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Emmanuel Gout

è consulente in strategia e comunicazione Esperto di relazioni russo-europee

QUELL’INCONTRO TRA PUTIN E MACRON

Contrariamente alla maggior parte degli articoli e delle analisi che il 24 febbraio vanno riflettendo sul primo anno del conflitto russo-ucraino, l’accesso agli archivi classificati come “difesa segreta”, tra diversi decenni, mostrerà molto probabilmente che il vero punto di svolta fu l’ultimo faccia a faccia Macron-Putin. Il 7 febbraio Macron, allora presidente di turno dell’Europa ma anche candidato alla sua stessa successione in Francia – il che lo rendeva vulnerabile – ha avuto l’opportunità di evitare che scoppiasse questo conflitto, un conflitto che da allora vive costante e successive escalation. Team impreparato? Assenza di coraggio?

È impossibile rispondere oggi a queste domande, ma la soluzione era costruita sulla base di alcune principali condizioni: sicurezza dell’Ucraina, la Crimea russa, i limiti della NATO, il transito del gas nell’Europa orientale, il rispetto degli accordi di Minsk, oltre a un possibile accordo che aveva coinvolto il Presidente ucraino.

Il 24 febbraio le truppe russe entrano in Ucraina. De Gaulle ci ha insegnato cosa pensare fin da quando, nel 1967, disse chiaramente agli israeliani che chiunque avesse iniziato le ostilità aveva torto, indipendentemente dalle ragioni addotte. Per la prima volta, nel cuore dell’Europa – se si prescinde cinicamente dalla guerra nell’ex Jugoslavia – questa Europa a cui de Gaulle associava anche la Russia, è scoppiata una tragedia. È possibile stilare un bilancio iniziale, al di là del conteggio delle vittime? E soprattutto, la natura di questa valutazione può aiutarci a rispondere alle domande che si pongono: escalation, estensione, concessioni, pace?

Fiducia tradita: il 7 dicembre 2022, Angela Merkel, in un’intervista a Die Zeit, ha confermato uno dei principali fattori scatenanti dell’invasione, invocato dal Presidente russo: il mancato rispetto degli accordi di Minsk – l’altra causa principale del conflitto è l’avvio del Nord Stream 2, non voluto dagli americani e polacchi. Secondo la Cancellieria tedesca, gli accordi di Minsk, in particolare l’articolo che prevedeva una nuova organizzazione delle regioni orientali dell’Ucraina, erano destinati a far guadagnare tempo all’Ucraina piuttosto che a porre fine immediatamente alle tensioni interne in Ucraina. Cominciava una “pre-guerra” nel 2014.

Economia: più recentemente, pubblicazioni che non possono essere sospettate di essere filorusse hanno illustrato il fallimento delle sanzioni contro la Russia: il Financial Times del 16 dicembre 2022 (“Come i tecnocrati di Putin hanno salvato l’economia”); The Economist del 29 dicembre (“Nel 2022 la Russia salvato la sua economia”), per non parlare di un rapporto del FMI Global Economy del 30 dicembre 2022 che indica come la Russia sia diventata la nona potenza mondiale. Questi articoli fungono da cassa di risonanza per il documentatissimo Backfire, libro di Agatha Demarais (direttrice dell’Economist Intelligence Unit) pubblicato nel dicembre 2022 dalla Columbia, che traccia e analizza l’impatto delle sanzioni: gli americani si sono resi conto del contraccolpo delle sanzioni che stanno imponendo e stanno orchestrando il contraccolpo verso l’Europa; nel frattempo gli Stati Uniti stanno raccogliendo tutti i benefici industriali ed economici di questo conflitto e delle loro sanzioni contro la Russia. Ad esempio, gli Stati Uniti nel 2022 sono il paese al mondo che ha aumentato maggiormente le importazioni di prodotti petroliferi dalla Russia (Silicon India, 2023 / Hindustan Times 20.01.2023), passando per l’India, paese che tra l’altro si rivela anche grande vincitore dell’attuale conflitto. Questo è ciò che Emmanuel Todd descrive nel suo libro La troisième guerre mondiale a commencé.

Ci aspettavamo il crollo militare degli ucraini e invece è stato il contrario; ci aspettavamo il crollo economico della Russia e invece è stato il contrario.
Questo dovrebbe almeno indurci a mettere in discussione le nostre analisi europee e, invece di rinchiuderci in una logica di asta alla morte, spingerci a individuare nuove soluzioni. Stiamo affrontando questo conflitto da una base di dati ereditata dal secolo scorso, da un punto di vista militare, economico e geopolitico – “il 75% del mondo non segue l’Occidente”, ci ricorda Todd. Triste esercizio di semantica, in risposta  all'”operazione speciale”, abbiamo assistito allo sviluppo di una “guerra speciale” da parte della NATO e dei paesi rappresentati: armi, denaro ma ufficialmente nessun combattente, rendendo purtroppo gli ucraini i nostri “mercenari”, che combattono e muoiono legittimamente per la loro patria.
I rischi di estensione del conflitto aumentano di giorno in giorno.
La “NATOizzazione” de facto dell’Ucraina non fa altro che spingere strategicamente i russi verso Odessa… a contrario il  fallimento porterebbe probabilmente il presidente russo al collasso e insieme a lui di tutto il paese, un prospettiva tanto descritto e auspicato dall’ex ministro degli Esteri polacco, Anna Fotyga, o più recentemente dal primo ministro polacco Morawiecki su LCI5, canale all news francese), con tutto ciò che ne consegue in termini di instabilità geopolitica – rinascita degli Stati islamici, terrorismo, guerre civili ecc… È difficile fare previsioni; i nostri analisti, che nell’ultimo anno hanno fatto tante proiezioni quanti errori, non potranno sicuramente esserci d’aiuto.

Quindi, dopo i cannoni Cesar, i carri armati Leopard o  Leclerc, e domani gli aerei, dopo domani ci sara da prepararci  a dire ai nostri figli  ad andare a combattere in Ucraina dove il sangue di sempre più giovani soldati ucraini non smette di scorrere sotto i ponti, oppure decidiamo di cercare  soluzioni dando ascolto ai numerosi appelli di Papa Francesco che trovano eco anche in Russia, ad esempio nella riflessione di Leonid Sevastianov presidente dell’Associazione dei Vecchi Credenti (nata da uno scisma nella Chiesa ortodossa nel 1666).  Ha detto Sevastianov all’ Express nel gennaio 2023: “Dov’è c’è una volontà, c’è un camino. La pace non è un’opzione, è un dovere.

Una soluzione per l’Ucraina

Pubblichiamo la lettera-appello che la Fondazione francese Geopragma ha scritto sul caso Ucraina, per sollecitare una soluzione condivisa, nella convinzione che sia utile aprire un confronto.

Signora von der Leyen,
Presidente della Commissione Europea

Signor Joe Biden,
Presidente degli Stati Uniti

Signor Vladimir V. Putin
Presidente della Federazione Russa

Gentile Signora Presidente,
Egregi Signori Presidenti,

Nella speranza di dissipare definitivamente le illusioni pacifiste, che sono state regolarmente e tragicamente contraddette dal corso della storia, oggi vogliamo lanciare un grido d’allarme di fronte ai crescenti rischi per la pace internazionale, posti dalla sterilizzazione e dall’isterismo di analisi internazionali occidentali sempre più manichei.

Invece di promuovere il rispetto, il dialogo, la cooperazione, l’intelligenza del mondo e delle persone, fanno solo che amplificare gli antagonismi e le tensioni, e quindi i rischi di conflitto.
Dobbiamo fermare questa disperata fuga in avanti prima di dovercene pentire.

Il rapporto tra Russia e Occidente oggi sembra, ancor più di altri, raggiungere questi pericolosi parossismi.

L'”Occidente” si riduce agli Stati Uniti, a un’Europa ancora mentalmente e strategicamente vassalla, a una visione del mondo che il diritto della concorrenza definirebbe un “abuso di posizione dominante”. Da più di 30 anni stenta a metabolizzare la fine della guerra fredda.

È molto più semplice appartenere al campo del “Bene” denunciando l’altro come incarnazione del “Male”. Più semplice, ma stupido, inefficace e pericoloso.

La Russia rimane questo enorme paese traumatizzato dal comunismo, successivamente da una transizione dura e socialmente crudele alla fine degli anni ‘ 90, seguita da una ricostruzione ancora incompiuta e troppo recente per integrare una cultura democratica che abbiamo impiegato secoli a sviluppare.

Tuttavia, la Russia e la sua storia sono state con noi per molti secoli.
Nel primo decennio del XXI secolo, e dopo i traumi, ha ripetutamente, forse non sempre nel modo migliore, teso la mano, senza successo, raccogliendo spesso disprezzo e umiliazioni, che hanno favorito tutti coloro che, anche in Russia, preferiscono le rivalità e la cultura del più forte.

La “costruzione del nemico” non è una chimera . Né lo è il vittimismo. Li pratichiamo a volontà. Questi sono processi facili che, di solito segnano una postura aggressiva, proiettando le proprie turpitudini sull’altro, per liberarsene e pretendere un’illusoria superiorità morale.

Tuttavia, le denunce occidentali non hanno prodotto alcun marcia in dietro russa, al contrario. Ha rafforzato l’amor proprio collettivo di questo grande popolo e la sua determinazione a dimostrare sua resilienza e l’estensione della sua influenza sulla scena mondiale.
Purtroppo quindi, tale situazione finisce solo per confortare coloro, da ambedue lati, che fanno dalla politica del conflitto il principale movente.

È giunto il momento, Signora Presidente, Signori Presidenti, di invitarVi a raccogliere la sfida di un mondo più pacificato e realistico, accettando su specifici dossier soluzioni precise, probabilmente incomplete ma sufficienti in questa fase. Si scontreranno senza dubbio con i vostri estremi (cioè quelli che si definiscono “mainstream”, perché è l’estremismo dogmatico che è ormai la norma delle percezioni), ma promuoveranno una traiettoria capace di garantire la sicurezza di tutti, pur rispettando le differenze e le complementarità dei diversi protagonisti.

È tempo di tornare alla vera politica, quella dei fatti e del possibile, alla una “realpolitik”, infinitamente meno cinica di quella dei “buoni sentimenti”, che risulta da una “cultura ONG” delle relazioni internazionali, senza nulla risolvere ma provocando regolarmente il caos umano.

La ferita più aperta, la cicatrice più aperta è in Ucraina, ma altri conflitti illustrano anche queste rinnovate tensioni, in Medio Oriente, Africa, Asia centrale.

Pertanto e per sbloccare efficacemente una situazione che può portarci al peggio, Geopragma propone l’accettazione, da entrambe le parti, dei seguenti punti :

– Le regioni dell’est dell’Ucraina saranno considerate totalmente parte dell’Ucraina ma beneficeranno dell’autonomia regionale (come la Corsica, la regione di Bolzano, la Sicilia).
– Fine della discriminazione di ogni tipo e in particolare della discriminazione linguistica in Ucraina
– L’ONU garantirà, se necessario, l’integrità legale dei confini dell’Ucraina
– Riconoscimento del referendum in Crimea e quindi della sua appartenenza allo stato russo
– Sospensione di qualsiasi nuova adesione alla NATO ai confini della Russia
– Abolizione dei visti tra Russia, Ucraina, Europa e Stati Uniti
– Rispetto dei Stati e delle loro Costituzione
– Reciproco abbandono di tutte le sanzioni politiche ed economiche.

Ciò dimostrerà una vera comprensione delle realtà internazionali, rappresenterà una rottura assunta contro posizioni rigide che non fanno altro che consolidare i conflitti.
È fare qualcosa di nuovo, è riaprire l’Europa, è tirarla fuori dalla trappola strategica mortale in cui si è lasciata rinchiudere ed dove tragicamente si compiace.
È dargli una nuova prospettiva, una visione strategica, un “valore aggiunto” ineludibile, quindi un motivo di rispetto riconquistato.

Non è più tempo di procrastinare, di cercare di rispolverare gli Accordi di Minsk, così come non si tratta di voler dimenticare i timori legittimi dei paesi limitrofi che potrebbero avere sofferto nel passato dal vicino sovietico.

La pace a volte richiede sacrifici che non sono rinunce o abdicazioni.
Hanno una matrice democratica che dà priorità agli interessi ai popoli e alla maggioranza.
Sono destinati a preferire soluzioni a conflitti.

Parigi, 2 dicembre 2021,
Caroline Galacteros,
Presidente di Geopragma.

Green Pass: altruismo o egoismo?

Ogni volta che mi sono ritrovato a pensare una Roma diversa, forse coinvolgendomi nelle lotte politiche e culturali di Roma, sognando una Roma pulita, rispettosa, più ordinata – senza parcheggio in doppia fila “ne ho solo per un minuto”…, con una popolazione più propensa a camminare o usare dei mezzi pubblici più efficaci, o meglio senza essere il triste record europeo per l’uso massiccio individuale dell’auto per tratti piccoli – mi sentivo dire “non si può cambiare il romano”!
Vivendo a Mosca, ma avendo trascorso decade a Roma, non capivo come una città come Mosca era riuscita a far cambiare drasticamente il moscovita quattro ruote, che ancora pochi anni fa non sapeva neanche cosa fosse un passaggio pedonale, e che oggi si ferma se vede una persona che si appresta ad attraversare sul marciapiede – tutte cilindrate comprese!, che non si ferma mai in doppia fila, ecc…
Perchè Roma non avrebbe allora potuto cambiare? Il Green Pass ci da una triste risposta. Abbiamo visto una più o meno legittima propaganda massiccia sull’obbligo del Green Pass, ma i risultati attuali sembrano dare ragione a questa politica.
Qui però va studiata la reattività della popolazione, tutta nella sua stragrande maggioranza a fare rispettare l’obbligo del Green Pass, anche a Roma.
E se purtroppo la risposta a questo rispetto dell’obbligo fosse l’egoismo, la paura, la paura di ammalarsi e non il rispetto dell’altro; sennò come si spiega che questo (dovuto) zelo non sia anche valido per il pedone, per la qualità della vita nella nostra città?
Il Green Pass può andare oltre la questione della salute pubblica, può aiutare a pensare Roma diversa, dove l’individuo diventa comunità. Il Green pass può creare un precedente positivo, cambiare il Romano e non rimanere solo l’espressione dell’egoismo individuale.
A ripensarci, Roma.

*Emmanuel Goût, componente il Comitato scientifico Fondazione Farefuturo e componente del COS in Geopragma

Libia, Afghanistan…fallimento del modello “state building”?

Con questo articolo di Emmanuel Gout sul futuro dell’Europa, continua la collaborazione tra la Fondazione Farefuturo e la Fondazione francese Geopragma . Gout è nel Comitato scientifico della nostra Fondazione e membro del COS in Geopragma. 
L’articolo viene pubblicato in contemporanea dalla due fondazioni. 

Il Ministro degli Affari Esteri Di Maio aveva, ad inizio agosto, appena concluso il suo viaggio diplomatico in Libia per tentare di ridare all’Italia un ruolo da protagonista, quando, molto più ad oriente, precipitava la fine del regime afghano. Poco più di due settimane dopo fuggiva di fatto il presidente Ghani – ultima marionetta americana – una fuga meno discreta del re Luigi XVI…

Poco in comune però tra la rivoluzione francese portatrice di ideali di libertà e di diritti, e il regime talebano che avevamo potuto osservare anni fa, come parentesi Jihadista , tra l’invasione sovietica e lo sbarco americano dell’inizio secolo. Sono tornati, forse diversi – sarà da giudicare sui fatti – e il capo del partito dello stesso ministro degli affari esteri, Conte,  invita al dialogo con questa possibile nuova versione talebana, versione XXI secolo.

In premessa, non c’è dubbio che un “fondamentale” della diplomazia è di mantenere il dialogo, un filo conduttore con tutti, in particolare con i potenziali nemici. In tal senso, Conte ha probabilmente ragione, come lo fanno Cina, Russia, Emirati…che mantengono la loro ambasciata…ma la vigilanza e la coerenza con i propri valori devono essere una priorità nel stabilire o mantenere il dialogo.

Certo che la storia afghana è soprattutto la storia di un fallimento, quello dello “state building”, una versione politically correct della colonizzazione. Si prendono modelli e principi occidentali, politici, culturali, religiosi, economici e si pensa potere applicarli dovunque senza pensare alla realtà delle identità e dei popoli, convinti di un potenziale “tutto si compra”. Già la tappa successiva si mette in ordine di marcia, e mentre la fuga è in atto, fioriscono le minacce di prossime sanzioni, di privare il paese di una banca centrale e così di far valere la nostra forza di convincimento, ormai umiliata, fallita sul terreno. L’analisi dei benefici – illusori – del sistema “sanzione” dovrebbe invece spingerci ad identificare altre vie a supporto delle nostre politiche internazionali.

Peggio, sono centinaia di miliardi andati in fumo – non per tutti – e soprattutto centinaia di vita di soldati europei e americani che oggi si domandano perché sono morti. Domani saranno nuovi flussi migratori in Europa – certo non finiscono negli USA – flussi che interpellano doveri umanitari e capacità del nostro vecchio continente a gestire questa crisi.

In Afghanistan, il sistema “tribale”, di “clan”, di etnie,  sono una componente essenziale del paese, in Libia il sistema tribale è LA componente del paese. In Afghanistan era nato un embrione di stato, fantoccio e corrotto, ma  la progressiva urbanizzazione della società consentiva premesse di cambiamenti culturali, in particolare per le donne.

In Libia non esistono tradizione di uno stato articolato, strutturato e lo stesso Gheddafi sapeva di dover gestire le diverse realtà tribale per meglio presidiare il paese e la “sua rivoluzione”. La Libia è rimasta lacerata dell’intervento voluto dalla presidenza Sarkozy. Oggi in alcun casi le tribu sono diventate mafie locali che “gestiscono” il dramma dei flussi migratori.

In Afghanistan, gli USA, aprendo direttamente negoziati con i taliban – senza alcun rappresentanza del loro neo stato afghano – hanno consegnato di fatto il paese ai talebani (tra l’altro anche le armi), sostenuti dal Pakistan. Ci sarà sicuramente da riflettere sulla gestione americana dell’Afghanistan, dalle torri gemelle ad oggi.

In Libia, oggi sul terreno diplomatico, dopo l’ultimo tentativo fallito del maresciallo Haftar di prendere Tripoli, i protagonisti sono più i Turchi e i Russi, che gli Italiani o i Francesi. Si profilano elezioni programmate dal mondo occidentale per fine anno. Lo stesso Haftar corre dietro alla riconquista di una legittimità internazionale, validando il processo delle elezioni caldeggiate dal suo rivale di Tripoli.

In Afghanistan, si profila l’organizzazione di una possibile resistenza, dal numero due di Ghani al figlio di Massud; c’è da scommettere che il fossoyeur della Libia, Bernard Henri Lévy, si farà, insieme a quest’ultimo,  presto fotografare.

La lezione viene quindi di non credere che la nascita di un stato non radicato, improvvisato,  possa essere una garanzia per l’occidente e per i diritti stessi delle persone.

L’Italia è davanti una sfida quasi epocale della sua diplomazia: paesi che hanno avuto legami stretti con l’Italia, parte della Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia e in fine come già detto la Libia sono in situazione di forte instabilità: conflitti, elezioni, crisi economiche, migratorie… Non bastano le diplomazie dell’ENI o di Leonardo, occorre che l’Italia, paese della cultura degli equilibri possa ritrovare un ruolo da protagonista, lontano da manicheismi distruttori o di soli interessi economici. 

L’Italia, alleato fedele degli USA, ha sempre saputo mantenere un legame forte con la Russia. Dispone quindi di una storia diplomatica in grado di potere pensare ad un suo rinascimento, solo se la quotidianità della politica italiana potrà lasciare spazio ad una nostra visione della diplomazia e i principali protagonisti essere all’altezza del ruolo dell’Italia nel mondo.

*Emmanuel Goût, componente il Comitato scientifico Fondazione Farefuturo e componente del COS in Geopragma

 

Perchè è necessario una idea diversa di Europa

Con questo articolo di Emmanuel Gout sul futuro dell’Europa, inizia la collaborazione tra la Fondazione Farefuturo e la Fondazione francese Geopragma . Gout è nel Comitato scientifico della nostra Fondazione e membro del COS in Geopragma. 
L’articolo viene pubblicato in contemporanea dalla due fondazioni e cosi sarà fatto anche in altre occasioni di comune riflessione.

A pochi mesi dalla prossima presidenza francese, l’Unione Europea sembra mettersi in ordine di marcia sotto l’egida del presidente Macron per ripensare se stessa, ripensare questa Europa così scossa dalla sua gestione della crisi sanitaria.

È persino prevista un’ampia consultazione dei giovani – come se in Francia queste consultazioni diventassero una solita alternativa alle elezioni, dai “gilet gialli all’ecologia, ora l’Europa -.

A fungere da catalizzatore, la pandemia, che, è vero, può spingere ognuno di noi a mettere in discussione la propria esistenza, ma anche a mettere in discussione la natura delle nostre istituzioni e il loro ruolo, gli effetti delle politiche condotte negli ultimi decenni e soprattutto sulla qualità dei nostri leader per affrontare la crisi sanitaria. Vorremmo essere guidati da questa stessa classe politica in caso di conflitto armato? Ne dubito.

Non è sufficiente, come il Presidente francese afferma, far  sì che l’Europa debba “decidere più velocemente e più forte” o di coltivare il gusto per la formula  “davanti all’autoritarismo, opporre l’autorità della democrazia”. Relativizzare la formula non significa relativizzare i principi fondamentali dell’Unione Europea, ma piuttosto cercare di riflettere sui suoi fondamentali e i principi fondatori che hanno accompagnato la costruzione Europea.

Se è legittimo pensare a un’identità europea, è tuttavia essenziale pensare a questa identità come a una somma di identità tanto complementari quanto diverse. Le nostre storie e la loro analisi, le lezioni che possiamo trarre, sono tutti fattori di coesione e ricchezza, perché sono anche la diversità delle culture, delle tradizioni e delle economie. Sembra più che mai necessario evitare che l’ideologia “main stream” ci impedisca di pensare e proporre soluzioni originali e nazionali per pensare all’Europa di domani, al suo sistema, alla sua visione del mondo.

Un audit istituzionale ed economico dell’Unione europea è più che mai necessario. È necessario essere in grado di correggere il tiro, misurarne i limiti, definire i parametri, i confini, la sua vocazione internazionale, creare opportunità per generare nuove potenzialità.

In questo contesto, sembra importante confrontarsi e sommare il lavoro dei think tank europei che hanno la loro Nazione nel loro DNA e che aspirano a un’Europa diversa, che avrebbe non solo un futuro ma anche un destino. È in questo contesto che Fare Futuro e Geopragma, due think tank italiani e francesi, potrebbero avviare una collaborazione fatta di dibattiti, confronti, scambi e diventare con altri think tank europei una piattaforma ricca di soluzioni e proposte per offrire all’Europa e alle Nazioni che la compongono un vero Destino.

*Emmanuel Goût, componente il Comitato scientifico Fondazione Farefuturo e componente del COS in Geopragma

 

 

I rischi della extraterritorialità del diritto

14 miliardi è la somma che le imprese francese hanno dovuto pagare tra il 2010 e il 2020 come condanne e multe agli USA, anche delle imprese norvegese, tedesche, britanniche, svizzere e seppur oggi solo marginalmente italiane hanno subito sanzioni e condanne: il fenomeno rischia di crescere.

Dal “Patriot Act” alla SEC (Securities and Exchange Commission), dal ruolo dell’OFAC Office Foreign Assets Control a quello del FCPA Foreign Corrupt Practices Act, tutti in coordinamento con il DOJ (Dipartimento della Giustizia), non mancano istituzioni che attuano unilateralmente l’extra territorialità del diritto americano. Sono mezzi a supporto di una politica estera mirata a servire ambizioni industriali e geopolitiche anche a discapito dello sviluppo di concorrenti alleati.

Tra le imprese condannate a pagare più di cento milioni di multa, 14 sono europee e solo cinque americane…Ma oltre alla multa ci sono anche arresti come nel passato (2018): ad esempio questo dirigente di Alstom condannato a più di due anni di galera, il tempo per General Electric di mettere mano su un ramo strategico dell’elettricità nucleare francese posseduto allora dalla stessa Alstom o più recentemente un’alta dirigente di Huawei fu arrestata in Canada su mandato americano.

In Italia, le banche sono state le rime ad essere colpite, seguite dalle medie e grandi imprese. Il primo caso di impresa in Italia fu contro la Dettin nel vicentino. Più recentemente è stata l’ENI ad essere denunciata dalla SEC per violazioni FCPA (3/19751). Storia finita con il patteggiamento al fine di evitare delle probabili condanne più serie.

Ma la spada di Damocle è ormai sopra la testa di tutte le nostre imprese, ad esempio imprese che si muovono dinamicamente nei mercati internazionali come sul mercato russo, paese sempre più sottoposto a sanzioni (*). Decine di Miliardi sono in ballo!

Si impone quindi una reazione articolata. Ci sono vari modi di reagire, uno a livello istituzionale – in ambito europeo -, un altro a livello delle imprese facendo una distinzione tra le imprese di importante dimensioni – le multinazionali – che hanno a disposizione uffici legali e di “compliance” oltre agli uffici di comune amministrazione legale e tutte le imprese che non possono permettersi questa veglia preventiva, nonché sostenere i costi di strutture aggiuntive dedicate alla gestione delle minacce o delle sanzioni. Oltre ad una reazione articolata, si impone un sostegno esterno nella governance e nelle strategie.

Ma certo, oltre la “difesa in casa”, ci serve un’Europa in grado di contrastare legalmente e istituzionalmente queste sfide epocali.

Un passo indietro: sono gli inglesi che per primo hanno reagito, essendo direttamente la loro industria della difesa – BAE Systems – ad essere stata condannata a pagare a  seguito di un contratto di vendita di armi all’Arabia Saudita…un colmo, potremmo dire,  venendo dagli Stati Uniti!

Gli inglesi hanno reagito creando successivamente nel 2010  la UK Bribery Act, legge che ricopre anche una dimensione extraterritoriale. In Italia ci fu la legge 190/2012 a tracciare le regole di compliance e trasparenza mentre in Francia  si è dovuto aspettare il 2016 con la legge Sapin 2. Un secondo colmo, le imprese francese potevano dichiarare al fisco gli ammontare versati per “favorire” contratti internazionali fino a settembre 2000, data dell’entrata in vigore della convenzione dell’OCDE!

Ma la lotta a livello nazionale rimane molto debole davanti alle sfide legali dell’extraterritorialità, qualsiasi sia il paese di origine. E’ sicuramente a livello europeo che devono essere presi dei provvedimenti per contrattaccare e proteggere la libertà del commercio internazionale delle nostre imprese. Ad esempio, le difficoltà ad intraprendere un condizionamento fiscale dei GAFA dimostra la nostra impotenza nonostante le multe assegnate.

Nel passato, per rispondere alla guerra delle concentrazioni “cartelli”, l’Europa era riuscita con la simmetria a rispondere ad ogni denuncia. Oggi la costituzione in Europa di un equivalente al dipartimento di giustizia americano, probabilmente la risposta più adatta, risulta più che mai complicata. Ci rimane una direttiva, la 2271 del 1996 che dovrebbe potere annullare tutte le decisioni di giustizia straniere ma senza una struttura per attuare la lotta alle violazioni, tale direttive rimane lettera morta!

Pesano minacce sempre più gravose  sul commercio con la Russia, terra di predilezione italiana e le sue imprese, grandi, medie e piccole, pesano anche sul commercio con alcuni paesi del Medio Oriente e domani sul commercio in Asia, visto che la Cina sta anche lei, per contrattaccare gli americani, attuando un diritto extraterritoriale accompagnato da sanzioni e multe, come lo illustrano le conclusioni dell’ultimo congresso del partito – 22 maggio 2020  – : l’entrata in vigore della legge sull’extraterritorialità il 1 .12.2020 a vigilanza del State Council e della Central Military Commission è stata seguita da una Personal Information Protection Law vicina al General Data Protection Regulation Europeo.In fine la Cina si è dotata il 9 gennaio di una legge di protezione contro le legge extraterritoriale straniere. Un altra guerra legale mondiale si sta quindi imponendo all’Europa e alle sue imprese, senza contare il significato dei blocchi Facebook o Twitter che avvengono sempre più spesso, una extraterritorialità privata in grado di superare una extraterritorialità statale.

Per aiutare le nostre imprese serve anche una azione “locale”, un supporto a livello aziendale, sensibilizzando gli imprenditori e i dirigenti, offrendo una formazione ai più esposti ai mercati internazionali fornendo una cartografia dei rischi e un mapping della viabilità dei contatti in loco, visto. Oggi è sotto osservazione qualsiasi mossa in Africa, in Asia, in Medio oriente, in Russia…e che basta una sola mail su un server americano per renderci potenzialmente imputabile!

Si moltiplicano i fronti che andranno a condizionare il nostro sviluppo internazionale. Le guerre industriale e geopolitiche non mancheranno di demoltiplicare l’uso abusivo dell’extraterritorialità del diritto. La dimensione nazionale sembra ormai fuori tempo, l’Europa è in ritardo, occorre urgentemente dotarsi di strumenti utili a livello locale dell’impresa stessa come a livello europeo. Solo così torneremo a potere guardare la Cina e gli Stati Uniti direttamente negli occhi.

*Emmanuel Goût, comitato scientifico Farefuturo