace di essere il motore di ulteriori riforme istituzionali e, soprattutto, di una rigenerazione della classe dirigente della Nazione.