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Enrico Zucconi

Enrico Zucconi è esperto di finanza d'impresa e mercati.

Produttività, la carta del “nuovo” nucleare

L’Italia ha da sempre un problema di produttività. Tuttavia spesso ciò è riferibile principalmente al settore della pubblica amministrazione.

Per quanto riguarda la manifattura è vero il contrario anche se le nostre imprese devono sopportare costi energetici molto più alti dei loro concorrenti europei.

I dati vanno però distinti a seconda della composizione del nostro tessuto industriale tipico e particolare.

La spiegazione di queste affermazioni sarebbe difficilmente conciliabile con il fatto che L’Italia quest’anno si trova per la prima volta nella storia contemporanea in competizione strettissima con il Giappone e la Corea del Sud per la conquista del quarto posto nell’export mondiale;

contrariamente ai paesi appena citati tuttavia, il nostro paese ha un enorme numero di microimprese con meno di venti occupati caratterizzanti  la manifattura italiana.

Le microimprese manifatturiere, che nel nostro Paese sono oltre 328mila, hanno ovviamente una produttività un po’ più bassa rispetto ad aziende organizzate a livello industriale e  influenzano il dato medio aggregato della produttività italiana.

Esse tuttavia hanno generato nel 2022 circa 56 miliardi di euro di valore aggiunto, un dato di non poco conto che permette all’Italia di stare ampiamente davanti alla Francia.

Inoltre risultano fondamentali nelle reti flessibili di subfornitura delle filiere corte dei nostri distretti e ci hanno permesso durante e dopo il Covid di performare meglio di tutte altre industrie mondiali nostre concorrenti che hanno sofferto a causa delle interruzioni nelle catene globali lunghe.

Non meno importante è il fatto che, con quasi 1,3 milioni di occupati le microimprese manifatturiere famigliari italiane sono un elemento di stabilità sociale unico al mondo.

In realtà le microimprese con la loro minore produttività non contribuiscono a  “danneggiare” le nostre esportazioni perché esse partecipano solo marginalmente all’export italiano, che per la maggior parte è fatto da imprese con venti o più occupati estremamente competitive.

Le microimprese (meno di 20 dipendenti) di fatto sono al servizio delle imprese di più grandi dimensioni.

Si pensi che, in base ai dati Eurostat del 2022, anche rinunciando alle nostre microimprese l’Italia resterebbe la seconda manifattura d’Europa per valore aggiunto, sostanzialmente alla pari con la Francia.

L’Italia è prima in Europa per valore aggiunto per occupato sia nelle piccole, sia nelle medie, sia nelle medio-grandi e grandi imprese.

In particolare, nel confronto con la Germania la produttività delle nostre medie imprese è decisamente più alta: 89.530 euro per occupato contro 72.740; nel 2022 abbiamo clamorosamente superato la Germania perfino nelle imprese con 250 o più occupati: 118.970 euro contro 116.250 euro.

 

Se consideriamo tutto l’insieme delle imprese manifatturiere con venti o più occupati, la nostra produttività media, pari a 97.419 euro per occupato, è però inferiore a quella tedesca, pari a 102.235 euro.

Si potrebbe pensare che ciò dipenda dal nostro minor numero di grandi imprese, ma non è così.

Infatti, la Germania ci è davanti esclusivamente per la sua specializzazione nel segmento medio-alto delle vetture; escludendo però l’industria dell’auto, l’Italia è prima per produttività nel resto dell’intera industria manifatturiera: 97.487 euro contro i 96.758 euro della Germania.

In conclusione, immaginiamo quanto l’industria italiana potrebbe essere ancor più competitiva se potesse avere a supporto anche una capacità nucleare nazionale, specialmente nei settori più energivori.

L’attenzione oggi, in realtà non solo in Italia ma un po’ in tutto il mondo, è per i mini reattori nucleari modulari (SMR); come più volte detto dal Ministro delle Imprese Adolfo Urso, in Italia sono attesi fino a 40 SMR pari ad investimenti per 40 miliardi.

L’interesse è legato soprattutto alle grandi quantità di energia elettrica che sarebbe prodotta a costi ritenuti competitivi.

La strada per ridurre il costo dell’energia e mantenere la competitività dell’industria italiana passa inevitabilmente per un piano energetico che guardi al futuro.

La combinazione di rinnovabili e mini-nucleare può offrire una soluzione bilanciata, garantendo la transizione verso un’economia elettrificata e sostenibile. Tuttavia, per realizzare questo obiettivo, è cruciale affrontare le barriere burocratiche e logistiche che ancora limitano lo sviluppo delle infrastrutture energetiche nel nostro paese. Solo così l’Italia potrà liberarsi dalle pressioni del caro-energia e rilanciare ulteriormente il suo sistema produttivo in modo competitivo e sostenibile.

Poiché il tempo per “restituire” all’Italia una energia nucleare pulita si attesta in circa una decina d’anni, il problema più grosso è quello di gestire e trovare soluzioni alternative in questo arco di tempo.

Tre pilastri per la ripresa

In un’azione di politica economica che si prefigga di rafforzare il tessuto produttivo, in particolare quello manifatturiero che rappresenta un perno decisivo per il futuro dell’Italia è fondamentale tenere conto di almeno tre punti fissi in un mondo che si sta prefigurando sempre più incerto e mutevole.

E’ importante quindi mettere basi solide sulle quali costruire e/o rendere sistemiche alcune certezze basilari per il mantenimento e il sostentamento dell’economia italiana con il modello che rappresenta nel mondo.

Per quanto concerne l’occupazione, da oltre un anno si dimostra quella meglio assestata nel panorama economico italiano nonostante l’andamento altalenante di altri elementi, dalle esportazioni agli investimenti che più hanno risentito sia delle incertezze geopolitiche sia di quelle relative al quadro normativo europeo e nazionale.

Al trend positivo e, in linea di massima, stabile dell’occupazione hanno concorso diversi elementi, tra cui lo stimolo all’offerta e alla domanda di lavoro che è seguito ad alcuni indirizzi della politica economica (ad esempio, quelli relativi al reddito di cittadinanza, oppure la conferma del taglio del cuneo contributivo sui redditi da lavoro medio-bassi).

In una congiuntura nella quale i consumi hanno consentito di mantenere un segno comunque positivo nella dinamica del PIL, nonostante l’impatto notevole conseguente all’aumento dei prezzi dei beni energetici e all’inflazione, prima, e alla progressiva restrizione prima monetaria e anche fiscale, in seguito, l’incentivo alla crescita dell’occupazione a tempo indeterminato previsto dalla riforma dell’Irpef e che ora diviene operativo, può contribuire a rendere strutturale l’aumento dei contratti e quindi il sostegno ai consumi.

Il primo è quello della riduzione degli oneri fiscali e contributivi, il cuneo molto ampio che grava sul lavoro dipendente e che riduce crescita dei consumi delle famiglie e limita la competitività delle imprese industriali.

Il secondo è quello delle agevolazioni per gli investimenti 5.0 per la transizione digitale ed energetica dei processi produttivi.

Senza gli incentivi per il nuovo capitale materiale e immateriale per innestare le innovazioni digitali nei processi produttivi, e per proseguire nella transizione energetica, la crescita della produttività delle imprese italiane resta frenata e così la loro proiezione sui mercati globali.

Il terzo pilastro riguarda un riassetto profondo e urgente del sistema di formazione delle competenze del lavoro.

Un livello di competitività adeguato a concorrere con i player esteri, un quadro normativo che indirizzi verso gli investimenti necessari per la manifattura del domani, e un impegno forte per colmare la domanda insoddisfatta di lavoratori esperti nel digitale, nella cibernetica, nei processi di trasformazione energetica, sono ingredienti necessari per confermare in futuro i recenti buoni andamenti sotto il profilo dell’occupazione e del mercato del lavoro.

Una volta messi in sicurezza tali importanti fattori le aziende saranno maggiormente in grado di far fronte ad altri fattori di rischio, il cui numero purtroppo sale di mese in mese.

Secondo una recente indagine del Global Risk Landscape 2024 fatta su un campione di 500 C-Level (top manager che hanno raggiunto il massimo livello esecutivo) attualmente le maggiori preoccupazioni derivano dai rischi legati alle interruzioni della catena di approvvigionamento e alle tensioni geopolitiche.

Particolare importante: un terzo utilizza l’Intelligenza Artificiale come strumento di gestione del rischio

La trasformazione dei fattori di rischio è sempre più veloce e mette sotto pressione le aziende.

Il 60% dei manager ha affermato che la velocità di evoluzione dei rischi sta aumentando progressivamente. Le imprese fanno, quindi, fatica a tenere il passo di queste rapide trasformazioni.

I rischi legati ai cambiamenti normativi si trovano addirittura al primo posto.

Rispetto a un anno fa, i rischi legati all’adattamento ai nuovi requisiti normativi è salito di più di dieci posizioni, conquistando il primo posto: sono la preoccupazione principale per il 37% degli intervistati (nel 2023 la quota era solo del 7%).

Questa crescita è con ogni probabilità dovuta al fatto che gli sviluppi nell’uso dell’intelligenza artificiale, i processi di digitalizzazione e i requisiti da rispettare hanno tutti una componente regolatoria che prevede potenziali sanzioni finanziarie onerose in caso di non conformità.

Al secondo posto si trovano i rischi legati alle interruzioni della catena di approvvigionamento, indicati dal 31% del campione, anche in conseguenza dei frequenti attacchi alle navi mercantili da parte dei ribelli yemeniti nel Golfo di Aden.

Al terzo posto si trovano, invece, i rischi derivati dalle tensioni geopolitiche (la guerra in Ucraina e il conflitto in Medio Oriente), evidenziati dal 26% degli intervistati.

Completano il quadro di incertezza gli interventi legislativi introdotti in Europa, relativi alle norme sulla privacy dei dati e all’Intelligenza Artificiale, che sono destinati a impattare in modo importante sull’attività delle imprese.

Inoltre, anche l’incertezza in ambito politico, sia a livello europeo, con le recenti elezioni, sia legata alle prossime elezioni negli Stati Uniti, sta contribuendo ad aumentare i fattori di rischio.

I cambiamenti normativi portano con sé, purtroppo, anche un aumento dei costi per le aziende, che spesso devono gestire l’integrazione di molteplici nuove normative contemporaneamente.

L’adattamento alle nuove regolamentazioni, inoltre, pone significative sfide alle imprese europee anche dal punto di vista dei tempi di implementazione che comportano quindi un ripensamento molto rapido dell’organizzazione e dei processi aziendali. E’ bene quindi affrontare tali rischi imminenti con i fondamentali a posto per sopportare al meglio situazioni di stress da parte del tessuto economico.

G7 Italia, cabina di regia per l’Occidente

La presidenza italiana del G7, dal gennaio 2024, giunge in un momento di profondi mutamenti e incertezze negli assetti globali. La stessa struttura della globalizzazione è assai meno stabile rispetto a pochi anni fa, con crescenti fenomeni di competizione a volte conflittuale e di protezionismo. Ciò a sua volta rende volatili i rapporti tra grandi mercati internazionali e istituzioni politiche – per loro natura locali e soggette a pressioni sia interne che regionali.

Anche la dinamica dei BRICS “allargati” e del cosiddetto “Sud globale” – con la sua spinta antagonistica rispetto ai Paesi OCSE e alle maggiori agenzie internazionali – è uno sviluppo significativo che merita attenzione, sebbene presenti molte contraddizioni interne e al momento non possa realmente offrire un modello alternativo come sistema di regole e standard condivisi.

Questo sfondo va tenuto presente anche riguardo al G7 e al ruolo che vi potrà giocare l’Italia.

Si tratta di un foro di consultazione e coordinamento che aveva perso molta trazione e centralità negli ultimi anni, ma la situazione è cambiata rapidamente con l’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022, coincidendo con una relativa perdita di importanza – almeno temporanea – del G20.

Il G7 agisce oggi come una sorta di cabina di regia dell’Occidente per la tutela del sistema internazionale “rule-based”; un sistema che può essere aggiornato e adattato, ma che resta nei suoi fondamenti un punto di riferimento.

L’Italia si trova a presiedere un foro ristretto che può comunque condizionare e orientare anche il quadro globale, sia in chiave di misure emergenziali e di breve termine, sia in chiave di indirizzi generali di medio e lungo termine.

La questione russo-ucraina resterà centrale, soprattutto in un’ottica di futura ricostruzione del Paese e di integrazione progressiva nelle istituzioni europee e transatlantiche.

Alla Cina sarà dedicata molta attenzione, trattandosi della maggiore sfida sistemica all’ordine globale, in tutte le sue dimensioni. Si deve convivere con Pechino, ma in modalità diverse rispetto al passato e senza una prospettiva irrealistica di trasformazione della Repubblica Popolare in una sorta di “democrazia socialdemocratica”.

In tale ottica, il “derisking” è la via maestra per rispondere ai tentativi cinesi di “coercizione economica”.

Una forma di competizione/contrapposizione tra Est e Ovest – seppure con caratteristiche specifiche rispetto alla guerra fredda del XX secolo – si svolge soprattutto nel continente africano. Un compito fondamentale per l’Italia è riportare l’Africa sull’agenda della UE, in particolare, favorendo gli sforzi europei per svolgere un ruolo più proattivo verso il continente.

Un tema relativamente nuovo sarà quello dell’Intelligenza Artificiale, per meglio impostarne gli aspetti tecnici e gestirne le molte implicazioni economiche, etiche, sociali e politiche. È una grande questione con un impatto strutturale sulle relazioni globali – a cui si devono aggiungere gli sviluppi (in parte connessi) nelle biotecnologie, nei microprocessori e nella fisica quantistica.

Ulteriori dossier sul tavolo del G7 saranno il clima, la sicurezza alimentare, la salute, la condizione femminile. Tutti temi che toccano moltissimo soprattutto i Paesi del “Sud globale”, essendo peraltro combinati tra loro nel “mix” delle politiche per uno sviluppo sostenibile, equilibrato ed inclusivo.

Su praticamente tutti i dossier, un forte asse USA-UE è comunque vitale, in particolare per evitare che le tensioni tecnologico-commerciali finiscano per ostacolare una forte cooperazione e un migliore coordinamento ex ante delle maggiori iniziative.

Così la stessa Presidente Meloni:

“Un focus chiave della Presidenza italiana sarà la difesa del sistema internazionale basato sulle regole. La guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina ne ha minato i principi e innescato una crescente instabilità, con molteplici crisi che si sviluppano in tutto il mondo.

Il G7 darà la stessa importanza al conflitto in Medio Oriente, con le sue conseguenze per l’agenda globale.

Il rapporto con le nazioni in via di sviluppo e le economie emergenti sarà centrale.

L’impegno con l’Africa sarà una priorità chiave. Lavoreremo per costruire un modello di cooperazione basato su partenariati reciprocamente vantaggiosi, lontano da logiche paternalistiche o predatorie.

L’Italia garantirà grande attenzione alla migrazione, insieme ad alcune delle maggiori sfide del nostro tempo, incluse il nexus clima-energia e la sicurezza alimentare.

Il G7 ha la responsabilità e il dovere di identificare, insieme ai suoi partner globali, soluzioni innovative.

Anche l’Intelligenza Artificiale sarà presente nel programma italiano.

Questa tecnologia può generare grandi opportunità ma anche enormi rischi, influenzando gli equilibri geopolitici.

È necessario sviluppare meccanismi di governance e assicurare che l’IA rimanga centrata sull’uomo e controllata dall’uomo, dando applicazioni concrete al concetto di algoretica”.

 

Nel quadro di questo complesso contesto geopolitico mondiale, il ministro Adolfo Urso si è trovato quindi  dover gestire il primo incontro presiedendo la parte veronese della riunione dei ministri industria, tecnologia e digitale.

La decisione di includere rappresentanti dell’industria e degli stakeholder nelle discussioni sottolinea un approccio partecipativo, mirando a un dialogo inclusivo che tiene conto delle diverse prospettive. Urso: “Abbiamo voluto farlo anche aprendo a una forma inedita…un confronto tra le istituzioni i governi e gli attori dell’industria e dell’economia” .

Il rinnovato focus del G7 su industria e tecnologia, ristabilito durante la presidenza italiana, evidenzia un mondo in cui l’innovazione tecnologica diventa un pilastro fondamentale per l’economia globale.

Le tecnologie emergenti, come l’intelligenza artificiale (IA) e le soluzioni sostenibili, aprono orizzonti vasti per le PMI, permettendo loro di ottimizzare operazioni, minimizzare costi e adottare pratiche eco-compatibili.

L’integrazione di tali tecnologie potrà catalizzare la crescita delle PMI italiane, rendendole non solo competitive a livello globale ma anche pionieri di un’etica aziendale responsabile e sostenibile.

La decisione strategica di includere paesi non membri del G7, come l’Ucraina, la Corea del Sud e gli Emirati, segnala un passaggio decisivo verso un approccio più inclusivo e collaborativo a livello internazionale.

Durante gli incontri anche bilaterali si sono analizzati il potenziale di collaborazioni tra le PMI italiane e le economie emergenti, ponendo particolare attenzione a come le innovazioni tecnologiche possano servire da catalizzatore per affrontare sfide comuni, quali la resilienza climatica, la sicurezza alimentare e l’accesso all’energia pulita, il tutto a favore di uno sviluppo sostenibile attraverso la condivisione di conoscenze, tecnologie e pratiche di gestione innovative.

L’Italia, con le sue forti relazioni strategiche ed economiche, specialmente con i paesi in via di sviluppo, si trova in una posizione unica per guidare un movimento globale verso l’innovazione e la sostenibilità.

Così lo stesso ministro: “Riaffermiamo il nostro impegno incrollabile ai principi dello stato di diritto, del dovuto processo, della democrazia e del rispetto dei diritti umani mentre sfruttiamo le opportunità dell’innovazione”.

Questo impegno è cruciale per assicurare che le tecnologie emergenti, come l’AI, siano utilizzate in modo che promuovano l’equità, la sicurezza e la prosperità globale.

Le PMI italiane al centro dunque; queste imprese, supportate da una rete di collaborazioni internazionali e incentivate dall’adozione di tecnologie all’avanguardia, possono tracciare la strada verso un’economia globale più giusta, resiliente e prospera.

L’Italia, con il suo impegno nei confronti dell’innovazione e della sostenibilità, emerge come una guida in questo movimento globale, promuovendo un futuro in cui tradizione e innovazione convivono armoniosamente per affrontare le sfide globali, con i valori umanistici e democratici sempre al centro.

L’Italia avrà dunque un’opportunità per consolidare il suo profilo internazionale in un  consesso che costituisce quantomeno un tassello del complicato puzzle del sistema globale.

 

 

 

 

PMI – I.A. strumento di crescita?

La scarsa maturità digitale delle micro, piccole e medie aziende italiane costituisce un freno pericoloso in termini di competitività sui mercati globali.
Le tecnologie sono state acquisite, ma manca una implementazione strategica, una vera e propria riorganizzazione aziendale improntata ad una cultura digitale e per realizzare ciò occorre estendere la digitalizzazione ai diversi processi di business rendendoli integrati.
Le PMI sono ricche di dati ma il loro utilizzo è ancora limitato; il mondo digitale ci permette un accesso rapido a questi dati e sono tanti i settori che beneficiano di decisioni misurate.

Tuttavia macchine, algoritmi di IA e nuove forme di visualizzazione di dati digitali sono un importante supporto. Ma non sono tutto; resta fermo il fatto di dover conoscere il mercato, monitorare social e web, avere coscienza della qualità della propria produzione e della sua efficienza.
Implementare linee produttive, sistematizzare processi, informatizzare un sistema non vuol dire avere portato la propria imprese ad un livello 4.0: la vera innovazione che permette la vera competitività sui mercati globali, è data da un modello di azienda capace di includere il know how legato all’innovazione degli impianti e dei processi focalizzati ad alta qualità, valorizzazione dei dati, razionalizzazione degli sprechi, certificazione in termini di sicurezza e sostenibilità.

Uno strumento potente
L’intelligenza artificiale è un potente strumento per abilitare nuove funzioni di supporto alle decisioni e di previsione di andamenti futuri delle organizzazioni. Ne sono esempi reali l’automazione delle attività di marketing digitale, i sistemi intelligenti per la logistica, le previsioni di vendite a supporto dell’ottimizzazione della produzione.

La competenza delle PMI al riguardo qui gioca un ruolo fondamentale e qui siamo indietro; ad esempio l’Osservatorio sul Digitale nelle PMI del Politecnico di Milano ha realizzato uno studio che mostra la poca dimestichezza delle PMI manifatturiere con le tecnologie IOT in fabbrica.
L’Internet of Things (IoT) è una rete di oggetti e dispositivi connessi dotati di sensori e altre tecnologie che consentono loro di trasmettere e ricevere dati, da e verso altre cose e sistemi.

Oggi l’IoT è ampiamente utilizzato in ambito industriale ed è sinonimo di Industry 4.0.
Sebbene l’interesse sia in aumento il 65% ammette di non conoscerle e solo il 9% le applica; la stessa situazione si presenta per l’uso del digitale nei rapporti lungo la Supply Chain: anche qui il fenomeno è in crescita ma resta percentualmente molto basso (software 35%, sensoristica 7%).
Molto meglio va l’utilizzo dei dati relativi alle vendite, discrete le performance del digitale a supporto di amministrazione, finanza e controllo con tuttavia, una scarsa integrazione fra i processi.

Si tratta naturalmente di trovare le risorse umane e capaci di sviluppare questo importantissimo ambito.
L’Intelligenza Artificiale sta crescendo velocemente; molte attività basilari, ripetitive e spesso poco soddisfacenti, possono essere svolte in automatico, con gli umani che possono limitarsi a un ruolo di controllo e verifica.

E’ un salto tecnologico fondamentale per le aziende, perché permette di spostare le risorse umane di più elevato livello su obiettivi più premianti, rivedendo i processi e aumentando i risultati aziendali e la soddisfazione interna.
Certamente, questa evoluzione potrebbe anche essere un problema nel breve, non tanto a livello di singola azienda, ma di società: è già certo infatti, che centinaia di milioni di posti di lavoro rischiano di sparire, per essere sostituiti da quantità ancora più elevate di nuove capacità professionali, ma dopo un periodo transitorio probabilmente doloroso e con difficoltà di adattamento e conversione.

Oltre ai possibili effetti sociali, non vanno trascurati i possibili impatti etici.
In questo contesto regolamentare l’utilizzo dell’AI è utile e obbligatorio.
L’Unione europea, prima di altri, si sta attivando con l’AI Act, il regolamento per lo sviluppo e l’utilizzo dell’AI.
Già preliminarmente approvato nel dicembre 2023, si attende che entri in vigore tra circa due anni.

I modelli di studio mostrano che l’uomo medio è spesso già oggi superato su compiti semplici intelligenti, mentre persone esperte e molto formate hanno ancora un notevole vantaggio in quasi tutti i campi, soprattutto per problemi legati al raggiungimento del cosiddetto “superalignment”, cioè la capacità, attualmente mancante, da parte delle AI, di fornire informazioni puntuali fondate su conoscenze reali.

OpenAI, l’azienda che ha creato ChatGpt, si è data come traguardo il 2027 per risolvere tale problema e altri simili (e, da indiscrezioni, potrebbe arrivarci già nel 2024-25)
La Ue è uno dei primi paesi al mondo a legiferare sull’AI e l’AI Act rappresenta un passo importante nella direzione di una tecnologia sicura e affidabile.
Le norme previste dall’AI Act sono in linea con le migliori prassi internazionali, e possono contribuire a proteggere i cittadini europei e a promuovere un’AI responsabile.
La concorrenza con Paesi nei quali l’AI non è regolamentata è una sfida concreta: di certo in futuro il rispetto dei diritti dovrà rappresentare una risorsa e non un costo per le aziende, trasformandosi in fattore competitivo (chi rispetta di più i diritti deve ‘vincere’ in uno scenario ideale).
L’AI Act non è pensato per sacrificare l’innovazione, ma piuttosto per promuoverla in modo responsabile. Le norme previste dall’AI Act sono progettate per garantire che l’AI sia sviluppata e utilizzata in modo sicuro e rispettoso dei diritti fondamentali, senza ostacolare il progresso (l’innovazione è un mezzo, il benessere il fine).

L’Europa in prima linea con l’AI Act
In questo contesto ovviamente non solo regolamentare l’utilizzo dell’AI è utile, ma è assolutamente doveroso. L’Unione europea, prima di altri, si sta attivando con l’AI Act, il regolamento per lo sviluppo e l’utilizzo dell’AI. Già preliminarmente approvato nel dicembre 2023, ci si attende che entri in vigore tra circa due anni. Il fatto che l’approccio risk-based del testo orienti più all’utilizzo che allo sviluppo potrebbe renderla non del tutto inutile, ma due anni, in questo campo, sono come 100 in altri contesti.

I benchmark mostrano che l’uomo medio è spesso già oggi superato dalle AI su compiti intelligenti, anche se gli esperti hanno ancora un notevole vantaggio in quasi tutti i campi, soprattutto per problemi legati al raggiungimento del cosiddetto superalignment, ovvero la capacità, attualmente mancante, da parte delle AI, di fornire informazioni puntuali fondate su conoscenze reali e non inventate.
OpenAI, l’azienda che ha creato ChatGpt, si è data come traguardo il 2027 per risolvere tale problema e altri simili (e, da indiscrezioni, potrebbe arrivarci già nel 2024-25). Ogni sei mesi cambia tutto in questo ambito, ogni tre esce qualche novità importante, ogni giorno chi lavora nel campo legge di nuovi importanti risultati scientifici. Il ritmo è mai visto: rapidissimo pure per chi ha assistito alla nascita del World wide web.
L’equilibrio precario tra regolamentazione e vantaggio competitivo

Se l’Ue, nell’abbracciare la necessità di regolamentazione di questa tecnologia, va nella direzione giusta, contemporaneamente tira il freno a mano: posizioni troppo conservative e blocchi di tecnologie, nella pratica, non ci faranno arrivare primi e certamente non ci faranno recuperare lo svantaggio tecnologico in cui ci troviamo rispetto a Stati Uniti e Cina. Le grandi aziende Usa che si occupano di AI stanno già autoregolamentandosi, almeno sugli aspetti legati alla trasparenza sui dati di training e sulle modalità per evidenziare i contenuti generati dalle AI, in modo agile e rapido, mentre continuano a evolvere (e non perché lo chiede una legge, ma il mercato).
Le posizioni molto conservative dell’Europa stanno rallentando o inibendo l’utilizzo di modelli più avanzati di AI a chi lavora in Europa e l’ultimo esempio notevole di inizio 2024 è Google Gemini Ultra, che sarà a breve disponibile in quasi tutte le nazioni del mondo, escluse Ue e Gran Bretagna. Siccome (a meno di workaround utilizzabili solo per qualche prova, ma inibiti a un business serio) questo accade non in un singolo caso, ma per quasi tutti quelli importanti, una attesa anche solo di tre mesi rispetto al resto del mondo potrebbe tradursi in uno svantaggio competitivo che costerà recuperare. Quando tra due anni sarà tutto diverso, la legge indirizzerà problemi vecchi, ma la rigidità programmata in un momento in cui servirebbe maggiore flessibilità per comprendere le evoluzioni, avrà inibito ulteriormente i già scarsi finanziamenti europei su attività che, per ottenere risultati competitivi, richiederebbero importanti spinte legislative.
rmai noto a tutti: l’Unione Europea ha proposto nel 2021 un regolamento sull’Intelligenza Artificiale (AI) per garantire che i sistemi di AI siano sicuri, trasparenti e non discriminatori. Il regolamento (AI Act) è stato approvato dal Parlamento europeo nel giugno 2023 e dal Consiglio dell’Unione europea (Ue) a dicembre 2023. Il percorso verso il disciplinamento dell’AI nell’Ue è stato e sarà difficile, a causa di divergenze tra gli Stati membri su alcuni aspetti salienti e cruciali.
Molte sono le preoccupazioni per l’impatto che la normativa potrà sortire sull’innovazione e sulla competitività dell’Ue. Il voto finale di giugno 2023 poi, ha aperto la discussione coi Governi, stimolando il miglioramento del testo e sollevando istanze sempre più distillate. Un piccolo esempio di area di ‘emendamento’ è stato l’obbligo di verifica di impatto da parte degli utilizzatori intermedi dei foundation models (le aziende): l’Italia (e non solo) non è convinta che tale ulteriore previsione di ‘controllo’ possa giovare all’alveo normato.

Innovazione responsabile
Non tutto quello che è possibile è lecito, o democraticamente sostenibile, e non esiste soluzione perfetta alla tempesta perfetta dell’AI.
L’Ue è uno dei primi paesi al mondo a legiferare sull’AI (da non dimenticare: “Tech is global, law is local”), e l’AI Act rappresenta un passo importante nella direzione di una tecnologia sicura e affidabile. Le norme previste dall’AI Act sono in linea con le migliori prassi internazionali, e possono contribuire a proteggere i cittadini europei e a promuovere un’AI responsabile.

La concorrenza con Paesi nei quali l’AI non è regolamentata è una sfida concreta: di certo in futuro il rispetto dei diritti dovrà rappresentare una risorsa e non un costo per le aziende, trasformandosi in fattore competitivo (chi rispetta di più i diritti deve ‘vincere’ in uno scenario ideale, esattamente come nel caso del mercato delle auto a basse emissioni). Solo in questo modo le aziende saranno indotte a rispettare le regole per conquistarsi clienti, e sarà proprio il mercato a produrre questo risultato, se la cultura dei diritti ci spingerà verso la direzione giusta.

L’AI Act non è pensato per sacrificare l’innovazione, ma piuttosto per promuoverla in modo responsabile. Le norme previste dall’AI Act sono progettate per garantire che l’AI sia sviluppata e utilizzata in modo sicuro e rispettoso dei diritti fondamentali, senza ostacolare il progresso (l’innovazione è un mezzo, il benessere il fine). Sotto l’ombrello democratico, infatti, non c’è spazio per diritti tiranni, e nemmeno il diritto all’innovazione esula da questo assioma. Si arriverà dunque a un bilanciamento tra diritti.

Come analizzato, l’AI Act comporta una serie di eccezioni e deroghe che consentiranno agli sviluppatori di sperimentare nuove tecnologie e di ‘innovare’ nell’accezione più ampia di questo termine… del resto, i 24 mesi di ‘decompressione’ necessari a garantire la piena applicazione dell’AI Act apriranno scenari evolutivi ancora del tutto imprevedibili.

Stare fermi e inerti, vuol dire tornare indietro. Una lezione ancora più vera per l’Italia la cui struttura industriale deve fronteggiare le sfide della bassa produttività e l’incremento del numero di imprese ad alto contenuto tecnologico». Il titolare del Mef ha spiegato senza girarci intorno che oggi, con l’intelligenza artificiale, la posta in gioco è «la competizione mondiale», e l’accelerazione di questa tecnologia «può aprire scenari sorprendenti». E queste innovazioni «hanno una rilevanza geopolitica che richiede anche un presidio pubblico, pronto ad adattarsi ai cambiamenti».

Dal Canale di Suez nuove incertezze per l’Europa

Gli anni successivi alla pandemia avevano segnato un record per il Canale di Suez, in termini di navi, di merci transitate e di ricavi per l’Egitto.

Le oltre 23.400 navi passate nel 2022, avevano portato le entrate del Canale a 8 miliardi di dollari con un incremento del 25% rispetto al 2021.

L’aumento dell’inflazione ha spinto anche gli egiziani a rivedere le tariffe, da gennaio 2023 aumento del 15% per tutte le tipologie di navi.

D’altra parte l’incremento dei diritti di transito deriva della strategicità del canale di Suez rispetto a rotte marittime di più lunga percorrenza e con maggior consumo di carburante.

Suez è da sempre un snodo strategico per i traffici nel Mediterraneo continuando a rappresentare il 12% del traffico mondiale e circa il 5% del traffico di greggio, il 10% dei raffinati e l’8% del GNL.

Anche una importante quota del commercio alimentare mondiale passa da qui: il 14,6% delle importazioni mondiali di cereali e il 14,5% delle importazioni mondiali di fertilizzanti.

Tra il 2001 e il 2022 il traffico container tra Europa e Asia (che passa dal Canale di Suez) è cresciuto a un tasso medio annuo del 4,4%, mentre la rotta transatlantica appena del 2% e quella transpacifica (la principale in termini di volumi) del 4%.

I porti del Mediterraneo sono molto migliorati negli ultimi anni soprattutto in competitività e capacità attrattiva, in primis quelli italiani.

Il divario con i porti del Nord Europa è in costante riduzione, la rilevanza del Mediterraneo è testimoniata anche dall’interesse da parte degli investitori esteri.

Dal 2013 la Cina ha investito circa 75 miliardi nella sponda meridionale del Mediterraneo e 16 miliardi in Turchia. Il 30% degli investimenti cinesi si è concentrato su trasporti e logistica e il 24% sull’energia.

Tutto questo ha giovato al sistema marittimo italiano dall’essere area di passaggio al crescente ruolo di hub euro-mediterraneo.

Nel 2021, l’economia marittima in Italia ha superato i 52 miliardi di euro crescendo di oltre 10 miliardi in  un decennio ed è una volta e mezzo quello dell’agricoltura e quasi l’80% del valore aggiunto dell’edilizia, con una base imprenditoriale di oltre 228mila imprese e una occupazione di oltre 900mila addetti. I porti svolgono un ruolo fondamentale di supporto all’internazionalizzazione dato che in Italia circa il 40% degli scambi di import-export avviene via mare per 377 miliardi di euro a fine 2022 con un aumento del 66% in 10 anni.

L’Italia importa via mare prevalentemente dalla Cina ed esporta soprattutto verso gli USA.  L’industria italiana fa viaggiare su mare verso l’estero principalmente i settori dei macchinari, raffinati, prodotti chimici e mezzi di trasporto, che costituiscono circa il 60% dell’import-export marittimo totale.

I porti italiani nel 2022 hanno movimentato oltre 490 milioni di tonnellate di merci, con un incremento dell’1,9% sul 2021 e +0,2% sul 2019. Nel corso degli ultimi 10 anni la movimentazione dei porti italiani si è mantenuta pressoché costante.

L’aumento decennale complessivo è stato infatti di circa il 7%.

La nuova sfida dei porti italiani è diventare hub della transizione energetica, integrati con le aree produttive così come più volte ribadito dal governo italiano e varie volte dal Ministro delle Imprese e del Made in Italy Urso.

Per il nostro paese molte delle iniziative devono tener conto dell’attività dei porti che possono diventare dei veri e propri “hub energetici” per lo stoccaggio e/o produzione di GNL, biocarburanti e idrogeno.

Il tempo stimato è di circa 5 anni per fare dell’Italia il ponte mediterraneo del gas attraverso 7 rigassificatori in prossimità dei porti e 5 gasdotti da sud volti a far transitare circa 50 miliardi di metri cubi di GNL e fino a 90 miliardi di gas (a pieno regime) per un totale di 140 mld.

I porti del Mezzogiorno si confermano una leva strategica; l’import-export via mare nel 2022 ha raggiunto 84,4 miliardi di euro con un balzo del 41% sull’anno precedente; si tratta di una percentuale superiore all’Italia (37,6%).

Gli stessi giocano un ruolo chiave sul comparto “Energy” (petrolio greggio e raffinato) rappresentando il 48% dei rifornimenti e delle esportazioni petrolifere via mare del Paese ed essendo il terminale di importanti pipeline dal Nord Africa e dall’Asia.

Le 8 ZES (Zone Economiche Speciali) del Mezzogiorno stanno attirando già cospicui investimenti.

Tuttavia, da una situazione in netto miglioramento e con buone prospettive di ulteriore crescita purtroppo si sono manifestati negli ultimi 3 mesi altri focolai di guerra e di tensioni internazionali che, se non risolte in breve tempo, potrebbero portare a danni notevoli.

La crisi mediorientale e la guerra Israele- Palestina, acuita dalle tensioni favorite dall’Iran nello Yemen hanno provocato in poche settimane il dimezzamento dei  passaggi da Suez.

La media dei passaggi dal canale tra l’1 gennaio e il 14 dicembre 2023 è stata di 71 navi al giorno. Dal 15 dicembre 2023 all’11 gennaio 2024 le navi sono state 58. Nei primi undici giorni del 2023 i transiti sono stati 143; nello stesso periodo del 2024 sono stati 65, con un calo del 55%.

Siamo già al dimezzamento dell’attività.

A causa degli attacchi nel Mar Rosso, i costi di trasporto di un container medio da Shanghai a Genova sono quadruplicati nel giro di un mese e mezzo (+350%).

A metà gennaio il traffico di portacontainer, petroliere e metaniere dallo stretto di Bab el-Mandeb (fra Gibuti e lo Yemen) si era ridotto di quasi la metà (-46%), riflettendosi sul traffico dal canale di Suez più a nord (-35%).

Attualmente, l’Egitto rischia di vedere il proprio PIL ridursi dello 0,8% per le cause dirette della crisi.

I primi effetti purtroppo si cominciano a vedere anche nei maggiori porti italiani, che da fine dicembre sono arrivati a far segnare una riduzione dei traffici commerciali superiore al 20%.

Anche il passaggio di gas naturale liquefatto (GNL) dal Qatar attraverso Suez è crollato, e a gennaio l’Italia potrebbe vedere una riduzione delle consegne di gas del Qatar del 70% rispetto alla media del 2023.

Quest’ultimo conta per circa il 10% del gas consumato in Italia quindi non vi sono rischi  grazie a stoccaggi molto elevati per questo periodo dell’anno.

Gli effetti di questa crisi sull’inflazione però, se duraturi, potrebbero essere significativi, soprattutto per l’Europa.

Il ritardo di consegna delle merci, ad oggi, è di 10-15 giorni ma con il passare del tempo i rallentamenti potrebbero crescere parecchio. Il pericolo reale è la mancata consegna dei container che non potranno essere utilizzati per il viaggio inverso.

La catena logistica del just in time è organizzata così ed è impossibile cambiarla in corso d’opera.

Di fatto le navi mercantili sono magazzini che hanno sostituito quelli fisici delle imprese; in loro assenza, il processo produttivo si paralizza.

Lo abbiamo visto con il Covid, con le porta-container ferme in rada nei porti cinesi. Una situazione estrema, che, si spera, non si ripeta più.

Urge intervenire in fretta, anche/soprattutto per evitare danni peggiori ad industria e attività commerciali.

Prospettive economiche di un anno “elettorale”

Tenuto conto dell’andamento dell’ultimo trimestre 2023, delle manovre economiche, tranches del PNRR e dichiarazioni/decisioni ella BCE possiamo abbozzare una previsione per il 2024 per l’Italia immaginando una prima parte (almeno fino a giugno) ancora debole con una parziale ripresa nel secondo semestre per poi accelerare nuovamente nel 2025. Le principali agenzie di rating e analisti internazionali vedono una stima di crescita per l’economia italiana allo 0,7% per il 2024.

Purtroppo, nella prima parte del 2024 peseranno ancora gli effetti della restrizione monetaria. Una maggiore capacità di spesa dei fondi PNNR appare cruciale per una nuova accelerazione della crescita attesa dalla seconda metà del prossimo anno. La ripresa post-pandemica in Italia stava già rallentando a fine 2022, quando, al di là della volatilità su base congiunturale del PIL, è iniziata una fase di crescita molto blanda sia pure migliore rispetto al resto d’Europa.

Il 2023 è atteso chiudersi con un’espansione media dello 0,7%; a pesare è stato, da fine 2022, lo shock energetico e inflazionistico sui quali, successivamente, si sono innestati gli effetti della restrizione monetaria ed un calo dei bonus edilizi. La stretta monetaria avrà il suo massimo picco tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024 con l’ultimo aumento dei tassi a settembre 2023 nonostante la contrarietà di quasi tutte le cancellerie europee.
Di conseguenza anche per l’anno prossimo, ad oggi, si prevede un incremento del PIL di circa lo 0,7% (in linea con il 2023).

Tuttavia è plausibile il subentrare di due elementi cruciali che potrebbero, se attivati per tempo, tramutarsi in due importanti fattori di ripresa: il recupero del reddito disponibile reale delle famiglie (molti rinnovi di contratti collettivi nel 2023 e alcuni previsti per il 2024) e l’accelerazione dei flussi di spesa effettiva finanziata dal PNRR.

Essi, in linea teorica, dovrebbero poter prevalere sui freni derivanti dal rialzo dei tassi e dalla stretta sui bonus edilizi solo nella seconda metà del 2024, gettando le basi per una accelerazione del PIL attesa ora in media d’anno solo nel 2025 (a 1,2%).

Gli investimenti, dopo l’eccezionale recupero del biennio 2021-22, hanno visto una brusca frenata già quest’anno; d’altra parte le aziende, nonostante la necessità di continui rinnovamenti di macchinari e impianti, sono scoraggiate dal rialzo dei tassi e dalla stretta sui bonus edilizi e li stanno rimandando. Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, al riguardo ha proceduto allo stanziamento di circa15 miliardi di euro a sostegno delle attività produttive rifinanziando ad esempio la L. Sabatini molto gradita e utilizzata massicciamente negli anni scorsi.

La riforma della normativa del Fondo Centrale di Garanzia dovrebbe portare un ulteriore segnale di fiducia da parte dello Stato nel favorire gli investimenti unitamente all’innalzamento del tetto del De Minimis da 200 a 300mila euro. Rimane inalterato l’apprezzamento del Made in Italy nel mondo per cui nel 2024 ci si attende un moderato recupero dei flussi commerciali con l’estero, atteso poi rafforzarsi nel 2025.

Un altro elemento che consente, sia pure in un quadro internazionale molto delicato, di essere positivi è il settore occupazionale che continua a essere un importante elemento di supporto dello scenario; l’Italia è entrata nello shock inflazionistico con un mercato del lavoro consolidato, con un eccesso di domanda (evidenziato dall’elevato tasso di posti vacanti) che ha fatto sì che il contenuto aumento del PIL dell’attività economica vista nell’ultimo anno non si sia tradotta in un significativo aumento della disoccupazione (numero di occupati, tasso di occupazione e di attività hanno toccato nuovi massimi storici).

Come noto, il progressivo abbandono del reddito di cittadinanza ha portato molti a riaffacciarsi sul mercato del lavoro e a trovare un’occupazione. Il tasso di disoccupazione ha toccato un minimo a 7,5% a giugno, e successivamente è risalito sino al 7,8% in ottobre; le intenzioni di assunzione delle indagini di fiducia delle imprese restano superiori alla media storica ma si sono fatte meno espansive (non solo nell’industria ma anche nei servizi).

In sostanza, le aziende assumerebbero di più se vi fossero condizioni più stabili sui mercati internazionali, prezzi materie prime e tassi calmierati, ma attendono, come si dice, tempi migliori. Questi dati dovrebbero rimanere tali anche nel primo periodo del 2024 poiché il rallentamento degli investimenti delle aziende porterà ad un mantenimento degli attuali livelli occupazionali.

Il processo disinflattivo continua, ed è anzi più rapido del previsto: l’inflazione armonizzata, dopo il picco a 12,6% di ottobre-novembre 2022, è calata sino a raggiungere il 5,7% a novembre 2023. Il Governo è intervenuto con una manovra di bilancio espansiva per lo 0,7% del PIL, imperniata sui tagli fiscali (proroga della riduzione del cuneo contributivo e accorpamento delle prime due aliquote Irpef); l’anno prossimo il disavanzo dovrebbe scendere al 4,4% del PIL per essere mantenuto tale sarà necessario trovare ingenti risorse (oltre 15 miliardi) solo per prorogare i tagli fiscali presentati nella Legge di Bilancio 2024 come strutturali ma finanziati solo sino alla fine del prossimo anno.

Il rapporto debito/PIL è calato al 141% nel 2023. Si dovrà purtroppo tenere conto degli ingenti danni provocati dal superbonus sull’edilizia che ha, di fatto, messo una pesante ipoteca sulle prossime finanziarie. Tuttavia, con merito, l’Italia ha incassato il via libera della Commissione alla revisione del PNRR, ed è stato raggiunto un accordo per lo sblocco entro fine anno della quarta rata da 16,5 miliardi, che porterebbe il totale ricevuto sinora a circa 102 miliardi, ovvero oltre la metà dell’importo totale del piano (salito a 194,4 mld).
La revisione rimodula diverse scadenze, e di conseguenza l’importo atteso delle rate, al ribasso per il 2024 (quando l’Italia riceverà quasi 10 miliardi netti in meno).

La rimodulazione degli obiettivi (non solo sugli investimenti ma anche sulle riforme), l’abbandono dei progetti di più difficile realizzazione e lo spostamento di risorse dagli interventi diretti del Governo ai contributi agli investimenti privati potrebbero in prospettiva migliorare il quadro generale. Per quanto sia ovvio, soluzioni significative alle guerre in corso, un voto europeo orientato su una maggioranza conservatrice e le elezioni americane previste a fine 2024 potrebbero facilmente portare ad ulteriori cambiamenti del quadro economico sia nazionale che internazionale.

ZES e Mezzogiorno, occasione unica

Dal 2024 la Zona Economica Speciale per il Mezzogiorno (Zes unica) comprenderà Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia, Sardegna e sostituirà le Zes attuali.

La costituzione di un’unica ZES consentirà di massimizzare nello scenario internazionale l’impatto competitivo dell’intero Mezzogiorno con il suo già rilevante apparato produttivo, che rappresenta un potenziale da valorizzare nelle sue molteplici articolazioni settoriali e territoriali, con riconoscimento di uguali chance di sviluppo a tutti i territori dell’Italia meridionale e a tutte le imprese già insediate nel Sud o che in esso volessero insediarsi (Dipartimento per le Politiche di Coesione).

Mentre il Paese fa i conti con un evidente rallentamento dell’economia (caro energia, guerra in Ucraina e inflazione galoppante), si registrano nel Mezzogiorno duraturi segnali di vivacità.

Li rileva il Centro Studi sul Mezzogiorno: sfide e opportunità per le imprese manifatturiere.

L’indagine, concentrata sulle società di capitale con più di dieci dipendenti è stata avviata nel 2021e comprende l’intero periodo post-pandemico e del conflitto armato in Ucraina ancora in corso, due eventi che hanno scosso fortemente gli equilibri economici globali, cambiando lo scenario di riferimento per le imprese italiane in questo inizio di decennio.

Già nel 2022 (rispetto al 2021) era stata evidente in Italia la tendenza a realizzare investimenti. Quest’anno è vero che si fanno i conti con una riduzione della quota di imprese investitrici su tutto il territorio nazionale, ma il Sud si distingue in positivo.

E infatti, la quota di imprese meridionali che ha realizzato investimenti nel 2023, pur se in sensibile calo (dal 49% al 43%), resta superiore al dato medio dell’Italia (40%).
È poi significativa la quota degli investimenti che le imprese meridionali destinano alla innovazione e alle nuove tecnologie: il 44,6% del Sud (stabile rispetto al 2021) contro il 41,8% della media in Italia, in sensibile calo rispetto al 2021 (-4,5%).

Nell’ambito degli investimenti innovativi, poi, le imprese, sia nelle regioni meridionali che nelle altre aree del Paese, dedicano una quota maggiore di risorse al digitale , ma comunque più alta al Sud (38,8% contro il 37,2% in Italia).
A seguire, gli investimenti in sostenibilità, la cui quota risulta in crescita.

Come spiegare la vivacità degli operatori meridionali?
Senza dubbio c’era la necessita di fare investimenti che da anni erano stati rimandati, quindi le imprese del sud dovevano recuperare competitività.

In altre parole si arriva alla fase in cui cresce la spesa pubblica che a sua volta alimenta anche quella privata.

Le previsioni per il prossimo triennio ripropongono una maggiore vivacità del Mezzogiorno. In particolare, per quel che riguarda gli investimenti in digitale, si stima una crescita media nel prossimo triennio pari al 10,6% per le imprese del Mezzogiorno e dell’8% a livello nazionale.
E per gli investimenti in innovazione sostenibile, si stima possano avere una crescita media nello stesso periodo del 10,1% nel Mezzogiorno e del 7,4% mediamente in Italia.
Altra voce importante sono gli investimenti in formazione e ricerca. Per questi la stima è di una crescita pari al 9,2% nel Mezzogiorno e al 7% in Italia.

L’Osservatorio dedica un capitolo a parte al Pnrr per misurare l’effettiva partecipazione delle imprese alle iniziative già avviate: nel Mezzogiorno aumenta la quota di imprese coinvolta in tali progetti (+3%) rispetto a quella di imprese che lo scorso anno avevano previsto di partecipare a queste iniziative.

Anche il tema Zes appassiona di più le imprese meridionali: il 50% di queste si dichiara molto o abbastanza informato, contro il 37% in Italia.

E ancora, quanto al grado di coinvolgimento effettivo all’interno delle ZES, nel Mezzogiorno la quota di imprese che già partecipa a progetti (9%) o si aspetta di partecipare (35%) è maggiore che a livello nazionale.

Si osservano, poi, i rapporti delle imprese con i fornitori esteri, partendo dalle forniture energetiche, che sono un fattore importante di competitività nell’attuale scenario di forte crescita dei prezzi dell’energia: la capacità di auto-produrre energia per le proprie esigenze produttive risulta cruciale per la riduzione dei costi.

Riguardo alle forniture dall’estero in generale, il 60% delle imprese meridionali (54% in Italia) studia programmi di reshoring per contrastare i problemi legati a eccessiva distanza dai fornitori e insicurezza.

Viceversa circa un quarto del sistema produttivo (24% nel Mezzogiorno, 27% in Italia) non ritiene di dover intervenire sugli assetti di fornitura attuali.

Se invece si considerano export e grado di internazionalizzazione, si registra una quota di imprese internazionalizzate consolidata, con circa i 2/3 del sistema produttivo meridionale che esportano sui mercati esteri, un dato in linea con la media nazionale.

Per il Mezzogiorno, le imprese dell’alimentare sono più internazionalizzate: il 53% vende all’estero almeno il 20% del fatturato e per il 24% delle imprese il fatturato estero supera il 50%, una quota certamente ragguardevole.
Nel Sistema Moda, invece, la percentuale di imprese fortemente esportatrici (almeno il 50% di fatturato estero) tocca il 21%, al secondo posto tra i settori.

Quindi, le stime dell’effetto potenziale ZES indicano in 83 miliardi l’incremento del valore aggiunto del Sud Italia pari al 23% complessivo.

E’ certamente una grande opportunità.

Imprese e Made in Italy, le sfide da vincere

L’azione del governo Meloni nei prossimi mesi si muoverà sulle linee di marcia (in parte obbligate, in parte frutto di scelte coerenti con il programma votato un anno fa) che il ministro Adolfo Urso ha illustrato in occasione di un convegno a Treviso pochi giorni fa. È stato fatto un bilancio di questi primi undici mesi di attività, badando a rimettere in ordine i numeri che confortano l’azione svolta dall’esecutivo; numeri che contraddicono decisamente la narrazione che vede quotidianamente impegnate le opposizioni.

Gli obiettivi determinati un anno fa sono stati raggiunti e talvolta superati; il bilancio è essenzialmente positivo, dato che al momento dell’insediamento del governo l’inflazione era al 12%, oggi si è ridotta di più della metà attestandosi su valori notevolmente inferiori a quelli della Francia della Germania, cioè le realtà nazionali con cui ci confrontiamo per struttura economico-produttiva.

Riguardo il caro prezzi, è di grandi rilievo la firma di un patto anti inflazione con tutte le associazioni della produzione e della distribuzione. In particolare è stato individuato un paniere di prodotti di largo consumo che possano essere venduti a prezzi molto competitivi a tutti gli italiani.

Per quanto riguarda la disoccupazione l’attività di governo viene certificata dall’Istat nel primo semestre con una significativa riduzione prevista anche per il terzo trimestre. Il ministro Urso pone l’accento sul fatto che molti si attendevano tumulti di piazza e disordini a causa dell’abolizione del reddito di cittadinanza ma nulla di tutto ciò è accaduto. Al contrario, si è investito su chi poteva lavorare creando quasi mezzo milione di posti di lavoro in più che è il record storico dell’occupazione nel nostro paese trattandosi prevalentemente di occupazione stabile e continuativa.

I risultati, anche in questo caso sono stati i migliori in Europa.

Tutelare il lavoro significa anche tutelare la produzione; tuttavia è necessario migliorare la competitività anche a livello europeo.

È nota e certificata la importante interazione economica con Francia e Germania, se si fermano loro si ferma anche l’Italia e viceversa.

Tra pochi giorni verrà stilato un piano di lavoro con Stellantis, una grande multinazionale che nasce anche dal lavoro e dalla produzione di generazioni di italiani; quello che avrebbero dovuto fare i governi precedenti ora diventerà realtà. Da quando fu realizzata Stellantis, nulla è stato fatto per invertire il calo della produzione di auto. Lo scorso anno in questo paese sono state prodotte appena 450.000 autovetture a fronte di oltre un milione di immatricolazioni.

Obiettivo dichiarato da Urso è di invertire la tendenza che vuol dire tornare a crescere e aumentare la produzione di auto nel nostro paese. Obiettivo ambizioso è arrivare in un tempo relativamente breve a un milione di veicoli numero minimo che garantirà, secondo i calcoli del ministero, anche la sopravvivenza di tutta la straordinaria filiera dell’indotto delle auto italiane dando un segnale importante per il territorio.

Il motore endotermico è quello che sostanzialmente muove quasi tutta l’economia. Nella trasformazione all’elettrico è importante per quanto possibile anche tutelare il motore endotermico. E’ una battaglia iniziata da tempo che l’Italia sta conducendo con grande determinazione a livello europeo. Il primo successo è stato ottenuto all’interno del G7 di Tokyo che ha riconosciuto come il bio-combustibile debba essere considerato alla pari del sintetico.

In prospettiva, questo carburante verrà proposto a Stellantis per un ulteriore accordo con l’intera filiera dell’automobile.

Le imprese dell’indotto sono un gioiello del made in Italy e debbono essere accompagnate verso la transizione all’elettrico. Il ministro Urso sta riscontrando un elevatissimo indice di gradimento da parte dell’imprenditoria italiana, i sindacati, presenti all’incontro hanno espresso molta fiducia nel suo operato, fuori dall’Italia è molto stimato e le sue iniziative trovano terreno fertile in tutta Europa.

In particolare, con la revisione delle spese Pnnr, i tecnici sono riusciti a recuperare in tempo utile 16 miliardi da capitoli di spesa che altrimenti non si potevano più utilizzare. Di questi 16 miliardi quasi tutti sono stati destinati al Mimit decidendo di riversarli interamente per accompagnare le aziende nella loro modernizzazione e per sostenerle verso la transizione verde e le energie rinnovabili. Quattro miliardi di euro sono stati dirottati sul piano di transizione 5.0 per le imprese che investono in macchinari informazione a tecnologia Green e digitale.

Due miliardi di euro andranno alle imprese che realizzeranno impianti di produzione di energia rinnovabili, per le imprese che decideranno di produrre batterie elettriche, pannelli solari o fotovoltaici. Un miliardo e mezzo, e questo è molto importante anche per il Veneto, per tutte le imprese che realizzeranno impianti di energia ai fini dell’autoconsumo industriale, cioè le imprese che metteranno un pannelli solari e fotovoltaici per rendersi autonomi. Infine 320 milioni di euro sono stati destinati alla Sabatini Green.
Un imponente spiegamento di mezzi per dare un grande impulso nei prossimi mesi alle imprese italiane per vincere la sfida della transizione economica e del mantenimento e incremento dei livelli occupazionali.
A proposito di occupazione, tali investimenti richiederanno molti lavoratori specializzati che garantiscano un buona produttività; negli ultimi anni, complice anche il reddito di cittadinanza, vi è stata molta disaffezione dei giovani verso il lavoro. Il ministero stima che serviranno circa 500mila lavoratori già nel prossimo anno, dall’industria, al turismo, all’agricoltura.

In prospettiva, è stato istituito il liceo del Made in Italy che verrà avviato nell’anno scolastico 2024/2025 e sarà presente in ogni grande distretto industriale italiano.
Grande importanza viene data ai Distretti industriali che sono fucina di ricerca e sviluppo, di brevetti e di innovazione tecnologica.

Tutto il mondo resta stupito dai distretti industriali italiani facendo anche fatica a capire come hanno fatto a divenire così eccellenti ed inimitabili.

Per la siderurgia vi saranno 3 poli nazionali, Terni, Piombino e Taranto per soddisfare i fabbisogni nazionali; per la chimica essa sarà salvaguardata dalla sopravvivenza di Priolo, un’eccellenza italiana.

Completano il tutto la nascita del Fondo Sovrano Nazionale Italiano e una significativa lotta alla contraffazione, una vera concorrenza sleale in molti settori con, tra l’altro, la possibilità di utilizzare agenti sotto copertura di contraffazione, quindi scombinare alla fonte una piaga che colpisce l’impresa italiana.

Ci vorrà del tempo ma i presupposti di poter finalmente ridare all’Italia un importante peso economico nel mondo ci sono tutti.

Si deve ripartire dal concetto del Made in Italy, recentemente considerato dalla rivista americana “Forbes” il settimo brand a livello mondiale quanto ad importanza. L’Italia c’è ed è più che mai in grado di tornare decisiva.

Distretti industriali, rafforzare le nostre filiere

I distretti industriali italiani stanno dimostrando una capacità di reazione alla crisi in termini di ripresa delle esportazioni e del valore aggiunto che per molti aspetti è maggiore di quelle espressa da imprese che operano fuori dalle aree distrettuali.

Il capitalismo distrettuale che valorizza i rapporti di prossimità e la conoscenza informale derivante dall’apprendimento pratico ha avuto i suoi anni d’oro nel periodo 1970-1990 quando è riuscito a rispondere alla crisi economica mettendo in campo un’offerta creativa di flessibilità e rapidità di risposta che le imprese non distrettuali non erano in grado di fornire; al tempo la logica adottata dalle grandi imprese non era in grado di rispondere in modo rapido ed economico ad eventi improvvisi negativi ed esterni tanto potenti da far saltare i piani di produzione e vendita decisi con largo anticipo.

Le piccole imprese distrettuali in particolare quelle dei distretti italiani erano invece in grado di farlo mobilitando le risorse di un’auto organizzazione emergente dal basso che metteva progressivamente al lavoro migliaia di persone intraprendenti e di micro imprese ordinate in filiere locali flessibili specializzate nei diversi settori; grazie a questa organizzazione auto generata le filiere di ciascun distretto sono state in grado di fornire alla clientela componenti, merci, beni e servizi attraverso relazioni on demand rispondendo a esigenze di volta in volta mutevoli attraverso questa mobilitazione industriale che arruolava nelle imprese distrettuali forza lavoro proveniente dall’agricoltura, dall’artigianato e dal terziario tradizionali.

Molti piccoli imprenditori entravano in campo sfruttando i vantaggi della prossimità territoriale che consentiva di stabilire relazioni interpersonali affidabili nelle filiere locali e imparare dall’esperienza propria partendo da zero.
Questi imprenditori erano in grado di competere grazie a due specificità fondamentali: la focalizzazione del proprio business in singole operazioni riconnesse nella filiera locale, lo sfruttamento del cosiddetto capitale sociale ossia della conoscenza generata da esperienze locali di successo.

Il capitalismo distrettuale si è così affermato rapidamente nella pratica delle imprese.
La forza delle imprese distrettuali si è affermata nella fornitura di componenti e servizi verso clienti esteri anche importanti, nella moltiplicazione di prodotti di nicchia qualitativamente elevati in settori chiave come la moda, l’alimentare, la meccanica e l’arredamento dimostrando come l’auto organizzazione distrettuale fosse in grado di fornire al sistema industriale internazionale una prestazione di grande valore.

Si è sviluppata inoltre la capacità di elaborare idee e soluzioni creative in risposta a esigenze richieste sempre meno programmabili e standardizzate, una capacità di servizio al cliente molto apprezzata dai grandi produttori italiani ed esteri che ne avevano urgente bisogno. Ciò ha consentito ai distretti italiani di crescere in quantità e qualità fino a industrializzare una parte importante dell’economia italiana come il Nord-Est, l’Emilia Romagna, il centro Italia, la Puglia che in precedenza erano rimasti esterni rispetto al triangolo Lombardia Piemonte e Liguria in cui si era concentrata la grande industria.

Anche ora negli anni 2020 i distretti non scompariranno lasciando il posto a grandi e grandissime organizzazioni; queste ultime sono prive di rapporti organici con il territorio nel capitalismo delle filiere.
La carta vincente è infatti rappresentata non dalla dimensione aziendale di per sé ma dalla divisione del lavoro che consente di integrare rapporti differenziati cosicché le PMI possano avere un ruolo rilevante grazie alla reciproca specializzazione e alla condivisione del contesto.
Certo è che i distretti dovranno trasformarsi radicalmente diventando sistemi aperti nella generazione del valore nelle filiere delle eccellenze italiane per la vendita sul mercato interno ed internazionale.

È essenziale che il territorio sia anche ben connesso in termini comunicativi on-line e logistici con l’insieme delle altre localizzazioni in cui operano le filiere di appartenenza; i distretti industriali godono di una innata capacità di adattamento ai cambiamenti ambientali.
Questo si realizza grazie alla “elevata mobilità professionale e sociale” degli stessi, che consiste nella capacità di effettuare un continuo processo di riallocazione delle risorse, sia fisiche che umane, alla ricerca della soluzione più efficiente per la sopravvivenza del distretto stesso.

Questo processo di riallocazione può avere durata variabile e può portare a fasi di crisi dell’intero distretto che, tuttavia, nella maggior parte dei casi, come ci insegna la storia, possono essere superate.

Le crisi delle imprese manifatturiere e dei distretti industriali non sarebbero, dunque, imputabili alle caratteristiche “naturali” dei distretti, ma solo ad una temporanea difficoltà di adattamento che potrà essere superata attraverso un processo di riorganizzazione delle attività.
In sintesi, il sistema industriale italiano, nonostante nei decenni sia stato attraversato da varie crisi (poi sempre superate) è popolato, nel suo complesso, da alcune realtà imprenditoriali, soprattutto di media dimensione, altamente competitive, in grado di esprimere leadership a livello internazionale e capaci di realizzare rilevanti e frequenti salti innovativi.

Questi sono elementi che possono fare in modo che le nostre imprese siano pronte a fronteggiare la concorrenza internazionale e a realizzare il rinnovamento a cui si è fatto cenno poco fa.
Come evidenziato più volte anche dal nostro Ministro delle Imprese sen. Adolfo Urso, possiamo infine ritenere che i distretti e le relative filiere contribuiscano in modo preponderante alla diffusione e al rafforzamento del Made In Italy nel mondo.

MEZZOGIORNO, LA SVOLTA NECESSARIA

Il Mezzogiorno deve dotarsi di un motore di crescita più potente e affidabile; non basta più proporre il “vecchio” sviluppo infrastrutturale anche se necessario.

E’ fondamentale disegnare una strategia più ambiziosa di crescita.

E’ evidente negli ultimi anni che il Sud Italia è diventato davvero strategico per una sua nuova e rinnovata centralità nel Mediterraneo che apre a occasioni connesse a un sistema portuale più moderno e meglio capace di attivare poli di imprenditorialità e innovazione.

La crisi del gas, inoltre, ha fatto emergere anche la possibilità di diventare hub europeo dello stesso e per forza i gasdotti provenienti dal medio oriente e dal Nord Africa devono transitare dal sud Italia.

Le priorità delineate anche dai fondi europei tendono a valorizzare il ruolo e le specificità dell’economia meridionale ma non ci si deve fermare alla logica della resilienza ma provare a porsi obiettivi più ambiziosi.

Il Sud è comunque cambiato anche se molti ne conservano un’idea antiquata.

E’ da cancellare l’immagine del Mezzogiorno come un deserto industriale da tenere a galla verso una economia di mera sopravvivenza (sussistenza) e a basso valore aggiunto.

Dai dati OCSE se il Sud fosse uno stato autonomo della UE sarebbe all’ottavo posto su 27 per presenza di industrie manifatturiere non dimenticando il ruolo che l’industria meridionale svolge all’interno di catene del valore rilevanti su scale europea e nazionale.

E’ ancora presente un differenziale importante di investimenti al Sud che nel resto d’Italia che contribuisce ad accentuare quello che registra l’Italia con altri paesi simili a noi per tessuto industriale (Germania).

Vi sono tuttavia segnali di vitalità; l’alta tecnologia è già un settore molto diffuso che presenta importanti performance di crescita del fatturato e di redditività.

Vi è infatti la presenza di una industria con specializzazioni produttive (Campania, Puglia, Abruzzo, Sicilia) che hanno un peso solo marginalmente inferiore a quelle della media del paese.

Sei poli tecnologici di rilevanza nazionale sono collocati al sud e contribuiscono al buon approvvigionamento delle filiere nazionali.

Da parte delle imprese del sud vi è una spiccata quanto necessaria attitudine a collaborare con altri soggetti, una ulteriore testimonianza di vitalità.

Per quanto riguarda il gap di competenze inoltre con il nord si è notevolmente ridotto anche per quanto riguarda le discipline scientifiche e tecnologiche.

Come  confermato in molti casi di successo imprenditoriale è presente un capitale umano di ottima qualità nelle decisioni di investimento.

Un problema purtroppo molto importante è quello di riuscire a trattenere queste risorse.

Ben 132mila laureati infatti sono partiti dal Mezzogiorno nel periodo 2012-2018 verso l’estero o verso altre regioni italiane. La questione della fuga dei talenti ha la sola possibile risposta nell’avvio di un ciclo di sviluppo solidamente fondato sull’innovazione tecnologica.

Al sud le imprese high tech nascono numerose ma non sopravvivono, esse hanno una mortalità del 50% nei primi 3 anni di vita.

L’obiettivo deve essere allora quello di rafforzare la qualità dei progetti imprenditoriali e arricchire il bacino di riferimento degli investitori favorendo il dialogo fra grandi e medie imprese e start up tecnologiche.

Questa alleanza è una delle caratteristiche nuove e decisive del capitalismo contemporaneo.

Essendo l’Italia uno dei principali paesi manifatturieri del mondo potrà dare un enorme contributo ad una economia sostenibile rafforzando al tempo stesso la propria competitività.

Come avvenuto in passato, occorrerà rivoluzionare attività e prodotti soprattutto mantenendo la tipicità del nostro grande brand: il Made In Italy, quindi moda, mobili, packaging, componentistica auto, filiere agro industriali ecc. tutti settori abbondantemente presenti anche nell’industria del sud.

A  tal riguardo un grande e proficuo lavoro viene portato avanti dal Ministro delle Imprese e del Made In Italy, Adolfo Urso.