Antonio Coppola

Onorare le vittime continuando nel lavoro

La grandezza di un Paese è data anche dalla sua presenza nei contesti cruciali in ogni angolo del mondo, dove donne e uomini prestano il proprio servizio e la propria vita. Donne e uomini straordinari perché straordinario è il compito che a loro è richiesto. L’Ambasciatore italiano presso la Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, il carabiniere della sua scorta, Vittorio Iacovacci, e l’autista del convoglio delle Nazioni Unite, uccisi questa mattina a Goma in un attentato da parte di miliziani, sono tra queste. L’ipotesi dell’attacco sembrerebbe il rapimento di personale delle Nazioni Unite, presenti nell’area per il protrarsi della missione Monusco volta a garantire la stabilità nello stato congolese e nell’area.

Attraverso la Farnesina l’Italia tiene alta la propria bandiera nel mondo, insieme alle forze di sicurezza e a tutti coloro che contribuiscono con la propria piccola ma indispensabile parte. Oggi deve essere un giorno di lutto per il nostro Paese, ma anche di consapevolezza e responsabilità, innanzitutto da parte degli organi di Governo, affinché si rifletta su cosa accade nel mondo e soprattutto in che cosa sono occupate e preoccupate le risorse umane dello Stato impegnate in ogni angolo della cartina geopolitica. Per onorare le vittime di questo barbaro attentato bisogna credere ora come non mai nei valori di libertà, civiltà, cultura, democrazia, per i quali loro, ed altri prima di loro, si sono sacrificati; e continuare a lottare per essi – facendo ognuno la propria parte piccola o grande -, ovunque, comunque e dovunque.

Dilapidato il patrimonio italiano nel Corno d’Africa

Intervista di Antonio Coppola a Raffaele De Lutio, profondo conoscitore dell’Africa; ha ricoperto la carica di Ambasciatore ad Addis Abeba, accreditato anche presso l’Unione Africana, e di Direttore Centrale alla Farnesina, per i Paesi dell’Africa sub-sahariana.

D Il Corno d’Africa sta vivendo mesi molto difficili, il primo ministro etiope Abiy Ahmed, Nobel per la pace soltanto un anno e mezzo fa, lo scorso 4 novembre ha attaccato militarmente la regione Tigrai a seguito di tensioni tra il Governo centrale e le forze regionali del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè. La situazione è precipitata rapidamente; come esplode questo conflitto e come si sta evolvendo?

R La situazione in Etiopia è molto grave e siamo ad un passo dallo scoppio di una vera e propria guerra civile, che potrebbe allargarsi ad altri Paesi con conseguenze imprevedibili per l’intero Continente ma anche per l’Europa e non mi riferisco tanto alla questione migratoria ma ai veri e propri equilibri strategici. Come tutti i conflitti anche questo ha radici antiche, le elezioni del 2005 ma forse anche più antiche.

Dalla caduta dell’Imperatore l’Etiopia ha conosciuto una profonda crisi di legittimità, il tentativo marxista del Derg è annegato in un bagno di sangue. L’esperimento federalista di Meles Zenawi ha conosciuto una deriva autoritaria, priva di prospettive politiche. Probabilmente, l’improvvisa morte di Meles, ha privato il Paese di uno dei suoi leader più lucidi e, a mio avviso, di un elemento moderatore.

L’arrivo al potere di Abiy Ahmed è avvenuto in circostanze poco chiare, così come la sua gestione del potere. Con Abiy per la prima volta nella sua storia plurimillenaria, l’Etiopia ha un leader non cristiano e non amara o tigrino, le due etnie dell’Etiopia storica. Si tratta di un aspetto non secondario del problema. Gli Oromo sono infatti il gruppo etnico maggioritario, giunto in Etiopia a partire dalla fine del XVIII secolo e sempre ai margini del potere. Alcuni ambienti internazionali lo hanno visto come la soluzione di tutti i mali del Paese ed il creatore di un’Etiopia democratica. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Era necessario giungere ad una soluzione della crisi con l’Eritrea e ad una composizione delle tensioni interne, ma probabilmente i tempi e le modalità scelti da Abiy non erano stati sufficientemente approfonditi e valutati. La contrapposizione violenta con la componente tigrina è la più importante ma non l’unica, quella foriera di sviluppi del tutto imprevedibili, data anche la capacità militare dei tigrini. Gli assassini mirati dei vecchi leader del TPLF, primo fra tutti l’ex Ministro degli Esteri Seyum Mesfin rappresentano un errore politico gravissimo, oltre che un crimine odioso. Sembrerebbe che in tutto il Paese e tra le truppe etiopiche in Somalia si registri una vera e propria caccia al tigrino. Difficile esprimere un giudizio, non esistendo alcuna possibilità di verificare le notizie e quindi si rimane sempre ai si dice, sembrerebbe che…

D Nella capitale Addis Abeba c’è la sede dell’Unione Africana, oltre all’area circostante all’Etiopia c’è il rischio di una destabilizzazione del continente?

R Certamente esiste un rischio di destabilizzazione del Continente. L’Etiopia rappresenta la porta di ingresso orientale al Continente, quella che l’Impero aveva ermeticamente chiuso per oltre 1000 anni, consentendo all’Africa sub sahariana di mantenere intatte alcune delle sue specificità, nonostante il colonialismo ed i tentativi di penetrazione islamica. Inoltre, la presenza militare etiopica in Somalia aveva bloccato l’avvento di un regime islamico radicale, quale quello delle Corti islamiche. Va però riconosciuto, che Addis Abeba non è mai sembrata interessata ad una vera soluzione della crisi quanto piuttosto a congelarla, senza alcun programma a medio, lungo termine.

D’altra parte le tensioni con il Sudan e con l’Egitto sono ampiamente note. Non si tratta solo dell’uso delle acque del Nilo, su cui Meles Zenawi ed i suoi successori hanno cercato di far “cavalieri soli”, sopravvalutando le proprie forze ma anche di una lotta di influenze per la leadership sull’Africa orientale.

Il ruolo di Asmara è quanto mai equivoco, secondo alcune voci Seyum sarebbe stato portato in Eritrea e lí assassinato. Asmara starebbe utilizzando forze somale in territorio tigrino e starebbe espandendosi nell’area frontaliera contestata, mentre il Sudan avrebbe occupato alcune aree di frontiera anch’esse tradizionalmente contese. Dalla caduta del Derg, provocata in larga parte dalla guerriglia eritrea, esiste una sorda lotta tra Asmara ed Addis per la supremazia politica in Africa orientale.

P Per evitare il peggio, cosa potrebbe fare la comunità internazionale? E l’Italia, congiuntamente all’Alleanza Europea ed Atlantica, potrebbe avere un ruolo?

R Difficile dire cosa debbano fare la Comunità internazionale e l’Italia in particolare. Certamente esercitare ogni possibile sforzo per interrompere la spirale della violenza. L’Unione ha nominato il Ministro degli Esteri finlandese inviato speciale e la sua missione andrebbe sostenuta con grande determinazione da parte di tutti i Paesi membri, a cominciare dall’Italia.

L’Italia dovrebbe però cercare anche una propria dimensione, interrompendo la fase di estraniamento dal Corno d’Africa che ci ha portato a disperdere le nostre risorse in aree del Continente in cui non abbiamo alcun radicamento ed alcuna effettiva presenza. Ricordiamo la pagina nera della chiusura della scuola italiana di Asmara, un vero delitto! Due nostri Sottosegretari, l’uno di centro sinistra e l’altro di centro destra, Mario Raffaelli ed Alfredo Mantica hanno una profonda conoscenza del Continente e del Corno d’Africa, perché non affidare ad uno di loro e ad alla Farnesina il compito di chiarire innanzitutto i termini del problema, contribuendo da protagonisti alla elaborazione di una strategia europea per l’Etiopia. Non si tratta di mediare non essendovi alcuna richiesta in tal senso, ma di comprendere cosa sta realmente accadendo ed ipotizzare delle linee d’azione adeguate. Il Corno d’Africa insieme alla Libia era una delle poche aree in cui l’Italia aveva i mezzi per svolgere una propria politica estera, nel giro di pochissimi anni abbiamo dilapidato un patrimonio di conoscenze, relazioni, amicizie, strumenti unici…. Un vero delitto!

*Antonio Coppola, collaboratore di Charta minuta

Merito e competenza per una nuova classe dirigente

Presentata la Scuola di Formazione di Farefuturo da Urso, Alberoni, De Masi, Tremonti e Terzi. Anche Joshua Wong tra i “docenti”.

“Merito e competenza per una nuova classe dirigente che abbia a cuore l’interesse nazionale e che sappia come tutelarlo in ogni occasione”. È questo l’obiettivo della Scuola di Formazione di Farefuturo presentata a Roma in sala Nassyria al Senato, in una web conference a cui hanno partecipato, con il presidente Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia, anche Francesco Alberoni, Domenico Masi, Giulio Tremonti, Giulio Terzi, Marco Gervasoni, Gianluca Brancadoro e il segretario generale della Fondazione Mario Ciampi, in rappresentanza del corpo docenti. Tra gli altri, anche il leader della protesta giovanile di Hong Kong, Joshua Wong, che svilupperà la tematica della libertà.
Il Corso si articola in un “glossario nazionale” che individua attraverso le chiavi del lessico i nuovi orizzonti e i nuovi confini dell’Italia e degli italiani nell’epoca della globalizzazione: rischi e opportunità, idee e progetti. Il corpo docente è formato dagli autori del Rapporto sull’Interesse Nazionale “Italia 20.20” e dai componenti il Comitato scientifico della Fondazione. Tra gli altri, oltre quelli citati, anche Ernesto Galli della Loggia, Pietrangelo Buttafuoco, Agostino Carrino, Guido Crosetto, Luigi Di Gregorio, Maurizio Leo, Alessandro Mangia, Giampiero Massolo, Andrea Margelletti, Luigi Paganetto, Carlo Pelanda, Paolo Peluffo, Paolo Quercia, Beniamino Quintieri, Giampaolo Rossi, Gennaro Sangiuliano.
“Ci rivolgiamo – ha affermato Urso – a tutti coloro che credono nella nazione come comunità di destino per formare una classe dirigente competente e coerente, consapevole di quanto importante sia difendere identità e interessi nazionali nel contesto europeo e occidentale. Nel corpo docente vi è il meglio della cultura italiana, idee e analisi sicuramente interessanti per chiunque voglia andare oltre i luoghi comuni, comunque stimolanti anche quando non si condividono. La competenza e quindi il merito devono tornare nella politica e nelle istituzioni italiane”. “Il sapere di carattere generale è minacciato dalla mondializzazione”, ha affermato il sociologo Francesco Alberoni. “Il nostro pensiero è formato più da Amazon che dalla scuola, segue solo i meccanismi economici del consumismo. Dobbiamo reagire“. Il tema del “lavoro” sarà sviluppato da Domenico De Masi, il quale – ha evidenziato Urso – è sempre interessante ascoltare anche quando non la pensiamo come lui. “La progressiva riduzione del lavoro – ha detto De Masi – richiede una ristrutturazione globale, sociale, economica, produttiva. Cambia il tempo ma anche la qualità del lavoro. Il lavoro non sarà più centrale nella vita dell’individuo, ciò significa ridefinirlo“. “Esiste – ha aggiunto Tremonti – una asimmetria tra mondo globale e diritto locale che va colmata. L’Europa si è messa finalmente nel lato giusto della storia, riprendendo proprio le proposte italiane“. “Dobbiamo rilanciare l’Atlantico”, ha affermato l’ex ministro Giulio Terzi, “Non solo come necessario per la nostra Difesa ma come elemento per i nostri valori, la nostra cultura, la nostra politica“. Per Gianluca Brancadoroil gigantismo è indotto dalla economia digitale e richiede l’intervento delle istituzioni, a cominciare dalla UE. Dobbiamo far valere il nostro interesse nazionale”. Marco Gervasoni ha evidenziato che “nella ridefinizione del glossario nazionale, sempre più centrale è proprio la rivisitazione del concetto di conservatorismo. Valori e interessi Nazionali”. Infine, il segretario generale della Fondazione Mario Ciampi ha sottolineato che “l’interesse nazionale è un tema importante a volte relegato in un angolo del dibattito pubblico come se fosse un sottoprodotto del nazionalismo, ciò perché spesso le élite hanno dato prova di non essere troppo vincolati da sentimenti di lealtà nazionale”.

Giulio Terzi: Le vie della seta per il neo-imperialismo della Cina comunista

Diplomatico dall’intensa carriera, già Ministro degli Affari Esteri, l’Ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata è osservatore privilegiato dei mutamenti geopolitici nel mondo.

D. Tra Est ed Ovest sembra tornare a prendere forma una nuova “guerra fredda”, qual è la sua visione della mappa geopolitica?
R. Giorni fa leggevo un rapporto sulla percezione del potere mondiale, sviluppato da una pluralità di centri di ricerca; una graduatoria basata su indicatori quali economia, crescita, soft power, capacità d’influire su Paesi terzi, potenza militare, nuove tecnologie. Gli Stati Uniti sono ancora al primo posto, la Russia emerge dal punto di vista politico-militare nonostante un’economia inferiore a quella italiana che corrisponde a circa un decimo di quella cinese, la Cina viene considerata da tutti gli osservatori come grande antagonista della potenza americana con un elevato ritmo di crescita ed un sistema Paese estremamente autoritario, minaccioso e temibile, che mira ad obiettivi imperiali. Per quanto riguarda la Russia, lo spirito di Pratica di Mare con cui si sperava di porre le basi per una vera “sicurezza cooperativa” in Europa – tra Est ed Ovest – si è rivelato, nei pochi anni seguiti a quell’incontro del 2003, una speranza incompiuta: a causa delle azioni di forza della Russia di Putin nel suo “vicino estero” e delle polemiche sull’allargamento della Nato verso Paesi che erano stati membri del Patto di Varsavia. Con la Cina, di “sicurezza cooperativa” non si è in realtà mai riusciti a discuterne in forma sistematica, nonostante l’attivazione di canali di comunicazione a livello militare tra Washington e Pechino. Diversamente da quanto avvenuto tra USA e Russia, e tra Nato e Patto di Varsavia sino a quando esso è esistito, nessuna intesa è stata raggiunta tra Cina e Paesi Occidentali in tema di limitazione di armamenti strategici e convenzionali, o per un regime di notifiche, verifiche, misure di fiducia che hanno invece caratterizzato, talvolta impedendo che degenerasse la “guerra fredda” tra Est ed Ovest, anche negli anni seguiti alla caduta del Muro di Berlino.
Nonostante gli sforzi fatti ancora durante la presidenza Trump di coinvolgere Pechino in un negoziato sulla limitazione delle armi strategiche, insieme alla Russia, Xi Jinping ha sempre fatto orecchie da mercante, interessato soprattutto ad accelerare il suo riarmo nucleare. Anche sotto questo profilo il degradarsi del rapporto tra Stati Uniti e Cina preoccupa, specialmente l’Europa, così esposta alle strategie espansioniste degli “assets” militari e strategici cinesi nei principali porti del Mediterraneo: chi garantisce che navi cinesi a Taranto, Vado Ligure o Trieste non operino per rafforzare lo spiegamento, strategico-nucleare incluso, della Marina Cinese? Quali trattati sulle verifiche abbiamo negoziato con Pechino, per escluderlo?
D. Il maturare di questo antagonismo sempre più evidente, tra Stati Uniti e Cina, come si connota e che altre differenze ha rispetto alla guerra fredda che vedeva l’Alleanza Atlantica da una parte e la Russia dall’altra?
R. La Cina si sta affermando in poco tempo come potenza globale. Nel giro di poco tempo potremmo assistere al consolidamento di una sorta di duopolio tra USA e Cina in campo economico, politico e militare. Un’altra differenza con la Russia protagonista della precedente guerra fredda, è che attorno alla Cina non c’è un’alleanza militare come quella che esisteva nel Patto di Varsavia e non c’è neanche un’alleanza di natura ideologica; ci sono esercitazioni militari congiunte, con la Russia, c’è un accordo di difesa con la Corea del Nord, ma non un collante come quello che aveva il comunismo russo nella primazia con i propri Stati satelliti. La Cina, da ormai vent’anni, utilizza una tattica diversa per espandersi verso il mondo esterno: il soft power. E mentre la Russia non ha mai realizzato un modello di sviluppo economico, la Cina ha un sistema Paese che le consente di crescere sempre di più economicamente, restando tuttavia profondamente arretrata sul piano della democrazia e dei diritti umani.
D. La Cina dove pratica la sua espansione e come attua il suo soft power?
R. Lo scacchiere è tracciato dalle Vie della Seta: basta vedere la carta geografica e registrare i corridoi ti terra e di mare dove Pechino ha deciso e imposto i suoi investimenti. L’approccio ha una natura predatoria ovunque il Partito Comunista Cinese decida di esser presente, anche se nella prima fase la Cina si presenta come Paese benefattore. C’è l’esempio di Paesi che si sono anche ribellati o hanno cercato di fare passi indietro, come il Myanmar, lo Sri Lanka, il Pakistan, dove la leva finanziaria per investimenti infrastrutturali è stata applicata con metodi di usura: nei momenti in cui si sono verificate condizioni d’insolvenza sui mutui concesso, la Cina ha tradotto le clausule d’insolvenza nell’appropriazione di enormi fasce di territori, o di spropositate concessioni minerarie, per valori esponenzialmente superiori al valore dei mutui non onorati. Un’altro esempio è l’Africa, soprattutto nelle aree minerarie, dove l’insolvenza cinese è stata pagata attraverso la concessione di miniere che valgono fino a cinquanta volte l’ammontare del mutuo elargito. Se il Piano Marshal è stato un piano di sviluppo generoso e destinato a Paesi democratici e liberi, la Via della Seta è stata concepita e viene attuata con il preciso obiettivo di arricchire le aziende cinesi statali o private integrate nel sistema del PCC, e di restringere la sovranità e l’indipendenza politica, economica, tecnologica delle democrazie occidentali. Con l’ascesa del presidente Xi, le vie della seta sono proliferate come elemento di espansione globale. C’è la via della seta terrestre: linee, snodi e stazioni ferroviarie costruite esclusivamente da cinesi, con manovalanza cinese, e tecnologia sottratta illecitamente ad aziende europee e dunque anche italiane. Lo stesso modello si ripete per la via della seta marittima su cui Pechino punta per affermarsi come grande potenza navale, per noi più inquietante perché tocca i porti di Taranto, Trieste, Vado Ligure. Particolarmente pericolosa è la via della seta informatica, su cui la Cina ha manifestato la propria volontà di dominio nelle attività e nelle regolamentazioni cyber, arrivando ad ottenere alla guida dell’ITU (l’Unione internazionale delle telecomunicazioni) Houlin Zhao che, per sua stessa dichiarazione è promotore degli interessi cinesi prima che degli interessi della comunità internazionale che in tale sede dovrebbe rappresentare. Pechino, inoltre, manifesta la propria volontà di dominio in tutti gli organismi internazionali dove riesce ad avere una guida diretta, come alla FAO con Qu Dongyu, o come all’OMS dove comunque trova una dominante capacità d’influenza attraverso un Direttore Generale etiope teleguidato da Pechino.
D. Qual è stato il momento in cui Pechino ha pensato di potersi esprimere prepotentemente verso l’esterno?
R. Con l’ascesa di Xi nel 2012, ai vertici del Partito Comunista Cinese, è emerso il convincimento che fossero maturati i tempi per investire pesantemente sulla marina militare. Un convincimento derivato sia dalle disponibilità finanziarie e tecnologiche raggiunte, sia dal visibile indebolimento della controparte (gli Stati Uniti e alcuni Paesi europei) assopitasi persino nelle più importanti aree strategiche dello scacchiere geopolitico. C’è un punto di svolta che si è materializzato in rapporto al convincimento della Cina: l’inizio della crisi siriana nel 2012, nel 2013 e nei primi mesi del 2014. Nel 2012, Paesi occidentali come gli Stati Uniti, Francia, Inghilterra, in parte l’Italia, seppur preoccupati dalla crisi siriana non mostravano reattività nei confronti di Bashar Al-Assad che utilizzava ripetutamente le sue armi chimiche verso quelle fasce di popolazione siriana che si ribellavano chiedendo riforme democratiche. Una cruciale fase dove si è avvertita drammaticamente la mancanza di una posizione da parte dell’Occidente. La “Linea Rossa” dichiarata da Obama, contro l’utilizzo delle armi chimiche in quell’area, fu ripetutamente infranta nell’assenza di risposte chiare da parte di americani ed europei; soprattutto nell’estate del 2013 con le stragi di migliaia di siriani sotto le bombe chimiche sganciate dagli aerei russi in dotazione all’aviazione siriana. Si è così acceso un semaforo verde per il protagonismo militare di Mosca e Pechino. Lo dimostra la cronologia dei fatti. A inizio 2014 la Russia decide di attaccare la Crimea violando tutti gli accordi internazionali; contemporaneamente, o quasi, Pechino lancia un programma frenetico di militarizzazione per appropriarsi di una vasta fascia dell’Oceano Pacifico ricca di risorse economiche, in totale violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e senza volersi attenere alle decisioni della Corte internazionale di giustizia. Dinnanzi alle prove di debolezza, ancora, da parte dell’Occidente, la Cina capisce di poter dare avvio alla propria espansione imperiale.
D. L’Italia, nell’Alleanza Europea ed Atlantica, che posizione vive?
R. Nel nostro Paese ci sono alcune personalità di Governo che pensano di poter rassicurare sia una parte sia l’altra, ma nei fatti c’è una gran confusione. Non giova certo a darci un minimo di credibilità internazionale. L’Italia deve essere molto accorta nel rassicurare, non solo a parole ma con i propri comportamenti, i partner europei, gli Stati Uniti, e tutti gli altri, di non essere il cavallo di Troia della dominazione cinese, ad esempio sul tema di cyber: controllo e sicurezza delle reti informatiche, metadati, intelligenza artificiale, calcolo quantistico. Assistiamo nei fatti ad aperture e rassicurazioni – ad esempio sul 5G – ad aziende come Huawei e ZTE che sono impegnate da due leggi del Governo cinese (sulla sicurezza informatica del 2016 e sull’intelligence del 2017) a contribuire agli obiettivi del proprio Governo in quella che viene chiamata “intelligence economica”. Ad inizio mese, esattamente nello stesso momento in cui il Segretario di Stato statunitense, già capo della CIA, Mike Pompeo era a Roma e incontrava il Ministro degli Esteri italiano, Huawei lanciava con arrogante clamore un importante manifestazione pubblica: per inaugurare il centro di ricerca per la cyber security sviluppato in collaborazione con gli Enti pubblici e le principali università italiane impegnati nel settore. L’immagine che l’Italia da di sé, di ambiguità e sottomissione ai desideri del regime cinese, è davvero inquietante.

Gian Marco Centinaio: “Taiwan avamposto di legalità e democrazia”

Il senatore Gian Marco Centinaio, già ministro, è membro del Gruppo Interparlamentare di Amicizia Italia-Taiwan e nel novembre 2019 ha guidato una missione a Taipei dove ha incontrato membri di Governo e importanti associazioni.

D. Tra Taiwan e la Cina, che ne rivendica la territorialità, la tensione è alta; cosa percepisce e che umori registrò nel corso della sua missione?
R. Nei miei giorni a Taipei la sensazione è stata di timore sul destino di Taiwan, erano gli stessi giorni della crisi tra Hong Kong e la Cina ed ascoltando anche le persone comuni il messaggio era “oggi loro, domani noi”. Eravamo a ridosso delle elezioni che portarono alla riconferma del presidente della Repubblica e si percepiva il vivo desiderio di mantenere le proprie prerogative di Stato indipendente. Oggi la situazione non è migliorata. In occasione della festa nazionale di Taiwan, alla cui celebrazione a Roma ho partecipato la scorsa settimana, l’ambasciatore Sing-Ying Lee mostrava i timori del momento. La prova dei tentativi cinesi di isolare Taiwan, a volte occulti e a volte palesi, la troviamo tutte le volte che Taipei tenta di instaurare relazioni con altri Stati e nell’estromissione dai maggiori organismi internazionali come avvenuto all’OMS.
D. Dunque lo scontro è tra un modello democratico interpretato da Taipei e l’autoritarismo di Pechino?
R. Si, sono due modalità diverse di vedere la gestione dello Stato e il controllo sui cittadini. Taiwan ha un approccio molto simile a quello occidentale, come quello del Giappone. Continuo e continuerò a sostenere che Taiwan è un avamposto di legalità e democrazia nell’area asiatica, dunque gli Stati occidentali devono prendere una posizione al suo fianco.
D. Gli Stati Uniti sono in prima linea accanto a Taipei, l’Italia che è un importante partner economico di Taiwan dovrebbe assumere un ruolo politico a livello di Governo?
R. Con il Gruppo Interparlamentare di Amicizia Italia-Taiwan – di cui fanno parte deputati e senatori di tutti gli schieramenti -, l’Italia ha un ruolo. È tuttavia chiaro che il nostro Paese, attraverso un rapporto diplomatico ed istituzionale alla luce del sole, deve dare molta più forza alla posizione di Taiwan. Durante lo scorso Governo, di cui ero componente, non siamo riusciti nello sforzo; ho pertanto promesso all’ambasciatore di Taiwan, che se dovessi tornare a fare il ministro in un futuro Governo, una delle mie prime missioni istituzionali sarà a Taipei.

Paolo Quercia: “solo se contiamo nel Mediterraneo, contiamo in Europa”

Docente di Studi Strategici, Paolo Quercia è direttore del Center for Near Aboard Strategic Studies (CeNASS).

D. Quali sono i principali avvenimenti e mutamenti in corso nella area Mediterranea d’interesse dell’Italia?
R. Sono enormi, ed ormai in corso da molti anni. Essi stanno creando un nuovo gorgo geopolitico in cui naufragano le vecchie certezze sull’euromediterraneo, sulla sicurezza regionale, sul ruolo dell’Europa e delle sue vecchie potenze coloniali. Il fattore primo, il motore di questi eventi, è stato l’intervento militare in Iraq, che ha avviato il processo di destrutturazione del Medio Oriente. La crisi economica, le primavere arabe, le sfide poste dall’assertività della Turchia di Erdogan e della Russia di Putin si sono aggiunte negli anni. La mancata reazione dell’Occidente a questi cambiamenti – ed in alcuni casi l’averli addirittura promossi o esasperati – ha gettato la regione nel disordine. Ricordiamo che le regioni geopolitiche non esistono in natura, ma sono delle creazioni storico-strategiche. Sono concetti sempre in movimento, perchè in movimento sono le forze sociali ed economiche che le sottendono. Ed aggi abbiamo il vecchio concetto di Mediterraneo che si sta frantumando. L’Italia è massimamente interessata a che il processo di spezzettamento del Mediterraneo non vada avanti; purtroppo nell’ultimo decennio, ad iniziare dal conflitto libico del 2011, l’Italia ha avuto un ruolo internazionale passivo ed è iniziato il nostro processo di marginalizzazione. Oggi subiamo l’inerzia degli alleati, l’aggressività dei vicini e la malizia di tanti altri attori grandi e piccoli, dalle milizie libiche fino a Malta, passando per alcune ONG che operano in mare con una propria agenda che non tiene conto della nostra sicurezza.

D. Negli ultimi anni l’Italia, che è la porta europea nel Mediterraneo, sembra aver dimenticato il proprio “estero vicino”. L’assenza di protagonismo dell’Italia, in quella che in passato è stata la propria area cuscinetto d’influenza, quanto può costarci nell’immediato futuro?
R. Faccio questo lavoro da venti anni ormai. E sono sufficientemente vecchio per ricordare i fiumi di retorica che sono stati versati dagli addetti ai lavori in Italia sul Mediterraneo come “ponte”, sul soft-power europeo, sull’esportazione della democrazia, sulla modernizzazione dell’Islam, sul potere benefico degli accordi di libero scambio, sulla società civile, sull’immigrazione come fattore di sviluppo, sulla cooperazione, sulle primavere arabe, sul mediterraneo allargato e su tanti altri concetti post-moderni. La dura realtà di oggi è che la post-modernità non è arrivata nel Mediterraneo, ma nel frattempo abbiamo distrutto o fortemente danneggiato quel poco di modernità, anche imperfetta, che era stata creata. Scricchiolano ed implodono gli Stati – che non abbiamo voluto aiutare e sostenere adeguatamente per fare il loro lavoro di sovranità e di costruzione del bene comune – mentre avanzano gli attori non statuali, le forze “private” che si appropriano delle funzioni statuali che collassano. In alcuni casi prendono il volto delle organizzazioni criminali, di milizie armate delle città-stato, delle mai scomparse tribù, del jihadismo, ma anche delle società di sicurezza private. Nuove forme di sovranità post-moderna costruite su antichi paradigmi pre-moderni ma attualizzati alle nuove logiche della globalizzazione. E questi attori non statuali sono le pedine con cui avanzano gli attori esterni, nuove potenze che si muovono con logiche sempre più predatorie, non con logiche di vicinato né di sicurezza regionale. Un gioco alla portata di tutti, anche attori medio o piccoli che vedono nella distruzione degli Stati deboli del Mediterraneo un occasione di far avanzare le loro agende geopolitiche. E’ la ricetta per un caos geopolitico che ci accompagnerà per anni. In questo contesto l’Italia ha dimenticato che tra le sue tante debolezze abbiamo una forza enorme da giocare, quella della nostra posizione geopolitica, baricentrici nel Mediterraneo che dividiamo in quattro parti e che ci vede essere un estero vicino per tutti gli Stati del mediterraneo. Ma se gli Stati implodono, se noi rinunciamo a giocare il nostro ruolo, se altri attori giocano sporco, questa posizione centrale diviene una vulnerabilità e ci troveremo presto ad essere noi stessi travolti dall’instabilità che si sta generando nel Mediterraneo.

D. La cinetica della Turchia come la possiamo interpretare?
R. Difficile tema. In parte una reazione a questa destrutturazione, in parte una causa di essa. Con la Turchia abbiamo molti interessi comuni e siamo portati a convergere su molti dossier. Ma Erdogan, per motivi interni e regionali, sta spingendo molto sulla questione della identità non occidentale della Turchia, sull’islamismo politico, sulla politica estera muscolare. In questo modo ci mette in difficoltà. Per di più, in Libia ed in Somalia sta chiaramente puntando a scalzare la nostra influenza decrescente per nostre colpe. E’ legittimo ma storicamente doloroso. A sua discolpa c’è da dire che Ankara ha subito molti degli errori ed omissioni geopolitiche commesse dall’Occidente nel Medio Oriente e nel Mediterraneo – dalla guerra in Iraq alle primavere arabe – ed ha deciso di passare al contrattacco, ossia di andare da sola, riscoprendo una nazionalismo islamista che mette in crisi la sicurezza regionale nel Mediterraneo e che rende più difficili essere buoni vicini. C’è però da dire che Ankara non ha tutte le colpe. Anche l’effetto dell’Unione Europea sulla Turchia, con tutte le sue contraddizioni, non è stato interamente positivo ed ha paradossalmente favorito l’ascesa nel Paese prima dell’islamismo politico e poi della sua radicalizzazione. Ma in questo gioco nulla è scontato e definitivo. La Turchia negli ultimi dieci anni ha fatto numerose piroette geopolitiche. E anzi tanto può essere influenzato anche dall’Italia se torniamo a fare una politica estera nel Mediterraneo. Penso ad esempio che in Libia, se avessimo una politica più assertiva su questo dossier, potremmo costruire diversi interessi comuni e far emergere spazi di collaborazioni che oggi non appaiono. E a quel punto potremmo usare la nostra influenza su Ankara anche nelle tensioni nel Mediterraneo Orientale. Se perdiamo terreno in Libia, sarà invece Ankara a costruirsi una potere di interferenza sull’Italia e sulla politica interna italiana.

D. La Libia, oltre ad essere il principale porto di partenza di rifugiati e migranti economici, è luogo strategico per i nostri interessi economici ed in particolar modo quelli energetici. Il Governo Conte II aveva parlato di istituire una figura specifica delegata a seguire le vicende nell’area, crede sarebbe stata utile?
R. Parliamo dell’inviato speciale per la Libia. Certo che sarebbe stato utile, direi fondamentale. Ma andava scelto mesi se non anni fa. È stato annunciato ma non nominato. Arrivati a questo punto però, penso che sarebbe meglio un inviato per le questioni strategiche del Mediterraneo – Sahel. Questo perchè sulla Libia c’è bisogno non solo di un maggior coordinamento, ma anche di riscoprire il significato politico e geopolitico del dossier. La Libia non è solo una questione di terrorismo, migranti ed energia. Dentro il dossier libico ci sono le chiavi del nostro ruolo non solo nel Mediterraneo ma nella stessa Europa. Perché solo se contiamo nel Mediterraneo, contiamo in Europa. E per come si stanno mettendo le cose, contiamo nel Mediterraneo se contiamo in Libia. Se giochiamo bene le nostre poche carte in Libia possiamo velocemente recuperare posizioni in Europa, dove ormai contiamo molto, molto poco. E possiamo farci rispettare meglio nei rapporti politici nella regione, che saranno sempre più spigolosi, anche tra alleati. Se invece sbagliamo le mosse in Libia, rischiamo di diventare noi la Libia d’Europa. Io credo che dovremmo smettere di trattare il dossier libico come un dossier del ministro degli interni o di sicurezza. Non perché non ci siano problemi di questa natura, ma perchè nelle questioni internazionali gli approcci funzionalisti nel lungo periodo non pagano. La politica estera o è politica a 360 gradi o non è. Perlomeno questo è il mio approccio nel caso dell’Italia, dove la politica estera dovrebbe essere prioritaria ed è l’elemento fondamentale non solo per la costruzione e tutela dell’interesse nazionale ma anche come elemento caratterizzante l’identità nazionale. Le altre questioni, pure importanti, sono strumenti non obiettivi. Anche per questo ritengo che nel caso delle crisi sistemiche, come quella libica, serva una figura del governo dedicata costantemente a seguire le tante sfaccettature del dossier.

D. C’è ancora tempo affinché l’Italia acquisisca un ruolo primario in territorio libico?
R. Il tempo rimasto è poco, anche perché molte cose andavano fatte subito dopo il conflitto, nel 2012 e nei due, tre anni seguenti. Abbiamo invece galleggiato, e il non aver avuto un ruolo assertivo in quegli anni ha lasciato ampi spazi vuoti che sono stati colmati da altri Paesi, Turchia e Russia in primo luogo. Dobbiamo tornare nei prossimi anni a giocare un ruolo ampio di politica estera nel Nord Africa e nel Mediterraneo. E questo non può che essere fatto a partire dalla Libia, sul cui processo di pacificazione e ricostruzione sono collegati numerosi altri dossier, interni e internazionali. Non è solo una responsabilità storica, visto che Libia l’abbiamo creata noi italiani, ma anche una necessità geopolitica.

Gabriele Checchia: Affinché un “nuovo” Libano veda la luce

Già consigliere diplomatico del Ministero della Difesa e ambasciatore all’Ocse e alla Nato, dal 2006 al 2010 Gabriele Checchia ha guidato l’ambasciata italiana a Beirut.

D: Il Libano ha avuto una discreta ripresa dopo la guerra civile terminata nel 1990 anche se non sono mancate altre tensioni, la capitale Beirut è vista come hub mediorientale finanziario e turistico, per l’Italia è un importante partner commerciale. Lei che ha vissuto il Paese da ambasciatore, può darmi una panoramica?
R: Il Libano è Paese ricco delle sue diversità e di grande dinamismo, perlomeno fino ad epoca recente. È un hub che molti hanno considerato anche stanza di compensazione delle tensioni mediorientali, in un’area tormentata, dove soggetti che non potevano esporsi insieme in pubblico trovavano la possibilità di dialogare sottotraccia. Le vicende drammatiche degli ultimi giorni provano però che la situazione oggi non è più la stessa. Negli anni in cui ho avuto il privilegio di rappresentare l’Italia in Libano, dal 2006 al 2010, la situazione era certamente tesa e complessa ma il Paese continuava ad apparire terreno di coesistenza, nonostante le circa 18 diverse confessioni religiose che caratterizzano la popolazione in un duplice senso di appartenenza confessionale e nazionale che da quasi due anni sta mostrando tutti i suoi limiti. Osservando i movimenti di questi ultimi mesi, percepisco una volontà di parte della popolazione – soprattutto dei giovani – di andare verso una società più laica, che non significa rinunciare alla fede ma porre una distinzione più netta fra sfera pubblica e sfera religiosa in un Paese che è una risorsa importante per il Medio Oriente e per il mondo. Giovanni Paolo II non a caso definiva il Libano “Paese messaggio”: voleva significare messaggio di convivenza possibile tra Oriente ed Occidente, tra Islam e Cristianesimo, e ciò è stato per secoli – ad eccezione degli anni della guerra civile tra il 1975 e il 1990 -. A prova della tradizione di convivenza tra le differenti confessioni religiose, sulla base patto non scritto del 1943 che è l’anno di nascita dell’attuale Repubblica libanese, si ebbe una ripartizione delle cariche istituzionali tra cristiani e musulmani: ai cristiani va la presidenza della Repubblica e il capo di stato maggiore, ai sunniti la presidenza del consiglio, agli sciiti la presidenza del Parlamento. Tuttavia dopo gli Accordi di Ta’if, che posero fine alla guerra civile, si andò verso un ridimensionamento della componente cristiana a favore di quella musulmana con un potenziamento del ruolo del presidente del consiglio rispetto al presidente della Repubblica in un contesto in cui la componente cristiana, seppur minoritaria, conserva un peso specifico al di là di quello numerico perché è quella che garantisce di più l’ancoraggio all’Occidente; e la preoccupazione di molti osservatori, tra cui il Papa ed il patriarca maronita, è il profilarsi – sulla scia delle drammatiche vicende in atto – di un ulteriore esodo dei cristiani dal Libano. È rischio che a mio avviso va assolutamente scongiurato, poiché ne soffrirebbe non solo il Libano, ma l’intera Regione mediorientale. Ritengo che il nostro Paese, che gode in Libano di uno straordinario e meritato prestigio, debba fortemente impegnarsi a tal fine.

D: In uno Stato così strategico nel Medio Oriente cosa implica la convivenza tra i cristiani, i musulmani sciiti e i musulmani sunniti?
R: Implica la possibilità di andare avanti per costruire un futuro insieme nel rispetto reciproco, un Islam ed un Cristianesimo orientale in grado di convivere e dunque non basare le proprie relazioni sullo scontro. L’assetto istituzionale pensato da Ta’if va in questo senso proprio per garantire un equilibrio. Tuttavia l’ingresso sulla scena libanese di Hezbollah, all’ inizio degli anni ’80, ha in qualche misura alterato l’equilibrio tra le tre principali confessioni religiose, disponendo Hezbollah non solo di una legittima rappresentanza politica e parlamentare, ma anche per sua stessa ammissione di un vastissimo arsenale. E non a caso il patriarca Rai, nell’omelia dello scorso 5 luglio, ha osservato come Hezbollah (con una forza armata pari, se non superiore, a quella dell’esercito libanese) rappresenti un vero e proprio assedio alla libera decisione nazionale. E questa disparità nelle regole del gioco che avviene da anni, provocata dalla componente sciita che potremmo definire Hezbollah – Siria – Iran, ha provocato un’insofferenza confermata dalle proteste degli ultimi mesi e di questi giorni. Nella mia esperienza ho tra l’altro potuto personalmente constatare che nonostante Hezbollah, anche all’interno del mondo sciita libanese vi sia una parte (cosiddetta quietista) desiderosa di uscire da queste logiche basate sui rapporti di forza ed andare verso una via più laica.

D: L’assassino dell’ex premier Rafiq al-Hariri come ha segnato il Paese e l’area mediorientale?
R: È stato un drammatico attentato che ha fatto da catalizzatore ad un’ondata di protesta popolare che ha poi portato alla fuoriuscita delle truppe siriane dal territorio libanese, dopo quasi trent’anni di occupazione. Dopo tanti anni di invadenza del regime siriano si è pensato che la cosiddetta primavera di Beirut potesse costituire davvero una svolta decisiva nella storia del Paese, sono prevalse tuttavia altre dinamiche caratterizzate da una spaccatura all’interno dei cristiani tra i favorevoli all’aggancio occidentale e i favorevoli a coltivare come alleato principale l’asse Siria-Iran. Nonostante la liberazione dall’egemonia del regime siriano sono dunque rimaste irrisolte molte questioni in sospeso a partire dalla pesante presenza di Hezbollah, e soprattutto delle sue armi, come fattore di condizionamento della libera dialettica democratica.

D: Come sono i rapporti attuali tra Israele e Libano, considerando i confini sigillati?
R: I rapporti sono difficili, non esistono relazioni diplomatiche perché il Libano non riconosce Israele e tra i due Paesi non è mai stato firmato un trattato di pace. Il “confine” è una linea armistiziale che il Libano non riconosce come proprio confine meridionale, c’è la linea blu tracciata nel 2000 dalle Nazioni Unite per certificare l’avvenuto ritiro delle forze israeliane. Restano rapporti molto tesi perché Israele vede nel Libano meridionale un avamposto iraniano, a ridosso dei propri confini settentrionali, attraverso Hezbollah e la gran maggioranza dell’opinione pubblica e del mondo politico libanese vedono in Israele il solo responsabile di ripetuti interventi militari e occupazioni del Paese. Ci sono stati episodi recenti che descrivono tali tensioni: l’attacco di due droni israeliani a Beirut nel settembre del 2019 e le reazioni di Hezbollah con lanci di razzi anti carro contro una base nel nord della Galilea. Alle difficoltà sui confini terrestri si aggiungono difficoltà sui confini marittimi: il mancato accordo sulla delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive ha conseguenze sensibili; gli Stati Uniti si erano posti come mediatori circa due anni fa, ma ad oggi non si è raggiunto nulla e ciò ha ricadute negative sulla possibilità che i due Paesi hanno di mettere a profitto i giacimenti di gas che sono a largo delle loro coste. Dinnanzi a questo contesto non possiamo non menzionare il ruolo prezioso svolto da Unifil 2, la missione istituita nel 2006 con la Conferenza di Roma, guidata quasi ininterrottamente da comandanti italiani, che ha contribuito ad assicurare la pace nel Libano meridionale ed ha evitato che il confronto israeliano-libanese (dal 2006 ad oggi) superasse i livelli di guardia.

D: L’intero Governo si è dimesso. Quali scenari potrebbero aprirsi ora nel Paese?
R: Si tratta di uno sviluppo per molti versi prevedibile alla luce delle forti pressioni popolari in tal senso, in atto sin da prima della tragica doppia esplosione al porto di Beirut, ma da questa certamente rilanciate tanto da divenire insostenibili per il Primo Ministro Diab. Questi non ha potuto che prendere atto, devo dire con dignità e con una forte denuncia delle diffuse pratiche di corruttela – in larga misura causa della drammatica congiuntura attuale-, della situazione determainatasi e trarne le logiche conseguenze.
La dimissione dell’Esecutivo così fortemente sollecitata dalla piazza avviene in un momento particolarmente critico per il Paese che si trova a dover affrontare crisi acute su un triplice piano (economico, sociale e sanitario) coniugate a forti pressioni della Comunità Internazionale (delle quali si è fatto esplicito interprete il Presidente Macron nel corso della sua visita di giovedì scorso a Beirut) a mettere infine in atto le riforme economiche e di “goverance” indispensabili a sbloccare gli importanti aiuti finanziari promessi al Libano da ultimo in occasione della Conferenza di Parigi (la Conferenza “CEDRE”) dell’aprile 2018 così come il pacchetto messo a punto dal FMI e gli ulteriori aiuti promessi dalla Conferenza dei donatori dei giorni scorsi.
E tuttavia le dimissioni del Gabinetto Diab non garantiscono affatto la formazione di un nuovo e soprattutto credibile Esecutivo in tempi brevi per almeno due ordini di motivi: il primo è che il Presidente della Repubblica, Michel Aoun, sembra orientato a prendere tempo prima di avviare consultazioni politiche vincolanti puntando – questa almeno è l’impressione di molti commentatori libanesi – a una previa intesa programmatica tra le principali forze politiche (anche quelle ostili all’asse siro-iraniano, e di conseguenza al ruolo svolto da Hezbollah sulla scena politica libanese e sul terreno, che si trovano attualmente all’opposizione); il secondo è che la Costituzione in vigore non fissa al Primo Ministro designato alcuna scadenza per presentare la lista dei Ministri e il programma. Vi è dunque il rischio concreto che la formazione del nuovo governo possa prendere tempi lunghi come del resto già più volte avvenuto, nonostante la drammaticità del momento.
Molti tra i manifestanti chiedono poi elezioni legislative anticipate (così come i principali partiti di opposizione: dal partito cristiano filo-occidentale Kataeb al Partito socialista progressista di Walid Joumblatt). È strada questa anch’essa dalle implicazioni non prevedibili. Elezioni anticipate che avessero luogo in assenza di una previa e tutt’altro che scontata modifica della attuale legge elettorale basata su circoscrizioni ripartite per quote “confessionali”, potrebbero infatti riprodurre un quadro non troppo dissimile dall’attuale in termini di rapporti di forza parlamentari. E dunque non consentire quel ricambio dei vertici e la uscita di scena dei tradizionali “capi clan” per fare posto a figure indipendenti espressione della società civile, con tanta insistenza richiesto da tutti quanti desiderano un Libano finalmente sottratto alle logiche confessionali e allo strapotere per così dire dei “soliti noti”.
Una legge elettorale basata su un sistema “deconfessionalizzato” (oltre che su un tetto alle spese oggi non previsto e sulla istituzione di un credibile ed effettivo organo di supervisione dell’intero processo) troverebbe però nell’attuale Parlamento resistenze pesanti a cominciare da quella di Hezbollah e dei suoi alleati/satelliti, e dunque avrebbe allo stato a mio avviso ben poche possibilità di vedere la luce.
In sostanza, e per concludere, con le dimissioni dell’Esecutivo Diab si apre certamente una pagina nuova ma esse appaiono anche come un forse inevitabile salto nel buio indispensabile perché qualcosa cambi. L’evoluzione del dibattito parlamentare aiuterà senza dubbio a comprendere che piega prenderanno gli eventi. Una strada che potrebbe rivelarsi fruttuosa (ma, come ho sopra accennato, a mio parere non facilmente percorribile) potrebbe essere quella di dar vita in tempi stretti a un governo “neutrale” composto di tecnocrati, incaricato – tra l’altro – della messa a punto di una nuova legge elettorale di taglio “non confessionale” e di assicurare il corretto svolgimento di elezioni legislative anticipate sulla base di tale nuova normativa. È quanto auspica del resto, in dichiarazioni riprese dal quotidiano francofono “L’Orient le Jour”, il leader druso Walid Joumblatt, oggi all’opposizione e certamente tra i politici libanesi più acuti. È sua convinzione che votare sulla base dell’attuale legge elettorale non porterebbe a modifiche sostanziali negli equilibri (potrebbe a mio aversi tutt’al più aversi un travaso di voti all’interno dell’elettorato cristiano dalla Corrente Patriottica Libera/CPL, parte essenziale dell’attuale maggioranza e vicina all’asse Siria-Iran, alle formazioni cristiane come il Kataeb e le Forze Libanesi da sempre critiche verso tale appiattimento sulle posizioni di Damasco e Teheran). Si tratterebbe però di uno spostamento di voti non in grado di incidere sugli equilibri complessivi.
Concludo quindi con un auspicio: quello che, anche nella gravissima situazione attuale, i libanesi sappiano dar prova di quella creatività, scatto d’orgoglio e capacità di sopravvivenza come popolo e come Paese che hanno in così tante occasioni dimostrato in passato, e che da queste dolorose giornate possa alla fine emergere una classe dirigente rinnovata all’altezza delle aspettative di quanti con tanta determinazione si stanno battendo affinché un “nuovo” Libano veda la luce.

Cento anni di Alberto Sordi

Esattamente cento anni fa nasceva Alberto Sordi. Quando l’insegnante di dizione lo riprese dicendo che si diceva guerra e non “guera” e lui rispose “se dico guera con due r me strozzo”, fu cacciato dal corso di recitazione a cui si iscrisse; ma in un’Italia appena uscita dalla seconda guerra mondiale e con la voglia di vivere, la sua ironia era ciò che serviva alla gente che desiderava lasciarsi un brutto passato alle spalle e sorridere. Sordi ha raccontato l’Italia e gli italiani come nessun’altro, dagli inizi con Federico Fellini e Vittorio De Sica alla maturità in cui preferì rivestire il ruolo di regista di sé stesso. Da Hollywood Robert De Niro confessò che si ispirò a lui per una parte da recitare, Martin Scorsese ritenne Sordi fondamentale nella sua formazione ed altri oltreoceano ne riconobbero il grande valore. Albertone ha raccontato vizi e virtù di ognuno di noi, ha raccontato il Paese del boom e del dopo boom, ha raccontato la vita per ciò che è senza girarci troppo intorno con quell’ironia velata di malinconia che l’ha reso unico. Non si era mai sposato, “perché ho sposato il mio pubblico”, diceva. Nonostante le malelingue è stato un grande benefattore ma in silenzio. Il 15 giugno del 2000 fu per un giorno sindaco di Roma, la città che incarnava, che ha raccontato nella sua poetica, che ha amato quanto il cinema. Ricordare Alberto Sordi e i suoi film, nel suo centenario come in ogni altro giorno, è importante per capire – senza moralismi – chi siamo stati e chi siamo noi italiani: capaci di stare al mondo sempre e comunque nonostante tutto.

Il tempo scandito dalle lancette del Coronavirus

Lunedì torneremo a sistemare i capelli, a prendere un caffè al bar, ad incontrare un amico, a fare due passi, seppur con le dovute e doverose regole potremo abbracciare un po’ di normalità che abbiamo visto scomparire in questi due mesi che sembrano un’eternità… Come i minuti interminabili che Salvador Dalì passò dinnanzi ad una fetta di formaggio che vedeva squagliarsi, in attesa che gli passasse il mal di testa e che la moglie Gala tornasse dal cinema. Quella sera del 1931 Dalì, ispirato da quella visione, dipinse La persistenza della memoria che racconta quanto sia impossibile fissare il tempo all’interno di un orologio perché la memoria umana lo impedisce. Albert Einstein a proposito della relatività del tempo diceva “Sedete per due ore in compagnia di una bella ragazza e vi sembrerà sia passato un minuto. Ma sedetevi su una stufa rovente per un minuto e vi sembrerà che siano passate due ore. Questa è la relatività” e le nostre infinite settimane di quarantena e coprifuoco, tra le altre cose, ci hanno insegnato in maniera estenuante anche questo.

Disegnare la propria vita nonostante le angosce

Quando nel 1932 Picasso dipinse Il sogno, il mondo non si era ancora ripreso dalla fine della prima guerra mondiale ed era scivolato nella grande depressione innescata dalla crisi del ’29. Per lui fu un periodo di serenità, seppur bagnata di realismo e non sbilanciata sull’ottimismo; stava vivendo gli inizi della relazione con Marie Thérèse, sua musa incontrata in metropolitana a Parigi, soggetto di molte opere. Anche se non rinunciò a marcare la tela con tratti deformi, a ricordare che non ci si può liberare dalle proprie angosce neanche in presenza della bellezza.
“Dipingere non è un’operazione estetica: è una forma di magia intesa a compiere un’opera di mediazione fra questo mondo estraneo ed ostile e noi”, diceva Picasso a chi criticava il suo linguaggio artistico. E forse in questo momento critico che stiamo attraversando dovremmo ascoltarlo, per capire meglio che nonostante tutto abbiamo sempre e comunque il dovere morale di portare a compimento l’opera più importante di tutte che è la nostra vita.