PRESERVARE I NOSTRI VALORI DALL’ONDATA GIALLA

Finalmente l’Europa si è svegliata e si tutela dagli investimenti cinesi e persino la Germania denuncia che la via della Seta è lo strumento del dominio globale di Pechino. Quando lo denunciammo noi, nel meeting internazionale della Fondazione Farefuturo, organizzato alla Camera proprio il giorno dell’arrivo trionfale a Roma del Presidente cinese, gli altri plaudivano agli accordi Italia-Cina sottoscritti dal governo Conte Lega-Cinque Stelle. Ecco il testo dell’intervento che in quella occasione fu svolto da Corrado Ocone

 Giambattista Vico ci ha insegnato che “la natura delle cose è nel loro nascimento”, cioè nella loro origine. Molti dei punti problematici evidenziati nelle relazioni precedenti, in merito ai nostri rapporti, economici e non solo, con la Cina, forse potranno ricevere qualche delucidazione ulteriore, rispetto a quanto pure si è detto, risalendo alla loro radice culturale. Per farlo mi servo delle riflessioni, affidate a più libri, da colui che, nel mondo filosofico, è probabilmente il massimo esperto della cultura cinese: François Jullien. Egli nelle sue opere ci ha ricordato come la Cina è la vera realtà esteriore all’Occidente, non potendosi dire altrettanto, ad esempio, né della cultura islamica né di quella indiana. La sua lingua, fra l’altro, non appartiene nemmeno al ceppo indo-europeo, e ciò non è da considerarsi un elemento secondario: i filosofi più degli altri sanno che il linguaggio non è un semplice strumento di comunicazione, ma è il luogo in cui, per così dire, si crea il mondo, in cui si forgiano le strutture mentali con cui noi ci mettiamo in rapporto con la realtà.

Non è un caso, ed è comunque un fatto, che la cultura cinese si sia sviluppata da sempre in modo autonomo, e con successo, e che sia risultata impermeabile all’influenza dell’uomo occidentale quando costui, all’inizio dell’età moderna, ha cominciato ad estendere la sua potenza sulle più sperdute contrade del mondo. Basti considerare il diverso modo in cui hanno reagito i cinesi e gli indigeni americani all’impatto con l’Occidente nel XV e XVI secolo. La Cina non si è cristianizzata. I viaggiatori che andavano in Cina trovavano un “mondo pieno”, mentre in America trovavano un mondo capace di essere svuotato dalla nostra cultura. Mentre noi abbiamo costruito dei miti, come quello del buon selvaggio e altri, che in qualche modo assimilavano gli indigeni americani al nostro essere stati “uomini primitivi”, in Cina tutto questo non è accaduto né poteva accadere essendosi la civiltà cinese sviluppata molti secoli prima della nostra.

La cultura cinese non può essere affrontata nell’ottica dell’esotismo perché essa è “altra” dalla nostra semplicemente perché ha sviluppato degli elementi che sono anche presenti nella nostra tradizione culturale ma che noi in qualche modo avevamo accantonato. I cinesi non hanno sviluppato la logica razionale, o meglio la loro razionalità è diversa dalla nostra: elemento che, andando sul pratico, ci farà capire il loro atteggiamento nei nostri confronti. Noi sin da Platone e Aristotele abbiamo concepito in qualche modo l’idea della razionalità intendendola come ricerca dell’Eidos , l’Idea, e del Logos, il concetto. Questo processo ha avuto un’impennata nel XV e XVI secolo, quando noi, con l’opera di Galileo, Newton e altri, abbiamo cominciato a costruire la nostra cultura attuale fondata sul razionalismo. Da allora ad oggi noi, portando all’estremo questo razionalismo, abbiamo messo in pratica gli strumenti che ci hanno portato a dominare il mondo. I cinesi hanno vissuto il nostro distanziamento nei loro confronti come qualcosa che li ha feriti nel loro più profondo. Fino a quel momento, la Cina non era affatto “inferiore a noi”, anzi in alcuni settori (ad esempio quello della navigazione), ci surclassava.

Quando i primi missionari raggiunsero Shangai, non solo dovettero adattare i loro costumi a quelli indigeni, al contrario di quello che avevano dovuto fare in America, ma trovarono una città per certi aspetti più progredita di molte città occidentali. Ma cerchiamo di capire cosa è da intendersi propriamente per razionalismo, ovvero cosa è il razionalismo moderno. Noi agiamo nella realtà creandoci dei “modelli” e cercando di “applicarli” ad essa. Ovviamente la realtà fa attrito, recalcitra, e non sempre questa “applicazione” è perfetta o conseguenziale, ma comunque noi agiamo in questo modo (è in questo contesto, detto fra parentesi, che nasce il mito dell’individuo, che nella storia cinese non esiste). Quindi noi ragioniamo secondo la logica mezzo-fine: abbiamo un fine, un obiettivo, il telos e cerchiamo di trovare i mezzi migliori, più “economici”, per raggiungerlo. È la logica della “realizzazione” la nostra. Quella cinese, presente fra l’altro in alcuni momenti della storia occidentale, è invece una logica della “propensione”. I cinesi partono dalla situazione e cercano di farla maturare a loro vantaggio, sfruttando in qualche modo le “pendenze” che quella situazione presenta. Noi diamo al termine “opportunismo” una accezione negativa che loro probabilmente non darebbero ad esso affatto. Il saggio o lo stratega militare deve prendere atto della realtà, non “modellarla” secondo i suoi fini: deve assecondare quei processi che permettono poi alla realtà di trasformarsi. Sun Tzu, un grande stratega militare del V secolo a.C. e uno dei padri della cultura cinese, scriveva che “le truppe vittoriose sono quelle che accettano il combattimento solo quando hanno già vinto. Le truppe vinte sono quelle che cercano la vittoria solo nel momento del combattimento” Quindi la cultura cinese impone, da una parte, un grande adattamento alla realtà, ma, dall’altra, una costante attenzione ad individuare i punti dove la realtà può essere piegata o indirizzata a nuovi sviluppi. Quindi il modo di agire dei cinesi, tramandatoci dalla loro cultura, è quello indiretto.

Noi agiamo per cambiare radicalmente le cose, loro vogliono trasformarle attraverso un fare amichevole. La loro logica quindi non è la logica del piano e non è una logica della “precisione”. Il filosofo francese Alexandre Koyré diceva che la modernità ha segnato il passaggio “dal mondo del pressappoco all’universo della precisione” (è il titolo di un suo noto saggio del 1957). Quella dei cinesi resterebbe, in quest’ottica, una logica del “pressappoco”. Spesso i cinesi vengono accusati di non rispettare i contratti. Il fatto è che per loro il contratto non ha la forma rigida che ha per noi: è piuttosto un processo, qualcosa che continuamente si trasforma. I cinesi hanno ovviamente i loro fini, ma essi credono molto nella negoziazione. Quindi, stante questa interpretazione, quello che è successo in questi ultimi decenni esemplificherebbe in qualche modo il loro modo di agire. Entrando nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), ad esempio, essi hanno accettato le nostre regole e lo hanno fatto fino a che non ci hanno chiesto di collaborare più attivamente con loro. Nel frattempo, però, i rapporti di forza fra noi e loro erano cambiati. Quelle collaborazioni sono, in qualche modo, perdenti ab origine. Questo elemento culturale va tenuto molto presente perché non credo che il nostro modello di opporci frontalmente ai cinesi possa essere vincente: sostanzialmente è troppo tardi. Però conoscendo ciò che è tramandato nei loro trattati, conoscendo anche l’orgoglio che hanno della loro cultura e della loro civiltà, tutte queste cose avremmo dovute saperle. Anche se hanno vissuto come una ferita da rimarginare la nostra potenza tecnologica, essi non si sono mai sentiti inferiori all’Occidente e né hanno mai cercato di emularlo.

La Cina, quasi senza farsene accorgere, è penetrata nel nostro mondo più di qualsiasi altra civiltà. Ma era da immaginarselo. E infatti da subito grandi pensatori occidentali come Pascal, Montaigne, Montesquieu, avevano messo a tema questa “esteriorità” cinese. Montaigne, ad esempio, scriveva: “… in Cina, Regno del quale il governo e le arti, senza rapporto con le nostre e senza conoscenza di esse, superano in eccellenza i nostri esempi sotto diversi aspetti, e la cui storia insegna quanto il mondo sia più ampio e vario di quello che gli antichi e noi possiamo concepire …”. Ora tutto questo crea dei problemi grossi per la democrazia, per le libertà individuali, perché i cinesi non hanno una idea di individuo come l’abbiamo noi. Anche il loro leader è da considerarsi più che altro un timoniere: uno che aiuta il popolo cinese a fronteggiare le onde, quindi a considerare continuamente la situazione per tenersi in piedi nel modo migliore. Non avendo il concetto di individuo, è evidente che ogni insistenza nostra sulle libertà personali e sui diritti individuali ai cinesi dice poco, perché per loro è la comunità tutta che deve in qualche modo riuscire a raggiungere dei risultati. Poi c’è il problema del cristianesimo e dei rapporti del Vaticano con la Cina. Il Cristianesimo in Cina non ha avuto successo, non ha mai attecchito nella società. Fra l’altro, il cristianesimo di Stato non è il cristianesimo basato sull’autonomia morale dell’uomo che è il nostro. Questo è un fatto fondamentale. Quindi la nostra fondamentale preoccupazione dev’essere: come preservare i nostri valori dall’ondata cinese, la quale è in qualche modo un attacco al liberalismo. Il fatto è che non possiamo contare né in una contrapposizione frontale, essendo nel mondo contemporaneo i nostri legami strettissimi, né in una non frontale, in cui sarebbero senza dubbio vincenti. Un vero dilemma.

 

*Corrado Ocone, filosofo, saggista al meeting Il dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” Roma, 20 marzo 2019

sovranismo

Questo saggio di Giulio Tremonti, economista,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

L’idea moderna della sovranità deriva dall’idea romantica di patria, questa un’idea sviluppata al principio dell’800 per reazione alle inebrianti novità portate in Europa dalle armate di Napoleone che – vettori della «Rivoluzione» – irradiavano un effetto a sua volta rivoluzionario: «il popolo è ebbro. Non ascoltano leggi, necessità e giudici; i costumi, sono sommersi da un frastuono astruso, ogni giorno è una festa sfrenata, una festa per tutte le feste, e i giorni consacrati all’umile culto divino si sono ridotti a uno solo» (così Hölderlin, Emp. I, vv.188-96). E questo è stato a lungo, fino a che, al principio del ‘900, l’idea della sovranità è degenerata in ideologie nuove, ma terrificanti e mortifere. E comunque quella della sovranità è un’idea che pare infine destinata a svanire, al principio di questo secolo, con la globalizzazione. Questa una rivoluzione di tipo nuovo, ma ancora come allora causa di un clima di festa. Una festa che è durata più o meno per venti anni, quanti sono gli anni che vanno dalla caduta del «Muro di Berlino» (1989), fino alla stipula del «Trattato WTO» (1994), per arrivare all’esplosione della crisi globale (2008). Anni in cui pareva che la sovranità svanisse, come nell’utopia di Tommaso Moro («De optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia», 1516).

Non per caso «utopia» è parola che letteralmente significa assenza di luogo e perciò assenza della base necessaria per l’esercizio della sovranità. In effetti è con la crisi che la storia – la storia che avrebbe dovuto finire – è tornata, accompagnata dalla geografia e con il carico degli interessi arretrati. Ed è proprio con la storia che è tornata la figura politica della sovranità. In Italia questa è tornata facendo emergere problemi provenienti tanto da un passato piuttosto remoto, quanto da un passato più prossimo. Il 7 febbraio 1992, sul volo di stato che li riporta da Maastricht a Roma, Guido Carli e Giulio Andreotti (e quanto segue è stato verificato parlando con entrambi) commentano: «al vincolo atlantico abbiamo aggiunto un vincolo ben più stretto: il vincolo europeo» (Guido Carli); «a Roma ancora non sanno quello che abbiamo fatto» (Giulio Andreotti).

Il 17 febbraio 1992, preparata da tempo, ha inizio l’operazione «Mani pulite». Il 2 giugno 1992 il panfilo Britannia attracca al porto di Civitavecchia. A bordo due «grand commis» italiani illustrano ai banchieri stranieri da un lato l’esigenza e le ragioni perché si determini in Italia «un necessario shock politico», dall’altro lato prospettano le enormi chance di profitti da «privatizzazione» che, conseguentemente, saranno loro offerte. Questa una operazione certo elegante, servita in guanti bianchi ed apparecchiando coltelli e forchette, ma in definitiva non molto diversa da quella che in parallelo si veniva sviluppando in Russia a favore degli «oligarchi». Ed in effetti alcuni dei casi di cronaca più recenti – ad esempio il caso dell’Ilva – drammaticamente evidenziano gli effetti di una politica di «privatizzazione» così congegnata, una politica radicale, non limitata agli assets industriali ed alle banche, ma estesa alla ossatura stessa delle nostre infrastrutture strategiche. In ogni caso non è stato solo questo che ha minato la nostra sovranità. Più o meno in parallelo sono state infatti «riformate», e riformata unilateralmente da parte della sinistra, tanto la «vecchia» struttura dello Stato, quanto la Costituzione. Fu lasciata invariata la parte relativa ai diritti, ma fu radicalmente cambiata la parte che si pensava dovesse essere «modernizzata» allineandola all’ideologia del mercato. E tutto questo fu fatto con una azione sviluppata su tre direttrici essenziali: a) dal 1997 al 1999, con le cosiddette «Leggi Bassanini», fu introdotto il «mercato» nello Stato, così da destrutturarlo.

È così che nelle funzioni pubbliche è iniziata la corsa verso il diritto privato, verso l’esternalizzazione, verso la societarizzazione; b) con il cosiddetto «Titolo V» la vecchia struttura dello Stato centrale, considerata troppo rigida, fu disarticolata, introducendovi in contemporanea, tanto il decentramento, quanto il federalismo. Non l’uno in alternativa all’altro, o viceversa, ma – caso unico nel mondo occidentale – tutti e due insieme! c) nella vecchia Costituzione del 1948 erano certo previste limitazioni alla sovranità nazionale, ma queste erano previste solo come eccezioni e comunque «a condizione di parità con gli altri Stati». Nel 2001, fu invece, sempre con il «Titolo V», introdotto l’opposto principio della sistematica e permanente sottomissione della Repubblica italiana ai «vincoli derivanti dall’ordinamento europeo». È così che l’Italia, unico Stato in Europa, ha cominciato ad avere non una, ma due costituzioni: una costituzione interna e una costituzione per così dire esterna. Non solo: con il Governo Monti, replica di un passato che si pensava trascorso per sempre, è nuovamente venuta la «chiamata dello straniero». Con la lettera Banca d’Italia-BCE del 5 agosto 2011, e non altrimenti giustificato, ha infatti preso avvio quello che fu subito e molto autorevolmente definito come «un dolce colpo di Stato» (Habermas). Dolce, perché oggi i golpe non si fanno più nei palazzi, con le pistole, o nelle piazze, con i carri armati, come era ai tempi di Curzio Malaparte («Tecnica di un colpo di Stato», 1931), si fanno piuttosto nelle sale cambi, con il crepitare degli spread. Tra l’altro, da allora, la sottomissione dell’Italia si perpetua per effetto delle 122 cosidette «clausole di salvaguardia» introdotte pour cause già dal Governo Monti. Trattando di sovranità va comunque considerato un fenomeno più generale. Un fenomeno che è stato e che è ancora oggi tipico della globalizzazione, e che permane anche dopo la sua crisi: il travaso di quote crescenti di potere dal campo della politica al campo prima dell’economia e poi della finanza. E così con la sistematica vittoria di Creso (questo il simbolo della ricchezza) sull’imperatore (questo il simbolo del potere politico).

Un travaso che, nella nuova geopolitica del mondo, ha generato e genera una drammatica confusione tra ciò che è pace e ciò che è guerra. Oggi, infatti, per come è fatto il mondo, ed esclusa qualche eccezione periferica, la guerra non è più sviluppata in termini di conquista dell’altrui territorio (come è stato per millenni, dai tempi di Tucidide fino al «Lebensraum»), ma piuttosto è sviluppata nella forma della conquista dell’altrui mercato. E dunque una guerra fatta sul mercato e con il mercato. Come oggi tende a fare la Cina verso il resto del mondo. Su tutto questo sia oggi consentito il rinvio a due saggi, un tempo considerati scandalosi: Tremonti, La guerra «civile», Mulino, 1996; Jean-Tremonti, Guerre stellari, Franco Angeli, 2000. In ogni caso, non tutto è perduto. I popoli ci sono ancora, e sanno che il mercato non è tutto e non contiene tutto e comunque non contiene le cose più importanti della vita. Ed in specie i popoli sanno che la parola patria comunque deriva dalla parola pater, la terra dove riposano le ossa dei padri. Piuttosto è che devono ancora emergere o comunque devono affermarsi élites capaci di intendere lo spirito del tempo presente.

* Giulio Tremonti, già Ministro dell’Economia e delle Finanze

I peccati originali della globalizzazione

Di seguito il contributo di Mario Baldassarri pubblicato nel Rapporto sull’Interesse nazionale “Italia 2020”

 

Da varie parti si crede ancora in una equazione che non esiste più da molto tempo: «l’interesse
nazionale» è perseguibile solo se si ha «una sovranità nazionale» con la quale dare ai cittadini
i servizi ed i beni pubblici dei quali hanno bisogno. Certo una sovranità nazionale è necessaria
per dare ai cittadini ciò che lo Stato nazionale può e deve fornire. Sta di fatto però che, negli ultimi decenni,
fondamentali beni pubblici non sono più alla portata dello Stato nazionale che ha quindi perso la sua sovranità.
Pertanto è «interesse nazionale» fornire ai cittadini quei beni pubblici partecipando al recupero dell’unica
sovranità possibile che oggi va costruita a livello sovranazionale, con una sovranità collettiva europea ed un
governo della globalizzazione nel mondo.

Ebbene, negli ultimi venti anni l’economia mondiale e, soprattutto, quella europea hanno invece dondolato sul
baratro di due paradossi come elefanti sul filo di una ragnatela. All’inizio sta il «peccato originale» commesso
dall’Occidente: quello di consentire alla Cina di entrare nel Wto scambiando liberamente le sue merci su tutti i
mercati mondiali, ma lasciandole la libertà di decidere «politicamente» il cambio della sua moneta che i cinesi
hanno furbescamente agganciato al dollaro. Questo ha «regalato» alla Cina la garanzia di mantenere la propria
competitività verso il dollaro ed acquisirne un 50% in più verso l’Europa, a seguito del superapprezzamento
dell’euro durante l’era Trichet, fortunatamente invertita dalla presidenza Draghi alla Bce. E tutto in aggiunta
alla già dirompente competitività cinese basata su costi del lavoro «irrisori» per gli standard occidentali e su
tutte le altre condizioni di dumping sociale.

Da qui il primo paradosso. Stati Uniti ed Europa comprano prodotti cinesi; i cinesi incassano i nostri soldi
e li risparmiano accumulando imponenti fondi sovrani con i quali comprano o i titoli dei nostri debiti
pubblici o pezzi rilevanti della nostra economia produttiva. In sintesi, la Cina, con i soldi dell’Occidente, si
sta comprando l’Occidente, e poiché i soldi che le diamo sono tanti, ha già comprato anche pezzi rilevanti
dell’Africa e dell’America Latina.

Il secondo paradosso riguarda l’Europa che non c’è, cioè la mancanza di un soggetto politico Stati Uniti d’Europa.
Su almeno cinque grandi temi: difesa, sicurezza e immigrazione, politica estera, grandi infrastrutture, nuove
tecnologie, ricerca e alta formazione di capitale umano, i singoli Stati nazionali europei hanno perso per sempre
la loro sovranità nazionale. Su questi cinque temi sfido qualunque sovranista, non solo a casa nostra ma in giro
per l’Europa, a dire come fa a dare risposte serie al proprio popolo, ai cittadini del proprio Stato agendo da solo.
Dobbiamo cioè prendere atto che su almeno cinque «beni pubblici-collettivi» tutti gli Stati Europei, in testa la
potente Germania, non possono dare risposte da soli.

C’è un’unica strada obbligata per riprenderci la sovranità ed essere sovranisti sul serio difendendo in modo
concreto e non solo a parole gli interessi nazionali. Questa sovranità decisionale su ciascuno di questi cinque
temi, possiamo riprendercela solo a livello di federazione europea. Ciò implica, ovviamente, non solo un patto
istituzionale sul ruolo del Parlamento, della Commissione, su chi li vota, su chi viene eletto, ecc., ma occorre
affiancare, alla gamba della Banca Centrale Europea, il bilancio federale europeo.
Negli Stati Uniti il bilancio federale gestisce il 25% del Prodotto interno lordo americano, quindi non è che fa
tutto, il resto è agli stati, alle contee, alle città, ma il 25% del Pil è gestito dal bilancio federale. In Europa il bilancio
attuale dell’Europa intergovernativa (perché di questo stiamo parlando, di una Europa intergovernativa e non
di una Europa federale) è attorno all’1% del Pil. Pensiamo allora di andare avanti con l’1% di Pil ed il resto è
tutto agli Stati nazionali che debbono fronteggiare con la loro spesa pubblica nazionale anche quei cinque
temi rispetto ai quali non possono oggettivamente dare nessuna risposta. È allora interesse nazionale avere
comunque la sovranità di spendere (e di tassare) senza essere in grado di dare servizi e beni pubblici?
Per di più l’ultimo vertice europeo di Bruxelles dello scorso mese di febbraio sul bilancio pluriennale 2021-
2027 è fallito litigando se il totale dovesse essere pari all’1% oppure all’1,1% del Pil!!! Negli stessi giorni è esploso
in Italia e poi nel resto d’Europa e del mondo il coronavirus i cui effetti sull’economia sono dirompenti: Pil
mondiale giù del 3%, quello europeo giù del 7% e quello dell’Italia giù del 10%. Ecco perché occorre con urgenza
una proposta forte e coraggiosa. Si tratta di prendere le quote di risorse che in ogni bilancio nazionale europeo
sono già oggi assegnate a quei cinque temi, senza un euro in più, sommarli insieme e fare il bilancio federale
europeo con cinque temi e cinque ministri. Tutto il resto, per il principio di sussidiarietà, resta agli Stati
nazionali, alle regioni ed agli altri governi locali.

Questo vorrebbe dire che il bilancio federale europeo nascerebbe con circa il 9-10% del Pil, quindi ancora ben
lontano dal 25% della federazione degli Stati Uniti d’America. Ma questo sarebbe un successo storico enorme
perché non dobbiamo mai dimenticare che gli Stati Uniti per scegliere tra confederazione e federazione hanno
combattuto una guerra civile. C’è anche questa cornice storica da non dimenticare. A fronte di tutto questo il
Consiglio europeo vara una manovra europea di 550 miliardi (Mes per la sanità, Bei e fondo disoccupazione)
modesta nelle quantità e tardiva nei tempi, incartandosi sulla possibilità di un bilancio europeo «rafforzato»
con uno 0,5% in più di Pil senza sapere né quantità, né qualità di risorse attivabili (debiti degli Stati o debito
europeo mutualizzato?).

Serve invece un intervento di almeno 2.500 miliardi di euro come fatto nelle altre grandi aree del mondo.
Qui si pone una considerazione. Negli ultimi sessant’anni l’Europa per la difesa ha speso l’1,5% circa di Pil,
Gran Bretagna e Francia il 3%, gli Stati Uniti il 7%. Forse allora ha ragione Trump, nel suo modo un po’
grossolano di parlare, di dire «Cari amici europei, sono più di cinquant’anni che vi paghiamo la difesa, ma
vogliamo riequilibrare i contributi dentro la Nato?». Ha mille volte ragione. Ma questo lo puoi fare solo se hai
la federazione, la Comunità europea della difesa, in alleanza, ovviamente, nell’ambito Nato, con gli Stati Uniti.
Dall’altra parte gli Stati Uniti di Trump che chiedono più soldi all’Europa per la difesa ma come singoli paesi
aderenti e non come Stati Uniti d’Europa, perché con i singoli paesi manterrebbe l’egemonia americana dentro
l’alleanza. Nel frattempo noi ci siamo girati i pollici sull’Europa che c’è, quella intergovernativa, senza porre
un solo mattone per costruire l’Europa che non c’è, quella federale. Per tutto questo è urgente «rifondare»
l’Unione europea con un bilancio federale e dando alla Bce ed al Trattato di Maastricht «due occhi» ciascuno:
due ciechi di un occhio non fanno infatti una persona sana.

1. Lo Statuto della BCE deve considerare, insieme al controllo dell’inflazione, anche l’andamento della crescita
economica o, quantomeno, l’effetto della quotazione dell’euro sulla stessa crescita economica ed attribuire alla
Banca Centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza.

2. Maastricht deve diventare «più rigoroso e meno stupido». Occorre cioè introdurre l’obiettivo dell’avanzo
di Parte Corrente (che si chiama risparmio pubblico) e per ogni 1% di avanzo corrente (autofinanziamento)
consentire 2-3% di investimenti pubblici finanziati parzialmente in deficit. Una golden rule più rigorosa di
quella proposta oltre 50 anni fa da Robert Solow. Si tratta cioè di introdurre una solida leva finanziaria nelle
decisioni di politica economica, come fanno le famiglie quando comprano una casa, anticipando un 30% e
facendo un mutuo per il 70%, oppure le imprese quando usano i loro profitti per finanziare almeno il 30-40%
dei loro investimenti, trovando il resto a prestito sul mercato.
Gli Stati Uniti d’Europa però non servono solo dentro l’Europa, ma anche fuori per un equilibrio nel resto
del mondo. Negli ultimi due decenni, con la cosiddetta globalizzazione, oltre tre miliardi di persone hanno
abbandonato la soglia di povertà. Ovvio che nel mondo occidentale ricco questo ha determinato, a fronte di
quei tre miliardi di ex-poveri nel Terzo e Quarto mondo, trecento milioni di nuovi poveri in occidente. Ma
questo, stiamo attenti, non è colpa della globalizzazione, ma colpa delle classi dirigenti politiche, soprattutto
occidentali (cioè Stati Uniti ed Europa), che non hanno finora capito che, a fronte di questo processo storico,
si deve avere una governance della stessa globalizzazione. Molti puntano giustamente il dito contro la
globalizzazione guardando i lati negativi e cioè la formazione dei monopoli, dei poteri, della finanza, delle
grandi multinazionali e, ovviamente, delle grandi multinazionali di internet. Cosa assolutamente da mettere
in evidenza, ma la colpa non è di chi approfitta di questa globalizzazione, ma di chi non ha adeguato la
governance del mondo alla realtà del XXI secolo.

Faccio un esempio banale. Dopo venti anni e più di globalizzazione andiamo ancora avanti a fare i G7, dentro
il quale sono presenti quattro paesi europei come singoli stati ma non c’è l’Europa. Qualcuno ha addirittura
avuto la brillante idea di non invitare più la Russia, così il G8 è tornato ad essere G7. Ma ci rendiamo conto
che il G7 rappresenta un terzo del mondo dal punto di vista economico, meno di un terzo del mondo dal
punto di vista della popolazione e forse un quinto del mondo in termini di nuove generazioni, e pretende di
dettare le regole e fare il governo di «questa» globalizzazione. È ovvio che i restanti due terzi del Mondo se ne
fregano, non perché sono stupidi e cattivi, ma semplicemente perché dicono che se non sono seduti al tavolo
per decidere insieme le regole, perché mai loro dovrebbero recepirle e rispettarle? Se le regole sono fatte dal G7
che rappresenta solo un terzo del mondo, le rispettino i paesi del G7 e basta!

Ecco perché il G7 è «il passato» ed è come guidare un’auto guardando lo specchietto retrovisore. Tant’è che
suo collega un po’ maldestro è il G20, cioè il tentativo di allargare il tavolo per il governo del mondo a venti
paesi. Ma il G20 non va da nessuna parte perché fa delle bellissime conferenze che tutti noi potremmo fare
all’Università o nei circoli culturali, ma non ha la struttura per decidere ed essere il governo del mondo. Quasi
sempre appare come una riunione di condominio dove si discute molto, ci si accapiglia, ma poi non si decide
nulla. Nel frattempo il tetto del palazzo continua a perdere acqua e si minano le fondamenta dello stesso
palazzo… di tutti.

Governare la globalizzazione significa affrontare un fenomeno come quello dei fiumi, delle acque e dei laghi, lo
puoi gestire ma non lo puoi fermare, se pretendi di fermarlo ne vieni travolto, quindi lo devi governare.
Ecco allora una prima conclusione: occorre un nuovo G8 che ridefinisca le grandi istituzioni internazionali
a partire dal Wto, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Chi dovrebbe essere parte
di questo G8? Ovviamente la Cina, che è la prima economia del mondo in valore assoluto, visto che nel 2017
ha superato gli Stati Uniti d’America; secondo, gli Stati Uniti d’America; terzo, l’India; quarto, il Giappone;
quinto la Russia. Poi in questo scenario mancano due continenti: l’America Latina e l’Africa. Allora si decida
chi dell’America Latina. Qualche anno fa pensavamo al Brasile, ma poi con i problemi che sono emersi in quel
grande paese qualche dubbio si è posto. E siamo a sei. Poi l’Africa. Qualche anno fa si pensava al Sud Africa
ma il Sud Africa è molto a sud e non rappresenta l’Africa. E siamo a sette. Arriviamo in Europa. L’Europa
deve capire che a quel tavolo o c’è come Stati Uniti d’Europa o non c’è! Non possiamo pretendere di sederci al
tavolo con Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, senza neanche gli altri europei. A che titolo, con quale
voce questi quattro singoli Paesi siedono nel G7, cosa rappresentano se non se stessi visto che di fronte alla
globalizzazione sono un microcosmo, financo la potente Germania.

Ecco allora che la presenza e la costruzione di una Europa federale degli Stati Uniti d’Europa non è una scelta,
è una esigenza per recuperare «sovranità» interna e per costruire il governo della globalizzazione. Purtroppo
in questo momento si corre un grave rischio. Questo ragionamento sull’urgenza di un nuovo G8 significa dire
che per governare la globalizzazione occorre il multilateralismo, occorre cioè che gli otto grandi rappresentanti
delle grandi aree del mondo concordino insieme. Questo è «multilateralismo».
Il pericolo allora è che l’amministrazione Trump negli Stati Uniti, come ha detto molto chiaramente, vuole
seguire la strada del «bilateralismo», come gli Orazi e i Curiazi. Significa cioè fare oggi un accordo con la Cina,
poi uno con il Messico o far saltare per aria l’accordo Nafta, poi faccio saltare l’accordo sull’Iran, poi l’accordo
sul nucleare con la ex Unione Sovietica oggi Russia ecc. Ma con questo tipo di bilateralismo non si va da
nessuna parte. Si rischia invece di aggravare la frattura tra la globalizzazione che va avanti con tempi accelerati
e la mancanza di governance.

Quindi il salto verso la federazione degli Stati Uniti d’Europa è un’esigenza anche per il mondo, per l’equilibrio
nel mondo.
È utopia pensare oggi agli Stati Uniti d’Europa, però è urgente agire come se già ci fossero. Occorre subito una
federazione europea «mirata e leggera» che dia al vecchio continente un «governo europeo» su cinque temi:
difesa-sicurezza-immigrazione, politica estera, politica monetaria, grandi infrastrutture ed energia, ricerca innovazione tecnologica e formazione di capitale umano. È utopia pensare oggi ad un nuovo G8 che però
nei «pesi» economici mondiali di fatto c’è già. Senza questi nuovi ed urgenti assetti «politico-istituzionali»,
l’Europa rischia di «implodere» nella garrota di un rigore intergovernativo senza speranza o di una deriva
nazional-sovranista fronteggiata con più deficit e debito pubblico e l’economia mondiale rischia di «esplodere»
in un nuova grande crisi globale.

Tutto questo sarebbe dovuto essere chiaro ben prima del coronavirus. L’epidemia globale rischia solo di
essere il detonatore di una nuova devastante crisi economica mondiale. Imparare la lezione quindi non è
solo sconfiggere il coronavirus ma, soprattutto, costruire un assetto istituzionale in Europa e nel mondo che
consenta di «prevenire» i fuochi che accendono le crisi e non di dover agire ex post, in ordine sparso con il
rischio di esserne travolti, tutti. Ecco perché è essenziale capire la profonda differenza tra «sovranità nazionale»
ed «interesse nazionale» nel mondo del XXI secolo.

 

*Mario Baldassarri, economista, presidente Centro Studi “Economia Reale”

“Via della seta” strumento di dominio globale

Questo meeting è organizzato da Farefuturo insieme alla Fondazione New Direction la fondazione che fa riferimento in Europa al gruppo dei conservatori e riformisti e quindi alla famiglia dei conservatori europeo- occidentale, su un tema centrale per l’interesse nazionale in una giornata particolarmente significativa a poche ore dalla visita del presidente della Repubblica popolare di Cina in Italia, evento a cui viene dato un alto valore politico.

In tale contesto, abbiamo voluto proporre un seminario di studi dal titolo emblematico ” Il Dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” per analizzare il valore politico ed economico di alcuni accordi che verranno firmato in quella occasione dal Presidente Xi LinPing, che rappresenta tutte le cariche della Cina a cominciare di quella più prestigiosa di Segretario del Partito Comunista Cinese, come tutti sanno in Cina la carica del partito viene prima di quella dello Stato.
Lui stesso nel presentare la sua visita ad un quotidiano italiano ne parla all’interno di un contesto storico, culturale e politico di straordinaria importanza a suggello del quale sarà apposta firma di un MoU che riguarda la cosiddetta Via della seta, il primo realizzato da un Paese importante della Nato e dal un Paese dei G7.

Oggi la “via della seta” è la più importante infrastruttura navale, ferroviaria, logistica del mondo, quindi è acciaio più che seta. Altrettanto significativi i circa cinquanta accordi collegati, alcuni tra aziende pubbliche, quindi su indirizzo specifico dello Stato, altre di aziende private di varia natura.
Nel MoU non si affronta la tematica commerciale ma si parla di infrastrutture, trasporti, logistica, spazio, telecomunicazioni quindi di assetti strategici.
Ovviamente non si parla di commercio strettamente inteso perché come tutti sanno la politica commerciale è esclusiva competenza dell’Unione europea.
Si parla invece di economia, di finanza e anche di quei settori strategici che vi ho citato prima ma non certamente di commercio in quanto tale, come si è voluto far credere. Il nostro export non ne trarrà alcun beneficio diretto.

Ieri nel due rami del Parlamento, sia alla Camera che al Senato, c’è stato un dibattito su questa evento, certamente estremamente significativo per le conseguenze che ha sulla nostra collocazione internazionale, prima ancora per le sue ricadute sulla nostra economia. Il Parlamento ha approvato una davvero strana mozione di maggioranza in cui si impegna il Governo a fare i dovuti accertamenti sulle ricadute del Memorandum: se il nostro interesse nazionale è garantito, se la nostra sicurezza nazionale è garantita se le relazioni e gli accordi internazionali sottoscritti dall’Italia a cominciare da quelli dell’Alleanza atlantica e della Ue sono garantiti; in sostanza, la stessa maggioranza chiede al governo di accertare e verificare ora a poche ore dalla sottoscrizione degli accordi se tutto ciò è garantito, dopo che per sette mesi i ministeri interessati hanno lavorato alla preparazione del MoU e degli accordi collegati avendo si presume fatto già tutti gli accertamenti necessari, in caso contrario sarebbe di fatto gravissimo. Il fatto che la stessa maggioranza impegni il suo governo a fare ora tutti i necessari accertamenti è di per se significativo e nel contempo inquietante per la leggerezza con cui si è affrontata la questione.
Risalgono ai giorni immediatamente successivi alla formazione del governo le prime missioni in Cina del viceministro Di Maio e del ministro dell’economia Tria e poi un via vai di missione di esponenti di Cinque Stelle e del Sottosegretario al Commercio che di fatto in questi mesi ha vissuto più in Cina che in Italia
Quindi sette mesi di analisi, documentazione, contrattazioni avrebbero dovuto portare evidentemente a una verifica sotto gli aspetti che riguardano la sicurezza nazionale ,quanto il rispetto dei nostri accordi internazionali e delle nostre alleanze storiche.
È anomalo, ripeto, che la maggioranza impegni il governo a fare tutto ciò a poche ore prima della firma degli accordi quanto ormai tutto è già deciso.
Questa missione e queste firme giungono proprio mentre l’Unione europea, dopo un lunghissimo letargo politico e strategico in cui le singole nazioni si sono mosse autonomamente e in cui tutti hanno affrontato la Cina come una grande opportunità , improvvisamente l’Ue da una parte e gli Stati Uniti dall’altra stanno valutando con grande apprensione i rischi di quella che appariva una grande opportunità con dei provvedimenti alcuni già deliberati altri in via di deliberazione di straordinaria efficacia nella modifica di questa postura.
Tra quelli approvati io evidenzio il Regolamento sullo screening degli investimenti esteri
In Europa che stranamente ha avuto come opposizione solo l’Italia (insieme alla Gran Bretagna che però non fa più parte di fatto dell’Unione Europea). Fatto perlomeno strano se lo compariamo al documento ufficiale presentato dall’attuale governo poche settimane fa in Parlamento nel rapporto annuale dei servizi di sicurezza in cui vengono individuati alcuni rischi per la sopravvivenza del Paese. E tra i rischi per la sopravvivenza del Paese individuati nei rapporti ufficiali vi sono:
– la sicurezza cibernetica come nuova frontiera per la sicurezza nazionale
su cui prestare la massima attenzione perché la sicurezza cibernetica significa la sicurezza sui nostri dati;
– l’attività predatoria economica e finanziaria fatta da Paesi stranieri che utilizzano anche entità statuali per individuare per esempio le migliori start-up che hanno depositato i migliori brevetti per acquisirle prima che li sviluppino o per favorire la nomina di management nelle aziende che si intendono acquisire affinché preparino il terreno alla azione predatoria che ne seguirà.
Quindi le nuove frontiere della sicurezza nazionale e della sovranità economica – a cui io aggiungo la sovranità sulla conoscenza, sui dati, sull’intelligenza quindi sul nostro futuro – sono quelle economico-finanziare e quelle della cyber security. Ho fatto notare recentemente al Primo Ministro in una riunione del nostro Comitato per la Sicurezza della Repubblica che l’Italia si è opposta in sede europea proprio al Regolamento sullo screening che invece io rapporto presentato in Parlamento e da Lui sottoscritto definiva come atto fondamentale per garantire la nostra sicurezza e sovranità economica e tecnologica. Com’è possibile?
Se noi individuiamo in quel Regolamento il passo decisivo per tutelarci meglio, poi perché ci opponiamo in Europa a quel Regolamento?
Altri episodi di questo tipo, dalla anomala posizione sul Venezuela all’annuncio del ritiro dei nostri militari dall’Afganistan, alla lettera che quindici ambasciatori della Ue hanno scritto con l’assenza della firma italiana, al governo cinese per la tutela delle minoranze in quel Paese, ci fanno capire come la postura del governo italiano nei confronti della Cina sia profondamente mutata ed appare clamorosamente diversa di quella dei nostri partner europei. La nostra postura assomiglia sempre più alla postura (di sudditanza) che per esempio la Grecia ha assunto spesso dopo che la Cina gli ha acquistato i porti del Pireo. Tanto più grave perché l’Italia non è la Grecia e non è certo considerata come tale dai nostri alleati tradizionali e neppure dai nostri avversari tradizionali.
Perché l’Italia dovrebbe guardare con attenzione non soltanto alle opportunità ma anche e forse soprattutto ai rischi? Lo dico sulla base della mia esperienza personale di Ministro delegato al commercio con l’estero: nel novembre del 2001 rappresentavo l’Italia al meeting del WTO a Doha dove la Cina realizzo ufficialmente l’obiettivo della adesione alla Organizzazione del commercio mondiale, che una volta era il simbolo del capitalismo mercantile. Ero fisicamente presente come capo delegazione italiana quando fu sottoscritto l’ingresso della Cina, allora qualificato come Paese in via di sviluppo a cui erano concesse, proprio per questo, anche dei vantaggi importanti. Allora essa era considerata anche una “economia non di mercato” che avrebbe dovuto nel frattempo nell’arco di quindici anni diventare un’economia di mercato. Cosa che allo stato non è ancora avvenuta. Tutt’altro: la sua economia resta dirigista e le sue aziende sono di fatto ancora in gran parte in mani allo Stato e comunque sussidiate dallo Stato.
Le condizioni di allora sono ovviamente profondamente cambiate. La Cina non è più un Paese in via di sviluppo; è la seconda economia del mondo e presto diventerà la prima economia del mondo, molto competitiva proprio sugli assetti tecnologici e industriali. Ma nel contempo è rimasta un’economia non di mercato anzi è sempre più un’economia non di mercato per la presenza importante e significativa dello Stato soprattutto nei settori strategici dell’economia cinese, come dimostra proprio il caso delle telecomunicazioni.

La situazione è molto cambiata in questi anni. Siamo in un’altra epoca. In quel periodo io stesso mi sono recato in Cina decine di volte con delegazioni di imprese italiane per tentare di cogliere le migliori opportunità di un Paese che si apriva al mondo. Mi recai in Cina anche nella primavera del 2003, durante la Sars, nel il massimo momento di crisi del Paese, credo fui l’unico ministro del mondo a farlo per dare un sostegno politico ovviamente allora ritenuto significativo. L’anno successivo nel 2004, fui anche il propugnatore in Europa della misura anti dumping più importante della storia del Wto per vastità di settore quella nei confronti delle calzature cinesi e vietnamite riproposta poi nel 2008. Non ho quindi mai avuto una visione ideologica o comunque pregiudiziale nei confronti della Cina. Ho guardato sempre e solo e comunque innanzi tutto all’interesse del mio Paese.

In questi anni, la Cina è profondamente cambiata per quello che vi ho detto rispetto ad allora e da Grande Opportunità è diventata prevalentemente un Grande Rischio perché è molto accresciuta la sua forza competitiva e perché la nuova presidenza di Xi Jinping ne ha cambiato la postura.

Xi Jinping che sarà tra poche ore in Italia è l’unico presidente che ha assunto nelle sue mani, dopo Deng Xiaoping, tutti i poteri della struttura cinese: Segretario generale del Partito Comunista, presidente dallo Stato, coordinatore delle forze armate e altri dieci diversi incarichi di coordinamento. Ha inserito il suo Pensiero nella Costituzione cinese. Ha rimosso il vincolo dei due mandati si pone come un nuovo imperatore della Cina e nel contempo ha modificato profondamente nelle radici la stessa legislazione cinese.
Nel 2017 la “via della seta” è stata inserita nello statuto del partito comunista cinese, come obiettivo strategico per cambiare il mondo.
Nel 2018 lo stesso concetto è stato ribadito nel preambolo della Costituzione cinese
come nuova alleanza globale, alternativa capace di soppiantare quella del blocco occidentale.
Quindi, la via della seta è tutt’altro che uno spot commerciale e nemmeno meramente economico se è inserito nello statuto del partito e nella costituzione della Cina.

Inoltre dal 2015 con quattro differenti provvedimenti legislativi che riguardano la sicurezza si fanno una serie di obblighi legislativi tra i quali quello secondo cui e non solo i cittadini e le aziende cinesi operanti nel mondo hanno l’obbligo di fornire informazioni e assistenza al proprio Stato, ai propri servizi sicurezza e alle proprie forze armate per motivi di sicurezza largamente intesi. Perché per sicurezza non intendono soltanto la sicurezza ovviamente nei confronti della lotta al terrorismo, sarebbe forse comprensibile, ma intendono la sicurezza, la sovranità economica, l’interesse sociale in sostanza ogni aspetto della vita nazionale.

Tra gli accordi sulla economia digitale, particolarmente sensibile, ve ne è persino uno che sarà sottoscritto per favorire la costituzione di una piattaforma commerciale europea di Alibaba in Europa.
Cosa significa? significa che la piattaforma commerciale Alibaba in Europa, così come ha fatto la grande distribuzione globale per esempio francese, favorirà la vendita dei prodotti cinesi in Europa saltando ogni tipo di controllo anche sanitari.
E questo mentre proprio in questo campo, sull’economia digitale, sull’intelligenza artificiale l’Europa vuole recuperare i suoi macroscopici ritardi proponendo di realizzare un piano straordinario europeo per fare dell’Europa la prima economia sull’intelligenza artificiale. Questa è la frontiera della quinta rivoluzione industriale!

Noi oggi parliamo dalla quarta rivoluzione industriale, quella della economia digitale, ma già si prepara la quinta rivoluzione industriale in cui la Cina è cinque anni avanti rispetto all’Occidente, la rivoluzione della intelligenza artificiale.
Quindi l’Europa cerca di recuperare un ritardo nella frontiera più importante per il nostro futuro.

Nella nuova postura dell’Unione ci sono nuove proposte di direttive  o nuovi regolamenti che riguardano la cyber security, la tassazione della economia digitale, ma anche in maniera specifica le relazioni transatlantiche, le tariffe industriali, l’altro giorno nel mio intervento in Parlamento ho elencato almeno dieci argomenti che l’Europa in un senso o nell’altro sta inserendo o vorrebbe inserire nelle proprie normative comunitarie per tutelare il continente rispetto a questa competizione globale.
Nel meeting di oggi vogliamo porre a conoscenza degli addetti ai lavori e in particolare dei decisori ma anche di chi desidera meglio capire e conoscere, persino seguendoci nella diretta su Facebook di cosa si tratta, quale sia la vera posta in palio, cosa si sta per sottoscrivere, perché il Paese deve sapere.
Deve sapere che queste scelte cambiano la postura del rapporto dell’Italia rispetto alla Cina e qui di nei confronti del mondo.

Il fatto stesso che in queste ore sia stata rivista la normativa contenuta nel MOU sui porti e gli investimenti in logistica ci deve far riflettere. Perché qual era quella precedente contrattata per mesi all’insaputa del Paese e degli stessi ministeri competenti?

Cosa prevedeva dato che è stata rimossa?
Dato che i porti sono la chiave del Paese che non si può mai consegnare a chi ha l’infrastruttura che legherà il mondo. Una chiave che può essere aperta o può essere chiusa da chi la dispone.
La conoscenza e la competizione globale si basa su tre-quattro livelli ; certamente il primo è il controllo dell’infrastruttura cioè del trasporti merci e noi stiamo consegnando le chiavi di casa dell’Europa, dell’Occidente ad un soggetto che mette nello Statuto del Partito Comunista che quella via è lo strumento per cambiare gli assetti globali del mondo
Secondo. Le altre “chiavi di casa” è la rete internet. La comunicazione è fondamentale perché riguarda la sicurezza del Paese, la conoscenza dei dati è oggi il centro di tutto e mi riferisco al 5G. Chi controlla, chi ha le chiavi delle infrastrutture digitali ha le chiavi del nostro cervello
Terzo: chi controlla la vendita on line ha le chiavi dei nostri mercati. Alibaba è l’esercito che controlla i mercati.

Infine e su tutto, il problema dell’intelligenza artificiale, dello spazio e del suo sviluppo tecnologico ed economico, ma questo è un cuore della quarta anzi della quinta rivoluzione industriale che verrà ma i cui assetti si determinano oggi.

Spero che questo meeting possa servire a capire e quindi a decidere meglio.

*Intervento di Adolfo Urso, presidente della Fondazione Farefuturo, al meeting “Il Dragone in Italia. Opportunità e rischi per l’Italia”

 

Europa contro Impresa Italia

Questo meeting promosso dalla Fondazione Farefuturo apre il confronto, per nulla scontato in questa fase politica, tra forze politiche di maggioranza e di opposizione e forze sociali e produttive su una tematica che riteniamo centrale per lo sviluppo produttivo, economico e sociale del nostro Pese e del contributo che possiamo dare allo sviluppo della nostra casa comune europea.

Il titolo è volutamente provocatorio ma sicuramente nel contempo evidenzia una problematica reale: “Europa contro Impresa Italia” dove per Impresa Italia intendiamo ovviamente il nostro sistema sociale produttivo. Per questo, abbiamo voluto mettere a confronto le istanze rappresentate dalle numerose Associazioni di impresa del nostro Paese.  Tutte qui rappresentate, in questa sala le Associazioni nazionali più rappresentative dalla Confindustria alla Confagricoltura, Confcommercio, Confapi Confartigianato e le abbiamo messe a confronto con i rappresentanti dei gruppi parlamentari di maggioranza e di opposizione e con i rappresentati del governo.

In questo meeting vorremmo che le associazioni di impresa presentassero le loro istanze, le loro problematiche anche citando casi specifici, positivi o negativi che siano,  e ci auguriamo che alla fine di questo dibattito e del lavoro susseguente che faremo con il nostro centro studi, sarà possibile presentare, in vista della competizione europea, un dossier su questa tematica centrale per lo sviluppo del Paese, nella speranza di dare un contributo al nostro Sistema Italia e nello specifico come esso si possa rapportare meglio nella UE.

Non posso non evidenziare che oggi è il primo giorno in cui l’Italia non ha un Ministro per gli affari europei, nel senso che ieri il Prof. Paolo Savona – che è venuto più volte negli anni passati ai nostri meeting, fornendo contributi significativi all’attività della nostra Fondazione, anche con scritti e interviste sulla nostra rivista  – è stato nominato dal Governo presidente della Consob e il Governo, in attesa che questo incarico sia confermato, ha già annunciato che l’interim passa al Presidente del Consiglio. Speriamo che l’interim duri poco e che si possa avere un ministro competente a rappresentarci in Europa.

Nel frattempo, appare per lo meno inusuale che la casella decisiva degli Affari europei non abbia ad oggi un ministro incaricato. Io credo che questo sia un vulnus soprattutto per chi come noi pensa che in questo momento l’Italia deve vincere la sua scommessa, la sua sfida in Europa, credo che ne siamo tutti convinti. È importante che una persona di alto valore, come Savona, assuma questo incarico, anche alla luce di tutto quello che potrebbe derivarne dalla competizione europea, dal nuovo Parlamento europeo, dalla nuova Commissione europea; insomma l’Italia deve arrivarci al massimo di rappresentanza, non al minimo di rappresentanza a questo appuntamento; questa è la mia opinione.

I casi che dobbiamo esaminare sono a tal proposito davvero emblematici ed è giusto che lo facciano direttamente le associazioni di categoria. Poco fa un esponente del sistema bancario mi ha detto che non abbiamo messo tra questi casi il sistema bancario. Al contrario, ne abbiamo fatto un caso specifico che analizzeremo in un prossimo meeting, perché certamente, l’ultima notizia è di questa mattina, ci sono dei giornali che evidenziano, come anche le recenti decisioni sui crediti deteriorati, sui NPL, in qualche misura sono decisioni che non collimano con le potenzialità del nostro sistema bancario o con la problematica dei crediti deteriorati che noi abbiamo in Italia. Ma altri provvedimenti di questo tipo, pensiamo al meccanismo del salva-Stati, alla recente decisione sull’unione bancaria, si tratta di provvedimenti fatti da un sarto che conosceva un sistema bancario diverso, comunque poco attinente alle peculiarità, alle potenzialità e anche ai difetti e alle lacune del sistema bancario italiano con tutto quello che ne è conseguito. Comunque su questo faremo un altro meeting. Qui noi parliamo di imprese, non finanziare, non bancarie ma produttive e vorremmo dare la parola ai rappresentanti delle associazioni produttive

 

Intervento in chiusura

Nel chiudere questo meeting, davvero proficuo ed istruttivo, mi riallaccio ad un aspetto che conosco molto bene: l’etichettatura “made in”, per evidenziare purtroppo nostra scarsa capacità di incidere nei contesti europei. Questa proposta l’ho fatta proprio io al vertice Euromediterraneo nel luglio del 2003 che si svolse a Palermo nel periodo in cui l’Italia presiedeva il semestre di turno europeo e il commissario europea era il francese Pascal Lamy. Una battaglia fatta poi, per anni, in tutte le sedi europei e internazionali, bilaterali e multilaterali, purtroppo in maniera infruttuosa.

Da allora è passato molto tempo e se fosse stata applicata fin da allora la etichettatura obbligatoria del Paese d’origine, appunto il cosiddetto “made in”, i risultati probabilmente sarebbero stati diversi per quanto riguarda la riconoscibilità del prodotto, la filiera industriale e quindi la competizione globale del nostro sistema produttivo ed anche le conseguenze positive per il consumatore mondiale. Oggi obiettivamente il sistema è diverso e l’Italia ha perso quella battaglia che non era facile vincere allora, e forse nemmeno oggi in Europa per la opposizione dei paesi nordici e soprattutto della Germania.

Concludo dicendo che faremo altri convegni tematici su quello che crediamo sia importante soprattutto in questo contesto: ricomporre un dialogo  tra le forze sociali e produttive di questo Paese e il Parlamento che vedo sempre più isolato dal Paese e tanto più il governo che appare sordo ai bisogni di chi produce e lavoro. L’ho detto all’inizio e lo ribadisco adesso: il fatto che le dimissioni di Savona abbiano lasciato scoperta una casella considerata all’inizio della legislatura come strategica in Europa è particolarmente emblematico!

Quando prima accennavo alla politica commerciale di Trump, dicevo che non è da sottovalutare. La guerra commerciale che si sta combattendo tra gli Stati Uniti e la Cina ci vede in mezzo come ai tempi della Guerra fredda dove l’Italia era terra di frontiera rispetto l’Oriente. Oggi in questa guerra di frontiera commerciale, l’Italia è ancora una volta “frontiera” e temo anche “preda”. Oggi le tematiche di politica commerciale sono prevalenti, decisive, per ogni sistema produttivo e per ogni Paese, verrebbe da dire: “questa è la globalizzazione, ragazzi”!

Che siano dazi piuttosto che la riforma del Wto oppure che siano accordi commerciali come il Nafta, è una rivoluzione. Trump con il Nafta ha imposto ai paesi, in questo caso al Messico, una rivoluzione commerciale. Ha imposto al Messico e anche al Canada che nessuno dei paesi firmatari del Nafta possa firmare accordi di libero scambio con paesi a economia non di mercato come la Cina, senza il consenso degli altri. Ha imposto che per esempio il Messico debba avere un salario minimo nel settore automobilistico. Ha imposto delle regole di mercato del lavoro per ristabilire condizioni di equità tra partners. Questo significa ripensare la politica commerciale e industriale europea. Io credo che l’Italia dev’essere in testa a questa rivoluzione commerciale. Siamo il Paese che ha più pagato una certa ignavia nella competizione e negli accordi e che oggi è più esposto alle azioni predatorie che sono in atto. A noi serve un commercio equo e non solo, libero, che ripristini condizioni di parità tra competitori. In condizioni di parità, il made in Italy vince sempre!

Grazie a voi di essere stati qui e mi auguro che ciascuna associazione fornisca, anche in seguito una documentazione appropriata  perché vorremmo scrivere un “libro bianco” su questa tematica cosi vitale per il Sistema Italia

 

Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo – intervento al meeting “Europa contro Impresa Italia” del 6 febbraio 2019

Urso: “L’Italia strumento dell’egemonia cinese”

Nel 2001 Adolfo Urso, allora viceministro al Commercio estero, era al Wto quando si decise l’ingresso della Cina. “E in passato ho fatto moltissimo per spiegare l’importanza della Cina alle aziende italiane. Ma la Cina non è più il paese di vent’anni fa. Oggi i cinesi sono politicamente aggressivi e sono economicamente competitivi. Inoltre la Cina sta costituendo un blocco di alleanze alternativo al blocco Atlantico di cui noi abbiamo sempre fatto parte. E’ proprio cambiata la postura dello stato cinese. Dunque è evidente che siglare un accordo dai tratti politici come il memorandum di cui si discute in queste ore – malgrado pare si stia modificandone il contenuto – è un’eventualità di primaria grandezza dal punto di vista della politica estera. E c’è una superficialità sconcertante da parte del governo”. Vicepresidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, senatore di Fratelli d’Italia, Urso ha una visione ampia della questione. “Sono successe cose poco comprensibili nell’ultimo anno”, dice. “In primo luogo l’Italia ha impedito il riconoscimento europeo di Juan Guaidó, il leader dell’opposizione venezuelana al dittatore Maduro. Il cui regime è un alleato della Cina. Altrettanto incomprensibile è stata l’op – posizione italiana al regolamento europeo sullo screening degli investimenti stranieri in Europa. Una cosa al limite dell’irrazionale. Certamente sbagliata, specialmente visto che i nostri servizi segreti hanno segnalato, in più recenti occasioni, con il governo Gentiloni e anche con il governo Conte, due minacce nuove: quella cibernetica e quella della colonizzazione predatoria da parte di potenze straniere nei confronti dell’industria tecnologica italiana” Adolfo Urso parla di “inconsapevolezza del governo”, eppure dalle sue stesse parole sembra venire fuori invece il quadro di una “intelligenza” che spinge l’Italia verso gli interessi cinesi. “I nostri servizi segreti hanno spiegato che ci sono entità statali, diciamo altri servizi di intelligence, che agiscono nel nostro paese per indirizzare la nomina di certi manager in aziende italiane, manager considerati amichevoli e ben disposti all’apertura nei confronti dei capitali provenienti da questi paesi. Come pure sappiamo bene che ci sono servizi di intelligence che segnalano quali nostre aziende possiedono i migliori brevetti tecnologici, favorendo così l’acquisizione di queste aziende da parte di compagnie controllate da stati stranieri. In questo contesto è molto strano che l’Italia si sia opposta allo screening sugli investimenti stranieri in Europa, ed è altrettanto strano che il nostro sia l’unico paese a non aver firmato la lettera degli ambasciatori europei a tutela delle minoranze etniche e religiose in Cina. Se metti insieme tutte queste cose, ti fai delle domande”. Tanto più se ci si concentra sulla natura e sul significato della cosiddetta Nuova Via della Seta, il progetto cui pare l’Italia stia aderendo. “La Nuova Via della Seta è stata inserita nel 2017 nello statuto del Partito comunista cinese come obiettivo strategico”, dice Urso. “Nel 2018 il governo di Pechino ha riformulato la Costituzione. E la Via della Seta è stata inserita pure nel preambolo della Costituzione. Questo lo dico per rendere l’idea di ciò di cui parliamo. La finalità è quella di creare una nuova alleanza mondiale alternativa a quella occidentale. Ecco. L’Italia storicamente ha avuto una posizione direi quasi da ‘nazione ponte’ nei confronti dei blocchi contrapposti al nostro. Ma senza mai confondersi su chi fossero gli alleati che condividono i valori della democrazia. Tutti ricordiamo i rapporti con l’Unione sovietica, gli stabilimenti della Fiat in Urss, a Togliattigrad. Ricordiamo bene quando Gianni De Michelis costituì l’Ince con Austria, Ungheria e Jugoslavia. Sappiamo anche quali sono stati i rapporti con il mondo arabo, a cominciare da Andreotti fino a Craxi e Berlusconi. Un atteggiamento sempre di ‘comprensione’ che ha giovato sia all’Unione europea sia all’alleanza atlantica. Il ruolo di ponte dell’Ita – lia è stato un elemento di forza e non di debolezza, per il nostro paese e per i nostri alleati. E questo è dipeso dal fatto che, malgrado ci fossero rapporti economici e di ascolto con i blocchi contrapposti, l’Italia non si sia mai confusa sulla sua natura e sulla sua posizione strategica. Abbiamo sempre saputo chi eravamo ‘noi’ e chi erano gli ‘altri’. Ecco, una cosa del genere si può fare anche con la Cina, oggi. Ma si tratta di un processo che andrebbe portato avanti all’interno di una visione che sia condivisa e comunicata ai partner occidentali. Guardi, la questione è molto seria. I cinesi intendono la Via della Seta come una specie di piano Marshall. Solo che noi non condividiamo gli stessi principi dei cinesi, e i cinesi non condividono i nostri principi di libertà civile ed economica. Quindi qualche preoccupazione sorge. L’Italia non deve perdere l’occasione di diventare una ‘nazione ponte’. Solo che il ponte non deve essere il luogo da dove passano poi le armate che vengono a colonizzare l’Europa”. Geraci e la regola diplomatica La colonizzazione è metaforica, ma neanche troppo. “Vede”, riprende Urso, “l’inter – connessione moderna si dipana su tre linee, sulle quali bisogna assolutamente vigilare: il trasporto delle merci, le telecomunicazioni con tecnologia 5G, e le reti di vendita online. Per quanto riguarda il trasporto merci, è evidente che chi ha le chiavi del casello autostradale poi può bloccare l’intero paese. Quindi bisogna porsi il problema di non cedere il controllo delle infrastrutture. Per quanto riguarda il 5G, anche qui è fondamentale il controllo, perché dalla rete 5G passano tutti i dati. E chi ha i dati ha in mano la sicurezza nazionale. E a questo proposito bisogna tener conto del fatto che, secondo la legge cinese, istituzioni, cittadini e aziende, anche quelle private, sono tutti obbligati per legge a condividere con i servizi segreti, se richieste, tutte le informazioni considerate di interesse nazionale. Chiaro, no? S’immagina cosa significherebbe l’orecchio cinese dentro l’in – frastruttura delle telecomunicazioni italiane? Infine non bisogna sottovalutare la questione del commercio online. E’ vero che Alibaba, cioè l’Amazon cinese, si prepara a lanciare una rete di vendita in Europa? E cosa succederebbe se questo accadesse? Già sappiamo cosa c’è costato perdere la grande distribuzione in Italia a vantaggio dei francesi. Ma con l’economia online, con la distribuzione via posta, porta a porta, potremmo essere sommersi dai prodotti cinesi. Con rischi evidenti dal punto di vista della competitività delle nostre imprese, dal punto di vista dell’elusione fiscale, e anche dal punto di vista della sicurezza perché diventerebbe difficile controllare che i prodotti venduti dal distributore cinese abbiano standard qualitativi e sanitari di tipo occidentale”. Cosa ci sia scritto nell’accordo tra Italia e Cina non lo sa nessuno. “Ma pare che, pian piano, si stia svuotando di affermazioni politiche impegnative che documenti simili, firmati da altri paesi con la Cina, invece contenevano. E mi pare che anche il tema delle telecomunicazioni stia saltando. Però ci sono anche altri 40 o 50 accordi collaterali di cui nulla sappiamo. La verità è che tutta questa faccenda è stata affrontata con grandissima superficialità, con tutti questi viaggi in Cina di membri del governo”. Luigi Di Maio. Ma soprattutto il sottosegretario Michele Geraci. “Non voglio esprimermi su Geraci”, dice Urso. Poi: “Le dico solo questo. Esiste una regola assoluta che vale per i diplomatici. Non devono stare troppo a lungo in un paese. Non più di quattro anni. Vi siete mai chiesti il perché?”.

 

*Salvatore Merlo, giornalista. Riproduciamo la sua intervista ad Adolfo Urso per Il Foglio