Avatar photo

Aldo Di Lello

Giornalista e saggista, studioso dei fenomeni globali. Nel 2004 ha fondato la rivista di geopolitica “Imperi”. Tra i suoi saggi: “Geofollia” (2001), “Prima guerra globale” (2002), “Lo strappo atlantico” (2003). Nel 2021 ha pubblicato “Sovranismo sociale”

Le difficili scelte del Conclave

Sarà un conclave inedito quello che eleggerà il successore di Papa Francesco. I 135 cardinali elettori provengono da 73 Paesi diversi. E molti, tra questi principi della Chiesa, neanche si conoscono tra di loro. Quelli nominati da Bergoglio sono 108 e rappresentano pertanto la stragrande maggioranza del Sacro Collegio. Ma la particolarità non sta qui, bensì nella loro distribuzione geografica. Francesco ha rivoluzionato i criteri di rappresentanza “territoriale” dei porporati, producendo diversi paradossi. Uno dei più clamorosi è il fatto che il nuovo Papa sarà eletto ad esempio dal cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator, capitale della Mongolia (1394 battezzati, magari si conosceranno tutti tra loro), ma non ci sarà Mario Delpini, arcivescovo di Milano, che Papa Francesco non ha mai nominato cardinale. E assente, perché non “creato” cardinale, il patriarca di Venezia Moraglia. In generale, si può dire che i porporati di provenienza europea e occidentale avranno un peso specifico minore nel Conclave.

Dobbiamo quindi attenderci la conferma delle scelte bergogliane, cioè la geopolitica che ha privilegiato le “periferie” del mondo? Non è detto, o per lo meno non è detto che sarà come è stato nei dodici anni di Papa Francesco. Il clima internazionale è sensibilmente cambiato da quel 13 marzo del 2013, quando, dalla loggia centrale della basilica di San Pietro, si affacciò il Papa venuto dalla «fine del mondo». Oggi la Terra non ha più un “centro di gravità”, come, seppur precariamente, aveva allora, con gli Usa “impero riluttante” della fase declinante di Barack Obama. Oggi, con Donald Trump, gli Usa vogliono riaffermare rabbiosamente il loro primato, ma non per tornare nel cuore degli equilibri globali, bensì per rilanciare stessi, circostanza che pone diversi interrogativi sul futuro assetto mondiale: andiamo verso una fase di “disordine” oppure l’assetto “multipolare” che va profilandosi produrrà a suo modo una stabilità?

In questo contesto insidioso e pieno di incognite, appare difficile immaginare che il nuovo Papa potrà essere leader mondiale in un modo simile a come lo è stato Bergoglio, o persino in continuità con lui. Francesco è stato un “antagonista” geopolitico e globale dei “grandi” della Terra, in particolare di quelli collocati nel nostro emisfero.

Nei dodici anni del suo Pontificato, ha fatto da controcanto a un Occidente che ha innalzato le barriere contro l’immigrazione, un’Europa e un Nordamerica in piena ansia “securitaria”. Nessuno, meglio di Bergoglio, è stato il leader del “popolo dei barconi” nel Mediterraneo, o delle masse di disperati che cercavano di varcare le barriere erette dagli Usa, non solo al tempo di Trump 1, ma anche negli anni di Biden. «L’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza», gridò Francesco a Lampedusa nel suo primo viaggio da Pontefice. Fu una meta scelta non a caso. E con tale spirito Bergoglio è rimasto fino alla fine.

E non ci sono stati solo i migranti nella visione geopolitica bergogliana. Il Papa è stato anche ecologista, antiglobalista e anticapitalista. «L’umanità è globalizzata e interconnessa, ma permangono povertà, ingiustizia e diseguaglianze», ha detto alla fine del 2022 a sintetizzare il senso del suo messaggio sociale.  A questa impostazione, Francesco ha aggiunto anche una spiccata sensibilità nell’intuire i processi geostrategici planetari, come quando, nel 2015, parlò di “guerra mondiale a pezzi” (si riferiva all’avanzata dell’Isis), definizione che viene ancora citata per interpretare le attuali crisi mondiali. Rispetto a tutte queste crisi, Bergoglio ha assunto una posizione spiccatamente “pacifista”, come quando, a proposito della guerra in Ucraina, affermò che «la bandiera bianca non è resa, ma coraggio di negoziare». Non mancarono le polemiche sul fronte atlantico.

Va naturalmente osservato che neanche Papa Wojtyla le mandava a dire ai governanti dell’Occidente. Chiara e netta fu, ad esempio, la sua contrarietà alla “guerra preventiva” scatenata da George W. Bush in Iraq nel 2003. Ma qui emerge una differenza di non poco conto: se per Giovanni Paolo II il centro di irradiazione del messaggio evangelico rimaneva l’Europa (ancorché i destinatori privilegiati di tale messaggio erano sempre i diseredati del Sud del mondo), ben diversamente, con Papa Bergoglio, questo centro d’irradiazione s’è spostato nelle “periferie” della Terra.

Ma ora si pone il non banale quesito: dove collocherà, il successore di Papa Francesco, il cuore pulsante del suo Magistero? Sarà ancora nel Sud del Mondo? Oppure questo centro nevralgico verrà in qualche modo riorientato verso l’Europa e l’Occidente, ancorché i destinatari privilegiati dell’azione della Chiesa non potranno che rimanere i diseredati della Terra?  Molto dipenderà dal bagaglio spirituale, culturale e dottrinale che il nuovo Pontefice recherà con sé. In questi giorni che precedono il Conclave girano almeno una dozzina di nomi di “papabili”, variamente distribuiti tra Europa, Nordamerica, Africa e Asia. Non è detto che la nazionalità di chi sarà prescelto dal Sacro Collegio indicherà, di per sé, quella che potrà essere la politica globale della Chiesa cattolica nei prossimi anni. Però, certamente, la provenienza del prossimo Papa fornirà un primo indizio della proiezione futura del cattolicesimo.

Uno dei “papabili” è stato indicato nel filippino Antonio Gokin Tagle. Se questa fosse la scelta, vorrebbe dire che la Chiesa cattolica continua a scommettere sul Sud del mondo. Difficile dire al momento quale potrebbe essere una nuova strategia in tal senso. Però non sarebbe indifferente il fatto che ci ritroveremmo con un Papa proveniente da una delle aree, in prospettiva, più “pericolose” del pianeta, quella dell’Indo-Pacifico, dove potrebbe scoppiare nei prossimi anni una guerra su vasta scala, un conflitto che coinvolgerebbe, oltre a Cina, Usa e Taiwan, anche le potenze di quel quadrante della Terra, Filippine comprese. Quindi ci potremmo ritrovare con una Chiesa di “prima linea” che sarà impegnata a svolgere una funzione pacificatrice in un modo sconvolto da una nuova stagione di guerre.

Ma un eventuale orientamento terzomondista del Conclave potrebbe regalarci, per la prima volta nella storia della Chiesa, un “papa nero”.  La scelta potrebbe cadere su Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa. Se così fosse, si potrebbe prefigurare un cattolicesimo di “trincea”: l’episcopato africano è impegnato a reggere l’urto dell’aggressione islamista. Non solo, ma i cardinali provenienti dal continente nero sono anche di orientamento generalmente tradizionalista e conservatore.

Ed eccoci allora alla possibilità di una riscoperta del “cuore” europeo, una riscoperta ovviamente adattata ai nuovi tempi che stiamo vivendo. Tra i “papabili” ci sono almeno sei cardinali provenienti dal vecchio continente (dei quali tre italiani) più due porporati nordamericani. Alcuni di essi sono indicati come “progressisti”, altri come “conservatori” (per quello che significano questi termini se applicati alla Chiesa). Ma non è scopo di questo articolo il domandarsi su quale potrebbe essere la posizione del nuovo Pontefice a proposito della dottrina cattolica. Quello che ci interessa è che il cattolicesimo europeo è in crisi profonda (seminari vuoti, diminuzione della pratica liturgica, agnosticismo diffuso). Questa crisi religiosa è anche il riflesso di una più ampia crisi culturale e spirituale del vecchio continente.

Non stiamo parlando di un problema da poco perché, piaccia o non piaccia, le radici del cattolicesimo sono in Europa, nel senso che proprio da questo continente è partita la spinta originaria all’evangelizzazione del mondo. Proprio qui, anche grazie al retaggio della classicità, è stata elaborata la cultura del cristianesimo. Proprio qui è scaturita l’idea di universalità. Proprio qui si sono diffusi i monasteri che hanno costituito la parte essenziale di quella che un tempo si chiamava civiltà cristiana. Proprio da qui sono partiti i missionari che hanno portato il messaggio evangelico a ogni angolo della Terra.

Al dunque, si dà il caso che queste radici siano da lungo tempo malate e che, se in tale stato rimangono, a risentirne sarà, prima o poi, l’intera pianta della Chiesa universale. E ciò al di là del fatto che le “periferie” del mondo siano abitate da popoli giovani, in piena crescita demografica e tali da fornire al cattolicesimo quello slancio vitale che un Occidente invecchiato non sa più garantire. Ma la demografia non può da sola curare i mali dell’anima. Occorre anche un risveglio, una forma di ritrovamento di sé, un moto che parta dall’interiorità.

Parlare di radici europee del cristianesimo può sembrare strano, dal momento che normalmente si parla del reciproco, ciò delle radici cristiane dell’Europa. In realtà parliamo della stessa cosa, perché attorno a queste radici morali, spirituali e filosofiche s’è formato l’humus da cui civiltà europea e religione cristiana sono scaturite insieme, avvinte tra loro fin dall’inizio delle rispettive parabole. E tale intreccio costituisce anche il sostrato originario dell’Europa successiva, cioè l’Europa razionalista, laica, scettica, relativista. E persino l’Europa delle religioni secolarizzate come sono state le ideologie. Mai però si era arrivati all’Europa anemica, piatta, rancorosa, disperata degli ultimi decenni.

La necessità di affrontare questa emergenza spirituale e di riscoprire il legame tra religione e continente è stata non a caso una delle costanti di Joseph Ratzinger, anche da prima che diventasse Pontefice. In un volume scritto nel 2004 insieme con Marcello Pera (in quel momento presidente del Senato), l’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ammoniva a non concepire la multiculturalità come «abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio» ma come rispetto per ciò che è sacro, per se stessi, come europei, e per coloro che provengono da altre civiltà religiose. «Se non facciamo questo – scrive Ratzinger -, non solo rinneghiamo l’identità dell’Europa, bensì veniamo meno anche a un servizio agli altri che essi hanno diritto di avere. Per le culture del mondo, la profanità assoluta che si è andata formando in Occidente è qualcosa di profondamente estraneo. Esse sono convinte che un mondo senza Dio non ha futuro. Pertanto proprio la multiculturalità ci chiama a rientrare nuovamente in noi stessi» (“Senza radici”, Mondadori 2004).

Ecco, “rientrare in noi stessi”: è quello che Ratzinger non s’è mai stancato di ripetere durante tutto il suo Pontificato, quando ha più volte esortato gli europei a non abbandonare le proprie radici cristiane. Per Benedetto XVI non si può essere buoni europei, anche europei laici, se si dimentica il proprio retaggio religioso e, allo stesso modo, non si può essere buoni cristiani se non si è buoni europei. E ciò perché anche il cristiano è chiamato a partecipare alla costruzione della comunità politica in cui opera.

Oggi c’è da riattivare questo circuito, anche nel caso di un Papa proveniente dal Sud del mondo o, ad ogni modo, fautore di una linea “terzomondista” della Chiesa.  E non si tratterà comunque di un’operazione semplice. La strada obbligata non potrà che essere quella di una “rievangelizzazione” dell’Europa, un concetto che è stato peraltro espresso dallo stesso Bergoglio. Molti in Europa – affermò Papa Francesco nel 2016- «non sono coscienti del dono della fede ricevuto, non ne sperimentano la consolazione e non sono pienamente partecipi della vita della comunità cristiana». Di qui lo sforzo, secondo il Pontefice, per una «nuova opera di evangelizzazione» al fine di rinnovare i legami con le «radici cristiane». Del resto, pur il sudamericano José Mario Bergoglio, quando si presentò al mondo come Papa Francesco, espresse un concetto tipicamente europeo. L’immagine dell’America del Sud come «fine del mondo» proviene dai cartografi del vecchio continente dei secoli XVI e XVII , dove il nuovo mondo era segnato ai margini della carta e dove il centro era appunto costituito dall’Europa.

Uno dei motivi che nella tarda antichità e nell’alto Medio Evo ostacolò la diffusione del messaggio cristiano nel mondo fu il fatto che il cristianesimo era considerato dai popoli orientali la “religione dei Romani”, quindi il prodotto di un’altra civiltà. Ci vollero generazioni e generazioni di missionari per dimostrare che in realtà, per il cristianesimo, tutti gli abitanti della Terra sono uguali e che il messaggio cristiano è, come tale, universale. Oggi, al posto dei Romani, ci sono gli “Occidentali”. E ciò che può creare diffidenza non è il fatto che essi vivano in una terra lontana, ma la circostanza che in questa terra i templi, cioè le chiese, si stiano spopolando. Soprattutto in Europa. Perché accogliere un messaggio che arriva da un mondo in cui sono sempre in meno a credere in Dio?

Musk, la politica e noi

«Elon, fai partire quelle navi spaziali perché vogliamo raggiungere Marte prima del mio secondo mandato!»: questa l’“invocazione” fatta a Musk da Donald Trump, una battuta replicata più volte nel corso della travolgente campagna elettorale che lo ha riportato alla Casa Bianca.

Non sappiamo però che cosa, effettivamente, il fondatore di SpaceX farà partire dalla Terra alla volta del Pianeta Rosso nei prossimi quattro anni. Certo è il fatto che la sua notorietà, già notevole negli anni passati, ha raggiunto livelli stratosferici (mai espressione risulta più azzeccata a proposito del patron dei razzi spaziali) subito dopo le elezioni presidenziali americane. Questa popolarità crescente (Elon Musk è a tutt’oggi la superstar di media e social media) è certamente dovuta all’eccentricità del personaggio e alle sue provocazioni su X (il social network di cui è proprietario da più di due anni), ma è dovuta anche a quel surplus di immaginifico che gli deriva dal fatto di essere, appunto, l’uomo delle imprese spaziali, l’uomo che ha riportato gli Usa al primato nel campo dell’esplorazione interplanetaria. «Nessuno sa fare questo, vero Elon? Non lo sanno fare i russi né i cinesi», secondo la sincera (almeno così sembra) ammirazione che il leader della nazione più potente della Terra nutre per l’uomo più ricco del mondo.

Ma proprio qui nascono i problemi. Proprio qui sorge una domanda che inquieta un po’ le coscienze di molti: il “proprietario del cielo” può forse diventare il “padrone della Terra”? Domanda non banale, se consideriamo che i suoi ottomila satelliti orbitanti (e i trentamila in arrivo nei prossimi anni) sono decisivi per il sistema della banda larga e per le stesse comunicazioni dei cellulari.

Va da sé che questa domanda interessa anche all’Italia, visti gli stretti rapporti che la premier  Giorgia  Meloni ha da tempo stabilito con il fondatore di SpaceX e visto anche il carattere speciale e strategico del ruolo che, a detta della maggioranza degli osservatori, la presidente del Consiglio si appresta a svolgere nella relazione tra l’Ue e l’amministrazione Trump,  scongiurando la prospettiva di una  conflittualità tra le due sponde dell’Atlantico che avrebbe esiti assolutamente imprevedibili.

Al dunque (e detto in modo brutale), il “proprietario del cielo” rappresenta un pericolo per la tenuta democratica delle società occidentali e in particolare di quella europea? Innanzi tutto dobbiamo notare che c’è qualcosa di strano nel modo, e soprattutto nel tempo, in cui è stata recentemente posta questa domanda, in particolare nella prospettiva (finora smentita dal governo) che lo Stato italiano si avvalga del sistema Starlink di Musk per le comunicazioni satellitari. All’improvviso è risuonato l’allarme democrazia. E, dall’oggi al domani, si è paventato il rischio che l’Italia possa perdere la sua “sovranità tecnologica” (quando mai, in realtà, ce l’ha avuta?).

L’opposizione si prepara a dare battaglia nello spazio.  Da Romano Prodi a Elly Schlein e a Carlo Calenda arrivano inviti a privilegiare il progetto europeo Iris 2 in alternativa all’accordo con SpaceX. E dire che il sistema Ue non sarà operativo prima dei cinque anni da oggi, non contando poi il fatto che parliamo di poche centinaia di satelliti, a fronte delle migliaia di dispositivi orbitanti già lanciati dall’ipercinetico Elon e dalle decine di migliaia pronti a essere inviati nello spazio nel prossimo futuro. Che cosa sarebbe meglio per l’Italia per superare il suo ritardo nel campo delle comunicazioni satellitari non siamo onestamente in grado di dirlo e giriamo il quesito agli esperti.

Ma, tornando al quesito principale, dobbiamo chiederci: perché l’allarme Musk risuona solo ora? Perché il fondatore di SpaceX è diventato di punto in bianco un pericolo per la democrazia? Forse che il problema della posizione di privilegio di un soggetto privato nelle comunicazioni satellitari non esisteva già negli anni passati?

Si tratta naturalmente di domande retoriche. Perché è noto a tutti che Musk ha messo in subbuglio l’opinione pubblica (in particolare quella di sinistra) da quando è salito sul palco della vittoria di Donald Trump e da quando ha preso l’abitudine a intervenire nella vita politica europea affermando idee politicamente scorrettissime: dall’attacco ai pubblici ministeri siciliani accusatori di Matteo Salvini alla simpatia manifestata per l’estrema destra tedesca di AfD, fino al modo in cui ha strapazzato il premier laburista britannico Keir Starmer.

Insomma, il problema non appare tanto il Musk “monopolista” satellitare quanto il Musk supermiliardario di estrema destra. Scegliamo, tra le tante, l’opinione espressa sul “Corriere della Sera” dal liberal-progressista sabaudo Aldo Cazzullo, il quale scrive con sgomento che il magnate di X è il promotore della «più grande rivoluzione politica del secolo, la più importante dal crollo dei totalitarismi del Novecento». Musk, per l’editorialista del “Corriere”, è il «prisma di una nuova destra globale».  Avverte inoltre, l’allarmato Cazzullo, che, se l’impero di Trump durerà quattro anni, quello di Elon è appena cominciato. Di qui la fosca previsione finale: «… E se i liberali, o quel che ne resta, non sapranno unirsi, allora l’Internazionale reazionaria, come la chiama Macron, potrà fare quel che vorrà. Anche flirtare con la Russia di Putin e la Cina di Xi, facendo della democrazia un curioso ricordo, come la macchina da scrivere e il calesse».

 

Quale pericolo

A questo punto viene spontaneo domandarsi: se Musk, invece di presentarsi con un profilo di destra si fosse invece affermato come un supermiliardario di sinistra che cosa sarebbe accaduto? Se un Elon progressista, invece di appoggiare Trump, fosse per caso corso in aiuto di Kamala Harris, qualcuno si sarebbe forse stracciato le vesti come oggi? Avrebbe forse lanciato l’allarme sul potere economico che minaccia la democrazia?

Non c’è bisogno di lambiccarsi il cervello per rispondere. Basta solo guardare a quello che è successo in questi ultimi anni, con i colossi della Rete, da Google a Facebook e a Twitter (prima che diventasse X e l’acquistasse Musk), che hanno sistematicamente impedito, bloccato e censurato ogni contenuto contrario al canone ideologico-linguistico dominante, tutto improntato all’”inclusività”, all’”antirazzismo”, alla promozione del “gender fluid” e dell’identità Lgbt,  alla demolizione delle identità storiche e culturali. Quanti editorialisti mainstream hanno denunciato la censura strisciante e pervasiva di questi anni?

Oggi rappresenta un attacco alla democrazia il fatto stesso che Elon Musk dica la sua a proposito delle elezioni in Germania. Ma è stata forse più democratica e liberale la vera e propria “polizia del pensiero” (come spiega Luca Ricolfi nel suo splendido libro “Il follemente corretto”) esercitata fino ad oggi dagli algoritmi dei network globali ai danni delle opinioni politicamente scorrette? E viene anche da chiedersi perché mai, questi stessi algoritmi, non hanno bloccato le espressioni di “squadrismo digitale” passate in questi anni sui social contro docenti, intellettuali, giornalisti invisi agli attivisti dell’ideologia woke e di quella Lgbt. Vale la pena ricordare, tra i tanti, il caso della “madre” di Harry Potter, la scrittrice  J.K. Rowling, minacciata di morte su Twitter per aver detto che il sesso biologico non può essere messo sullo stesso piano del transgender.

Al dunque, la democrazia e la libertà di pensiero hanno vissuto una vita grama in tutti questi anni che sono coincisi con l’espansione planetaria delle piattaforme digitali. Ed è il caso anche di ricordare che proprio questo gigantesco processo tecnologico-mediatico è indicato come una delle cause principali della “post-democrazia” nella quale staremmo attualmente sprofondando a detta di diversi politologi, sociologi e storici.

Può certo far ora sorridere il fatto che la vittoria di Trump e l’affermazione della “destra globale” di Musk hanno ottenuto il “miracoloso” effetto di liberare i social network dalla censura del politically correct. E ciò, come è noto, a seguito della clamorosa marcia indietro annunciata recentemente da Mark Zuckerberg per quello che riguarda il “fact checking” e la promozione di inclusione e “diversity” su Meta .

Ma questo vale in definitiva solo come nota di colore. La vera domanda che ci dobbiamo porre non riguarda in realtà il tipo di scelte politiche operate dai magnati dalle tecnologie d’avanguardia (siano esse informatiche o spaziali) ma attiene al rapporto, sostanzialmente squilibrato, che tutti gli strabordanti apparati “tecnici” (e per “tecnici” intendiamo anche quelli finanziari) tendono non da oggi a stabilire con la sfera della politica, con le istituzioni rappresentative, con quella residua comunità di cittadini che ancora si interessa della cosa pubblica, in definitiva con la democrazia nel senso più ampio del termine.

Nella percezione popolare questo discorso si può sintetizzare nel senso di frustrazione avvertito dai cittadini comuni per il soverchiante condizionamento esercitato dagli apparati che controllano i beni e i servizi di cui tutti usufruiamo quotidianamente. Parliamo ovviamente dei beni e dei servizi che appartengono alla sfera delle telecomunicazioni e dell’interconnessione, a quella dei servizi finanziari e a tutto ciò che ha migliorato l’esistenza delle persone a seguito della rivoluzione digitale degli ultimi trenta-quaranta anni. Di quali difese e di quali tutele possono oggi disporre i cittadini-utenti di fronte alle eventuali soperchierie di questi apparati straordinariamente potenti? E come fanno, governi e parlamenti, a contrapporre gli interessi collettivi a questa concentrazione di potenza che non ha precedenti nella storia umana?

 

Poteri fortissimi

Ecco allora che il problema Musk va reimpostato e sottratto alla polemica politica quotidiana. Occorre cioè capire qual è la posizione effettiva del fondatore di SpaceX nell’ambito degli smisurati poteri cresciuti negli ultimi 15-20 anni. Il problema Musk va cioè inquadrato in un ambito più generale, perché, a insidiare la democrazia, non c’è solo il (quasi) monopolio privato nel campo dei satelliti, ma la paurosa concentrazione di potere finanziario cominciata al varco del millennio e poi cresciuta nei primi due decenni del XXI secolo.

Se può in qualche modo rendere inquieti l’idea che esista un “proprietario” del cielo, dobbiamo essere anche consapevoli che operano da anni soggetti che non è esagerato definire i “padroni del mondo” (come dal titolo di un interessante volumetto di Alessandro Volpi uscito nei mesi passati). Di chi parliamo? Dei primi dieci fondi finanziari del pianeta che, dati alla mano, detengono quote rilevanti (dal 30 al 40%) nelle prime 500 società del mondo.

Tra questi fondi, i primi tre, detti i “Big Three” (BlackRock, Vanguard e State Street), fanno veramente paura. «BlackRock -scrive Marco D’Eramo su “Limes”- gestisce 11.500 miliardi di dollari con un utile netto di 1.700 miliardi, quasi quanto il pil italiano; Vanguard 9.900 miliardi, State Street 4.700 miliardi. Quanto i pil di Cina, Germania e Giappone messi insieme». Questi fondi controllano praticamente il grosso delle grandi aziende statunitensi e numerose aziende europee. La loro potenza di fuoco è cresciuta, paradossalmente, proprio negli anni della crisi finanziaria del 2008-2009. Ed è cresciuta, altro paradosso, con la liquidità pompata a dismisura dalla Federal Reserve per salvare l’economia americana a seguito dell’esplosione della bolla speculativa nel 2007. Sgomenta non poco il pensiero che questa abnorme concentrazione finanziaria, se si rivolgesse contro un qualsiasi Stato, lo potrebbe in breve tempo al default.

Il potere delle aziende di Elon e degli altri detentori dell’alta tecnologia d’avanguardia deriva invece dall’arrivo sul mercato dei sempre nuovi e sofisticati dispositivi che cambiano (condizionandola) la nostra vita. Con Musk siamo, in definitiva, ancora dentro la perenne “distruzione creatrice” del capitalismo di schumpeteriana memoria.

Come si risolve allora il problema del rapporto tra cittadini, istituzioni e nuovi poteri tecnologici e finanziari? Semplicemente, non si risolve. Viviamo in un sistema di equilibri precari. Che durano, a seconda i casi, fino alla prossima crisi finanziaria. O fino alla prossima guerra.

C’è da dire che negli Usa il sistema trova generalmente un suo punto di stabilità nell’integrazione e nella reciproca dipendenza tra potere politico-amministrativo, da un lato, e potenza tecnologico-finanziaria, dall’altro. Nel senso che alla fine l’uno si serve dell’altra.

Questo equilibrio può in prospettiva cambiare con la “deglobalizzazione” (introduzione dei dazi e guerra commerciale alla Cina) che l’amministrazione Trump si propone di attuare nei prossimi anni. E qui sarà interessante osservare le possibili ripercussioni di tale politica sui grandi fondi finanziari, i quali, come è noto, hanno tratto linfa vitale dalla circolazione vorticosa dei capitali a livello globale dei primi due decenni del secolo.

Per quello che riguarda Musk, bisognerà vedere come reagirà il “deep State” Usa alla robusta cura dimagrante dell’apparato pubblico che il patron di SpaceX si propone di realizzare alla guida del Doge, cioè del Dipartimento per l’efficienza amministrativa voluto da Trump.

Interessi e futuro

Ma, in questo caso, Musk agisce da “politico”. Più importante sarà capire come la forte impronta nazionalistica in politica economica annunciata dal presidente americano (e appoggiata dalla cosiddetta “tecnodestra” dei nuovi signori di Silicon Valley, a partire dal fondatore di PayPall, Peter Thiel) potrà impattare sulle attività del magnate di SpaceX.  Il nazionalismo non corrisponde infatti alla vocazione “imperiale” di Musk, profeta di un nuovo “messianesimo” interplanetario: per il patron di SpaceX il futuro dell’umanità passa per le spedizioni su Marte. Al di là delle proiezioni escatologiche, ci sono questioni economiche piuttosto rilevanti. Musk, a differenza di Trump (e degli esponenti della “tecnodestra”), è ad esempio contrario al boicottaggio commerciale della Cina, non foss’altro perché le componenti essenziali per le auto elettriche di Tesla vengono proprio dal sistema industriale gestito da Pechino.

Parliamo comunque di un sistema, quello americano, di grandi numeri finanziari e di notevoli potenze tecnologiche. Il problema, purtroppo, si pone per l’Europa, che è in pauroso ritardo nella grande competizione planetaria già in corso e che si accentuerà presumibilmente nei prossimi anni. E qui, Musk o non Musk, il sistema continentale non ha la forza di opporsi a nessun magnate della finanza, del digitale o dello spazio. Come ha evidenziato Mario Draghi nel rapporto sulla competitività presentato nei mesi scorsi alla Bce, ci sarebbe bisogno ogni anno di 800 miliardi di investimenti aggiuntivi nelle tecnologie d’avanguardia. È fuori discussione che un simile sforzo lo possano sostenere i singoli Stati. Occorrerebbe un impegno generale da sostenere con un debito comune, come accaduto nel caso dell’emergenza Covid (ma con dimensioni ben superiori).

Fare però certi discorsi in una Europa ancora dominata dall’idea, d’impronta germanico-protestante, che il debito sia una “colpa” vuol dire andare incontro a un  sicuro fallimento. Ci vorrebbe una vera unione finanziaria, premessa di una vera unione politica. Ma nulla del genere è, a tutt’oggi, alle viste.

Alla fine, non è certo colpa di Musk (e della sua prodigiosa potenza satellitare) se l’Europa non crede in se stessa, conseguenza del fatto che il vecchio (e stanco) continente non crede più nella politica.

 

 

 

 

Quando l’Italia si scoprì di destra

Il 27 marzo del 1994 non è solo il giorno di storiche elezioni politiche ma la data di una rivelazione: l’Italia è un Paese di destra. Ancor oggi, dopo 30 anni, è un dato che non tutti hanno voglia di riconoscere. Per una parte dell’intellighenzia rimane un fatto traumatico, una verità da esorcizzare, nascondere, mistificare in vario modo.

Parliamo ovviamente di intellighenzia di sinistra, intesa nella più ampia accezione del termine, quindi comprendente intellettuali, giornalisti, personaggi dello spettacolo e, ovviamente, politici. Per tutti costoro, il rifiutarsi di riconoscere questa realtà scomoda rappresenta un esiziale errore politico, perché impedisce a Elly Schlein e compagni di costruire quel solido sistema di alleanze (soprattutto economico-sociali) che possa alimentare la speranza del Pd di tornare, un giorno, al governo. E di entrarvi dalla porta principale. Non da quella secondaria di qualche governo tecnico o di “emergenza”, che dir si voglia.
Se oggi la segretaria piddina non riesce ad allestire un competitivo cartello elettorale tra le opposizioni, neanche per esprimere il candidato presidente in una delle più piccole, demograficamente parlando, Regioni italiane (la Basilicata), è perché, tra le altre cose, è espressione di un mondo che ancora non s’è ripreso dal trauma di 30 anni fa. Questa sorta di fuga dalla realtà del Paese produce quel mix di ideologismo e snobismo che condanna la sinistra più intransigente e radicale a una condizione di minorità politica. E di depressione esistenziale.

Qual è allora la lezione del 27 marzo di 30 anni fa che, non solo la sinistra, ma la stessa destra non dovrebbero mai dimenticare? Questa lezione è che, sotto la scorza delle ideologie più o meno alla moda, la natura vera degli italiani è quella di gente che bada al sodo e che non baratta la propria sicurezza, la propria prosperità, la propria identità con fumosi programmi di rivoluzione morale e culturale, tutta roba che metta in crisi le certezze della vita: in famiglia, sul lavoro, nella società. Non sono, gli italiani, come i loro “cugini” francesi, il popolo più ideologico che ci sia. Mai gli italiani si sognerebbero, ad esempio, di ammettere il “diritto” di aborto nella costituzione.

Si riduce a questo, alla fine, l’essere popolo di “destra”? Diciamo, più precisamente, che la destra rappresenta un passaggio ulteriore, quello che di solito compie quella parte della popolazione che decide di assumere una precisa identità politica. Di certo i caratteri sopra descritti appartengono al tipico popolo “conservatore”, quello che guarda con cautela alle novità e che ammette cambiamenti alla sola condizione che non sconvolgano la propria esistenza.

Questa natura “conservatrice” della gente italiana è sempre stata guardata con grande sospetto dalle élite intellettuali e politiche, che per decenni hanno coltivato il mito di un popolo che non c’era. E cioè un popolo animato da fervente “patriottismo costituzionale”, con tutti i suoi corollari antifascisti e progressisti.
A questo punto, due domande sorgono spontanee: 1) dove s’era “nascosto” nei quasi 50 anni precedenti questo popolo di “destra”?; 2) perché salì in superficie proprio nella travagliata stagione politica di 30 anni fa?
Rispondendo alla prima domanda, potremmo dire che quel popolo era solo in minima parte rappresentato (almeno nella prima fase della vita repubblicana) dal Msi, dal Partito monarchico e dal Partito liberale, confluendo per il resto (e in massa) nella Democrazia cristiana. Il problema è che la cultura politica del “partito dei cattolici”, una cultura innervata da un moderato progressismo, rappresentava assai parzialmente i sentimenti e i valori di questa gente.
Di qui una lunga fase di ambiguità e “insincerità”, come scrive lo storico Paolo Macry nel bel libro “La destra italiana – Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni”: «…Certo è che un fenomeno salta agli occhi, se si ripercorre la storia repubblicana, e sembra attraversarla tutta intera, sia pure in forme volta a volta diverse: l’inganno politico. Un rapporto ingannevole tra questo Paese -tra un Paese di destra, o non di sinistra- e la dimensione politica della Repubblica. Fu nelle fasi germinali della democrazia italiana, nel dopoguerra, e poi nel corso della Prima repubblica che le destre politiche ebbero a malapena diritto di cittadinanza, non seppero o non furono abilitate a incidere sulle dinamiche parlamentari, conquistarono spazi di governo molto limitati, rimasero sempre elettoralmente marginali».
Il 27 marzo del 1994 questo Paese di destra reclama con prepotenza la sua piena cittadinanza politica e il suo diritto di governare. Perché accadde? Al netto di Tangentopoli e della fine della guerra fredda – e qui veniamo al secondo quesito -, l’equilibrio politico della Prima repubblica non aveva più senso, non rappresentava più gli interessi della parte più dinamica della nostra società. L’Italia si scopriva ostacolata da una serie di “lacci e lacciuoli” (come si diceva tra gli anni Ottanta e Novanta ispirandosi al titolo di un libro di Guido Carli ) e chiedeva libertà di impresa e di azione. Un “nuovo” popolo era nel frattempo cresciuto, nel corso del caotico sviluppo dei due decenni precedenti, il famoso “popolo delle partite Iva”.

È un dato interessante perché ci dice che, alle ragioni storiche e culturali, si aggiunge negli anni Novanta un ulteriore fattore di vicinanza tra la società italiana e la destra politica: il declino della grande impresa e l’avanzata di una grande area di piccole e medie aziende con tutta la rete pulviscolare del lavoro autonomo e delle microimprese a conduzione familiare, tutto un mondo umano e sociale che avverte insofferenza per il peso della pressione fiscale e per la vischiosità della palude burocratica. È un mondo -vale la pena di aggiungere – che si sente penalizzato dal sistema bancario e finanziario e che guarda con sospetto alle grandi centrali sindacali, così come queste si configuravano ancora all’inizio degli anni Novanta. La destra politica che nasce o si trasforma in quel periodo (da Alleanza nazionale a Forza Italia e alla Lega) trova in questo mondo in ebollizione il suo “blocco sociale” di riferimento.
Vale la pena avvertire che questo popolo di “destra” non cancella certo quello di “sinistra”, che rimane comunque consistente e ben strutturato. Ma certo questa Italia politica emergente diventa trainante. E tale rimarrà anche negli anni a venire.

A questo punto dobbiamo affrontare un’ulteriore e decisiva domanda: perché, se l’Italia è un Paese di “destra”, il centrodestra non ha sempre vinto le elezioni e, nel corso di questi 30 anni, non è mai riuscito a essere riconfermato al governo dopo una legislatura? Parliamo delle elezioni del 1996, poi di quelle del 2006, del sostanziale pareggio di quelle del 2013 e infine della parcellizzazione elettorale del 2018. In tutte queste occasioni, la coalizione di centrodestra s’è fatta soffiare la maggioranza dagli avversari.

La risposta è, come sempre si dice in questi casi, “complessa”. Emerge innanzi tutto la sopravvivenza, nella società italiana e nelle istituzioni, delle aree di dominio create nel tempo dalla sinistra (dalla magistratura ai poteri burocratici e a quelli finanziario-mediatici). Non c’è dubbio però che la destra stessa ci abbia messo parecchio del suo per complicarsi la vita. Parliamo in particolare della conflittualità insita nell’alleanza di centrodestra per effetto dello spiccato leaderismo dei soggetti politici che la componevano. Pensiamo soltanto allo scontro tra la personalità di Berlusconi e quella di Fini, scontro a lungo rimasto in potenza e poi esploso in modo clamoroso (e devastante) nel 2010.

Ma, se dovessimo individuare un limite di fondo nell’azione del centrodestra di questi trent’anni, sicuramente lo individueremmo nella non completa capacità di ascolto da parte dei vertici politici del “loro” popolo. Il riformismo promesso è stato attuato in parte, o non è stato attuato affatto: da quello istituzionale (promosso, nella XIV legislatura, con scarsa convinzione e in ritardo) a quello fiscale.

C’è da dire che i governi di centrodestra non potevano strutturalmente mobilitare tutte le risorse finanziarie che sarebbero state necessarie per promuovere in profondità un’azione realmente riformatrice. E ciò soprattutto a causa dei forti vincoli europei di bilancio, vincoli non sempre in linea con i principi ispiratori dell’Unione europea, perché ispirati dagli ideologismi (e dagli interessi) dei governi del Nord Europa.

Ecco, è forse qui la grande “mission” del centrodestra tornato al governo con Giorgia Meloni. Accanto alla riforma costituzionale, a quella della giustizia e a quella fiscale che l’attuale esecutivo s’è giustamente impegnato a realizzare, dovrebbe emergere quella che un numero crescente di osservatori indica, oggi, come la riforma che ci cambierebbe la vita: la revisione dei trattati europei, per ridare respiro alla nostra economia e alla nostra società. È un’impresa certo impegnativa e dalla realizzazione niente affatto scontata. Ma oggi ci sono le opportunità per attuarla, per effetto dell’attuale debolezza franco-tedesca, cioè dei Paesi-guida dell’Ue.
La nostra premier ha tutte le capacità per portare a termine questa cruciale operazione. Se Giorgia Meloni e la destra italiana riuscissero a mettere la loro firma, insieme agli altri governanti Ue, a una riforma dell’Unione capace di risollevare le sorti dei popoli europei, è certo che entrerebbero nella storia. E, ad avvantaggiarsene, sarebbe la stessa sinistra, che riceverebbe la spinta giusta per smetterla di giocare al “declino”. Suo e dell’Italia.

Hamas, il disegno criminale oltre la geopolitica

Di nuovo il Medio Oriente in fiamme, di nuovo la questione israelo-palestinese, di nuovo atrocità che tracimano ovunque, invadendo un immaginario globale già abbondantemente traumatizzato da altre atrocità, a partire da quelle cui siamo tristemente abituati (ma non assuefatti) dopo l’aggressione russa all’Ucraina.

La prima domanda che sorge è questa: c’è un legame, non tanto misterioso né sotterraneo, tra i conflitti, apparentemente distanti, del “nuovo disordine” mondiale? Ci sono certamente ragioni per sostenere che la nuova guerra tra Israele e Hamas sia il fronte più recente dello scontro tra Occidente e “resto del mondo” tutto interno alla storia globale degli ultimi anni. E che ha trovato, nel conflitto scoppiato alle porte orientali d’Europa nel febbraio 2022, la sua manifestazione più eclatante e preoccupante.

Questa considerazione ci spiega innanzi il contesto “storico” in cui è avvenuto il bestiale attacco di Hamas contro i civili israeliani, nel senso che l’impegno dell’America e della Nato in favore dell’Ucraina può aver diffuso l’idea che siamo entrati in una nuova fase di scontro tra un Occidente a trazione americana e un Oriente in forma multipolare. Di qui la probabile sensazione (ricevuta dai terroristi) che sia proprio questo il momento più adatto per azzannare lo Stato d’Israele, un’entità vista come l’avamposto mediorientale di una civiltà in difficoltà politico-culturale, soprattutto dopo l’abbandono americano dell’Afghanistan nell’agosto del 2021.

Il contesto “storico” diventa poi quadro geopolitico se consideriamo i rischi di allargamento del conflitto agli Hezbollah libanesi-siriani e all’Iran che li sostiene. La seconda portaerei inviata dagli Usa al largo delle coste israeliane e libanesi è un chiaro avvertimento a Teheran a tenere buone le milizie sciite ai confini con Israele. Probabilmente funzionerà. Ma in questi casi, quando l’atmosfera è carica di elettricità, basta un nulla a far scoppiare l’incendio. Secondo l’analista di geopolitica americano Charles Kupchan il rischio di uno scontro tra Usa e Iran è «remoto», però -aggiunge- la situazione «potrebbe sempre sfuggire di mano». Del resto, sarebbe già ipotesi catastrofica se l’eventuale scontro si limitasse a israeliani e iraniani.

E poi c’è anche da considerare l’interesse russo e cinese (Pechino e Mosca si sono ancora di più avvicinate a Teheran nel corso della guerra in Ucraina) per l’eventualità che gli Usa si ritrovino in qualche modo impelagati in un conflitto in Medio Oriente. In tale senso può essere probabilmente letta la dichiarazione del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, secondo il quale «le azioni di Israele sono andate già al di là dell’autodifesa e che (gli israeliani n.d.r.) dovrebbero ascoltare gli appelli della comunità internazionale e del segretario generale dell’Onu e fermare la punizione collettiva del popolo di Gaza». In realtà, il primo a cercare di far desistere Benjamin Netanyahu dal proposito di scaricare sulla popolazione di Gaza il suo desiderio di vendetta è stato proprio il capo della diplomazia americana Antony Blinken.

Diciamo che appare quantomeno evidente il tentativo cinese di allargare il suo spazio di influenza anche al Medio Oriente. E ciò spiegherebbe i segnali sottilmente minacciosi che arrivano da Pechino, in primo luogo la volontà di spingere Teheran a tirare la corda in questa prima fase del conflitto. Il timore è che, a furia di tirare, alla fine la corda si spezzi, con tutte le eventuali, disastrose conseguenze del caso.

Ma la vera soluzione del conflitto passa per le possibili evoluzioni nel quadro geopolitico più specificamente regionale, in particolare per il ruolo che l’Arabia Saudita può giocare nella sistemazione della questione di Gaza, tenendo conto che Israele non ha alcun interesse a tenere sotto una permanente occupazione militare quella piccola striscia di territorio ad alta densità abitativa (e a insostenibile rischio di imboscate). Una delle soluzioni proposte (e che avrebbe anche il favore della diplomazia americana) è quella di affidare l’amministrazione della Striscia all’Onu e alla Lega Araba, una soluzione che non sarebbe possibile senza l’appoggio di Riad, grande player geopolitico dell’area mediorientale. Il principe ereditario Mohammed Bin Salman avrebbe infatti tutto l’interesse a bloccare l’espansione politica dell’Iran nell’area, conseguenza inevitabile di una eventuale escalation del conflitto Israele-Hamas. Del resto, una delle prime interpretazioni dell’atroce offensiva lanciata dai terroristi palestinesi contro Israele è stata proprio il comune interesse, di Hamas e di Teheran, a fermare il negoziato tra israeliani e sauditi volto ad allargare a Riad gli accordi di Abramo. Questi accordi prevedono la normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e Paesi della penisola arabica e del Golfo Persico come Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Sarebbe un risultato storico, in vista della possibile pacificazione del Medio Oriente, se anche l’Arabia Saudita riconoscesse ufficialmente Israele.

Nel tentativo di sistemare definitivamente la questione israelo-palestinese (o almeno di disattivare la minaccia di Hamas), le armi della diplomazia devono però arrestarsi davanti ai mostri dell’irrazionalità: queste entità malefiche sono il frutto di lunghi  decenni intossicati dall’odio etnico, sociale e, soprattutto, religioso.

E rincresce osservare che questo tipo di odio si presenta in forma subdola anche in vari settori dell’opinione pubblica europea, dove non è infrequente incontrare l’antisemitismo travestito da “antisionismo”. Secondo certi “amici dei palestinesi”, la violenza di Hamas sarebbe la violenza degli “oppressi” contro gli “oppressori”. Nei giorni passati è più volte stata citata un’agghiacciante affermazione di Giulio Andreotti del 2006: «Ognuno di noi se fosse nato in un campo di concentramento e da 50 anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire sarebbe un terrorista».

Questa tremenda frase contiene due grossolani errori. Il primo è quello di identificare il popolo palestinese con i terroristi. Cosa che non è, perché in alternativa ad Hamas opera da almeno trent’anni l’ANP (l’Autorità Nazionale Palestinese), che ha giurisdizione sulla Cisgiordania e che scaturisce dagli accordi di Oslo del 1993. Non è ancora lo Stato palestinese, ma è la premessa necessaria affinché un simile obiettivo si realizzi. Tant’è che una delle condizioni poste dall’Arabia Saudita per gli eventuali accordi con Israele (ora è tutto fermo per il precipitare degli eventi) è proprio la concessione di un’ulteriore autonomia all’ANP e lo stop agli insediamenti di coloni israeliani in Cisgiordania. Vale la pena rilevare che non un solo colpo contro Israele è stato finora sparato dai palestinesi che vivono nei territori controllati dall’Autorità guidata da Abu Mazen.

Il secondo grossolano errore è ritenere che le nuove generazioni di palestinesi siano cresciute nei lager e che i campi profughi del passato fossero assimilabili a campi di concentramento. Si tratta di una vera mistificazione.  Certo, la situazione abitativa nella Striscia di Gaza non è delle migliori, ma c’è anche da dire che da lì sono partite tutte e sette le offensive finora scatenate da Hamas contro Israele. In ogni caso, dipingere la condizione di vita dei palestinesi come una sorta di prigionia è completamente al di fuori della realtà.

Il punto vero è che Hamas, più che il frutto della questione palestinese, è piuttosto una delle varie espressioni dell’integralismo islamico degli ultimi decenni, e una espressione ad alto valore simbolico (per l’immaginario islamista) perché a diretto contatto con Israele, uno Stato che gli integralisti più feroci (a partire dai mullah iraniani) vorrebbero vedere distrutto.

Hamas, che in arabo vuol dire “zelo” (al di là dell’acronico di Movimento di resistenza islamica), è nata nel 1988 in contrapposizione alla leadership di Yasser Arafat e all’egemonia della sua “laica” Olp, accusata dai palestinesi oltranzisti di cercare la pace con gli israeliani e di volerne riconoscere lo Stato. Il risveglio politico dell’islam e la rabbia dei ragazzi cresciuti nei territori occupati (gli “shebab”, lanciatori di pietre, protagonisti della prima Intifada del 1987) trovarono il loro punto di incontro proprio in questa organizzazione, che per certi versi sembrava inverare la previsione della “nuova generazione coranica” a suo tempo lanciata dall’egiziano Sayyed Qutb, uno dei teorici dell’integralismo islamico fatto giustiziare nel 1967 dal “laico” Gamal Nasser.

Per capire quanto sia forte, implacabile e irriducibile la carica di odio che anima i terroristi di Hamas basta soltanto citare questo passo della loro Carta: «Non vi sarà soluzione alla causa palestinese se non attraverso il Jihad. Quanto alle iniziative, alle proposte e alle altre conferenze internazionali, non si tratta che di perdite di tempo e di attività inutili». Ed è appena il caso di notare che l’odio antisraeliano è in grado di raggiungere l’Europa, colpendo sia le comunità ebraiche sia qualsiasi altro cittadino. L’attentato di lunedì 16 ottobre a Bruxelles ci insegna due cose assai poco rassicuranti. Primo: il terrorismo di Hamas può produrre atroci atti di emulazione ovunque. Secondo: siamo tutti potenziali bersagli dei jihadisti. Basterà dire che le vittime dell’attentatore di Bruxelles (un tunisino quarantacinquenne affiliato all’Isis) erano due tranquilli cittadini svedesi arrivati nella capitale belga per assistere alla partita della loro nazionale di calcio con la squadra di casa.

Per tornare a Gaza, non basta certo la soluzione militare per risolvere i problemi tra israeliani e palestinesi. Ma è sicuro che ogni possibile soluzione politico-diplomatica deve passare per l’eliminazione di Hamas e del suo implacabile odio antisraeliano. Spetta a Israele (e anche agli Usa) dimostrare alle masse palestinesi che, quella proposta dallo “Zelo” islamico, è una strada senza uscita. E suicida.

Ucraina, strategia del logoramento

Prima battaglia della Marna, settembre 1914: quando Helmuth Johann von Moltke, comandante in capo dell’esercito del Kaiser Guglielmo,  vide i suoi soldati immersi nel fango delle trincee, capì che la guerra per la Germania si sarebbe, prima o poi, messa male.  La guerra lampo, da lui vagheggiata, era diventata una chimera. Ora c’era la realtà della guerra di logoramento, il tipo di guerra in cui vince chi ha più risorse, non solo economiche ma politiche.

E alla fine forse non vince nessuno, almeno sul campo. Tant’è che la Germania capitolò, non per ragioni militari, ma politiche, per l’esattezza a causa di una rivoluzione che scoppiò tra l’ottobre e il novembre del 1918: il popolo tedesco, stremato da oltre 4 anni di guerra, non ne poteva più e si ribellò al Kaiser e ai suoi generali.

Qualcosa di simile sta accadendo oggi in Ucraina. Non che ci siano rivoluzioni in vista, né a Mosca né tantomeno a Kiev, ma nessuno riesce a vincere sul campo. Tutte le previsioni, le strategie, le proiezioni a medio termine si stanno rivelando fallaci. Ovunque è stallo.

È stallo innanzi tutto sul piano delle operazioni militari. L’annunciata controffensiva di Kiev tarda ad arrivare. Le forze ucraine avanzano, lentamente, verso Sud, con l’obiettivo di aggirare le forze russe e tagliare i loro collegamenti con la Crimea. Ma è un traguardo ancora lontanissimo. Intanto faticano a tenere una testa di ponte sulla riva sinistra del fiume Dnipro. Di contro, i russi non ce la fanno ad avanzare sul fronte orientale: la guerra ristagna intorno a Bakhmut, anche se gli scontri sono sanguinosi e le distruzioni spaventose. Entrambi gli eserciti si contendono a caro prezzo pochi chilometri di territorio.

È stallo anche sul piano diplomatico. Il cardinale Matteo Zuppi, inviato da Papa Francesco in Ucraina e in Russia, è tornato dalla sua “missione umanitaria” con generici impegni da parte russa sullo scambio dei prigionieri e sul rimpatrio dei bambini. Per il resto è buio pesto. Tant’è che i vari “mediatori”, da Erdogan a Macron, si sono ritirati dalla scena.

L’unico che potrebbe indurre Putin a sedersi al tavolo della pace è Xi Jinping, ma il Grande Mandarino si guarda bene dal farlo. O meglio, attende il momento propizio, quello che potrebbe fornirgli centralità internazionale. Il fatto è che al leader cinese conviene al momento assecondare il sogno geopolitico putiniano di creare un blocco eurasiatico contrapposto all’Occidente: la partita geostrategica che gli interessa si svolge nel Mar Cinese meridione e intorno a Taiwan.

In ogni caso, i veri scacchieri che stanno a cuore alla Cina riguardano il controllo delle materie prime africane, la circolazione dei semiconduttori, gli accordi sulla cosiddetta Via della Seta, l’accaparramento delle risorse energetiche in tutto il mondo. Finché Pechino non troverà un accordo con Washinton sui principali dossier geoeconomici (solo di riflesso geopolitici), difficilmente la vedremo impegnata sul fronte dell’iniziativa di pace per l’Ucraina. Deve far riflettere il fatto che l’ultima iniziativa diplomatica americana verso Xi Jinping sia stata condotta, non dal segretario di Stato Tony Blinken, ma dalla responsabile della politica economica dell’amministrazione Biden, la segretaria al Tesoro Janet Yellen, già presidente della Federal Reserve. The business is the business. Staremo a vedere. La missione della Yellen a Pechino si è conclusa da poco.

Al momento non ci resta che osservare, più in generale, che ogni iniziativa di pace incontra un limite invalicabile: nessuno dei belligeranti è disposto a rinunciare a nulla, neanche alla più piccola porzione di territorio, a fronte dei grandi costi subiti in termini di vite umane e distruzioni materiali.

L’unica diplomazia possibile è quella (più meno implicita, più o meno occulta) del freno automatico al conflitto, una linea riservata di comunicazione tra Washington e Mosca volta a impedire che la guerra degeneri fino al coinvolgimento diretto della Nato  o all’ipotesi sconvolgente del ricorso alle armi nucleari. A garantire sul campo il funzionamento di questa valvola di sicurezza sarebbe, secondo quanto riferisce “Newsweek”, la Central Intelligence Agency, meglio nota con il suo acronimo di Cia. Il patto non scritto prevederebbe, da una parte, l’impegno Usa a far sì che le forze di Kiev non minaccino il territorio russo (possibilità che aprirebbe gli scenari più inquietanti) e, dall’altro, l’impegno russo a evitare escalation e ricorso all’atomica, ancorché “tattica”, ma capace di stermini di massa in pochi minuti. Per mantenere questo equilibrio gli uomini dell’Agenzia hanno il loro da fare, non solo con i russi, ma anche con gli ucraini. Pare che Washington non abbia gradito né il volo dei droni sul Cremlino né, in precedenza, l’attentato all’ideologo di Putin, Aleksandr Dugin, che è constato la vita alla figlia del filosofo, Dar’ja.

Nessuno, al dunque, deve riportare una definitiva vittoria militare. È la strategia del logoramento, non solo praticata, ma anche teorizzata. La guerra in Ucraina potrà andare avanti ancora per anni. L’annuncio della fornitura di bombe a grappolo alle forze ucraine da parte degli Usa, annuncio che sta provocando in questi giorni varie polemiche in Europa, ha tutta l’aria di una mossa propagandistica. Non sappiamo se e quando tali bombe verranno effettivamente consegnate né sappiamo se e quando verranno mai impiegate. Zelensky si è affrettato a dire che tali ordigni (peraltro messi al bando dalle convenzioni internazionali) non verranno mai impiegati in terra russa. Che vuol dire, forse che potrebbero venire impiegati sul teatro ucraino? Sarebbe davvero strano: le bombe a grappolo sono centinaia di piccoli ordigni che piovono da una bomba-madre di 4 tonnellate sganciata da un aereo. Una parte di queste bombe esplode subito, un’altra parte può rimanere latente per anni, con il risultato di rendere a lungo insicuro un territorio. Che farebbe al dunque Zelensky, rovinerebbe la vita della gente in terre ucraine eventualmente strappate all’invasore russo? Non pare davvero credibile.

Il problema della strategia del logoramento è che le speranze di un cedimento del fronte interno russo appaiono al momento piuttosto tenui. E, a dimostrarlo, è stata proprio la recente, quanto farsesca, “marcia su Mosca” di Yevgeny Prigozhin e della sua Wagner, una parata militare di qualche decina di chilometri che non ha alla fine indebolito la posizione politica di Putin ma l’ha in qualche modo rafforzata, almeno agli occhi occidentali, non fosse altro per il brivido che ha percorso per qualche ora governi e opinione pubblica: la possibilità che la seconda potenza militare del mondo (con tanto di pauroso arsenale nucleare) finisse nelle mani di un avventuriero spalleggiato da mercenari ed ex criminali comuni. In ogni caso, le motivazioni di Prigozhin, al di là della propaganda, non erano politiche quanto affaristiche.

Il “patron” della Wagner era rimasto a corto di fondi, circostanza esiziale per le sue imprese, soprattutto per i cinquemila “legionari” stanziati in Africa che consentono a Prigozhin di partecipare al business delle materie prime in diversi Paesi. Se gli oppositori di Putin sono come questo improvvisato generale, Zar Vladimir può davvero dormire sonni tranquilli. Non è un caso che l’uomo forte di Mosca sia apparso più ringalluzzito che mai al recente vertice dello Sco ( l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, che riunisce i Paesi eurasiatici insieme a Cina e India). In quell’occasione Putin ha minacciato la sospensione dell’accordo sulla circolazione del grano ucraino via Mar Nero. Non sappiamo se l’autocrate di Mosca darà seguito a questo suo annuncio, rimane però il fatto che il grano è un’arma di ricatto ancora utilizzabile dalla Russia.

Ma il problema più grande della strategia del logoramento è che garantisce il contenimento degli effetti di una guerra, non quello che può succedere dopo. Una guerra che finisce senza una vera pace può generare guerre future. I conflitti trasformano interiormente gli uomini e le donne che vi partecipano, aprendo fratture d’odio non facilmente ricomponibili.

Racconta Ernst von Salomon nel romanzo autobiografico “I proscritti” che, nella marcia di rientro in patria del novembre del 1918, i soldati tedeschi guardavano con disprezzo la gente che abitava nelle città in cui passavano: si sentivano traditi dal proprio governo e dal proprio popolo, che si erano arresi mentre loro continuavano a combattere sul campo. Sappiamo come andò a finire di lì a una quindicina di anni. E all’epoca non c’erano ancora le bombe atomiche.

Guerra, il rischio è l’assuefazione

Qualcosa vorrà pur dire se un campione del realismo politico come il quasi centenario Henry Kissinger ritenga oggi che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato sia pressoché inevitabile. Un anno fa, all’inizio dell’invasione russa, non la pensava così. Il grande esperto (a suo tempo protagonista) di politica internazionale riteneva che la soluzione del conflitto appena scoppiato fosse la garanzia della “neutralità” di Kiev. Non bisogna “umiliare” Putin, riteneva. Allo stesso modo, un altro realista come Ian Bremmer, fondatore del think tank Eurasia Group, pensava che per far tacere i cannoni bisognasse concedere qualcosa all’autocrate di Mosca in modo da “salvargli la faccia”.

A un anno dall’inizio della guerra, i realisti tacciono o sono diventati pessimisti. Guerra di lunga durata, guerra di attrito, rischio escalation: sono queste le formule più diffuse oggi tra gli esperti di geopolitica e geostrategia. La possibilità di un cessate il fuoco e del conseguente avvio di negoziati è al momento una pia illusione, una eventualità remota, una mera ipotesi di scuola. A una pace possibile in tempi ragionevolmente brevi non crede più nessuno, neanche la colomba più convinta.

In Ucraina, sui fronti del Donbass, è sempre più l’ora dei falchi. Il conflitto sta conoscendo un incrudelimento tale da lasciare ferite profonde nei cuori sia degli ucraini sia dei russi, ferite che non basterà neanche l’avvento di una nuova generazione a far rimarginare. Putin ha impresso un’accelerazione alla guerra che non gli consente più marce indietro. Le crudeltà perpetrate contro la popolazione civile ucraina sono già materiale più che sufficiente per un deferimento del presidente russo davanti al Tribunale internazionale per crimini di guerra, possibilità puramente teorica ma che fa capire l’isolamento internazionale della Russia e l’impossibilità, al momento, che neanche una eventuale soluzione negoziata potrebbe permettere a Mosca di ristabilire la normalità delle relazioni precedenti al conflitto.

Ha avuto diverse occasioni, zar Vladimir, per fermarsi, ma non le ha sfruttate. La controffensiva ucraina di autunno, culminata con la riconquista di Kherson, sembrava preludere a un’attenuazione del conflitto. Mosca si ritira? Comincia il disimpegno? L’illusione è durata solo qualche giorno. Putin ha ripreso subito il massacro della popolazione civile lanciando una massiccia offensiva missilistica contro le città.

Quello da Kherson s’è rivelato al dunque un semplice ripiegamento tattico. Le forze russe hanno ripreso l’iniziativa nel Donbass. In queste settimane il centro nevralgico della guerra s’è spostato nella città di Bakhmut, che Zelensky definisce la “fortezza”. Dovrebbe svolgere la stessa funzione strategica che a suo tempo ha svolto Mariupol: trattenere le forze nemiche e permettere a quelle ucraine di riorganizzarsi per fare fronte all’annunciata offensiva russa.

Le sorti del conflitto sembrano infatti dipendere dall’esito del nuovo attacco che Mosca si appresta a sferrare, non si sa bene quando, ma che tutti prevedono massiccio: la Russia dovrebbe impiegare trecentomila uomini in un fronte più ristretto rispetto a un anno fa, quando ne utilizzò poco meno di duecentomila. Quella che si prospetta è un’offensiva a cuneo, nel corso della quale l’armata di Mosca non dovrebbe mostrare l’ingenuità e l’impreparazione emerse nell’attacco di un anno fa.

Va però aggiunto che, davanti a questa guerra, non dobbiamo ragionare solo in termini di masse umane di manovra, missili, carri armati, dispiegamento d’acciaio e di tutto ciò che riporta ai conflitti del secolo scorso, ma anche in termini di efficienza tecnologica, intelligence, satelliti. Non dobbiamo dimenticare che gli ucraini usano le app sul telefono per dirigere il fuoco e che i temibili droni sono guidati dall’intelligenza artificiale, tutte cose in cui le forze di Kiev possono vantare un vantaggio competitivo grazie all’appoggio occidentale.

Staremo a vedere. Ma, comunque andrà a finire, è certo che l’aggressione all’Ucraina, le atrocità commesse sulla popolazione, la ferocia inaudita mostrata da molti reparti dell’Armata, sembrano destinati a risospingere la Russia di Putin verso un mondo “alieno”. Qualcosa di simile (anzi, per certi versi, peggiore) all’immagine, pur inquietante e minacciosa, che si presentava agli occhi occidentali al tempo dell’Unione Sovietica e della guerra fredda.

L’odierna immagine della Russia richiama l’idea di un confronto ancora più profondo di quello rappresentato in passato dalla contrapposizione tra mondo libero, da una parte, e mondo comunista, dall’altra. È qualcosa di antropologico e di atavico. È come se, nell’odierno bellicismo di Mosca, ritornassero gli antichi tratti di un Oriente misterioso e indecifrabile. Europa e Asia –scrive Ernst Junger nel saggio “Il nodo di Gordio” opportunamente riproposto oggi da Adelphi – sono «due residenze, due strati della natura umana che ciascuno reca in sé». La differenza tra Oriente e Occidente «dipende dal valore che si attribuisce alla libertà». Da una parte, l’Occidente, ci sono le regole che limitano il potere, dall’altra, l’Oriente, c’è la tendenza al dispotismo. Quella che a noi occidentali appare come l’«eccezione russa», per Junger, non è per niente affatto un’eccezione: «In Russia si è sempre governato così».

E all’Oriente russo, si avvicina anche l’Oriente cinese. Con la guerra ucraina assistiamo, tra le altre cose, anche al disfacimento del capolavoro del realismo politico di Kissinger e di Nixon: l’avvicinamento della Cina di Mao all’Occidente, un evento dalla portata prima geopolitica che ideologica, perché introdusse negli anni Settanta un cuneo nella massa terrestre eurasiatica.

Oggi la massa russa pare ricongiungersi con quella cinese. Non è un caso che tutto ciò accada mentre assistiamo alla crisi della globalizzazione e alla smentita dell’idea, in voga una ventina d’anni fa, di un mondo «piatto» (come dal titolo di un celebre saggio di Thomas Friedman) per effetto della tecnologia, del libero commercio, dell’interconnessione.

La guerra in Ucraina sembra al dunque destinata a produrre effetti ben al di là dei rapporti tra Europa e Russia, rivelando (e accelerando) processi in atto da tempo su scala planetaria.

Ma, tornando alla situazione sul campo, è difficile a questo punto prevedere quale potrà esserne lo sbocco, anche perché appare decisamente arduo che gli ucraini, dopo tutte le devastazioni subite, siano disposti a sedersi a un tavolo con l’animo di chi sia disposto ad ammettere concessioni territoriali. Se Putin non può fare marcia indietro, lo stesso può dirsi di Zelensky.

A questo punto l’esito più probabile è quello della continuazione chissà per quanto tempo del conflitto, una sorta di cronicizzazione della guerra. Da una parte e dall’altra, hanno dimostrato di saperla reggere a lungo.

Per noi europei, ciò equivarrebbe all’assuefazione a questo conflitto, che pare oggi disattivato, almeno per quello che più direttamente riguarda la nostra società: l’aumento dei costi energetici. Il prezzo del gas è notevolmente diminuito rispetto ai primi mesi di guerra, allo stesso modo dal fabbisogno europeo dal metano russo, che è precipitato al 7%.

Famiglie e imprese possono dormire sonni tranquilli. Attenzione però, perché non è comunque salutare avere un incendio che continui a divampare ancora a lungo alle frontiere della Ue. Una scintilla impazzita potrebbe sempre produrre effetti devastanti. Per scongiurare simili, malaugurati casi, la dottrina geostrategica serve a poco. Più utili allo scopo potranno rivelarsi gli scongiuri.