Angelo Belmonte

Sotto l’ombrellone…la guerra

È domenica, l’indomani del solstizio, si apre l’estate, la bella stagione, eppure senti che qualcosa di bello si allontana. Da oggi le giornate cominciano ad accorciarsi un po’ alla volta, lentamente fino a quando scenderanno le ombre dell’inverno.

Alle dieci del mattino è ancora alba sui lidi di Fregene, sulle sdraio e sui lettini, sotto gli ombrelloni l’uno accanto all’altro. Si accende lentamente la domenica.

Scegli di trascorrere un weekend di riposo a mare e c’è chi ti rovina la giornata…”. A rovinare la giornata di Luisa, 40 anni, titolare di un negozio di abbigliamento, è stato Trump che nella notte ha mandato i bombardieri a bucare i siti nucleari dell’Iran. “Da quando c’è lui alla Casa Bianca è una tensione continua, prima i dazi e ora la guerra. Che incubo! Ed è anche colpa di Netanyahu che fa il gradasso, un criminale che sta massacrando i palestinesi”

Dall’ombrellone accanto interviene Giulio, avvocato e collezionista d’arte a tempo perso: “E no Luisa, le cose non stanno sempre come dici tu. Gli Stati Uniti sono intervenuti per impedire che gli iraniani potessero costruire l’atomica e usarla contro Israele. I palestinesi poi… Ricordati pure dei crimini di Hamas, dei rapimenti e della strage del 7 ottobre, di quelli che giocavano a calcio con le teste mozzate dei bambini”

Il confronto si fa subito un po’ duro, non certo adatto a una domenica in riva al mare. Luisa evita di replicare ma interviene Riccardo, altro amico del gruppo, che da sempre ha avuto un debole per la donna: “Netanyahu è andato oltre la giusta reazione. Ora è troppo, lo ha detto anche la Meloni”.

Ci vuole poco per trasformare il salotto marino di sdraio in uno studio tipo Porta a Porta dove ognuno dice la sua, attento comunque a non trasformare la conversazione in scontro. Lo stile educato di marca borghese, però, perde colpi quando, più tardi, si aggiungono i ragazzi. “Io ho preso parte alle manifestazioni per la Palestina perché inaccettabile è un genocidio – si accalora Federica, 18 anni con gli esami di maturità in corso – “Che aspetta l’Italia a rompere con Israele?”. Non l’avesse mai detto. Reagisce in malo modo Giovanni, laureato in giurisprudenza, aspirante notaio magari col sostegno di papà che ha un importante studio ai Parioli: “Basta con questi ragionamenti da zecche, così si fa riemergere l’antisemitismo”.

Con abile mossa la mamma di Giovanni tende ad indirizzare altrove il discorso: “Questa guerra ci rende tutti più nervosi. La filippina che abbiamo in casa mi dice che sono quindici giorni che non riesce a dormire bene perché ha paura di quello che può succedere”. Attecchisce il discorso avviato tant’è che Serena, moglie del primario che oggi è assente perché impegnato in un congresso a Dubai, batte sul tasto ancillare: “Non mi dire, pensa che Svitlana, la badante ucraina di mia suocera da quando c’è la tensione con l’Iran, si dispera perché dice che nessuno si occupa più della lotta del suo popolo contro la Russia.”

Sono passate le 13 e dal ristorante del lido si diffonde l’odore irresistibile di frittura di calamari e gamberi. Il gruppo si appresta a prendere posto ai tavoli, mentre dal Tg in onda un esperto elenca i possibili sviluppi della situazione, tutti poco incoraggianti. Meno male che a risollevare l’umore arrivano gli scialatielli ai frutti di mare.

La guerra fuori continua ma si è in pausa pranzo, non è il momento di preoccuparsi o di piangere. Un bicchiere di vino toglie i pensieri:

Cameriere un calice di bianco, per favore, ma che sia ben freddo…”

Quella notte di Nino Benvenuti

Che notte quella notte… Non era mai capitato di scendere in strada alle quattro, quando tutti dovrebbero dormire, e gridare l’orgoglio di una nazione dietro una bandiera tricolore. Non era capitata in precedenza quell’esplosione di amor patrio in una Italia che la cultura ufficiale chiamava Paese. Era la notte del 17 aprile del 1967. Dalla radio Paolo Valenti, in collegamento dal Madison Square Garden di New York, l’aveva gridato una, due, tre volte: “Campione del mondo, Nino Benvenuti campione del mondo”. E come fai a dimenticarla quella notte: per la prima volta i clacson delle macchine, le strade, la piazza, la gente, la festa.  Scene che negli anni successivi si sarebbero ripetute per la Nazionale di calcio.

Ma quella notte la festa ha l’immagine di un ragazzo biondo  che  sconfigge Emile Griffith, pelle scura, potenza di un tir e fama di imbattibile. Mezza Italia attaccata alla radio aveva seguito la cronaca, sofferto e gioito con quel ragazzo di Trieste, esule dell’Istria, la sua famiglia costretta a lasciare la propria terra dall’odio degli slavi di Tito. E quella notte saliva sul podio mondiale della noble art. Fu questa l’impresa compiuta da Nino Benvenuti. E non fu solo la sua vittoria sportiva, ma la rivalsa di un popolo, la rivincita dei vinti.

In quell’aprile del 1967 sui giornali facevano notizia le polemiche sull’assenteismo negli uffici pubblici. Quanto basta perché il governo negasse la diretta televisiva, preoccupato di salvaguardare l’indomani le presenze a scuola e sui luoghi di lavoro. Del resto, le trasmissioni tv ancora chiudevano a mezzanotte, fatta eccezione due anni dopo per lo sbarco degli americani sulla luna. C’era solo la radio nella notte del trionfo di Nino. La tv poteva attendere: le immagini dell’incontro le avremmo viste alle 15 del giorno successivo. Un disappunto, una protesta per la diretta televisiva vietata? Macché, i giorni delle contestazioni erano di là da venire, il  ’68 era alle porte ma non se ne intravedevano nemmeno le avvisaglie.

C’era Aldo Moro in quel ’67 alla guida del governo formato da Dc, Psi, socialdemocratici e repubblicani; vicepresidente era Pietro Nenni, Amintore Fanfani agli Esteri, Emilio Colombo al Tesoro, Giulio Andreotti all’Industria, Oscar Luigi Scalfaro ai Trasporti. Quel 16 aprile Paolo VI riceveva a Roma il ministro degli esteri sovietico Andrej Gromiko.  L’ala moderata della politica era preoccupata per l’avvicinamento della Santa Sede ai comunisti mentre sull’Unità il giorno successivo veniva riportata con enfasi la notizia dell’incontro in Vaticano.  Sulla stessa pagina del quotidiano comunista, in apertura, c’era una corrispondenza dell’inviato ad Hanoi, Erminio Savioli, sotto un titolo a cinque colonne “Non c’è minaccia americana capace di piegare il Vietnam”. Il Tempo quotidiano di Roma, un po’ di destra un po’ di centro, si occupava del dibattito interno alla Dc a pochi giorni dalla conferma di Mariano Rumor alla segreteria dello scudo crociato. Si era impegnato solennemente, Rumor, a superare una volta per tutte la logica delle correnti interne del partito, missione impossibile… Sui rotocalchi e nei jukebox imperversavano i Beatles, ma gli esperti di musica assicuravano che il fenomeno non era destinato a durare.  E dall’Inghilterra s’affacciava un’altra moda, la minigonna: le indossavano ragazze a Milano, qualcuna a Roma però non attecchiva ancora nelle province.

Ma la notizia che in quei giorni dominava sulla stampa era ovviamente l’impresa incredibile di Nino Benvenuto, era la nascita di un mito. Cronache del match attimo per attimo, vita e miracoli del campione: peccato che ci si soffermasse poco sull’odissea dell’esule. Del resto la realpolitik consigliava di non insistere sul dramma dei profughi, sui crimini dei partigiani titini e tanto più sulla tragedia delle foibe. Il comunista Tito, dittatore della Jugoslavia, dal 1948 aveva rotto con l’Unione Sovietica e guidava i cosiddetti paesi non allineati, né con la Nato né col Patto di Varsavia. Facrva comodo Tito all’occidente, soprattutto agli americani, non conveniva farlo indispettire, meglio tacere, coprire, offuscare. Nino Benvenuti era nato in Istria ed era stato costretto a fuggire coi genitori? Pazienza, cose che capitano…

Anche per questo, ora che non c’è più, Nino Benvenuti ci appare ancora più grande.

Tempi passati, tempi diversi. Oggi c’è un altro campione sugli allori. Ha i capelli rossi e si chiama Janick Sinner, veste i colori dell’Italia anche se è residente a Montecarlo e se in famiglia parlano tedesco. È nato a San Candido, Alto Adige o Sud Tirolo che dir si voglia, terra di frontiera, zona di confine come quella che diede i natali a Nino. Ma, per carità, è tutta un’altra storia.

Dalla parte dell’Italia

L’aveva previsto quel sapientone di Salomone qualche millennio fa: c’è un tempo per distruggere e uno per costruire, c’è un tempo per strappare e uno per ricucire.  Non si sa con certezza se gli attori che si muovono sulla scena contemporanea abbiano mai dato un’occhiata all’Ecclesiaste ma va da sé che senza scomodare l’intelligenza artificiale anche i meno perspicaci si possono rendere conto che dopo il tempo della rottura è ora di riparare le cose che si sono frantumate.

Calato il sipario sulla sceneggiata Zelensky -Trump protagonisti, con la partecipazione straordinaria di Vance il vice del Tycoon, necessario è ricomporre i cocci se non si vuole che la farsa continui in dramma e tragedia. Ogni giorno in più trascorso facendo chiacchiere in Ucraina e in Russia si continua a morire.

Si sono dati immediatamente da fare Macron da un lato e Starmer di là della Manica in una gara di attivismo concorrenziale con riunioni sostanzialmente fallimentari circa soluzioni concrete da adottare. Un bla-bla tutto orientato in difesa di Zelensky ora con la proposta di inviare militari in Ucraina, non si sa bene sotto quali insegne, ora sul rafforzamento degli arsenali per un esercito unico europeo non si sa bene al comando di chi. L’unica indicazione realistica che traspare in mezzo al vociare su un’ipotetica unità granitica dell’Unione Europea rimane  quella del nostro Presidente del Consiglio. Non è il momento di dividersi nel tifo da curva per Trump o per Zelensky, piuttosto di interloquire con gli Stati Uniti, nel solco di una politica atlantica. Certo tutto più facile sarebbe se l’Unione Europea fosse stata a suo tempo concepita su solide basi e comuni ideali di civiltà giudaico-cristiana non su un prosaico vincolo monetario che sa di mortadella rancida.

“Vengo anch’io, vengo anch’io” non solo dalle confuse ambizioni di questo o quel leader europeo ma anche al nostro interno dove si agitano bandierine dell’una o dell’altra forza politica di opposizione, partiti divisi su tutto ma uniti  in un coro inevitabilmente stonato che addebita a Giorgia Meloni le colpe di questo mondo e dell’altro.  Anche nel recinto della maggioranza s’è vista una certa alacrità di chi, per farsi notare, è apparso un po’ più realista del re, semmai della regina.

Ma c’è un tempo per i politicanti e un tempo per gli statisti. In avaria irreparabile è la locomotiva europea franco-tedesca, gli equilibri politici francesi non splendono al sole, in Germania il parto doloroso di una maggioranza rocambolesca, fatta di popolari in buona salute e di socialdemocratici  alla canna d’ossigeno, evoca l’immagine di un gatto in tangenziale; mentre la destra, in gran forma ma esclusa, resta a guardare sgranocchiando popcorn.

L’Unione Europea, frastornata, prova a battere un colpo ma non sempre i fantasmi riescono a far rumore: brutto viso a Trump e accanto a Zelensky ora e sempre, si però, nella misura i cui… già ma senza gli americani chi paga il biglietto? Un valzer sulle note di armiamoci e partite…

E allora? E allora si torna al realismo della politica e della diplomazia, si torna alla capacità di un governo stabile con un solido rapporto con la nuova amministrazione americana che può fare da mediazione e da unione tra le due sponde dell’Atlantico sia per la pace in Ucraina sia  per la battaglia dei dazi. Tocca all’Italia, tocca a Giorgia Meloni.

“Ma dica da che parte sta, con Trump o con Zelensky”, s’agita la variegata compagnia di quel che fu il centrosinistra, “venga in parlamento, venga riferire” ripete ora questo o quel personaggio riemerso dal passato magari per poi chiedere le dimissioni di questo o quel ministro o del governo del suo insieme. È salutare che l’opposizione alzi la voce e che si faccia sentire, cioè in mancanza di proposte dimostri di non essere sepolta e chieda a gran voce dimissioni. Insomma fa movimento, anzi ammuina. È il “facite ammuina” comando ricondotto a un presunto regolamento da impiegare a bordo delle navi della real marina del regno delle Due Sicilie: “tutti chilli che stanno a poppa vanno a prora, chilli che stanno a sinistra vanno a dritta, chilli che stanno ‘ncoppa vann’abbascio passanno po stesso portuso”.

Fanno cosi i sopravvissuti della prima e seconda repubblica ricalcando comunque un falso, perché la marina borbonica era la più potente e moderna del Mediterraneo e il “ facite ammuina” era una storiella scritta dagli storici piemontesi. Si sa sono stati sempre i vincitori a scrivere la storia. Ma tutto questo avveniva tempo fa, un tempo remoto. Ora è tutta un’altra storia. Già, ma da che parte sta la Meloni? Come sempre dalla parte dell’Italia.

Umberto Ranieri: attenti a non stravolgere il PD

Cittadinanza statunitense, naturalizzata svizzera, scuole di prestigio, borghesia benestante, cultura gender: descritta così Elly Schlein sarebbe la gioia del centrodestra, che con una siffatta segretaria immagina il Pd per anni minoritario nel Paese. Eppure l’aria nuova che si respira dentro e fuori il Nazareno già fa avanzare il partito nei sondaggi: sorpassa i grillini e alimenta a sinistra speranze di unità. Manca ancora un programma, ma suscita entusiasmo da quelle parti la manifestazione antifascista di Firenze che ha messo insieme le varie e multiformi anime della sinistra assieme agli stellati di Conte contro un pericolo fascista che in verità non si avverte.

Sprazzi ora di entusiasmo ora di attesa mista a preoccupazione anche negli apparati del partito che in maggioranza avevano votato Bonaccini. Tutto ok? Diciamo che nell’area riformista si respira una sorte di “vigile attesa” (come si profferiva ai tempi in cui irruppe Covid). Vigile attesa della svolta politica della nuova segreteria, ma senza l’assillo immediato delle scelte decisive sulle alleanze anche perché le prossime elezioni nel 2024, quelle europee, sono proporzionali e non necessitano di coalizioni. E tuttavia serpeggia una preoccupazione: che il Pd, venga stravolto, che non mantenga la propria identità e le caratteristiche su cui fu fondato.

È questo in sintesi il clima che mi è parso di cogliere in una chiacchierata con Umberto Ranieri, esponente importante del Partito democratico, 75 anni, più volte deputato, senatore, sottosegretario, punto di riferimento dell’area riformista del partito.
“Elly Schlein ha saputo raccogliere una domanda di cambiamento dell’indirizzo politico e di rinnovamento del Partito democratico molto diffusa nell’elettorato – ci dice Ranieri – ora bisogna vedere concretamente quali saranno le scelte sulle questioni e sui problemi in cui si dibatte il Paese. Io credo che in ogni caso il Partito democratico non debba perdere il profilo di grande forza dei governo, rinnovare senza smarrire il tratto identitario”

– Con quali alleanze?
“Io penso che oggi sia importante rilanciare il ruolo e l’iniziativa del Partito democratico dando risposte ai problemi, sviluppando iniziative sui temi di fondo nel campo dell’economia, del campo sociale, delle riforme. Poi vedremo quali convergenze si realizzeranno e se si mostreranno in grado di dare vita a una coalizione. Questo è un capitolo da verificare.
– Crede che siano da escludere pericoli di scissione?
“Comprendo alcune personalità, alcune figure politiche che sottolineano la preoccupazione circa la possibilità che il Pd non corrisponda al progetto originario. Bisogna fare in modo che ciò non accada anche con la dialettica interna. Ci sono posizioni che si sforzano di operare affinché il Pd mantenga quelle caratteristiche originarie su cui fu fondato, cioè una forza di centrosinistra che accompagna alla battaglia di opposizione proposte costruttive. E che sia mantenuta la possibilità che possa ritrovarsi nel Pd chi proviene da tradizioni culturali ed esperienze riformiste diverse, cattoliche, liberali. Questo è indispensabile e mi auguro che sia possibile. Vedremo poi nei fatti. Io ho sostenuto Bonaccini ma questo non mi porta a dire ‘lascio, me ne vado’… No. Io credo che il compito di chi ha sostenuto Bonaccini sia quello di restare nel Pd e di condurre, se necessario, una battaglia politica perché non smarrisca appunto, i caratteri originari.”
– Sui diritti civili non le sembra che il Partito democratico possa trasformarsi in un movimento?
“I movimenti vanno rispettati e con essi bisogna confrontarsi. Ma questo deve farlo il partito. Un partito non può trasformarsi in movimento. Detto questo credo che una forza di centrosinistra non possa non rendersi conto dell’irrompere nella società di nuove aspirazioni di libertà, di nuove aspettative di diritti civili. Il problema però è quello di trovare sempre in sede parlamentare soluzioni equilibrate. In ogni caso una forza di centrosinistra deve saper tenere insieme gli obiettivi di riforma sociale con i diritti civili. Non si può dare l’impressione che il Pd sia impegnato solo sui diritti civili.”
– E in politica estera… le armi all’Ucraina?
“Sostegno dell’Italia all’Ucraina anche con l’invio di armi contro l’aggressione russa. É una posizione che non è in discussione. A questo impegno va accompagnata una iniziativa politica che si sforzi di contribuire a creare le condizioni per un negoziato. Ma non è facile. Da parte russa non c’è disponibilità. Sull’invio di armi la Schlein come deputata del Pd non ha fatto mancare il suo voto”.

Giorgio Calabrese: “Il vermigate? Un affaire molto pericoloso

“Quello che sta succedendo col Qatargate succederà col vermigate. C’è qualcuno che sta cuccando i soldi”. Che il professor Giorgio Calabrese, nutrizionista di fama e docente universitario di dietologia umana e di scienza dell’alimentazione, non avesse digerito la decisione dell’Unione Europea di aprire il mercato alle farine di vermi si poteva dare per scontato. Ma c’è qualcosa di più, il dubbio, o forse più di un dubbio, che la decisone sia stata presa sotto la spinta di pressioni. Insomma, Calabrese sente puzza di corruzione.

“Che dice, professore, vogliamo assaggiarla una bella zuppa di insetti?” lo provoco quando lo incontro. La mia è una battuta, quasi un saluto scherzoso o piuttosto un incipit divertente per il professor Calabrese, che nel salotto di  Costanzo  o a Porta a Porta con Bruno Vespa o al TG2 salute o a Medicina 33 e in tante trasmissioni, ha sempre esaltato  la dieta mediterranea, tanta frutta e verdura, cereali, pesce e un consumo moderato di carne soprattutto quella rossa. Impossibile che uno come lui possa farsi incantare da una dieta alla base di vermiciattoli o insetti.
In Europa e soprattutto in Italia non abbiamo bisogno di farina di insetti”, esordisce.

Insomma, professore, lei boccia decisamente questa dieta.  A prescindere, come diceva Totò…
Dico che non abbiamo assolutamente bisogno di un siffatto alimento, ma se pure per assurdo ne avessimo bisogno bisognerebbe sempre applicare quelle regole obbligatorie per ogni cibo: accertare se è dannoso, se può fare bene oppure se appaga solo il palato. L’Unione Europea ha spostato l’attenzione dal discorso se questo cibo è buono o cattivo, se fa bene o fa male. Ha fatto questo ragionamento: noi controlliamo la salubrità del prodotto come si presenta”.
Quindi è un cibo salubre…

Faccio un esempio, anche se non è carino. Se noi prendessimo una…diciamo una sostanza organica per intenderci, la sterilizzassimo e la mettessimo nelle confezioni, ebbene potremmo dire che questa sostanza presenta una sua sicurezza, ma non vuol dire che fa bene. Nel caso dei vermi e degli insetti abbiamo una negatività perchè contengono proteine endogene che creano allergia. Anche se pulito o sporco non conosciamo fino in fondo le proteine che questo cibo contiene”.

A suo giudizio l’Unione Europea è stata un po’ precipitosa nell’autorizzare la vendita di questi prodotti?
L’Unione Europea ha dovuto poi specificare che la farina di vermi non può essere consumata da chi soffre di allergie e da che ha meno di 18 anni”
Vietato ai minori come se si trattasse di un film a luci rosse. Ma, mi chiedo, c’era proprio bisogno di una siffatta decisione che fa il paio di quelle sul diametro della mela o sulla lunghezza della zucchina?

Se fosse essenziale lo capirei, ma non lo è. In Europa non abbiamo bisogno di questa farina. Chi la sta imponendo è qualcuno che non sta aprendo il mercato, sta guadagnando su un mercato che è inutile e dannoso”
Sta guadagnando…?
Vedrà, ci sarà un vermigate”.
Le parole del professor mi fanno sorgere altri dubbi. Mentre scrivo mi fa compagnia un bicchiere di Barolo. Vuoi vedere che ci potrebbe essere anche un vinogate…