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Davide Rossi

Davide Rossi docente all'università di Trieste ed editorialista del quotidiano L'Arena. Da tempo si occupa delle tematiche legate al confine orientale dell'Italia.

Percorso difficile, riforma necessaria

Un tratto essenziale che caratterizza il costituzionalismo repubblicano italiano è certamente il criterio della rigidità. Lo Statuto Albertino – nato prima dell’Unità, nel Regno di Sardegna, con una continuità istituzionale tra le due realtà confermata da un Sovrano che non modifica la relativa numerazione – era rimasto in vigore per un secolo, riuscendo ad adattarsi e conformarsi ai cambiamenti della società proprio grazie all’elasticità e all’idoneità ad essere modificato attraverso una legge ordinaria. Alla flessibilità, di converso, era altresì imputata l’incapacità di essere riusciti a resistere e a frenare il crescente autoritarismo del fascismo.

In questo clima l’Assemblea Costituente partorì l’attuale articolo 138, per il quale le modifiche al testo costituzionale «sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda». Inoltre, ove non vi sia stata una approvazione a maggioranza di due terzi dei componenti, è possibile sottoporre il testo a referendum confermativo.

Dagli Atti traspare come la genesi sia stata paradigmatica, uno dei pochi casi in cui non fu sostanzialmente mai in discussione il contenuto: il repubblicano Tomaso Perassi – che di lì ad un decennio verrà nominato giudice della Corte Costituzionale – intervenne più volte in aula, ribadendo «che il primato della Costituzione si pone come un limite alle leggi ordinarie. Il che significa che la conformità alla Costituzione è un essenziale requisito per la validità di ogni legge». Agli occhi dei Padri costituenti tale soluzione sembrava sciogliere anche la delicata questione dell’immutabilità del testo, nella consapevolezza del necessario adattamento al cambiamento dei costumi e delle sensibilità della società.

Il primo cinquantennio – dal 1948 al 1998 – si è caratterizzato per modifiche sostanzialmente volte all’attuazione del progetto costituzionale, in vista dell’introduzione della Corte Costituzionale o dell’attivazione delle Regioni a Statuto Speciale. Si tratta di interventi minimi, sovente necessari per non bloccare il nuovo assetto istituzionale.

Le Commissioni Bicamerali
All’interno di questo lasso temporale, e in specie dagli anni ottanta, emerse l’esigenza di una manutenzione costituzionale: il modello adottato fu quello del ’46, con il ricorso all’istituto della “Commissione Bicamerale”, organismo collegiale composto da deputati e senatori in proporzionalità della rappresentanza politica.

Tutte portano il nome dei relativi Presidenti: quella del 1983 coordinata da Aldo Bozzi, quindi la De Mita – Iotti del 1992, infine la D’Alema del 1997.

La prima svolse 50 sedute e riguardò 44 articoli, volendo intervenire sul Parlamento, il Governo, le fonti normative, il Presidente della Repubblica, i partiti, il sistema elettorale. Appare chiaro come fosse un disegno mirante ad una maggiore stabilità dell’esecutivo, con l’introduzione della fiducia da votarsi in seduta comune e per appello nominale. Si interveniva anche sul momento della sfiducia, che doveva essere motivata e sempre parlamentare (nel tentativo di ridurre la prassi alquanto in voga all’epoca di governi che si dimettevano su indicazione partitica e senza un formale passaggio istituzionale).
In un clima alquanto diverso – si stava aprendo quella tesissima stagione poi conosciuta come “tangentopoli” – opera la Commissione Iotti: nei suoi lavori emerge il tema del regionalismo, con la richiesta di un capovolgimento del criterio delle competenze attribuite alle Regioni e la definizione di nuovi istituti di garanzia per la tutela dell’autonomia regionale. Si prefigura una forma di governo abbastanza inedita, detta “neoparlamentare”, in cui è prevista l’investitura diretta da parte del Parlamento del Primo ministro, attribuendo a quest’ultimo l’esclusiva responsabilità sulla nomina e la revoca dei ministri, formalizzando l’istituto della “sfiducia costruttiva”.

Quindi, la terza Commissione citata affidò la delicata questione della forma di Stato al giurista democristiano Francesco d’Onofrio e quella relativa alla forma di governo al privatista di area comunista Cesare Salvi, con un dibattito incentrato su un modello a tendenza semipresidenzialistica, con un’ascendenza francese.

In nessun caso si raggiunsero gli obiettivi sperati, tutto si concluse sempre con un sostanziale nulla di fatto.
Nei successivi venticinque anni si è invece assistito ad un vero e proprio sviluppo delle manipolazioni sul testo costituzionale: considerando anche quelle recentissime relative all’insularità e alle attività sportive, numericamente parliamo di un’emenda ogni due anni.

Tecnicamente si evidenziano due cambi di rotta: da una parte la presenza di interventi ridotti e mirati ad un tema specifico: la tutela dell’ambiente, la riduzione del numero dei parlamentari, il pareggio di bilancio, l’elezione diretta del Presidente della Regione, l’introduzione della circoscrizione estera, la cessazione degli effetti delle disposizioni riguardanti la famiglia reale.

Quindi, una sorta di presa d’atto dell’impossibilità di procedere secondo una condivisione tra le varie anime partitiche, in favore di proposte che sorgessero dalle sole forze di maggioranza: si tratta di un vero e proprio cambio di strategia, con cui si elimina uno degli elementi cardine, ossia la più ampia compartecipazione alle scelte delle regole del gioco e dell’assetto istituzionale.

In questo senso si è mosso il centro-sinistra nel 2001, partorendo una riforma incentrata sui rapporti tra centro e periferia, nata zoppa e che non ha prodotto gli effetti sperati: essa si strutturava attorno al principio di sussidiarietà, per cui l’azione di governo si dovrebbe svolgere attraverso il potere possibilmente più vicino ai cittadini, mentre alle Regioni fu attribuita autonomia legislativa più ampia rispetto all’originario disegno costituzionale, essendo stato previsto che lo Stato disponesse solamente di alcune competenze esclusive, mentre poi – tolte alcune materie dove permaneva la competenza concorrente tra Stato e Regioni – tutto il resto sarebbe diventato di competenza regionale. Il tutto, per giunta, senza prevedere una Camera di rappresentanza delle Regioni (sul modello tedesco, ad esempio).

Se nel 2001 si giunse ad interpellare il popolo, con un esito favorevole, nelle esperienze successive – targate Berlusconi e Renzi – il risultato fu negativo, bloccando cambiamenti più strutturati e incidenti il complesso dei poteri istituzionali.

Nel 2006 il Cavaliere pose al centro del suo programma politico una proposta che ruotava attorno all’idea di un “premierato assoluto”, che avrebbe di conseguenza morfologicamente modificato le norme relative al ruolo e alle funzioni del Presidente della Repubblica, andando ad incidere sul procedimento legislativo, sulla composizione e sulle funzioni dei due rami del Parlamento, sulle competenze legislative regionali, sulla Corte costituzionale e sullo stesso procedimento di revisione costituzionale. Furono pure mosse critiche metodologiche, in quanto si contestava la possibilità di emendare in quel modo il dettato costituzionale, attribuendo all’articolo 138 la possibilità di aggiornamenti e non di cambiamenti così radicali.

Lo scoglio-referendum
Anche Renzi nel 2016 non si sottrasse al proposito costituente e predispose un testo in cui si contemplava il superamento del bicameralismo perfetto, con il Senato quale cerniera del decentramento, l’abolizione del C.N.E.L. e delle Provincie, la fiducia all’esecutivo di mera competenza della Camera dei Deputati.

In tutti e due i casi si ricorse al referendum confermativo, il cui esito negativo ebbe ripercussioni non irrilevanti per la tenuta di entrambe le maggioranze. A meno di due lustri dall’ultimo tentativo, anche il Governo a guida Meloni intraprende la strada riformatrice: sulla scorta degli insuccessi, l’intenzione è quella di intervenire con interpolazioni moderate, ma tali da dare ugualmente un segnale forte e spostare l’asse nei confronti dell’Esecutivo. Come ci spiega Gian Paolo Dolso nel suo scritto, siamo ancora ai primi vagiti di un percorso che si presenta lungo e tortuoso: si tratta di pochi articoli ritoccati, con cui implementare la stabilità, con un Capo del Governo che verrebbe direttamente eletto dai cittadini in un unico turno, con una scheda unica.

In parallelo corre pure la riforma delle autonomie sotto la spinta del ministro Calderoli, cui è affidato l’arduo compito di determinare i livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Si tratta di un processo per dare concretezza al terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, in cui si prevede che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle Regioni [ordinarie], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119».

È un bivio importante per Giorgia Meloni: da una parte il timore, nella consapevolezza che le riforme hanno mietuto vittime eccellenti; dall’altra l’ambizione di essere la prima a compiere un concreto passo con cui cominciare un percorso di riforme che non può più attendere oltre e di cui il Paese necessita.

Tutto si tiene: Governo più forte e autonomia differenziata

Se la prima età repubblicana è stata caratterizzata da una lenta e macchinosa fase di attuazione dei precetti costituzionali, è dagli anni ottanta del Novecento che il tema delle riforme costituzionali ha cominciato a farsi sempre più impellente, non a caso in coincidenza con la caduta del Muro di Berlino e grazie ad un nuovo clima internazionale.

A ben guardare ci hanno provato un po’ tutti, spesso con risultati poco entusiastici, nonostante le iniziali roboanti promesse.

La prima Bicamerale, infatti, fu costituita nel 1983 ed era presieduta dal deputato Aldo Bozzi, da cui prese il nome. I lavori coinvolsero 40 parlamentari – divisi equamente fra i due rami del Parlamento – e durarono 50 sedute. Uno sforzo che giunse ad un nulla di fatto, così come capitò alle esperienze successive, con la Bicamerale De Mita – Iotti del 1992 e quella presieduta da D’Alema nel 1997.

Risonanti speranze, per l’appunto, cui non si è mai riusciti a dare seguito, per l’incapacità di trovare un equilibrio istituzionale che sapesse dare concretezza alle differenti richieste che emergevano dal tessuto sociale, economico e politico.

Sarà solamente il frastuono di tangentopoli e la distruzione della partitocrazia a provocare uno scossone, prima di tutto rimodulando l’immunità parlamentare – il tema all’epoca più scottante –, attraverso la legge costituzionale n. 3 del 1993 che riscriveva l’articolo 68 della Costituzione, passando da un regime di autorizzazione a procedere ad un regime di autorizzazione ad acta e riducendo sensibilmente le prerogative del potere politico innanzi a quello giudiziario.

L’altra tematica all’epoca scottante fu certamente quella collegata alla “questione del nord”, strettamente connessa alla formazione di nuove realtà politiche a stampo regionalistico e dalla forte impronta identitaria ed autonomista, che vedevano in una differente rimodulazione del rapporto tra centro e periferia la strada verso un ammodernamento della macchina istituzionale.

Gianfranco Miglio fu il pensatore – e il politico – che, con tutta probabilità, incarnò meglio di tutti questa sensibilità. Il celebre teorico, invero, aveva cominciato ad occuparsi di riforme dall’inizio degli anni ottanta, quando, con un gruppo di studiosi poi conosciuti come “Gruppo di Milano” puntava a risolvere il deficit di capacità decisionale dell’Esecutivo attraverso una serie di correttivi molto pervasivi, tra cui l’elezione diretta del primo ministro, il meccanismo della «sfiducia costruttiva» e il rafforzamento dei poteri della Corte costituzionale. Accanto a questa prospettiva, altrettanto marcata era la polemica contro lo Stato unitario e accentratore, da sostituire con un modello federale che, sull’esempio dei cantoni svizzeri, dividesse la Penisola in alcune grandi aree macroregionali, partendo dal presupposto dell’artificiosità della segmentazione prodotta dal Costituente.

Per evitare una deriva schiettamente federale, le forze del centro-sinistra nel 2001 diedero vita ad una riforma, nata zoppa e che non ha prodotto gli effetti sperati: essa si strutturava attorno al principio di sussidiarietà, per cui l’azione di governo si dovrebbe svolgere attraverso il potere possibilmente più vicino ai cittadini, mentre alle Regioni fu attribuita autonomia legislativa più ampia rispetto all’originario disegno costituzionale, essendo stato previsto che lo Stato disponesse solamente di alcune competenze esclusive, mentre poi – tolte alcune materie dove permaneva la competenza concorrente tra Stato e Regioni – tutto il resto sarebbe diventato di competenza regionale. Di fatto questi decenni hanno dimostrato come la competenza residuale si sia ridotta a ben poca cosa, anche grazie ad una lettura estensiva che la Corte ha dato delle materie di competenza esclusiva dello Stato. Veniva anche riconosciuta una maggiore autonomia finanziaria in capo agli Enti, tuttavia tutta da attuare per via legislativa.

Questa riforma si inserisce in un claudicante percorso che con il nuovo Millennio ha conosciuto tre tentativi di metter mano al testo costituzionale in maniera organica, attraverso il meccanismo previsto dall’articolo 138, per il quale le modifiche «sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda». Inoltre, ove non vi sia stata una approvazione a maggioranza di due terzi dei componenti, è possibile sottoporre il testo a referendum confermativo.

Se nel 2001 si giunse ad interpellare il popolo, con un esito positivo, nelle esperienze successive – targate Berlusconi nel 2006 e Renzi nel 2016 – il risultato fu negativo, bloccando cambiamenti più strutturati e incidenti il complesso dei poteri istituzionali.

Questi precedenti aprono al delicato problema del metodo da adottare per completare positivamente un iter di riforma costituzionale: ad oggi, infatti, risultano aperti tavoli di lavoro che sembrano muoversi parallelamente.

Da una parte la riforma delle autonomie sotto la spinta del ministro Calderoli, cui è affidato l’arduo compito di determinare i livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Si tratta di un processo che muove dall’anomalo referendum consultivo indetto dalla Regione Veneto – poi seguita dalla Lombardia – nell’ottobre 2017, in cui quasi cinque milioni e mezzo di elettori regionali sono stati sollecitati a conferire mandato ai rispettivi vertici esecutivi per dare concretezza al terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, in cui si prevede che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle Regioni [ordinarie], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119». Si tratta di trovare un nuovo equilibrio in relazioni a quelle funzioni che possono essere richieste dalla Regione e – trovato l’accordo con il Governo – poi trasferite, puntando ad una più elevata qualità dei servizi erogati a beneficio dei cittadini e del territorio e utilizzando le risorse secondo criteri di economicità e produttività.

Dall’altra parte la questione della forma di governo, che ha di recente visto aprirsi un tavolo di confronto tra la maggioranza e le opposizioni.

Quindi, il tavolo dedicato alla giustizia, le cui connessioni in caso di riforma costituzionale non possono essere sottovalutate, se solo pensiamo alle implicazioni relative alla guida del Consiglio Superiore della Magistratura e della nomina dei giudici costituzionali da parte del Presidente della Repubblica. Si tratta di competenze certamente da ripensare in caso di adozione di una forma di governo di tipo presidenziale.

Appare evidente come tutti questi aspetti debbano essere tenuti assieme e coordinati, per aggirare nuovi sfasamenti e per evitare di incespicare in un nuovo decennio di tentativi di riforma inconcludenti o velleitari, tra spinte riformiste e tendenze a conservare lo status quo.

L’intento dell’attuale maggioranza è quello di trovare una sua sintesi interna, alimentando sia le spinte autonomiste quanto quelle di potenziamento dell’Esecutivo: due pilastri attorno ai quali trovare la necessaria sintesi politica, dando così ascolto alle istanze di modernizzazione di cui il Paese ha obbiettivamente necessità.

Se l’idea di diventare i demiurghi della Costituzione attrae quanto Ulisse dalle Sirene, la recente storia, però, racconta come sia un tema su cui quasi tutti quelli che si sono cimentati nel tentativo di riforma hanno finito per farsi male.

La solidità di Giorgia Meloni appare al momento incontestabile, ma non dovrà sottovalutare gli inciampi di un percorso affascinante quanto periglioso: sono carte da giocare solamente quando in mano si è certi di avere una scala reale.

STAVOLTA E’ VIETATO FALLIRE

La narrazione politica vuole che i primi cento giorni di un esecutivo ne delineino i connotati. Invero, il primo governo a trazione femminile si è dovuto districare attraverso una complessa rete di questioni internazionali ed interne di non facile risoluzione, a partire da una finanziaria in parte ereditata e una guerra in territorio europeo di cui si fatica a vedere una positiva definizione, un contesto geopolitico pieno di timori nei confronti di un partito connotato politicamente a destra, il tutto tralasciando le polemiche quotidiane.

Tra i temi che necessariamente caratterizzeranno questa legislatura da poco insediata troviamo le riforme costituzionali, annosa questione che attanaglia l’agenda italiana almeno dagli anni Ottanta del secolo scorso.

La prima commissione bicamerale, infatti, fu costituita nel 1983 ed era presieduta dal deputato Aldo Bozzi, da cui prese il nome. I lavori coinvolsero 40 parlamentari – divisi equamente fra i due rami del Parlamento – e durarono 50 sedute. Uno sforzo che giunse ad un nulla di fatto, così come capitò alle esperienze successive, con la bicamerale De Mita – Iotti del 1992 e quella presieduta da D’Alema nel 1997.

Con il nuovo millennio per altre tre volte si è cercato di metter mano al testo costituzionale in maniera organica, attraverso il percorso previsto dall’articolo 138, per il quale le modifiche «sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda». Inoltre, ove non vi sia stata una approvazione a maggioranza di due terzi dei componenti, è possibile sottoporre il testo a referendum confermativo. Sia nei tentativi del 2001 sia in quelli del 2006 e del 2016 si è giunti ad interpellare il popolo, e l’unico esito positivo fu il primo, mentre risultato negativo ebbero le due successive proposte – rispettivamente targate Berlusconi e Renzi – più strutturate e incidenti il complesso dei poteri istituzionali.

Soffermandoci su quanto accadde nel 2001, l’evidente intento dell’allora maggioranza di centro-sinistra fu quello di non lasciare alla sola Lega l’appannaggio di un argomento estremamente delicato come quello legato agli equilibri tra il centro e la periferia. A distanza di oltre vent’anni, Lombardia e Veneto – seguite a ruota dall’Emilia-Romagna – con enorme fatica e ritrosia statale stanno intavolando trattative con l’esecutivo con l’intenzione di ottenere i più ampi margini di autonomia legislativa e amministrativa e con il precipuo scopo di sostituirsi allo Stato nella gestione di competenze e funzioni, assumendosi la responsabilità e puntando ad erogare servizi di migliore qualità e a costi più contenuti.

Più autonomia

Si tratta di un percorso peculiare che muove dall’anomalo referendum consultivo indetto dalla Regione Veneto – poi seguita dalla Lombardia – nell’ottobre 2017 in cui quasi cinque milioni e mezzo di elettori regionali sono stati sollecitati a conferire mandato ai rispettivi vertici esecutivi per dare concretezza al terzo comma dell’articolo 116 della nostra Costituzione repubblicana, in cui si prevede che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle Regioni [ordinarie], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119». Si badi che l’intento di Governatori come Zaia e Fontana non è quello di abolire o modificare la Costituzione vigente, bensì di attuarla in quelle parti che sono rimaste per troppo tempo lettera morta, per dar corso al principio dell’autonomia regionale differenziata, previsto ma mai ancora realizzato.

Un’intesa tra Stato e Regioni che fin da subito è apparsa tutt’altro che facile e che si muove su un doppio binario, nel solco normativo dell’articolo 117 della Costituzione in cui sono elencate le materie potenzialmente attribuibili ai poteri periferici, e soprattutto in quello economico, collegato al problema della quantificazione del costo del livello delle prestazioni essenziali.

Quindi non si tratta di effettiva autonomia, ma di “margini” di autonomia, cioè di funzioni che possono essere richieste dalla Regione e – trovato l’accordo con il Governo – poi trasferite, aumentando il livello di concorrenza rispetto allo stato attuale, puntando ad una più elevata qualità dei servizi erogati a beneficio dei cittadini e del territorio e utilizzando le risorse secondo criteri di economicità e alta produttività.

Posto questo percorso già in atto, l’attuale maggioranza ha quindi cercato di trovare una sua sintesi interna prospettando una riforma in senso contemporaneamente autonomista ma anche presidenzialista, venendo incontro ai desiderata espressi dalle varie componenti della coalizione. L’architettura appare ancora da delineare contenutisticamente, dove, per l’appunto, l’autonomia viene proposta come uno dei due pilastri di un progetto istituzionale più ampio e che trova nel presidenzialismo l’altro necessario riferimento di sintesi politica.

Non è un caso che sia stato previsto un dicastero dell’Autonomia, affidato ad un nome storico del leghismo, quel Roberto Calderoli che ha appena cominciato la sua nona legislatura nei Palazzi romani. A ciò si deve necessariamente aggiungere il ripristino del ministero per le Riforme e la Semplificazione Amministrativa, anche qui non a caso assegnato ad un’altra forte personalità come l’ex Presidente del Senato Elisabetta Casellati. Ad onta di precisione, dopo l’esperienza del governo Gentiloni in cui non era stato previsto un ministero ad hoc, il Conte I lo aveva trasformato in “democrazia diretta”, mentre il Conte II e Draghi ne avevano conferito le attribuzioni al ministero per i Rapporti con il Parlamento.

È indubbio come la partita delle riforme sarà un campo minato quanto fondamentale: se da una parte non ci si può permettere di scontentare il proprio elettorato sul tema dell’autonomia (la Lega lo ha pagato non poco lo scorso settembre) senza però alimentare il divario tra nord e sud della Penisola, dall’altro bisogna coniugare questo percorso all’interno di un più esteso e razionale piano di modifiche costituzionali di cui il paese ha obbiettivamente necessità.

Se è evidente che un problema così delicato come la predisposizione delle regole del gioco deve trovare maggior sostegno possibile e sarà necessario il coinvolgimento di tutti gli attori politici, è altrettanto necessario che non si devono aprioristicamente demonizzare modelli soltanto perché distanti da quello attualmente in vigore, evocando inconsistenti timori di derive autoritarie. Il sistema presidenzialista – concetto generico in quanto apre le porte a più ipotetiche forme di governo – evoca una sorta di “primo cittadino” d’Italia, riproponendo lo schema oggi previsto per il sindaco dei Comuni o dei governatori delle Regioni. È evidente che si tratta di un vero e proprio salto quantico se comparato con l’esperienza attuale, che necessiterebbe di forti contropoteri ed una legittimazione reciproca dei partiti molto distante dalle pratiche italiche. Il nuovo Presidente non dovrebbe più nominare i giudici della Consulta né potrebbe evidentemente presiedere l’organo di autogoverno dei magistrati. Ciò comporta una totale revisione degli assetti istituzionali e degli equilibri in essere, con un vero e proprio cambio di mentalità.

Non dimentichiamoci, però, che anche l’elaborazione della nostra Carta fu accompagnata da aspre discussioni e pesanti critiche, se solamente ricordiamo lo sprezzante giudizio di un intellettuale come Gaetano Salvemini per cui «era una vera alluvione di scempiaggine. I soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare o prima o poi questo mostro di bestialità», oppure il giudizio di un giurista come Carlo Artuto Jemolo, che la considerava «piena di espressioni che non hanno nulla di giuridico».

Ciò che è certamente lapalissiano è la necessità di aggiornare un testo che ormai sente il peso degli anni, senza preconcetti e nella consapevolezza che non esiste il modello in astratto migliore, ma quello che meglio si addice alle circostanze culturali, storiche ed economiche, frutto del compromesso e dell’accordo dei soggetti in causa.

Il vero nodo risiede nel recupero della solidità delle forze politiche, che dovrebbero essere radicate nelle società, e non paradossalmente aggrappate allo Stato. Dove il Parlamento risultasse fragile ed incapace di un costante dialogo con il cittadino, tutto rischierebbe di essere sarebbe fallito in partenza.