Andrea Margelletti

LO SCONTRO TRA CINA E STATI UNITI è GLOBALE

Finalmente l’Europa si è svegliata e si tutela dagli investimenti cinesi e persino la Germania denuncia che la via della Seta è lo strumento del dominio globale di Pechino. Quando lo denunciammo noi, nel meeting internazionale della Fondazione Farefuturo, organizzato alla Camera proprio il giorno dell’arrivo trionfale a Roma del Presidente cinese, gli altri plaudivano agli accordi Italia-Cina sottoscritti dal governo Conte Lega-Cinque Stelle. Ecco il testo dell’intervento che in quella occasione fu svolto da Andrea Margelletti

Nelle ultime settimane si è parlato molto di Belt and Road Initiative (BRI) e della presenza della Cina non tanto in Italia, ma in tutta Europa. Se ne è parlato come se la BRI o gli investimenti cinesi fossero iniziati l’altro ieri o fossero una novità da gestire. In realtà, è da circa sei anni che il governo di Pechino, spinto da una chiara visione strategica di ripensamento dei propri modelli di crescita interna e internazionale, ha iniziato la manovra di avvicinamento al Vecchio Continente.

Oggi tutto ciò anima il dibattito pubblico perché si inserisce in una partita di ben più ampio respiro, che si gioca tra Cina e Stati Uniti per la ridefinizione dei tradizionali equilibri internazionali. Da una parte, c’è una leadership cinese che sta provando a costruire un ordine mondiale alternativo a quello fuoriuscito dalla Seconda Guerra Mondiale, in cui il peso del gigante asiatico possa fare la differenza e riequilibrare il sistema di governance globale rispetto a quelli che sono i nuovi rapporti tra gli Stati. Dall’altra parte, o sull’altra sponda del Pacifico, gli Stati Uniti si trovano ad affrontare una sfida al proprio ruolo di superpotenza, che si gioca su diversi piani e in diversi ambiti: economico, tecnologico e politico.

Quello tra Cina e Stati Uniti, dunque, è un rapporto strategico, in cui la componente militare continua ad essere una componente fondamentale. Sfido chiunque a dire che l’11 settembre, il terrorismo, la guerra in Iraq, non abbiano avuto una diretta conseguenza sulla propria vita, se non altro come tasse che abbiamo dovuto pagare per la partecipazione a missioni di stabilizzazione e di supporto alla pace. Quindi la componente strategicomilitare conta e conta molto. Se il XX secolo è stato, e lo è stato, il secolo degli Stati Uniti, il XXI secolo i cinesi ritengono debba essere il loro, perché desiderano, per l’appunto, ridisegnare un sistema che abbia la Cina come modello di riferimento.

Per capire la portata di questo disegno si pensi, per esempio, al GPS. Il GPS sui cellulari, strumento che consideriamo parte della nostra quotidianità, è uno degli strumenti più importanti di pressione politica che esiste. Il GPS, infatti, è un sistema eminentemente militare. Già i russi in passato hanno provato ad avere un proprio sistema, il Glonas, che però guarda ad alcune zone e non garantisce nemmeno lontanamente la copertura totale. Ora i cinesi hanno sviluppato il sistema di navigazione satellitare BeiDou, BDS, che vuole essere un’alternativa al GPS e fa immaginare l’interesse di Pechino ad unirsi a Stati Uniti e Russia come attore preponderante nel dominio dello spazio. Parallelamente, la competizione strategica tra Stati Uniti e Cina si gioca anche a livello di capacità di proiezione di potenza, ambito nel quale gli americani possono ancora godere di un netto vantaggio, tecnico e dottrinale. Ciò che accade nel Mar Cinese Meridionale risponde proprio a questa dinamica.

L’installazione da parte delle autorità cinesi di infrastrutture portuali e aeroportuali sugli isolotti artificiali all’interno di queste acque contese, infatti, è funzionale alla Cina per creare degli avamposti da cui ampliare il proprio raggio di azione al di là dello Stretto di Malacca. Oltre al valore economico e di sicurezza alimentare legato al controllo delle risorse presenti in questi tratti di mare, per Pechino le dispute marittime rappresentano un tassello importante anche sul piano di crescita strategica. Quando si parla di potenzialità della Cina bisogna sempre tenere in considerazione che, a differenza di quanto accade in alcuni Stati europei e negli Stati Uniti, le autorità di Pechino godono, per la struttura del sistema istituzionale, di una stabilità che permette loro una pianificazione di lungo, lunghissimo periodo. Il monopolio decisionale di fatto esercitato dalla leadership del partito permette al governo di poter allocare le risorse come meglio ritiene, in una pianificazione a lungo termine, a dispetto di quanto accade, invece, in Europa. Ed è per questo che la Cina, in prospettiva, ha la possibilità di essere più forte: non solo una massiccia disponibilità economica, ma anche la possibilità di decidere come investire e con chi.

L’avvio di un programma di portaerei, per esempio, ha una ragione fondamentale: i cinesi si stanno trasformando da una forza eminentemente continentale terrestre a quella che nel gergo strategico si chiama Blue-Water Navy, cioè Marina oceanica. Chi pensa che possa essere una cosa che non ci riguarda da vicino trascura il fatto che la scorsa estate una squadra navale cinese sia venuta nel Mediterraneo per studiare e conoscere questo mare e che, casualmente, abbia superato Suez. Perché costruire portaerei? Perché costruire importanti flotte di altura? Perché sia Cinesi sia gli Stati Uniti (non è un caso che gli americani abbiano spostato quasi il 70% delle risorse strategico-militari nell’ambito del Pacifico) sanno che non c’è abbastanza spazio nell’area dell’Oceano Indiano nè del Pacifico per l’ego di due Nazioni così. Ciò significa che è molto probabile che si arriverà, prima o poi, ad uno scontro. Non sarà adesso, domani o dopodomani, ma certamente si attrezzano per farlo. La ricerca di una classe di portaerei, e quindi più squadre navali strutturate in una certa maniera, è per affrontare gli americani lontano dalle coste. Perché se il conflitto rimane legato a un rapporto tra Stati Uniti e Cina, senza coinvolgere nè il Giappone né la Corea del Sud nemmeno in termini di supporto logistico, diventa una partita esclusivamente tra Washington e Pechino. Ma le distanze geografiche, in questo caso, ancora contano. Gli Stati Uniti cercano di esercitare pressione con incursioni a lungo raggio con il supporto degli aerei rifornitori (i Tanker) e naturalmente con le portaerei.

Questo perché gli americani sanno che la Cina ha l’esigenza di spostare le tensioni lontano dalle proprie coste, per due ordini di motivi: in primis perchè, nonostante le politiche di sviluppo interno, le fasce costiere continuano ad essere uno dei traini principali dell’economia cinese; in secondo luogo, perché un conflitto a ridosso della costa ridurrebbe la Cina a potenza eminentemente terrestre. Il pensiero strategico della leadership si trasforma in supporto all’industria e diventa linea guida per lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma che meglio rispondano alle priorità di lungo periodo dello Stato. Si prenda il caso del nuovo caccia cinese J20, che è stato studiato per neutralizzare la capacità di rifornimento aereo statunitense, fondamentale per garantire all’aeronautica degli Stati Uniti di penetrare in territorio cinese. Ed è la stessa operazione che ha portato i cinesi a costruire dei missili balistici per colpire le portaerei in movimento. In questa partita a due, inevitabilmente entrambi i contendenti cercano di capire come modificare o mettere in sicurezza le architetture di alleanze.

Tuttavia, come al solito, la realtà non è fatta di bianchi o grigi e spesso sono le sfumature quelle che contano. Ciò significa che, in un mondo multipolare e globalizzato, la gestione delle relazioni con gli altri Stati difficilmente può essere dicotomica, basata ancora sulla mentalità del “noi e loro”. La famosa arte della diplomazia è la capacità di mediare tra le diversi parti per poter perseguire quelli che sono gli interessi nazionali dello Stato. Il problema talvolta è che per difendere in maniera adeguata l’interesse nazionale occorre averlo, addirittura individuarlo ancor prima di pensare a come proteggerlo, e non lasciarlo in balia delle crisi di Governo. La complessità del mondo attuale non fa sconti a chi non riesce a disegnare una chiara mappa dei punti da raggiungere. In un mondo in cui esistono Nazioni come la Cina, la Francia, la Gran Bretagna, la Turchia (per citarne solo alcune), che si muovono come imperi, perché ciascuna Nazione è quello che è sempre stato al di là della temporanea forma di governo, chi rimane in balia dell’assenza di una strategia per le relazioni internazionali rischia di far la fine del manzoniano vaso di coccio. La tutela dell’interesse nazionale, dunque, deve passare attraverso un’attenta valutazione di quelli che sono i pro e i contro di alcune scelte e, fatta la valutazione, scegliere la strada migliore da percorrere per raggiungere i propri obiettivi. Altrimenti ci si potrebbe ritrovare ad essere dei piccoli alfieri, delle piccole torri o dei piccoli cavalli, all’interno di una partita a scacchi giocata da chi è molto più grande di noi.

*Andrea Margelletti, presidente Centro Studi Internazionali, Ce.S.I. al meeting Il dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” Roma, 20 marzo 2019

UNA DIFESA POCO EUROPEA

Questo saggio di Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

 

Molti, sia in Italia che negli altri Paesi europei, hanno ben accolto il progetto volto alla creazione di una vera e propria difesa a stampo europeo: maggiori collaborazioni industriali e anche politiche, maggiori risorse finanziarie messe a disposizione dall’Ue, meno sprechi e meno duplicazioni in termini di capacità per il settore militare. Insomma, più sicurezza ad un costo (quasi) minore.

Tuttavia, l’ambizioso programma, fortemente supportato anche dal nostro Paese, ha dovuto fare i conti sin da subito con l’aspirazione di alcuni Stati di prenderne le redini e di dettarne le condizioni. Da quello che doveva essere uno sforzo collettivo a livello comunitario, in cui ciascun Membro ha lo stesso peso decisionale, si è celermente passati a una leadership bilaterale franco-tedesca che si è imposta quale nucleo dominante all’interno del progetto. Di fatto, ad un anno dalla firma del Trattato di Aquisgrana, è possibile vedere chiaramente i contorni della strategia di Parigi e di Berlino che pare abbiano deciso di interpretare la difesa Ue come l’occasione più opportuna per rimpiazzare la Gran Bretagna e l’ombrello securitario statunitense in Europa.

Seppure le intenzioni siano buone e in linea con le esigenze dell’Ue, ovvero assicurare all’Europa l’autonomia strategica, i due Paesi, forti del proprio peso politico, economico e militare nell’Unione, hanno preso il comando del progetto con buona pace degli altri Stati membri. La firma del citato Trattato di Aquisgrana, nel gennaio 2019, ha segnato la formalizzazione di un nuovo asse franco-tedesco che, tra i vari settori, annovera anche e soprattutto quello della difesa.

Si tratta di un accordo anzitutto politico, che ha l’obiettivo di presentare come una visione unitaria le posizioni francesi e tedesche. In pratica, i due Paesi hanno deciso di incontrarsi prima di ogni vertice Ue di rilievo per definire congiuntamente le proprie intenzioni, principalmente su temi di politica estera, difesa, sicurezza esterna e interna e sviluppo. Trattasi, quindi, di un graduale percorso finalizzato a incrementare la convergenza di interessi, obiettivi e strategie e, come evidenziato nel documento stesso, a rafforzare i sistemi di sicurezza collettiva (ossia il progetto di Difesa Ue) di cui Parigi e Berlino fanno parte. Inoltre, i due Paesi si sono impegnati in una costante e crescente collaborazione nel settore difesa, sia tra le Forze Armate per sostenere lo sviluppo di una cultura militare comune e dispiegamenti congiunti sia tra le rispettive industrie per la difesa, allo scopo di aumentare il proprio livello di competitività. L’apice della cooperazione viene raggiunto 231 con una clausola che prevede la reciproca difesa militare in caso di attacco armato in uno dei due Paesi, molto simile all’articolo 5 del trattato istitutivo della Nato.

A ben vedere, è stata creata in Europa una nuova forte alleanza che da un lato può andare a rafforzare la posizione europea nei teatri internazionali, dall’altro va quasi a nullificare o perlomeno a ridimensionare i tentativi di collaborazione militare veramente comunitari da poco inaugurati in sede Ue. Di fatto, nel ventaglio di progetti approvati nell’ambito della Collaborazione Strutturata Permanente (PESCO), Parigi e Belino sono non solo presenti nella maggior parte dei programmi, ma ne detengono il ruolo di leader per molti di essi.

Se tra i vari obiettivi della PESCO vi è anche dare la possibilità a Stati con industrie per la difesa meno consolidate di ricoprire un ruolo di rilievo, la quasi onnipresenza delle forti aziende francesi e tedesche va a minacciare la buona riuscita di tale intenzione. In aggiunta, quello creato da Macron e dalla Merkel è un club esclusivo le cui iscrizioni non sono aperte. Ne è un chiaro esempio il programma per lo sviluppo della caccia multiruolo di sesta generazione. Il prototipo franco-tedesco non può di certo definirsi europeo: tutte le decisioni strategiche in merito sono già state prese e la gran parte del budget proviene da Parigi e Berlino.

A chi si volesse aggregare è riservato un ruolo ancillare, come nel caso della Spagna. Quindi, l’Europa si trova ora ad avere ben due programmi per il nuovo caccia (quello franco-tedesco, per l’appunto, e quello inglese a cui partecipano anche l’Italia e la Svezia) nonostante gli sforzi e l’impegno collaborativo incoraggiati dall’Unione. In tale scenario, dove la Difesa europea cerca di formarsi tra un timido spirito comunitario e una crescente predominanza franco-tedesca, spetta agli Stati membri decidere se riprendere le redini del progetto o farlo decadere. Se una decisione in tal senso non venisse presto presa, l’Ue potrebbe incorrere in due rischi principali.

Internamente, si potrebbe venire a creare un fenomeno di progressiva erosione della collaborazione comunitaria in favore di parallele alleanze tra Paesi membri all’insegna della competitività anziché dell’efficienza. Al contempo, esternamente l’Ue potrebbe perdere credibilità nel settore militare agli occhi del resto del mondo. In questo contesto, l’Italia si trova davanti a un bivio: continuare a prendere attivamente parte di una difesa più franco-tedesca che europea o avvicinarsi gradualmente all’attore chiave negli equilibri transatlantici, ovvero la Gran Bretagna.

Un iniziale entusiasmo italiano circa la PESCO e il più ampio quadro Ue in cui è collocato è stato pian piano rimpiazzato da un meno spiccato attivismo, poi culminato nella decisione di prendere parte al Tempest, il programma britannico per il nuovo caccia. Visto il ruolo di rilievo che l’Italia 232 gioca all’interno dell’Unione, soprattutto per quel che concerne la politica estera e la difesa, la strada da percorrere potrebbe trovarsi al centro del bivio. Proprio in quanto promotore del progetto militare europeo, l’Italia potrebbe farsi portavoce di un rinnovato bilanciamento tra Stati all’interno della PESCO al fine di mantenere in vita il progetto della difesa europea. Parallelamente, Roma dovrebbe preservare il rapporto instaurato con la Gran Bretagna (soprattutto in materia di industria militare). In questo modo, il nostro Paese potrebbe contrastare l’asse franco-tedesco forte di una rinvigorita collaborazione comunitaria e, allo stesso tempo, continuare a intrattenere forti relazioni industriali con la Gran Bretagna.

*Andrea Margelletti, presidente CeSI – Centro Studi Internazionali