Federico Cartelli

Un’opposizione di alto profilo

Fratelli d’Italia sceglie di stare all’opposizione del governo Draghi. Una posizione, l’unica a ben vedere, “fuori dal coro” unanime di media e resto della politica che, improvvisamente, si scoprono da sempre militanti inconsapevoli del partito di Draghi. La competenza, la preparazione e la capacità manageriale dell’ex presidente della Banca d’Italia non sono certo in discussione, e non potrebbero esserlo. Ciò che davvero dovrebbe far riflettere, in particolare quei settori dell’opinione pubblica – se così si può definire – che su Giorgia Meloni hanno fatto cadere la solita volgare pioggia di provocazioni e derisioni, è la reale bontà di questa operazione politica eterodiretta dal Quirinale. Sebbene, di fatto, la mossa sia stata necessaria – considerata l’incapacità del governo precedente –, per Mario Draghi non sarà facile arrivare ad una sintesi programmatica fra forze politiche così diverse; e tale sintesi, molto spesso, rischierà di trasformarsi di volta in volta in un compromesso che virerà sempre più al ribasso. La flat tax, che era uno degli elementi portanti del programma condiviso del centrodestra, è già stata tolta bruscamente dal tavolo delle trattative. Fratelli d’Italia, in questa fase politica delicatissima per il Paese, non ha intenzione di andare sull’Aventino: questo è ciò che si è maldestramente tentato di descrivere. Al contrario, Fratelli d’Italia interpreterà un ruolo tanto prezioso quanto fondamentale: se il presidente della Repubblica, giustamente, ha auspicato un governo di alto profilo, è giusto aspettarsi che tale governo abbia anche un’opposizione di alto profilo. Fratelli d’Italia farà un’opposizione responsabile e autorevole, di alto profilo appunto, attenta all’interessa nazionale, priva d’ostruzionismi ma anche senza la piaggeria che sta contraddistinguendo altre forze politiche. Si può essere costruttori rimanendo fedeli alle proprie idee. Una sentinella, come l’ha definita Giorgia Meloni, che vigilerà sull’azione del nuovo esecutivo e non mancherà di metterne in evidenza le criticità quando necessario. E dovrà fornire contributi preziosi e impegnarsi in battaglie importanti: la tutela dei non garantiti (partite IVA, autonomi, freelance), il potenziamento del piano di vaccinazione e del sistema sanitario, la trasformazione digitale delle imprese e la formazione dei giovani. Anche senza reclamare una poltrona di governo, Fratelli d’Italia farà la sua parte. Senza la necessità – magari impellente per altri – di trovare legittimazione in un immaginario “arco costituzionale” al quale, secondo bizzarre teorie, si viene ammessi solo previa acritica dichiarazione di fede verso Bruxelles. Giorgia Meloni è già da tempo presidente dei Conservatori europei, gruppo parlamentare del parlamento europeo del quale fa parte stabilmente Fratelli d’Italia, e il partito è già sufficientemente legittimato dai milioni di voti ricevuti dagli italiani in questi anni. Tanto da essere l’unica formazione politica che, da quando si è presentata per la prima volta alle urne, è sempre cresciuta in tutte le elezioni seguenti, a livello nazionale e locale. Probabilmente è proprio questo aspetto che preoccupa.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

 

 

 

Cresce l’importanza della Cyber securety

I problemi recentemente occorsi al sito dell’INPS, per quanto si possano prestare a facili ironie,  pongono una questione grave che troppo spesso viene trascurata: la grande fragilità delle infrastrutture informatiche del Paese. Abbiamo assistito ad un paradosso: in prima battuta, il sito dell’INPS è apparso letteralmente collassare su stesso, a causa dei troppi – prevedibili – accessi per la richiesta dei bonus e delle indennità; in seconda battuta, il presidente Tridico ha accusato fantomatici hacker di essere i responsabili del malfunzionamento. Che si tratti di un attacco hacker riuscito con successo, o che sia stato un problema interno di sovraccarico, in entrambi i casi le circostanze accadute non sono tollerabili. Ancor più considerato che, per qualche ora, il malfunzionamento ha causato la possibilità di visionare liberamente i dati personali di alcuni iscritti alla piattaforma della previdenza. La verità è che il sito dell’INPS è uno dei tanti siti istituzionali che presenta una struttura arcaica, vulnerabile e fallata: era ovvio che questo colabrodo sarebbe crollato, poco importa se per carenze proprie o per intervento esterno. Bisogna però ricordare che un sito già di per sè scadente è naturalmente più facile preda di attacchi informatici; una piattaforma strategica come quella dell’INPS dovrebbe, al contrario, essere “blindata” dal punto di vista informatico, assicurando non solo un’elevata capacità di sostenere migliaia di accessi contemporaneamente, ma anche la capacità di resistere ad eventuali azioni malevoli.

Il settore pubblico usa, non di rado, software datato e non aggiornato ai più recenti upgrade di sicurezza, ma anche le più elementari pratiche di sicurezza rimangono un mistero per tanti dipendenti come per molti dirigenti. Spesso manca la corretta consapevolezza dei rischi che si possono correre anche solo nell’aprire una mail sospetta o nell’accedere ad un sito di dubbia affidabilità. Solo qualche giorno fa il ministero della pubblica amministrazione sollecitava i dipendenti a lavorare da casa in smart working utilizzando, se necessario, anche i propri computer personali: si tratta di un vero e proprio atto di incoscienza e di superficialità, poiché non vi è alcun modo di accertare che i computer personali – nonché le reti Wi-Fi o 4G che tali computer utilizzano quotidianamente per connettersi – siano effettivamente sicuri e rispettosi dei protocolli necessari per trattare dati sensibili come quelli della pubblica amministrazione.

Il problema della cyber security è aumentato in modo esponenziale negli ultimi anni. Nel 2018 le azioni ostili contro le infrastrutture informatiche pubbliche e private dell’Italia sono quintuplicate: ad essere prese di mira sono soprattutto gli ospedali: recentemente è stato attaccato lo Spallanzani, che è riuscito a difendersi. Il rapporto annuale dell’Associazione Italiana per la Sicurezza Informatica evidenzia che, nel 2019, gli attacchi informatici classificati come “gravi” sono stati 1.670 – con una media di uno ogni cinque ore –, mostrando un incremento del 7% rispetto all’anno precedente e di ben il 91,2% rispetto a cinque anni prima. L’incremento non è solo meramente numerico: a fare un balzo in avanti è anche la qualità di questi attacchi. Quelli con impatti di livello “alto” hanno colpito la sanità e le aziende fornitrici di software e hardware, mentre quelli con impatti di livello “critico” hanno colpito soprattutto il settore bancario e finanziario, nonché le infrastrutture strategiche del settore pubblico.

L’Italia ha, dunque, un disperato bisogno di educazione digitale a tutti i livelli, di investimenti seri nelle infrastrutture e nella sicurezza delle reti informatiche, e di personale adeguatamente formato che, possibilmente, non corra ad aprire ogni allegato che riceve per email. Stiamo vivendo una pandemia che colpisce la salute, ma l’Italia non è attualmente pronta per la pandemia del futuro, quella informatica. Il Paese, che nei prossimi mesi non dovrà abbassare la guardia ma dovrà essere necessariamente ricostruito, ha l’occasione per trarre qualcosa di buono da questi tempi molto difficili, innovando e modernizzando il proprio tessuto socio-economico.

Dopo le regionali: cinque punti-chiave

L’Emilia-Romagna rimane al centrosinistra, la Calabria cambia e sceglie il centrodestra: questi i verdetti della prima tornata elettorale dell’anno, sorta di “aperitivo” di quella più ampia che a fine maggio vedrà coinvolte altre sei regioni (Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana e Veneto). Vediamo cinque punti-chiave per capire gli orientamenti che sono emersi da queste consultazioni.

 

Il disfacimento del Movimento 5 Stelle. Fiaccato dalle dimissioni da capo politico di Luigi Di Maio e alle prese con una crisi interna conclamata, nel Movimento sembra già arrivata l’ora del “liberi tutti”. Emergono chiaramente tre schieramenti: una parte vorrebbe allearsi stabilmente con il Partito Democratico, una seconda vorrebbe riabilitare la vecchia linea “autonomista”, una terza continua ad avere nostalgia di Salvini. E se è vero che i grillini non hanno mai brillato alle elezioni amministrative, è altresì vero che si è ormai consolidato un trend negativo che ha portato alla smobilitazione in Emilia-Romagna come in Calabria: in quest’ultima regione il Movimento è addirittura fuori dal consiglio regionale, non avendo superato lo sbarramento dell’8% previsto dalla legge elettorale calabrese. In Emilia-Romagna la maggior parte degli ormai ex elettori grillini ha votato per Bonaccini, incidendo in maniera decisiva sulla sua vittoria (che anche in virtù di tale fattore è risultata essere più ampia delle previsioni).

La sconfitta (?) di Salvini. Può un leader che porta il proprio partito a raggiungere quasi il 32% nella regione politicamente più ostile – e ad aumentarne il consenso di quasi 200 mila voti rispetto alle ultime elezioni politiche – essere bollato come “il grande sconfitto” di questa tornata elettorale? Sì, perché la politica non è una scienza esatta e spesso risponde più alle emozioni che ai numeri. Quel 32% appare come una sconfitta perché le aspettative erano altre: e paradossalmente era stato proprio Salvini a crearle. La “nazionalizzazione” – e l’eccessiva personalizzazione – della campagna elettorale hanno pagato solo parzialmente in una delle poche roccaforti rosse rimaste. Rimane qualche utile lezione per le campagne future: prima fra tutte, la necessità di allargare le coordinate del voto leghista, che non riesce ancora a sfondare nelle grandi città; in secondo luogo, la necessità di diversificare lo stile comunicativo.

Forza Italia e il partito del Sud. Un imbarazzante 2,5% in Emilia-Romagna, il 12,3% in Calabria dove esprime il nuovo governatore, Jole Santelli: qual è la “vera” Forza Italia? La risposta è semplice se si osservano i trend delle ultime elezioni politiche, europee e amministrative. Come lo stesso Silvio Berlusconi ha affermato in una recente intervista, Forza Italia si sta caratterizzando come “partito del riscatto del Sud”. E non può che essere così, considerato che nelle regioni del Nord Forza Italia è praticamente sparita. Questo, tuttavia, è un problema per tutto il centrodestra: il mancato apporto in termini numerici di Forza Italia per Lucia Borgonzoni è stato un altro fattore determinante per la vittoria di Bonaccini. All’orizzonte ci sono le regionali in Campania, dove Forza Italia si appresta a sostenere un “suo” uomo, Stefano Caldoro, ma anche le regionali in Toscana, dove il partito esprime ottimi amministratori locali e dove il centrodestra non deve fare l’errore di partire già sconfitto.

La crescita costante di Fratelli d’Italia. Non è più una novità: anche in Calabria ed Emilia-Romagna il partito di Giorgia Meloni gode di ottima salute, raggiungendo percentuali intorno al 10% e ponendosi stabilmente come seconda forza della coalizione. Fratelli d’Italia continua a giovarsi da un lato della debolezza di Forza Italia, dall’altro del logoramento di Matteo Salvini dovuto alla sua sovra-esposizione mediatica: è probabile che nei prossimi mesi la percentuale del partito continui a crescere, considerato che Giorgia Meloni intende esprimere le candidature a governatore per le regionali in Puglia e nelle Marche. La concreta possibilità che venga varata una legge elettorale proporzionale aumenta la competizione all’interno del centrodestra, e Giorgia Meloni è attualmente la più in forma, come mostrano i sondaggi che la danno al primo posto in termini di gradimento.

La “vittoria” del Partito Democratico. La vittoria in Emilia-Romagna è, più che del partito, la vittoria di Stefano Bonaccini e del suo team di comunicazione, che ha saggiamente rinunciato a posizionare il simbolo del PD accanto al candidato e ne ha “rinfrescato” l’immagine. Bonaccini non si è lasciato trascinare nelle vicende romane e ha impostato una campagna elettorale prettamente territoriale, imperniata sulla presentazione dei buoni risultati dell’amministrazione uscente. C’è poi da ricordare che il campo di battaglia era l’Emilia-Romagna, che sta al PD come il Veneto sta alla Lega, dunque la vittoria era il minimo sindacale. Il bilancio finale di queste tornata elettorale, in verità, segna per il centrosinistra la perdita di un’altra regione, la Calabria: ora il centrodestra governa in 13 regioni, il centrosinistra in 6. Rimane interlocutorio il rapporto con le Sardine il cui apporto, come già evidenziato nella precedente analisi, è stato decisivo per contrastare Salvini sul piano identitario e per risvegliare una parte dormiente dell’elettorato di centro-sinistra: ma il dialogo con il Partito Democratico è solo all’inizio.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Manifesto contro il proporzionale

Il governo giallo-rosso è nato con due precisi obiettivi. Il primo è controllare l’elezione del presidente della Repubblica nel 2022; il secondo è modificare la legge elettorale per “disinnescare” una futura vittoria della coalizione di centro-destra, maggioranza nel Paese. Partito Democratico e Movimento 5 Stelle stanno già lavorando al ritorno del proporzionale “puro”, senza alcun elemento maggioritario. Una decisa opposizione a questo piano scellerato può costituire, senza dubbio, il primo banco di prova per una rinnovata unità del centrodestra. Il “no” al proporzionale deve essere netto, senza se e senza ma, senza distinguo e postille da azzeccagarbugli: vediamo perché.

  1. Il proporzionale è stato già bocciato dagli Italiani mediante referendum abrogativo. Il 18 aprile 1993 si recò alle urne oltre il 77% degli aventi diritto e ben l’82,74% votò in favore dell’abrogazione di alcune disposizioni della legge elettorale in vigore per il Senato. Questo risultato – combinato con la precedente abrogazione, avvenuta sempre per via referendaria il 9 giugno 1991, di alcune norme relative alla legge elettorale per la Camera – portò il Parlamento ad approvare due leggi (una per ogni ramo parlamentare) che introducevano un sistema elettorale misto basato sull’elezione di tre quarti dei deputati e tre quarti dei senatori con sistema maggioritario a turno unico nell’ambito di collegi uninominali. Solo i restanti seggi venivano attribuiti con il sistema proporzionale.

 

  1. Il proporzionale è il simbolo del trasformismo ed esaspera tutte le già evidenti criticità di una repubblica parlamentare. Altro che “cambiamento”: ora si lavora per riportare l’Italia ai tempi della Prima Repubblica, nella quale si ricorreva alle scorciatoie costituzionali per legittimare giuridicamente giochi di palazzo e repentini cambi di casacca. Non deve sorprendere che a farsi promotori del ritorno al proporzionale siano, rispettivamente: un presidente del Consiglio che è riuscito con rapida disinvoltura a cambiare compagni di viaggio (una capacità di adattamento davvero d’altri tempi); un partito (quello Democratico) che per evitare di essere l’eterno secondo ha improvvisamente abbandonato la storica battaglia in favore del maggioritario; un altro partito (Movimento 5 Stelle) che già sogna di essere l’eterno ago della bilancia in Parlamento.

 

  1. Il proporzionale è sinonimo d’instabilità: 66 governi in 73 anni anni di repubblica a quanto pare non sono stati sufficienti per comprendere la dannosità di questo sistema elettorale. L’Italia ha bisogno di stabilità, e questa è possibile solo attraverso una sana alternanza democratica basata sulla volontà degli elettori. Questo è l’obiettivo di una democrazia matura: invece, si mira a mantenere l’Italia nell’eterno limbo di una repubblica transitoria e plasmabile sulla base degli interessi di una minoranza. Una minoranza che senza cambiare le regole del gioco sarebbe destinata a rimanere tale anche nelle aule parlamentari, e che quando si trova all’opposizione non smette mai di preoccuparsi per la credibilità internazionale dell’Italia. Ma quale livello di credibilità può avere un Paese che cambia governo ogni anno sulla base di occasionali convenienze partitiche?

 

  1. Il proporzionale rende più fragile il sistema-Paese: l’impossibilità nel riuscire a dare continuità all’azione dell’esecutivo ha inevitabili e negative ripercussioni sul tessuto socio-economico e sulla qualità delle politiche pubbliche. Il proporzionale impedisce ai governi di disegnare un orizzonte temporale di medio-lungo periodo e di mettere in cantiere riforme strutturali in grado di avere ripercussioni positive sul sistema produttivo. Imprese, lavoratori autonomi e dipendenti, famiglie si trovano così a fare i conti con continui cambiamenti legislativi che si traducono in ben noti labirinti burocratici. Il proporzionale costruisce governi di breve respiro, che spesso hanno come uniche priorità la soddisfazione dei propri piccoli bacini elettorali e la rincorsa di un occasionale consenso utile solo per potersi sedere al tavolo del prossimo inciucio.

 

  1. Il proporzionale crea disaffezione verso le istituzioni e verso la politica. Sarà pur vero che, come prevede la Costituzione, non si vota per eleggere il governo né il Presidente del Consiglio: ma se i cittadini vengono ridotti a meri esecutori di una democrazia di facciata, e la sovranità popolare – da esercitare, certo, nelle forme e nei limiti della Costituzione – è considerata nulla più che un intralcio facilmente superabile dall’ambizione di un manipolo di opportunisti, è naturale che a prevalere siano rabbia e risentimento verso un sistema che anziché auto-riformarsi si preoccupa di cementare le proprie rendite di posizione. Le soluzioni sono due: l’abbandono del parlamentarismo in favore di una repubblica presidenziale con elezioni diretta del capo dello Stato, e l’adozione di una legge elettorale di tipo maggioritario.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Lega e Fratelli, la coppia vincente

I dati definitivi delle elezioni europee disegnano uno scenario molto chiaro. Trionfa la Lega, che inverte i rapporti di forza nei confronti del Movimento 5 Stelle, sorpassato da un redivivo Partito Democratico che però perde voti. Male Forza Italia, che non riesce a fermare l’emorragia di consensi; bene Fratelli d’Italia, che vede aumentare la propria percentuale di elezione in elezione.

• Il calo indicato dai sondaggi delle ultime settimane era solo immaginario: la Lega vola ampiamente oltre la soglia del 30% arrivando a più del 34% dei consensi. Si afferma e anzi recupera voti nei tradizionali feudi del Nord – dove, secondo alcuni “analisti”, il partito stava perdendo consenso –, avanza nelle ex regioni rosse ma si afferma anche al Sud. La Lega è ormai un partito nazionale e punta alle prossime regionali per strappare Toscana, Emilia-Romagna e Umbria al Partito Democratico. Il saldo è ampiamente positivo rispetto al 2014 e al 2018.

• Per il Movimento 5 Stelle si è verificato lo scenario peggiore: doppiato dalla Lega, sorpassato dal Partito Democratico. Il saldo è negativo rispetto al 2014 e al 2018. I grillini calano molto al Nord e al Centro, e vengono “salvati” dal Sud e dalla Sicilia, dove tuttavia la bassa affluenza ha penalizzato il Movimento. Per Luigi Di Maio sarà molto difficile riuscire a tenere compatto il partito davanti a un risultato così deludente: il futuro del governo è un rebus. La strategia comunicativa aggressiva nei confronti di Salvini non ha pagato.

• Festeggia Fratelli d’Italia, ancora una volta snobbato – o tutt’al più deriso – dai media mainstream ma che, come la Lega, è l’unico partito che può vantare una crescita costante dal 2014 a oggi. Il raggiungimento di oltre il 6% dei consensi rappresenta il miglior risultato della – giovane – storia del partito: Forza Italia dista solo 2,5 punti percentuali, ma ad esempio in Veneto, a livello regionale, il sorpasso è già avvenuto. Un dato politico rilevante: un ipotetico “fronte sovranista” Salvini-Meloni raccoglierebbe, allo stato attuale, più del 40% dei voti.

• Forza Italia crolla sotto la soglia psicologica del 10%, ma anche del 9%. È l’unico partito, insieme al Movimento 5 Stelle, a segnare un saldo negativo rispetto al 2014 al 2018. La parabola discendente non sembra attualmente arrestabile e anzi apre nuovi fronti di spaccatura all’interno del partito. Gli equilibri del destra-centro vanno ormai consolidandosi.

• Il Partito Democratico esce dal torpore post-renziano e lancia segnali di vita compiendo un insperato sorpasso ai danni del Movimento 5 Stelle. Si afferma in particolare nelle grandi città, confermando una tendenza già emersa parzialmente nel 2018. È opportuno, tuttavia, precisare che sebbene il saldo percentuale sia positivo, in termini prettamente numerici il saldo è negativo: il Partito Democratico, infatti, perde voti rispetto al 2018. Resta tutta da verificare la presunta unità interna del partito e la tenuta territoriale: in sostanza, è prematuro parlare di “resurrezione” dei Democratici, che dovranno lavorare molto per rendere questo risultato un punto di partenza e non di arrivo.

Fonte:federicocartelli.com

Italiani tartassati. Patrimoniale? No, grazie

Il 2017 è stato un anno record per le casse dello Stato. Come riportato da Truenumbers, le entrate tributarie sono state pari a 497,002 miliardi di euro, ai quali si aggiungono ulteriori 77,9 miliardi provenienti dalle entrate extra-tributarie. Il totale di 574,902 miliardi di euro rappresenta la cifra più alta mai versata dai contribuenti italiani, circa 10 miliardi in più rispetto al 2016, anno che deteneva questo primato non proprio onorevole. Si pensi, inoltre, che nel 2007 lo Stato incassava circa 100 miliardi in meno e che il trend è in costante aumento se rapportato al 2002. Non è necessario ricordare che l’anno di “svolta” per le casse statali è stato il 2011, con l’avvento del governo Monti, che ha fatto volare il gettito da 489,9 miliardi di euro ai 534,3 miliardi nel 2012.

Questa premessa è necessaria per arrivare ad una considerazione fondamentale: l’erario gode di ottima salute. Anzi, non è mai stato così ricco e, di anno in anno, è sempre più colmo dei soldi degli Italiani, alla faccia della tanto sbandierata riduzione della pressione fiscale. I soldi in cassa ci sono: si dovrebbe riflettere, semmai, su come vengono spesi. Per questo suscita una certa preoccupazione vedere ciclicamente riaffacciarsi nell’agenda politica – è proprio il caso di dire: puntuale come una tassa – l’ipotesi di una patrimoniale. Tale eventualità, come ormai da tradizione, è stata paventata nel corso della presentazione della legge di stabilità alla Commissione europea. Già nel 2017, nella medesima occasione, era circolata la possibilità di una reintroduzione dell’Imu sulla prima casa per i proprietari ad alto reddito. L’applicazione di una patrimoniale è un’ipotesi da scartare in toto, sia per una questione di utilità economica, ma anche per una ragione di principio. Questo tipo di tassa  aggredisce la cosiddetta “ricchezza posseduta”, che può comprendere beni immobili – come abitazioni e terreni –, beni mobili – ad esempio, auto, moto e imbarcazioni –, e gli investimenti finanziari. Non è il caso qui di ricordare, per carità di patria, le devastazioni che queste tasse hanno portato nel settore immobiliare – ormai il mattone va perdendo l’antico valore – e nautico, oppure di come l’imposta di bollo sui conti correnti e sui depositi introdotta dal governo Monti abbia di fatto quasi azzerato le rendite dei risparmi.

La CGIA di Mestre ha analizzato una quindicina di patrimoniali che sono state introdotte tra il 1990 e il 2017: l’imposta di registro e sostitutiva; l’imposta di bollo; l’imposta ipotecaria; i diritti catastali; l’Ici, Imu, Tasi; il bollo auto; il canone radio tv; l’imposta sulle imbarcazioni e gli aeromobili; l’imposta sulle transazioni finanziarie; l’imposta sul patrimonio netto delle imprese; l’imposta sulle successioni e sulle donazioni; l’imposta straordinaria sugli immobili; l’imposta straordinaria sui depositi; l’imposta sui beni di lusso. Come segnala Paolo Zabeo, coordinatore dell’ufficio studi della CGIA, «sono già una quindicina le imposte patrimoniali che gli italiani sono costretti a pagare ogni anno. Nel 2017, ad esempio, tra l’Imu, la Tasi, l’imposta di bollo, il bollo auto, eccetera abbiamo versato al fisco 45,7 miliardi di euro. Rispetto al 1990, il gettito riconducibile alle imposte di possesso sui nostri beni mobili, immobili e sugli investimenti finanziari in termini nominali è aumentato del 400%, mentre l’inflazione è cresciuta del 90 per cento. In buona sostanza, in oltre 25 anni abbiamo subito una vera e propria stangata». La tabella seguente, elaborata da Il Nordest Quotidiano, riassume l’evoluzione del gettito derivante dalle imposte patrimoniali dal 1990 al 2017.


Alla luce di questi dati, si dovrebbe semmai riflettere sulla necessità di eliminare almeno alcune fra queste odiose tasse, anziché pensare a introdurne di nuove. Invece, purtroppo, l’Italia sembra voler continuare ad essere il paradiso dei balzelli: la fatturazione elettronica, ad esempio, sebbene non possa essere considerata una patrimoniale, porterà ad ulteriori oneri per lavoratori autonomi e piccole imprese. Il vero cambiamento deve partire da qui: dalla volontà di ridare fiducia a chi produce e investe nel nostro Paese.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Rinaldi:Il ruolo dello Stato? Investire su chi produce in Italia

Lunedì 26, a Roma, si terrà la terza sessione di studi del master di Farefuturo “Sovranismo vs Populismo”. L’incontro sarà dedicato a un altro tema di stringente attualità: “Impresa, lavoro, formazione e nuove povertà: quale il ruolo dello Stato?”. Ne discutiamo con uno dei relatori dell’incontro, l’economista e professore Antonio Maria Rinaldi.

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Professor Rinaldi, viviamo giorni di concitazione e d’incertezza dovuti alla bocciatura della manovra economica da parte dell’Unione europea. A suo avviso, questa manovra va nella direzione giusta per rilanciare il nostro Paese (e se sì, quali punti ritiene meritevoli di attenzione), oppure ha ragione Bruxelles?


Lo “scontro” con Bruxelles deriva essenzialmente dal fatto che i precedenti governi hanno ottenuto “concessioni” grazie alla flessibilità delle regole previste con la conseguenza di poter posticipare le clausole di salvaguardia che prevedevano aumenti del gettito IVA e accise attualmente quantificabili in 12.4 Mld. Ebbene l’attuale manovra intrapresa dal nuovo governo secondo i “tecnici” della Commissione Europea non avrebbe i requisiti attesi per “compensare” le concessioni ottenute dall’Italia e che anzi aggraverebbe ulteriormente il percorso di convergenza verso le regole della UE. Perciò ha proceduto per la prima volta all’apertura di una procedura per deficit eccessivo basata sul debito. Quindi la tesi del governo italiano di puntare alla crescita del PIL per la diminuzione del rapporto debito/PIL non ha trovato ascolto e supporto sui tavoli europei. 

 

La quarta rivoluzione industriale, con il suo carico d’innovazione, sta cambiando il modo di fare business. Quale ruolo pensa debba avere lo Stato in questo processo, considerate le preoccupazioni in merito all’impatto dell’automazione sul mercato del lavoro?


Certamente la cosiddetta Industria 4.0 rappresenta un elemento positivo e innovativo ma per ora è stato concepito per le industrie di dimensioni più grandi tralasciando le piccole e micro aziende che rappresentano la vera colonna portante dell’economia italiana. Pertanto l’automazione per massimizzare le nuove tecnologie produttive e miglioramento delle condizioni di lavoro, con innegabili vantaggi di produttività, sono stati ad esclusivo appannaggio delle grandi industrie. Se si riuscirà ad attrarre in modo intelligente anche le più piccole in questa nuova rivoluzione industriale si riuscirà a salvaguardare, se non aumentare, posti di lavoro e aumentandone inoltre sensibilmente la qualità e sicurezza.

 

Il reddito di cittadinanza è uno dei provvedimenti più discussi negli ultimi mesi. Qual è il suo giudizio in merito? Ritiene che sia lo strumento più efficace per combattere la povertà, oppure sarebbero preferibili altri provvedimenti?


Vorrei personalmente che neanche un cittadino italiano avesse la necessità di dover accedere al RdC, perché vorrebbe dire che di lavoro ce n’è per tutti. Ma questo purtroppo non è negli orizzonti prossimi e pertanto in linea di principio sono favorevole a dei meccanismi che diano la possibilità, a determinate e temporanee effettive condizioni reali, di ottenere una forma di reddito, ovvero di integrazione del reddito, per ottenere un livello di vita “dignitoso”. Naturalmente dal punto di vista tecnico di erogazione si può discuterne, ma non disdegno il principio che lo Stato deve tener conto della situazione di estremo disagio economico a carico di fasce sempre più estese della popolazione. Pertanto solo in in ottica temporale e di raccordo in attesa di opportunità di lavoro effettivo.

 

L’Indice della Libertà Economica redatto da Heritage Foundation vede l’Italia fanalino di coda d’Europa e in una posizione poco lusinghiera a livello globale. Ritiene veritiero questo studio? Quali provvedimenti si dovrebbero mettere in cantiere per rendere l’Italia un Paese su cui investire a livello imprenditoriale?


Aldilà della validità o meno di tutti gli studi comparativi è innegabile che l’Italia abbia sempre sofferto di mancanza di “attrazione” nei confronti di investitori esteri. Le motivazioni sono infinite ad iniziare dalla complessità e dalla non certezza delle regole amministrative e fiscali oltre ad una cronica lentezza della giustizia. Pertanto il capitale estero trova difficoltà ad avere un terreno ad esso favorevole e pertanto decide di orientarsi verso sistemi Paese più “semplici”. Ma questo crea, inoltre, un ulteriore disagio per il Paese perché induce capitali esteri ad acquistare realtà ed eccellenze italiane che si fregiano di brand di successo per poi delocalizzare immediatamente le produzioni avvalendosi naturalmente poi del prestigioso marchio italiano. 

 

Recentemente Matteo Salvini ha proposto l’abolizione del valore legale della laurea. Cosa pensa di questa proposta? Ritiene che l’attuale sistema formativo risponda alle esigenze del mercato del lavoro?


Anche in questo caso sono d’accordo in linea di principio con l’abolizione del voto di laurea nei concorsi pubblici poiché le diverse valutazioni degli Atenei italiani potrebbe sfavorire/favorire i partecipanti non ponendoli sullo stesso piano. Pertanto l’abolizione del previsto requisito minimo di voto conseguito alla laurea rappresenta a mio avviso una opportunità da valutare con interesse. Sarà poi la serietà e difficoltà del concorso a determinare i vincitori con criteri di meritocrazia che il solo voto di laurea, per i motivi sopra esposti, non consente di attribuire. 

 

 In Italia il tasso di disoccupazione giovanile viaggia intorno al 30%, quasi il doppio della media europea. Quali contromisure dovrebbe adottare il nostro Paese per invertire questa tendenza?


La nostra Costituzione sancisce al primo articolo che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e che quindi dovrebbe essere l’obbiettivo principale dell’azione di qualsiasi governo. Sappiamo, purtroppo, che l’attuale architettura su cui si fonda l’unione monetaria europea di fonda si fonda sulla stabilità dei prezzi, inflazione, e il rigore dei conti pubblico fino al perseguimento del principio del pareggio di bilancio. Questo modello si avvale essenzialmente della cosiddetta svalutazione salariale per recuperare obiettivi competitivi unitamente al fenomeno delle delocalizzazioni dei siti produttivi sempre più “incentivato” dalla globalizzazione senza regole. Questo ha prodotto danni nel mercato del lavoro con conseguenze ancora più marcate nei confronti dei giovani. Abbiamo visto recentemente come la nuova amministrazione USA abbia iniziato una mirata azione nel contrastare gli effetti devastanti della delocalizzazione nei confronti dell’occupazione e del tessuto industriale nazionale intraprendendo politiche di sgravi e incentivi fiscali a favore delle aziende che riportano le produzioni in patria. Sarebbe opportuno seguire anche in Italia lo stesso percorso.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Ecco perchè vince Bolsonaro

«È come quello che sta succedendo in Italia e negli Usa: la gente respinge un tipo di classe politica perpetua, che è legata al capitalismo clientelare, alla corruzione e all’incompetenza». Senza troppi giri di parole, Steve Bannon fotografa alla perfezione l’elezione di Jair Bolsonaro a nuovo presidente del Brasile. Nel Vecchio Continente si è assistito ad un progressivo declino del partiti socialdemocratici. Sono ormai lontani i tempi di Tony Blair e della “terza via” che aveva sedotto gli ambienti di sinistra: fallito mestamente il tentativo di governare la globalizzazione, i socialdemocratici sono stati severamente puniti dagli elettori. Un trend che, come mostrano le ultime elezioni regionali in Germania, sta iniziando a coinvolgere anche le forze tradizionali di centrodestra. In Sud America è possibile osservare la medesima dinamica.

Agli inizi del Duemila, e per oltre un decennio, i partiti socialisti governavano, di fatto, pressoché l’intera America Latina: ma ora la geografia politica a sud dell’Equatore è decisamente cambiata. In Argentina, la lunghissima epopea peronista della dinastia Kirchner è mestamente terminata nel dicembre del 2015 con la vittoria al ballottaggio di Mauricio Macri e con una richiesta di custodia cautelare per l’ex presidente nel settembre del 2018. In Cile, Sebastiàn Piñera – fratello del celebre José Piñera – è tornato ad essere presidente dal marzo del 2018, succedendo alla rivale di sempre, la socialista Michelle Bachelet. In Bolivia, nel febbraio del 2016, ha vinto il “no” al referendum con cui il presidente Evo Morales – in carica dal 2006 – intendeva modificare la costituzione al fine di ricandidarsi nel 2019 per il quarto mandato consecutivo. Hanno virato a destra anche il Perù e la Colombia, con il Uruguay ed Ecuador uniche enclavi rimanenti alla sinistra. La situazione del Venezuela è, di fatto, quella di una dittatura socialista. La luna di miele tra i venezuelani e Maduro, successore di Hugo Chavez, è durata solo pochi anni: la popolazione è stremata, le violenze si susseguono e per la prima volta, dopo le diminuzioni delle ultimi decenni, è ricomparsa la denutrizione (3,9% tra i minori di cinque anni).

In tale contesto, la vittoria di Bolsonaro acquisisce un significato particolare, in quanto rappresenta un nuovo, importante tassello di una rinnovata stagione politica in tutto il Sud America. Occorre, tuttavia, molta cautela nel voler bollare il neo-presidente come “populista”, oppure – come già è stato ribattezzato – il “Trump brasiliano”. Senza dubbio, lo stile comunicativo di Bolsonaro ricorda molto da vicino quello del tycoon statunitense, fatto di provocazioni, battute politicamente scorrette e costanti attacchi al precedente establishment. Tuttavia, è opportuno ricordare che da sempre l’America Latina – complice la forma di governo presidenziale e dunque l’elezione diretta del capo dello Stato, comune a molti Paesi dell’area – è terra di leaderismo e di personalizzazione della politica che non di rado è sfociato in regimi autoritari. Riprendendo lo spunto di Steve Bannon, nel caso del Brasile i socialisti hanno pesantemente pagato un deficit di credibilità, venuta meno in seguito agli scandali che hanno coinvolto Lula e la sua delfina Dilma Rousseff.

Allargando la prospettiva e operando un’ulteriore contestualizzazione, è necessario ricordare che gli ultimi quindici anni hanno visto interrompersi, in Sud America, il modello politico-economico del chavismo, entrato ormai in crisi irreversibile con la morte di Hugo Chavez – evento spartiacque della recente storia politica sudamericana. Tale modello era imperniato su di una sorta di “patto sociale” tra il popolo – e dunque, su di un ampliamento della spesa pubblica a favore delle classi più povere e sulla nazionalizzazione delle imprese – e una ristretta élite che controllava i proventi dell’esportazione degli idrocarburi. Alla dipartita del comandante marxista ha fatto seguito un inevitabile indebolimento del cosiddetto “asse bolivariano”, in primis nella già citata Bolivia ma anche in Ecuador. A Quito, infatti, nonostante la continuità data dalla vittoria del socialista Lenin Moreno, la Corte Nazionale di Giustizia (CNJ) ecuadoriana ha richiesto l’arresto e l’estradizione dal Belgio dell’ex presidente Rafael Correa, accusato di aver ordinato il rapimento di un deputato dell’opposizione. Questi fattori, molto più del voler etichettare come “populista” Bolsonaro o di voler cercare, ridicolmente, di ridisegnare la mappa politica mondiale sulla base del grado di “fascismo” o di “razzismo” di un candidato, fanno la differenza nel tracciare delle coordinate realistiche che consentano di capire, davvero, l’evoluzione contemporanea dei sistemi politici. 

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

L’Italia è la più euroscettica

L’Italia è il Paese più euroscettico dell’Unione europea: questo è il dato del rapporto Eurobarometro “Un anno prima delle elezioni europee del 2019” che ha maggiormente sorpreso gli analisti. Se nel nostro Paese si svolgesse un referendum per la Italexit, solo il 44% voterebbe per rimanere nell’Unione, il 24% vorrebbe uscirne e il 32% si dichiara indeciso. Tra gli europei solo il 17% si dice favorevole all’uscita. In verità, non v’è nulla di cui essere sbalorditi: l’Italia, già da diversi anni, è uno dei Paesi dove si è maggiormente diffuso un sentimento di disaffezione, quasi di rancore, verso l’Unione europea. Eppure, un’indagine condotta nel 1998 dalla Fondazione Nord Est, mostrava come gli Italiani fossero un popolo convintamente europeista, anzi il più europeista: ben il 73%, infatti, dichiarava di avere fiducia nell’Europa e nelle sue istituzioni; più di spagnoli (60%), francesi (57%), tedeschi (42%) e britannici (40%). Un entusiasmo confermato anche dal referendum di indirizzo del 18 giugno 1989, con il quale ben l’88,03% degli Italiani conferiva al Parlamento europeo un mandato per redigere un progetto di Costituzione europea.

L’introduzione dell’euro è stata accompagnata dal medesimo ottimismo: la moneta unica era considerata un’occasione di riscatto e un’opportunità di benessere, ma dalla fine del 2002 iniziava già a intravedersi la fine della luna di miele tra gli Italiani e l’Unione. Nel 2003, la percentuale di coloro che ritengono l’euro un vantaggio senza se e senza ma scendeva dal 23 al 7; al contrario, quella di coloro che lo ritenevano una complicazione ingiustificata sale dal 16 al 45. Il successivo scoppio della crisi economica ha fatto tracimare il malcontento: quale sia l’istituto di rilevazione scelto, le indagini demoscopiche mostrano che la fiducia nell’Europa è precipitata. Per Demopolis, la parabola discendente è lenta e inesorabile: si passa dal 51% del 2006, al 48% del 2010, al 41% del 2012, sino al definitivo crollo del 2014 (32%) e del 2015 (27%). Per SWG, il gradimento degli italiani verso le istituzioni europee passa dal 55% del 2010 al 38% del 2017. Il risultato non cambia: eravamo il Paese più europeista, oggi siamo tra i più euro-scettici. Quali sono i motivi che hanno portato a questo cambio di rotta?

La risposta più facile e scontata è attribuire ai partiti “populisti” la responsabilità di questo progressivo crollo di consensi verso l’Unione europea. Tuttavia, molti analisti sembrano avere la memoria corta. Prendendo il già citato 2002 come anno di riferimento per l’inizio del sentiment euroscettico, occorre sottolineare che in quel periodo di partiti “populisti” non v’era traccia: il Movimento 5 Stelle non era ancora stato fondato e la Lega – allora accompagnata ancora dal suffisso Nord – attraversava una delle fasi più critiche della sua storia, con un consenso di poco inferiore al 4%. Questo dimostra come spesso si scambino le cause con gli effetti: la crisi dei partiti tradizionali e l’avanzata di nuove forze politiche – nelle quali, secondo Eurobarometro, gli Italiani ripongono una fiducia superiore alla media europea – è l’effetto, non la causa dell’euroscetticismo. Allargando la prospettiva, infatti, è possibile leggere negli altri dati i veri fattori che hanno condizionato il cambio di rotta. Il 65% si dichiara favorevole all’euro, ma solo il 41% è soddisfatto del modo in cui la democrazia funziona nell’UE; il 59% individua la mancanza di fiducia nel sistema politico una delle cause principali del non voto alle prossime elezioni europee e solo il 30% ritiene che la propria voce abbia un peso nell’UE. Alcuni economisti si sono divertiti a ironizzare sull’ignoranza – manco a dirlo, il solito popolo primitivo – degli Italiani, che cadono in contraddizione abbozzando l’Italexit ma mantenendo la moneta unica. Non v’è alcun paradosso: basterebbe, senza presunzione, leggere tra le righe.

Gli Italiani, lungi dall’essere ignoranti, sono pienamente consapevoli che per il nostro Paese sarebbe molto pericoloso abbandonare, di punto in bianco, l’euro. Il vero malcontento si indirizza, dunque, verso il sistema istituzionale dell’Unione europea, che da molto tempo è preda di una profonda crisi di legittimità. Tale crisi, giova ripeterlo, non è stata provocata da dai “populisti”, né dai tanti temuti “sovranisti” di Visegrád. E ha una data ben precisa: 2 giugno 1992, ovvero il giorno in cui il 50,7% dei Danesi bocciò la ratifica del Trattato di Maastricht. Si trattò del primo, fragoroso “stop” dei cittadini europei al processo di integrazione: il primo avvertimento popolare recapitato a Bruxelles. Inutile, ora, lamentarsi dell’euroscetticismo, che continuerà a crescere sino a quando non si deciderà di superare questa Unione.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

"Forza Spread!", l’imbarazzante "partito" che tifa per il disastro

Eccolo, di nuovo. Dopo qualche anno di tattica assenza, è tornato baldanzoso il partito dello spread. Riunisce tutto il peggio che l’opinione pubblica possa offrire. In prima linea troviamo certi giornalisti, esperti in danza classica – soprattutto nell’eseguire piroette – che fanno le pulci al Documento di Economia e Finanza come mai prima d’ora, passando in rassegna con la lente d’ingrandimento ogni decimale, ogni virgola, ogni copertura, pronti a denunciare – calcolatrici alla mano – che i conti non tornano e che la sciagura è prossima.

È davvero ammirevole constatare tanta professionalità: un peccato non averla vista negli anni corsi. A dare manforte si schiera una pletora di economisti, per definizione esperti in tuttologia e profondi conoscitori dell’intero scibile umano. Probabilmente delusi dal mancato declino dell’economia americana da loro previsto con l’elezione di Trump, e infastiditi dal fallito affondamento del Regno Unito dopo il referendum sulla Brexit, sperano di azzeccare almeno il crollo dell’Italia. Non staccano gli occhi dai grafici di Piazza Affari, pronti a suonare il campanello d’allarme appena la curva dello spread inizia a virare verso l’alto – salvo poi scordare di avvisare quando scende. E allora ecco che le cassandre annunciano il default,  perché il debito pubblico è insostenibile – d’altronde, ha raggiunto il record durante il governo Renzi – e il deficit non può finanziarie misure considerate regalie elettorali – il bonus di 80 euro era, infatti, una misura strutturale che andava a risanare le casse dello Stato.
Nelle retrovie, ma piuttosto chiassosi, si indignano i politici della vecchia classe dirigente, che qualche anno fa erano in prima linea a denunciare il complotto di Bruxelles e dei poteri forti per far cadere il governo Berlusconi, e che ora come pappagalli ammaestrati ripetono di rispettare gli impegni con l’Europa. Non avevano capito nulla sette anni fa, e poco continuano a capire della complessa realtà che li circonda: si illudono che basti gridare allo spauracchio “populista” per ottenere consensi e tornare agli antichi splendori.

Questa è l’eterogenea truppa che guarda speranzosa verso Bruxelles, e grida, anzi, invoca, a gran voce: “Forza spread!”. Coltivano una speranza malsana: che il differenziale tra Btp italiani e Bund tedeschi possa crescere sempre più, magari toccando quota 400, o – ancora meglio – 500. Lo spread come unica igiene per lavare via gli avversari politici indesiderati e avere la propria, distorta, rivincita. Credono di aver scoperto l’uovo di Colombo, ma non si accorgono di tifare per un film che si ripete. Nel 2011 si gridava, e si scriveva in certi giornali, “Fate presto!”, sotto il ricatto dello spread che doveva spazzare via un governo che metteva in pericolo l’esistenza stessa del Paese – così si disse.

Ciò che venne in seguito non fu esattamente un successo o una benedizione per l’Italia; fu la prima causa di quello che oggi viene bollato come “populismo”. Eppure, il drappello dei “competenti” che gongola nel sentir tintinnare lo spread non riesce a vedere al di là del proprio wishful thinking. Non si accorge che sperare nella Troika li rende ancora più impopolari e insopportabili: in una parola, invotabili. Ma a giudicare da certi scomposti atteggiamenti, sembra che a molti non importi nemmeno più l’orizzonte elettorale. Tifare per il disastro è di per sé una fragorosa e imbarazzante ammissione di incapacità; è l’ultimo rifugio del perdente cronico. Questo governo non è certo perfetto – come non lo è affatto il Def, che ha più d’una zona d’ombra – e non può essere tenuto in una campana di vetro, al riparo e immune da qualsiasi critica. Se possibile, però, si abbiano un po’ di compostezza e di onestà intellettuale nel muovere tali critiche; e la si smetta, se è rimasto ancora un po’ di pudore, di gongolare nell’immaginare un Paese in macerie solo per riparare il proprio ego ferito.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta