Urso: Orban vince su immigrazione ed economia

Le grandi manovre in vista del prossimo Parlamento europeo hanno già una scadenza importante, quella del 20 marzo quando l’assemblea del Ppe dovrà decidere se espellere Fidesz, il partito del premier ungherese Viktor Orban, per il suo palese attacco alla politica della Commissione Europea guidata da Junker, anche lui popolare. Orban potrebbe unirsi all’Ecr, il gruppo dei Conservatori e riformisti di cui fanno già parte il partito del premier polacco, Jaroslaw Kaczynski, e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Adolfo Urso, senatore di FdI, è appena tornato da incontri avuti a Budapest con il presidente del Parlamento Röver Laszló, il ministro degli Affari Europei, Szabolcs Takäcs e il presidente della Fondazione Századveg, il principale think thank sovranista d’Europa.

 

Senatore Urso, gli ungheresi hanno già deciso di uscire dal Ppe o ci sono margini di trattativa?

Loro non vogliono cedere assolutamente e daranno battaglia fino alla fine. Nel frattempo stanno preparando un’alternativa, in modo trasparente, ragionando sull’ingresso nel gruppo Ecr che, con l’uscita di conservatori inglesi, è oggi guidato dai polacchi. L’accusa all’Unione europea è di non aver difeso i confini esterni e Orban spesso ha detto che l’Italia è stata lasciata sola.

 

Anche lei ha detto che il Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania rischia di far esplodere l’Unione.

Anche su questo ci siamo trovati pienamente d’accordo. Anche loro pensano che francesi e tedeschi vogliono dominare l’Europa che invece deve tornare a essere l’Europa dei popoli e degli Stati, e accusano la Commissione europea di comportarsi come se fosse un altro Stato alleato di Berlino e Parigi. Anche noi di Fratelli d’Italia siamo d’accordo sul fatto che bisogna tornare all’Europa delle origini, quella fondata con i Trattati di Roma da Germania, Francia e Italia che allora erano in posizioni paritarie. Serve una alleanza tra le Nazioni dell’Europa centrale, oggi raccolte in Visegrad e le nazioni dell’Europa mediterranea, con Italia in prima fila, per riequilibrare il predominio tedesco e, sui temi culturali, quello dei Paesi scandinavi e del Benelux che hanno trasformato l’Unione in una scatola vuota. Il vulnus nasce quando la Convention di Parigi rifiutò di affermare le radici giudaico cristiane d’Europa.

 

La Lega alla fine aderirà a questo blocco sovranista?

È possibile che ciò avvenga, peraltro Matteo Salvini e già stato a Varsavia, ma il disegno riguarda anche partiti di altri Paesi come gli spagnoli di Vox e i francesi di Nicolas Dupont-Aignan.

 

Alle elezioni, dunque, si scontreranno due visioni opposte di Europa: quella franco-tedesca e quella dei partiti di destra sovranista.

Si, certamente. Sarà una contrapposizione sul futuro dell’Europa tra chi ha una visione burocratica dell’Unione funzionale alla Grande Germania e chi ritiene, invece, che occorre riaffermare l’Europa dei valori, casa comune delle Nazioni. Nel contempo, si rafforza l’asse occidentale, come ha dimostrato l’intervento di Giorgia Meloni a Washington, insieme a Ronald Trump, alla Cpac, la grande convention dei conservatori statunitensi. Non è solo un tema europeo, ma globale. E Fratelli d’Italia si trova nella principale famiglia della destra occidentale.

 

Silvio Berlusconi difende Orban e lo invita a non uscire dal Ppe. In chiave di voto italiano alle elezioni europee, alla fine passerà un messaggio basato sui valori di chi vuole difendere il Ppe o quello più rigido dei sovranisti?

Nel Partito popolare Orban è difeso dagli italiani e dagli spagnoli che vorrebbero spezzare anch’essi l’alleanza con i socialisti; ancora una volta, però, la decisione è nelle mani dei tedeschi. Nell’Italia di oggi e in gran parte d’Europa, c’è più appeal verso la destra di governo sovranista, che difende la cultura e la civiltà cristiana e occidentale, piuttosto che la vecchia immagine del Ppe, subordinato al predominio francese e tedesco che ha snaturato l’Unione.

 

Il tema dell’immigrazione sarà ancora una volta decisivo? Orban ha difeso l’Italia, ma non ha mai accettato le quote di immigrati da ricollocare.

Le elezioni si decideranno su due temi: immigrazione e sicurezza da un lato, economia dall’altro. In entrambi, il modello di Orban appare vincente: l’Ungheria ha difeso la frontiera terrestre dell’Unione, così come l’Italia sta difendendo la frontiera mediterranea, in ogni caso nell’assenza dell’Unione. Ancora più evidente, il successo della politica economica di Orban, in questo caso davvero incontestato: l’Ungheria segna il tasso di crescita più elevato d’Europa, con la stessa ricetta che era nel nostro programma elettorale, purtroppo dimenticato dalla Lega quanto sottoscrisse il suo Contratto di governo: flat tax al 15 per cento; tassa massima su impresa 9 per cento, se reinveste gli utili solo il 4,5; la disoccupazione è sotto al 4 per cento, cioè sotto alla soglia fisiologica, e quindi la piena occupazione è già raggiunta; il reddito ungherese aumenta del 10 per cento l’anno: c’è una forte politica di sostegno alle famiglie e alla natalità. Il Sole 24 ore ha appena scritto che un’impresa italiana al giorno va in Ungheria. Mentre noi siamo in recessione quello è il modello che funziona: l’economia sarà un tema più importante dell’immigrazione. Anche Salvini dovrà rivedere i suoi conti.

 

*Intervista di Stefano Vespa con Adolfo Urso pubblicata su Formiche

In Ungheria, per una nuova alleanza europea

Ritorno a Budapest dopo il meeting di un anno fa, con Giorgia Meloni e Victor Orban. Allora, a fine febbraio, eravamo in campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento nazionale sia in Italia che in Ungheria; in entrambi i Paesi ha poi vinto il centrodestra ma mentre a Budapest il presidente Orban ha potuto realizzare i suoi impegni con gli elettori, in Italia i meccanismi perversi della legge elettorale hanno prodotto una strana alleanza tra forze che avevano presentato programmi diversi e contrastanti con i propri elettori e i risultati purtroppo si riscontrano nella convulsa azione del governo, spesso appunto contradittoria.
Anche stavolta siamo in un clima preelettorale in entrambi i Paesi ma per il rinnovo del comune Parlamento europeo che sarà realizzato nell’ultima domenica di maggio.
La situazione è molto diversa da allora per quanto riguarda le nostre forze politiche. Fidesz è sotto processo nel Partito popolare per azione dei gruppi di riferimento dei paesi nordici e dei lussemburghesi di Juncker, azione che stavolta potrebbe andare in porto, malgrado le resistenze di spagnoli e italiani e la riluttanza dei tedeschi che non vogliono perdere il supporto dei dodici decisivi parlamentari ungheresi per i successivi equilibri nei poteri dell’Unione.
Fratelli d’Italia, invece, è riuscita a raggiungere una importante collocazione nel gruppo e nella Alleanza dei conservatori e riformisti, in pratica nella famiglia dei conservatori che governano buona parte dell’Occidente, come dimostra anche il prestigioso intervento di Giorgia Meloni a Washington, al fianco di Donald Trump. Peraltro, buona parte degli osservatori ritengono che nel prossimo Parlamento Europeo, proprio questo gruppo sarà decisivo nella concreta ipotesi che nasca una nuova alleanza tra popolari e sovranisti, che emargini del tutto i socialisti realizzando così una svolta storica nella politica della istituzioni europee. Il gruppo Conservatori e riformisti, fondato dagli inglesi, vede già al suo interno i partiti di centrodestra degli altri paesi di Visegrad, a partire dai polacchi, che prenderanno le redini del gruppo dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, cechi, slovacchi, ma anche francesi di tradizione gollista, gli spagnoli del nuovo partito di destra Vox, astro nascente della politica iberica, e tante altre forze di governo della Unione.
Se gli ungheresi di Fidesz dovessero decidere di aderire anch’essi al gruppo Conservatori e riformisti si creerebbe un blocco omogeneo per cambiare a fondo gli equilibri europei imponendo ai Popolari una intesa di centrodestra, su basi solide e durature, tale da imprimere una nuova politica europea sui temi della difesa e della sicurezza ma anche della natalità e della crescita, quindi degli investimenti e dello sviluppo.
Di questo abbiamo spesso parlato con i nostri interlocutori, sia nei meeting politici e culturali svolti a Budapest nella giornata del 28 febbraio dello scorso anno con Victor Orban e Giorgia Meloni, sia nel meeting successivo svoltosi a Roma il 9 novembre su iniziativa di Farefuturo, in occasione del ventennale della caduta del Muro di Berlino ed a cui parteciparono con la fondazione ungherese anche altre fondazioni dei Paesi di Visegrad.
L’Incontro tra le nostre Fondazioni si svolgerà nel pomeriggio di venerdì 8 marzo nella sede di Szàzadveg a Budapest a margine della missione della delegazione della Associazione di parlamentare Italia-Ungheria che ho promosso e a cui hanno aderito oltre settanta parlamentari di tutti i gruppi politici, dieci dei quali parteciperanno appunto alla missione.
La nostra delegazione incontrerà il presidente del Parlamento Käver László, e avrà un meeting con i numerosi parlamentari ungheresi che hanno aderito alla Associazione parlamentare Ungheria Italia, presieduta da Istvan Hiller, già ministro della Cultura. Sono previsti anche incontri a livello di Governo con Magyar Levente, viceministro per gli Affari e il Commercio Esteri, e Szabolcs Takacs, Segretario di Stato presso la Presidenza del Consiglio, responsabile per i Rapporti e collaborazione con le politiche europee.
La delegazione, inoltre, incontrerà la numerosa e sempre più influente comunità imprenditoriale italiana in un evento organizzato dalla ambasciata d’Italia.
Anche questa missione parlamentare, ovviamente istituzionale e “neutrale” sul piano politico, può comunque contribuire a sfatare luoghi comuni e ad accrescere la reciproca conoscenza della attivita legislativa dei rispettivi Parlamenti, consolidare i rapporti istituzionali, culturali e politici tanto più importanti in questa fase critica della storia della comune casa europea che necessita, oggi più che mai, di adeguate riforme consacrate dagli elettori. Europa dei popoli, appunto, e delle Nazioni.

*Adolfo Urso, senatore FdI

Non populisti al passo coi tempi ma sovranisti con le idee a posto

Dalla “nuova Europa” che si candida con l’agenda di Visegrad a riformare la patria comunitaria alla definizione della vera sfida che si rivela sempre più plastica, giorno dopo giorno: quella tra il sovranismo e populismo. Tutto questo imparando davvero a tutelare l’interesse nazionale nell’era post-globale, con un occhio attento alla definizione del ruolo del leader nella stagione del ritorno della “decisione”. E se i governi in democrazia passano, il ruolo dello Stato resta: nel quadro di indirizzo nella tutela della libertà dell’impresa e nella promozione dell’umanesimo del lavoro così come in quello della promozione del capitale culturale che è la cifra della nostra identità. Ma ciò sarebbe inutile senza l’investimento più importante: quello sulla natalità, sugli italiani di domani. È questa la parafrasi dei “titoli” degli incontri che hanno caratterizzato il corso di studi – un vero e proprio master politico – che Farefuturo ha organizzato in questo autunno di lotta per la definizione del ruolo che l’Italia deve tornare ad avere in vista della sfida delle elezioni Europee di maggio.
Un’esperienza che ha visto Roma – la fondazione Alleanza Nazionale e le aule parlamentari – come laboratorio di buona politica per formare non demagoghi al passo coi tempi ma sovranisti con le idee a posto. La scelta di mettere sul tavolo una vera e proprio scuola di formazione sul tema – che si concluderà venerdì con l’incontro tra Giorgia Meloni e il sottosegretario Giancarlo Giorgetti – è frutto di quella che abbiamo considerato una vera e propria “emergenza” in vista della cruciale sfida di maggio: la necessità di contribuire all’offerta politica che le forze politiche identitarie, Fratelli d’Italia in primis,si impegnano meritoriamente a proporre contro l’agenzia di “distrazione di massa”, rappresentata dai media e dai network dell’establishment.
Non poteva che essere così, del resto, dinanzi alla confusione generata a sua volta dall’alleanza di governo che ha mischiato le carte, con il rischio di annacquare e banalizzare la grande richiesta di sovranità che accomuna i popoli europei, e non solo, contro la “matrigna” Ue. Farefuturo da parte sua lo ha ripetuto più volte in queste ultime settimane: il sovranismo è in linea con la vocazione futurista della tradizione italiana. Il politico sovranista pensa alla Nazione e non solo alla presente generazione, investe sulla natalità e sulla crescita non solo del Pil ma dell’intera comunità nazionale che opera. Dall’altro lato, in una frattura che anche la manovra economica evidenzia ad occhio nudo, il populismo – di cui i 5 Stelle sono campioni europei – rischia, eccome, di degenerare nel presentismo, consuma ogni cosa senza pensare a chi verrà dopo. Un esempio su tutti? Il reddito di cittadinanza, una misura anti-storica dinanzi alla richiesta di sviluppo, di mezzi per competere alla pari con gli altri e non di sussidi, che arriva proprio dal Mezzogiorno.  E allora se la scelta di una proposta organizzata e sovranista ha in Viktor Orban un terminale e un termine di paragone (basti vedere quanto cresce l’Ungheria), ciò che accade in Sudamerica, nel Venezuela di Maduro, è esemplificativo dei frutti già a medio termine del populismo, fine solo alla casta di governo.
Ecco perché l’idea di un corso di studi che investe sull’indicazione di una generazione di giovani sovranisti, propedeutico oltretutto a un programma di ricerca europeo (“La crescita felice: natalità e investimenti”) che Farefuturo sta svolgendo con altre fondazioni di centrodestra dei Paesi di Visegrad, è un tassello fondamentale per riattivare quel meccanismo di promozione della classe dirigente che da sempre rappresenta il fiore all’occhiello della destra italiana. Che poi tutto ciò sia una necessità assoluta per l’intera nazione non può che costringerci, a maggior ragione, a farci trovare pronti all’appello.

*Adolfo Urso, senatore Fdi

Un nuovo dinamismo per il sistema europeo

“Vorrei ringraziare l’Ambasciatore, Ministro Giulio Terzi, mio caro amico, che mi ha coinvolto come relatore nello svolgimento e organizzazione di questo meeting.
Questo meeting per noi di Farefuturo arriva in un momento di riflessione che come fondazione stiamo facendo e di cui accennerò fra poco; in un anno decisivo per la nostra Europa che vedrà un’importante elezione del Parlamento europeo nel prossimo mese di maggio, sicuramente la più importante dalla sua costituzione.
È il mio terzo intervento oggi su questo argomento; sono intervenuto in aula nel dibattito aperto dal Presidente del Consiglio Conte al Senato sulle prospettive e obiettivi del prossimo Consiglio europeo e sono intervenuto oggi pomeriggio in Commissione esteri a fronte dell’audizione dell’ambasciatore della federazione Russa, nel quadro dei rapporti tra l’Italia, l’UE e la Russia, anche alla luce delle sanzioni che l’Europa ha messo su indicazione e stimolo del nostro alleato, gli Stati Uniti.
Il fatto stesso che sia costretto, in questo caso compiaciuto ad un terzo intervento, dimostra cosa sia l’Europa per noi italiani a fronte di quello che in questo libro è evidenziato, a fronte cioè della crisi della UE che si manifesta in tante competizioni elettorali ma anche nella paralisi delle istituzioni.
Oggi ho fatto notare al Presidente del Consiglio Conte che i proponimenti e le decisioni prese quattro mesi fa nel precedente Consiglio europeo non sono stati realizzati nei quattro mesi successivi, sia quelli che dovevano essere realizzati dall’UE sia quelli che dovevano essere realizzati dai singoli Stati, compreso l’Italia; ne deriva quindi la paralisi delle istituzioni come denunciato anche in questo volume, in cui la parte centrale credo di individuarla nella richiesta di tornare alle radici della nostra comunità europea che fu sancita qui a Roma con i Trattati di Roma; tornare alle origini; potrei chiamarla se vogliamo con il nome di una città polacca, tornare allo spirito di Cracovia.
Chi visita Cracovia, capisce cosa significa lo spirito europeo; lo si comprende dalla musica, dall’architettura, dall’atmosfera che vi è in quella città. Lo spirito di Cracovia che poi è in realtà proprio alle origini dell’UE ci dice qual è il fondamento della questione europea che nel libro viene evidenziata laddove si considera l’UE di oggi, giustamente, come uno spazio politico vuoto, neutrale da riempire. Lo spazio europeo culla della civiltà e delle libertà degli individui, dei popoli e delle imprese, può essere concepito come uno spazio politico vuoto da riempire? Se l’Europa è questo, chi può vantare il diritto a riempire questo spazio? La Russia? La Cina? L’Africa? Le Americhe? Se l’Europa rinuncia a dare un’anima e una missione politica, vi rinuncia di fatto l’umanità.
Noi crediamo che questo sia irrinunciabile. Perché questa è l’essenza dell’Europa!
L’Autore riconosce che l’Unione Europea debba essere una specifica comunità politica e non uno spazio neutrale da riempire, ma una specifica comunità politica fondata certamente sulle differenziazioni nazionali ma legata da una identità basata sui valori di una triplice, plurisecolare e millenaria filosofia greca, diritto romano e cristianesimo.
Il punto di fondo oppure il discrimine in cui l’Europa ha imboccato il bivio della neutralità è il rifiuto di mettere a fondamento della Nuova Europa, le radici giudaico-cristiane. Da quel momento l’Europa prende la via dell’anonimato, della neutralità del vuoto e si perde. Ecco perché bisogna tornare a quel punto, riprenderlo per rifondare l’Europa. Con la Fondazione Farefuturo, il 9 novembre, non a caso, facciamo un meeting il cui titolo provocatorio sarà “ La nuova Europa rifonda l’Europa?” dove per Nuova Europa s’intende ovviamente l’Europa che è entrata dopo la caduta del Muro di Berlino nella nostra Unione, cambiandone i connotati e anche le priorità. Per Nuova Europa intendiamo anche, ovviamente,  il nucleo dei Paesi di Visegrad; infatti al meeting abbiamo invitato a partecipare le Fondazioni dell’Ungheria, della Repubblica Ceca, della Slovacchia e della Polonia. Lo dico al Ministro Szczerski: le prime tre hanno aderito, la quarta siamo in attesa di adesione. Quindi la sollecito a stimolare la fondazione polacca a partecipare al meeting e al progetto che ne nascerà.
Un progetto di ricerca comune che poi presenteremo a marzo qui a Roma e che affronterà l’altro aspetto dell’Europa; i Paesi di Visegrad e oggi l’Italia sono sotto accusa da altri perché hanno fatto una politica sull’immigrazione abbastanza ferma. Questo è solo un aspetto della questione, la tutela dell’identità. L’altro aspetto che si sottovaluta, che è per me fondamentale e che esamineremo nel rapporto di ricerca, è la crescita felice che si contrappone alla decrescita. Il titolo infatti del Rapporto di ricerca è “ La crescita felice: natalità e investimento” cioè sviluppo.
La crescita felice avviene attraverso una politica per la natalità e una politica per lo sviluppo e se vogliamo è l’altra faccia della politica dei Paesi di Visegrad che noi vogliamo portare ad esempio e confrontarci con essi. Occorre farlo perché l’Europa che ha fondato la Comunità Europea con i Trattati di Roma non esiste più da quando ha rinunciato alle radici giudaico-cristiane e quando la Germania è diventata troppo potente. Gli Stati fondatori allora erano sostanzialmente tre: la Germania occidentale, la Francia e l’Italia che erano Paesi della stessa dimensione demografica, politica e soprattutto della stessa dimensione economica, oltre a tre Stati considerati cuscinetto: Lussemburgo, Olanda e Belgio. Quando uno di questi tre Stati principali con la riunificazione del 9 novembre diventa troppo grande e troppo potente,squilibra l’Europa. Non c’è più equilibrio e pari dignità tra Stati europei.
Cito uno statista importante del nostro Paese che aveva battute forse un po’ troppo ciniche ma perfette in questo campo, Giulio Andreotti, il quale al momento della caduta del Muro disse di amare tanto la Germania e i tedeschi ma di preferire proprio per questo due Germanie. Naturalmente non siamo a questo punto ma è per capire qual è il problema.
Quindi c’è bisogno di rifondare l’Europa sulle identità, sulle libertà, sulla pari dignità tra Stati e su un comune sentire europeo. La strada da percorrere è difficile ma assolutamente necessaria rispetto al contesto globale in cui ci troviamo con nuove potenze che si affacciano predominanti nell’economia, nella scienza e non mi riferisco soltanto alla Cina; mi riferisco anche alla minaccia delle multinazionali che si sono appropriate della conoscenza del mondo.
Quattro società di cui non si conosce a fondo la proprietà, possiedono il 90% della conoscenza del mondo ed ogni anno acquisiscono ed aggiungono a quanto già hanno conoscenze pari a quello che l’umanità ha creato dalla preistoria ad oggi. Il problema è fondamentale e pone in campo quello che viene chiamato sovranismo che non è affatto populismo.
Il sovranismo è riappropriarsi della sovranità politica di decidere la sovranità degli Stati, delle Nazioni, dei Popoli per evitare che si possa essere espropriati delle proprie libertà, della propria conoscenza. A tal proposito faccio presente un aspetto di cui nessuno si è accorto in Italia e in Europa. Sono gli Accordi commerciali. C’è stata una rivoluzione qualche giorno fa; è il nuovo Accordo commerciale che Trump ha imposto al posto della vecchia NAFTA al Canada e al Messico. Perché è una rivoluzione? Perché per la prima volta viene sancito in modo chiaro in un accordo commerciale, il principio del dumping sociale. Fino ad oggi noi distinguiamo gli accordi commerciali da quelli inerenti all’organizzazione per esempio del lavoro o degli accordi commerciali. Tutti aspetti e piani separati. Per la prima volta Trump ha imposto che il Messico realizzi al suo interno una legislazione per tutelare il diritto sindacale, il minimo salariale e sanzioni precise ove ciò non accadesse. Ciò comporta due effetti: il primo, che le imprese e quindi i lavoratori americani non subiscano una concorrenza sleale dovuta al dumping sociale e a quello ambientale con il Messico. Mi auguro che l’Europa faccia altrettanto, perché questo è fondamentale per tutelare la competitività delle imprese e del lavoro. Secondo, perché si esportano i diritti ambientali, sociali attraverso l’Accordo commerciale.
Io mi auguro che su questo si possa fare un grande lavoro con i Paesi della Nuova Europa perché l’Italia che è un Paese fondatore può contribuire insieme agli altri a rifondare la nostra Europa, altrimenti saremo atomi dispersi nella nullità di un continente europeo che diventerà soltanto una società di pensionati dove andranno a svernare i pensionati di altri continenti”.

Intervento del presidente Adolfo Urso alla presentazione del libro di Krzysztof Szczerski “Il nuovo dinamismo per il sistema europeo”

*Adolfo Urso, senatore FdI

La nuova Europa rifonda l’Europa?

Giornata di apertura del Corso della fondazione Farefuturo per formare i “sovranisti” con un meeting sul futuro dell’Europa in occasione dell’anniversario della caduta del Muro di Berlino. Al meeting dal titolo “La nuova Europa rifonda l’Europa?” hanno partecipato Adolfo Urso, presidente di Farefuturo e senatore di Fratelli d’Italia, Giampaolo Rossi, consigliere di amministrazione Rai, Giuseppe Valentino, presidente Fondazione Alleanza Nazionale ed i rappresentanti delle Fondazioni dei Paesi di Visegrad: Peter Markovic, Center for open Policy (Slovacchia), Dávid Szabó, Szazadveg Politikai Iskola Alapitvany (Ungheria) e Miroslava Vitaskova, Institute of Politics and Society ( Rep. Ceca ). Ha coordinato i lavori il giornalista Antonio Rapisarda.
Il Master ha come tema “Sovranismo vs Populismo” e intende analizzare le differenze culturali e politiche tra sovranismo e populismo “nella convinzione – ha affermato Urso – che non siano affatto la stessa cosa, il sovranismo è futurismo, il populismo è presentismo”.
Farefuturo collabora con le altre Fondazioni dei Paesi di Visegrad ad un progetto di ricerca sul tema “La crescita felice: natalità e investimenti” che sarà presentato in un meeting internazionale al fine di porre le basi di un comune progetto di riforma della Unione anche in vista delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo e della Commissione Europea. Le basi ulteriori sono ben rappresentate dal Manifesto di Parigi presentato da Roger Scruton
Al master partecipano cento studenti, tra i docenti: storici, economisti, diplomatici, giornalisti, parlamentari.

L’Italia è la più euroscettica

L’Italia è il Paese più euroscettico dell’Unione europea: questo è il dato del rapporto Eurobarometro “Un anno prima delle elezioni europee del 2019” che ha maggiormente sorpreso gli analisti. Se nel nostro Paese si svolgesse un referendum per la Italexit, solo il 44% voterebbe per rimanere nell’Unione, il 24% vorrebbe uscirne e il 32% si dichiara indeciso. Tra gli europei solo il 17% si dice favorevole all’uscita. In verità, non v’è nulla di cui essere sbalorditi: l’Italia, già da diversi anni, è uno dei Paesi dove si è maggiormente diffuso un sentimento di disaffezione, quasi di rancore, verso l’Unione europea. Eppure, un’indagine condotta nel 1998 dalla Fondazione Nord Est, mostrava come gli Italiani fossero un popolo convintamente europeista, anzi il più europeista: ben il 73%, infatti, dichiarava di avere fiducia nell’Europa e nelle sue istituzioni; più di spagnoli (60%), francesi (57%), tedeschi (42%) e britannici (40%). Un entusiasmo confermato anche dal referendum di indirizzo del 18 giugno 1989, con il quale ben l’88,03% degli Italiani conferiva al Parlamento europeo un mandato per redigere un progetto di Costituzione europea.

L’introduzione dell’euro è stata accompagnata dal medesimo ottimismo: la moneta unica era considerata un’occasione di riscatto e un’opportunità di benessere, ma dalla fine del 2002 iniziava già a intravedersi la fine della luna di miele tra gli Italiani e l’Unione. Nel 2003, la percentuale di coloro che ritengono l’euro un vantaggio senza se e senza ma scendeva dal 23 al 7; al contrario, quella di coloro che lo ritenevano una complicazione ingiustificata sale dal 16 al 45. Il successivo scoppio della crisi economica ha fatto tracimare il malcontento: quale sia l’istituto di rilevazione scelto, le indagini demoscopiche mostrano che la fiducia nell’Europa è precipitata. Per Demopolis, la parabola discendente è lenta e inesorabile: si passa dal 51% del 2006, al 48% del 2010, al 41% del 2012, sino al definitivo crollo del 2014 (32%) e del 2015 (27%). Per SWG, il gradimento degli italiani verso le istituzioni europee passa dal 55% del 2010 al 38% del 2017. Il risultato non cambia: eravamo il Paese più europeista, oggi siamo tra i più euro-scettici. Quali sono i motivi che hanno portato a questo cambio di rotta?

La risposta più facile e scontata è attribuire ai partiti “populisti” la responsabilità di questo progressivo crollo di consensi verso l’Unione europea. Tuttavia, molti analisti sembrano avere la memoria corta. Prendendo il già citato 2002 come anno di riferimento per l’inizio del sentiment euroscettico, occorre sottolineare che in quel periodo di partiti “populisti” non v’era traccia: il Movimento 5 Stelle non era ancora stato fondato e la Lega – allora accompagnata ancora dal suffisso Nord – attraversava una delle fasi più critiche della sua storia, con un consenso di poco inferiore al 4%. Questo dimostra come spesso si scambino le cause con gli effetti: la crisi dei partiti tradizionali e l’avanzata di nuove forze politiche – nelle quali, secondo Eurobarometro, gli Italiani ripongono una fiducia superiore alla media europea – è l’effetto, non la causa dell’euroscetticismo. Allargando la prospettiva, infatti, è possibile leggere negli altri dati i veri fattori che hanno condizionato il cambio di rotta. Il 65% si dichiara favorevole all’euro, ma solo il 41% è soddisfatto del modo in cui la democrazia funziona nell’UE; il 59% individua la mancanza di fiducia nel sistema politico una delle cause principali del non voto alle prossime elezioni europee e solo il 30% ritiene che la propria voce abbia un peso nell’UE. Alcuni economisti si sono divertiti a ironizzare sull’ignoranza – manco a dirlo, il solito popolo primitivo – degli Italiani, che cadono in contraddizione abbozzando l’Italexit ma mantenendo la moneta unica. Non v’è alcun paradosso: basterebbe, senza presunzione, leggere tra le righe.

Gli Italiani, lungi dall’essere ignoranti, sono pienamente consapevoli che per il nostro Paese sarebbe molto pericoloso abbandonare, di punto in bianco, l’euro. Il vero malcontento si indirizza, dunque, verso il sistema istituzionale dell’Unione europea, che da molto tempo è preda di una profonda crisi di legittimità. Tale crisi, giova ripeterlo, non è stata provocata da dai “populisti”, né dai tanti temuti “sovranisti” di Visegrád. E ha una data ben precisa: 2 giugno 1992, ovvero il giorno in cui il 50,7% dei Danesi bocciò la ratifica del Trattato di Maastricht. Si trattò del primo, fragoroso “stop” dei cittadini europei al processo di integrazione: il primo avvertimento popolare recapitato a Bruxelles. Inutile, ora, lamentarsi dell’euroscetticismo, che continuerà a crescere sino a quando non si deciderà di superare questa Unione.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Il ritratto. Macron, il volto ipocrita (e perdente) dell’europeismo

«Coloro che credevano nell’avvento di un popolo globalizzato si sono profondamente sbagliati. In tutto il mondo è tornata l’identità profonda dei popoli. E questa in fondo è una cosa positiva». No, non è un post di Matteo Salvini. Né una bellicosa dichiarazione di Viktor Orban o una citazione estratta dall’ultimo libro di qualche ideologo “populista”. Si tratta di un recente tweet di Monsieur le Président, Emmanuel Macron, la cui parabola discendente ricorda ormai molto da vicino quella di Matteo Renzi. A sedici mesi dall’elezione, il giovane inquilino dell’Eliseo deve fare i conti con un crollo dei consensi che ha del clamoroso se paragonato al trionfo delle Presidenziali e delle legislative. L’operato del leader de La République en Marche! raccoglie il 60% di giudizi negativi e solo il 19% di positivi tra i francesi. Il 75% lo ritiene “lontano dai cittadini” e “amico dei ricchi”, l’84% lo considera “arrogante”: un aspetto, quest’ultimo, che trova riscontro anche nel 66% degli elettori che ha votato per il partito del presidente. Ancora più significativi altri due dati: per il 74% dei francesi, il metodo governativo di Macron è troppo solitario e personalistico, e solo il 34% approva il suo operato.

Questa débâcle non è certo colpa dei “populisti”, ma di una serie di errori e di promesse disattese, conditi da un’evidente dose di dilettantismo. Negli affari interni, gli sbagli sono stati numerosi. Si va dalla decisione di annunciare alla stampa importanti tagli al bilancio della Difesa senza nemmeno informare preventivamente il Capo di Stato maggiore – che si è dimesso –, al discutibile piano di recupero delle disastrate banlieue nel quale non sono stati recepite molte delle indicazioni del rapporto stilato dall’ex ministro Jean-Louis Borloo. Incalzato dalla perdita di consensi e dalle perplessità sollevate dai media, Macron ha da poco varato una maxi-manovra finanziaria che sta facendo molto discutere e assomiglia ad una sorta di all-in. Nel momento in cui, in Italia, cassandre e apprendisti stregoni invocano il potere dello spread per punire l’aumento del rapporto deficit/PIL al 2,4%, la Francia – sì, meno indebitata, ma con prospettive di crescita sotto le previsioni e con molte ombre in un’economia florida solo in apparenza – arriva al 2,8%, per finanziare quello che è stato presentato come “il più grande taglio di tasse per le famiglie dal 2008”, ma che porta con sè l’ennesimo aumento delle accise sui carburanti e sul tabacco. Senza dimenticare che il paladino del liberalismo non si è fatto scrupoli nel nazionalizzare i cantieri STX pur di non farli cadere nelle mani di Fincantieri che li aveva legittimamente acquisiti.

È in politica estera, infatti, che l’enfant prodige sta dando il peggio di sè. Macron è, di fatto, il volto ipocrita dell’europeismo. Auto-incoronatosi leader di un fantomatico fronte europeo progressista che dovrebbe riunire tutte le forze continentali alternative alla “minaccia populista”, in pochi mesi è riuscito nell’impresa di inimicarsi pressoché tutte le opinioni pubbliche europee e, anzi, di rendere ancora più compatto il blocco delle formazioni sovraniste. La lunga e fantasiosa lista di riforme della governance europea – tra le quali un assurdo doppione dell’euro-parlamento riservato solo ai Paesi aderenti alla moneta unica – è stata frettolosamente accantonata. Il tanto sbandierato piano di rilancio dell’Unione da scrivere insieme alla Germania si è risolto in un nulla di fatto, limitandosi a riproporre il solito direttorio degli affari correnti Parigi-Berlino, aggravato da un corollario di dichiarazioni quanto mai irrispettose e arroganti nei confronti degli altri membri dell’Unione, in particolare verso il gruppo di Visegrád.

Inoltre, come noto, Macron è più volte entrato in polemica con il nostro Paese in merito alla gestione dei migranti. Il presidente francese, che non ha esitato ad usare il manganello a Ventimiglia affinché donne e bambini non passassero il confine italiano, si permette di dare quotidiane lezioni di bon-ton e di open borders all’Italia, che Parigi considera il porto franco del continente, come dimostra la decisione di chiudere il porto di Marsiglia alla nave Aquarius. L’europeismo di Macron è funzionale solo ai suoi interessi di breve e lungo periodo: il più grande nemico della stabilità del continente non sono i sovranisti, ma questi nani della politica che si nascondono dietro la bandiera europea per celare i bluff della propria inconsistente azione politica. A Macron, in evidente difficoltà, non resta che twittare come un sovranista – con conseguenze comiche – per cercare di intercettare qualche voto occasionale, o tutt’al più piangere lacrime di coccodrillo davanti alle telecamere. «Capisco la vostra impazienza, ma le cose non possono migliorare da un giorno all’altro. Ho bisogno di voi, giornalisti, popolazione, eletti per spiegare l’azione dell’esecutivo. Aiutatemi!» Fortunatamente le elezioni europee si avvicinano: l’occasione è propizia per ridimensionare la grandeur di questo improbabile Napoleone.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

L’Europa modello Orban? E’ possibile: confederale e con Stati forti

«Ventisette anni fa qui in Europa Centrale pensavamo che l’Europa fosse il nostro futuro, ora sentiamo di essere noi il futuro dell’Europa». Queste parole-manifesto, pronunciate per la prima volta da Viktor Orbàn, appena rieletto a furor di popolo premier del governo in ungherese, sono state riprese ieri da Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia e presidente della Fondazione Farefuturo, come incipit del seminario di studi “La Nostra Europa e l’Ungheria di Orbàn”, tenutosi presso la Sala della Commissione Finanze della Camera dei Deputati. Le parole del premier ungherese, oltre ad aprire il seminario, sono state, senza dubbio, la “cornice” della riunione, all’interno della quale le due relazioni di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, e dell’Ambasciatore di Ungheria in Italia, Adam Zoltan Kovacs, hanno rappresentato il “secondo mattone” dopo l’importante incontro tenuto a Budapest con Orban pochi giorni prima le elezioni italiane ed ungheresi. Alla tavola rotonda hanno preso parte – introdotti nella seconda sessione dalla relazione di Paolo Quercia, ricercatore e direttore del Cenass – tutti coloro che, tra parlamentari, economisti, diplomatici, giornalisti ed esperti, nutrivano il desiderio di confrontarsi sul successo elettorale del leader di Fidesz in Ungheria, e sulle questioni inerenti i rapporti tra Italia ed i quattro Paesi di Visegrad (V4), ovvero: Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia.

Come dicevamo il meeting si è rivelato una nuova occasione per consolidare quell’intesa ufficializzata lo scorso 28 febbraio, quando Giorgia Meloni insieme Adolfo Urso hanno incontrato a Budapest il presidente ungherese. Quel giorno la leader di Fratelli d’Italia ha definito vincente il leader di Fidesz–Unione Civica Ungherese, perché «difende l’identità cristiana dell’Europa, dice no al processo di islamizzazione forzata e non ha paura di combattere contro la speculazione finanziaria». Come ha ricordato Adolfo Urso, che conobbe Orban nel 2001, quando era al primo mandato da premier, «Orbàn ci ha accolto con grande afflato. È stato un modo per confrontarci sulla cooperazione tra i nostri partiti, tra le nostre fondazioni ma soprattutto tra i nostri Paesi».

Ecco dunque che il seminario “La Nostra Europa e l’Ungheria di Orban” ha ripreso il filo di quel discorso iniziato con l’incontro di Budapest, tra leader di partiti che si somigliano e che hanno al centro obiettivi comuni. Nel suo discorso introduttivo Urso ha sottolineato, in particolare, il miracolo di ripresa economica realizzato da Viktor Orban in Ungheria: riduzione del debito pubblico, aumento del Prodotto Interno Lordo, importante accrescimento degli investimenti esteri con il combinato virtuoso uso dei fondi dell’Unione. «Tutto ciò ha prodotto una significativa riduzione della disoccupazione dal 12% a meno del 4%. È necessario, pertanto, un comune percorso europeo tra Peasi di Visegrad e Italia, lasciata, in seguito alla Brexit, come altri paesi fondatori dell’Unione, in una situazione particolare che si può tradurre con l’espressione: o segui o soccombi. L’alleanza con i Paesi di Visegrad deve aiutarci ad uscire dalla morsa dell’asse franco- tedesco, in modo da poter finalmente trattare da pari con Francia e Germania e rifondare così l’Europa dei popoli».

Giorgia Meloni, da leader di Fratelli d’Italia, ha voluto marcare, ancora una volta, la necessità dell’Italia di avvicinarsi al modello dei quattro stati di Visegrad, prendendo le distanze da quei leader europei che definiscono il modello del V4 semplicisticamente nazionalista. «Noi siamo europeisti convinti», ha chiarito, «intendendo per Europa il sentimento europeo, l’amore per l’Europa delle patrie e delle nazioni. Noi siamo per l’Europa delle identità, per quell’Europa delle patrie ma patria anch’essa, come diceva De Gaulle. Noi Crediamo nell’Europa che sappia difendere le identità, i diritti ed i bisogni. Purtroppo ad oggi l’Europa non è stata tutto questo. Il modello andrebbe rimesso in discussione e si dovrebbe valutare un disegno, non più di Unione europea, ma di confederazione di Stati sovrani, dotati di propria autonomia ed indipendenza. Dovremmo inoltre ringraziare i paesi del V4 che hanno difeso l’Europa dall’immigrazione fuori controllo che, nei momenti di maggior aumento, sarebbe potuta essere seriamente pericolosa».

Ciò che emerso dal meeting di ieri, insomma, è l’assoluto valore delle politiche di Orban. In ambito economico, certamente, i dati gli danno ragione. L’obiettivo del premier era quello di creare una società basata sul lavoro e sulla piena occupazione. Tassare i consumi, con un IVA alta ma lasciare la moneta nelle tasche degli ungheresi. Un altro obiettivo è stato quello di ridurre il deficit, ma questo come altri interventi, senza una piena sovranità monetaria, sarebbero stati difficili da attuare. Non si tratta di essere antieuropeisti, si tratta di «dare più possibilità alle famiglie ungheresi» come ha sottolineato l’ambasciatore ungherese Adam Zoltan Kovacs. «Siamo europeisti ma il modo in cui l’Europa sta procedendo va rivisto». Piuttosto complicato dare torto all’ambasciatore il quale, a chiusura del suo intervento, ha offerto un’espressione che sarà certamente spunto per nuovi e significativi incontri: «L’Europa è forte quando ogni singolo Stato membro è forte».

*Alessandro Boccia, collaboratore Charta minuta

Con Viktor Orban Festeggiamo il sovranismo di governo "europeo"

Il grande successo di Viktor Orbán in Ungheria è un ulteriore monito all’Europa di Bruxelles che si ostina a non voler cambiare, come dimostrano le uscite “a gamba tesa” dei due vicepresidenti della Commissione Ue sui nostri quotidiani nei giorni scorsi a proposito dei bilanci dello Stato. Gli elettori ungheresi – incuranti delle medesime minacce – hanno premiato in modo massiccio il buon governo del loro presidente e per questo l’hanno rieletto pienamente per la terza volta. Il motivo? Un governo che ha segnato un percorso di forte crescita dell’economia, piena occupazione, sostegno alla natalità e alla istruzione, difesa della identità e della cultura nazionale ed europea.
Un governo che ha saputo interloquire senza subire con l’Ue, mettendo in chiaro – senza demagogia parolaia ma con una prassi meticolosa e decisa – un principio che racchiude il senso pratico del sovranismo di governo: gli ungheresi vogliono essere padroni del loro destino, cambiare l’Europa, non cancellare l’Ungheria. Questa scelta di fondo ha indirizzato gli anni di Orban che si sono tradotti in una crescita esponenziale del Pil (+4%), in investimenti sull’alta tecnologia mai sperimentati in loco e in un utilizzo realista dei fondi per la coesione giunti dall’Ue.
In quest’ottica, per quanto magari distante dall’approccio “classico” mediterraneo al problema (e dalla morfologia stessa della nostra Italia), va interpretata la serrata politica sull’immigrazione e la difesa della “patria ungherese” dall’islamismo. E in quest’ottica va interpretata e colta la polemica con l’approccio burocratico dell’Ue e con la propaganda immigrazionista delle Ong che hanno individuato nell’Ungheria il “mostro” da abbattere con la campagna mediatica.
Il risultato? Un mandato pieno, convinto, a un leader che intende completare l’operazione di riforma della Costituzione in senso sovranista e lanciare – in vista delle Europee del prossimo anno – l’asse del “gruppo di Visegrad” come contraltare all’indirizzo di Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Per tutte queste ragioni il premier ungherese può e deve essere alleato dell’Italia – a maggior ragione quella uscita vincitrice dalle urne – per rinnovare l’Europa, riformare i Trattati, contrastare l’asse della conservazione franco-tedesca.

*Adolfo Urso, senatore FdI

Se si vuole il bene dell’Ue basta con l’utopia degli Stati Uniti d’Europa

«Nuova seria sconfitta dell´europeismo nell’Europa centro-orientale. Nella civilissima, avanzata Repubblica ceca il capo dello Stato uscente, il russofilo nazionalpopulista xenofobo Milos Zeman, ha sconfitto lo sfidante europeista accademico Jiri Drahos al ballotaggio delle elezioni presidenziali». L’incipit di questo articolo con il quale Repubblica presenta in modo imparziale e oggettivo l’esito delle elezioni presidenziali nella Repubblica Ceca di qualche giorno fa è emblematico della poca obiettività che viene riservata all’analisi delle tematiche europee; un’obiettività che latita molto anche in questa campagna elettorale.
Il 20 gennaio scorso Matteo Renzi, dando il via alla campagna elettorale del Partito Democratico al Palazzo del Ghiaccio di Milano, ha tuonato: «Il futuro sono gli Stati Uniti d’Europa e noi chiediamo agli altri partiti da che parte stanno. In Italia abbiamo i no euro, i boh euro e i sì euro». Tralasciando, per carità di patria, l’infantile gioco del sì, no, boh – slogan da campagna elettorale, si dirà: di certo un ulteriore contributo per un livellamento verso il basso del dibattito politico – vale la pena soffermarsi brevemente sull’ormai arcinota locuzione Stati Uniti d’Europa. L’idea che l’Unione Europea possa diventare una federazione come quella americana non è solo fallace, ma è un pericoloso estremismo che rischia di ottenere l’effetto contrario: ovvero, vedere crescere il risentimento e la disaffezione verso Bruxelles. In un momento in cui dovrebbero prevalere autocritica e innovazione istituzionale, si rincorrono utopie che pretendono di costruire il futuro ma ignorano scientemente le problematiche del presente.
I sostenitori degli Stati Uniti d’Europa non si sono accorti di tre fattori che, in sostanza, stanno già mandando in soffitta i loro sogni. Il primo è quell’Europa a più velocità che, nei fatti, è già una realtà, sostenuta dal direttorio franco-tedesco. L’idea che vi siano accordi a geometria variabile, dove la discriminante è la volontà di ogni Paese di aderire o meno ad un ulteriore livello di integrazione, non è esattamente il trionfo dell’europeismo – e ancor meno di un ipotetico federalismo europeo –, bensì una pragmatica rivalutazione del modello intergovernativo. Paradossale che sia proprio l’attivismo di Macron, celebrato al momento della sua elezione – incoronazione? – a presidente della Repubblica come salvatore dell’Unione, a decretarne in contrario una sorta di ridimensionamento.
In secondo luogo, l’Unione deve fare i conti con un’evidente spaccatura a Est, dove il cosiddetto blocco di Visegrad, composto da Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia, si muove ormai quasi autonomamente da Bruxelles e sempre in rotta di collisione con l’asse franco-tedesco. Questa nuova cortina di ferro rischia di essere pesantemente sottovalutata, sia nel breve che nel lungo termine, e pone ulteriori interrogativi sia sulla stabilità attuale dell’Unione, sia nell’ottica degli improbabili Stati Uniti d’Europa. In terzo luogo, la Brexit ha dissacrato il dogma dell’indivisibilità dell’Unione, dando un duro colpo alle certezze degli establishment che, dopo aver predetto un futuro di sventure per il Regno Unito, si sono dovuti arrendere a più miti consigli. Un atteggiamento che ricalca quello tenuto nei confronti di Donald Trump, la cui elezione avrebbe dovuto devastare l’economia americana: la realtà ha presentato alle cassandre di Bruxelles un conto leggermente diverso.
Quella che abbiamo già, dunque, dinanzi agli occhi è un’Unione profondamente divisa: e questa non è certo una responsabilità dei cosiddetti “sovranisti” ma di chi ha preferito ignorare i segnali di malessere che covavano nell’opinione pubblica. Continuare ad ignorare queste problematiche, chiudendosi nell’ostinata illusione che possa bastare qualche orecchiabile formula magica o un Inno alla gioia per ritrovare armonia e, soprattutto, una concretezza d’azione, significa non avere chiare le sfide che il Vecchio Continente ha dinanzi a sè. Così come è del tutto inutile continuare ad etichettare come populista, nazionalista e xenofobo qualsiasi tentativo di criticare questa barcollante Unione.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta