Lockdown, la falsa efficienza dell’autoritarismo Cinese

Il recente focolaio che ha coinvolto l’area urbana di Shangai in Cina, dovuto al diffondersi della nuova variante omicron 2 del coronavirus, ha riacceso ancora una volta i riflettori sulle modalità scelte da Pechino per contrastare la pandemia.

Le tradizionali misure di contenimento basate sul trittico: lockdown, test e tracciamento vengono impiegate in modo ortodosso dalle autorità cinesi e sin dalla loro prima applicazione a Wuhan si confermano come l’unico meccanismo di contrasto alle infezioni ritenuto in concreto praticabile. La strategia “Covid zero”, la cui efficacia con le varianti meno contagiose era fuori discussione, ha iniziato a mostrare delle criticità evidenti al crescere dell’indice di trasmissibilità del virus. Le conseguenze sul piano economico inoltre, hanno interessato sul piano geografico tutto il mondo con le frequenti interruzioni della supply chain, soprattutto per il blocco delle città portuali, più colpite dai focolai rispetto all’entroterra. È la Cina tuttavia a pagare da un punto di vista economico il prezzo più alto per una strategia che in occidente appare fuori discussione. Se l’ultimo trimestre del 2021 ha visto un rallentamento della crescita di Pechino, pari solo al 4%, è nel 2022 che Xi Jinping rischia di mancare gli obiettivi di crescita prefissati, che diversi analisti stimano inferiori al 5% su base annua complici anche la crisi energetica e il calo degli investimenti esteri innescato dalla recente stretta autoritaria figlia della “Teoria del benessere comune”.

L’iniziale inasprimento delle misure restrittive deciso sin dagli esordi della pandemia nel gennaio di due anni fa, aveva trovato in Europa e negli Stati Uniti uno stuolo di sostenitori, pronti a sottolineare l’apparente efficienza del governo cinese nel contrasto al Covid. Misure draconiane imposte sfruttando un’indole altrettanto decantata della popolazione ad obbedire alle Autorità. Per tutto il 2020 e buona parte dell’anno successivo non sono mancati nemmeno coloro che ne chiedevano l’adozione speculare in Occidente per bloccare sul nascere i focolai più insidiosi, soprattutto nelle grandi conurbazioni che si confermano il serbatoio perfetto per i contagi.

Oggi, dopo aver testimoniato la straordinaria efficacia dei vaccini ad mRNA, frutto di una indiscussa superiorità tecnologica nel settore farmaceutico e biomedicale, la pandemia appare sotto controllo sul piano sanitario ed economico. Inoltre l’arrivo in quantità sempre più consistenti dei farmaci antivirali e degli anticorpi monoclonali di nuova generazione, anch’essi sviluppati tra Stati Uniti ed Europa, consentono di programmare concretamente un ritorno alla normalità, che culminerà con l’abbattimento della mortalità da Covid19 a valori simili all’influenza (0,1%).

La Cina sembra non possa contare su nessuna delle armi disponibili nell’arsenale occidentale. I vaccini a virus attenuato prodotti da Pechino con la tecnologia “tradizionale”, non solo risultavano di gran lunga meno efficaci contro il ceppo originario, ma già con la variante delta offrivano una protezione inferiore a quella di Pfizer e Moderna contro la malattia grave e il ricovero. Il divario si è ulteriormente ampliato con omicron, contro la quale ci sono dubbi che persino la terza dose dei vaccini cinesi possa riportare la protezione a livello comparabili a quelli occidentali. Non è un caso che Pechino abbia avviato da tempo la sperimentazione di vaccini a mRNA sviluppati in casa, pur non disponendo degli impianti e del know-how della nostra industria farmaceutica. Non è un caso infatti che per la produzione su larga scala delle dosi necessarie siano stati sondati stabilimenti in Europa e Asia a cui la Cina dovrà rivolgersi per disporre, con un ritardo di due anni, di un farmaco comparabile ai prodotti di Pfizer e Moderna.

Anche sul fronte degli antivirali Pechino si trova a dipendere completamente dalle forniture occidentali, a cui si aggiungono ostacoli regolatori, che hanno ostacolato l’approvazione del paxlovid, giunta condizionata e solo a febbraio e di approvvigionamento. Questi ultimi sono destinati a diventare insormontabili qualora la Cina pensasse di usare i nuovi farmaci come leva per mitigare il decorso clinico e temperare il confinamento. L’arco temporale richiesto per soddisfare tutti gli ordini sarebbe senz’altro superiore ad un anno ed è difficile pensare che senza una produzione in loco, le importazioni possano soddisfare le richieste anche nell’ipotesi assai remota in cui fossero concessi alla Cina canali preferenziali per le forniture. A differenza dei vaccini, l’industria farmaceutica di Pechino non ha ancora sviluppato alternative credibili e di efficacia sovrapponibile a quelle di Pfizer e Merck e non sembra che questo accadrà nel breve e medio periodo.

Tuttavia è la fragilità intrinseca del sistema sanitario cinese a costituire il fattore rende i lockdown l’unica soluzione praticabile per contrastare la circolazione del virus. In un recente studio del Journal of critical care medicine i letti di terapia intensiva disponibili in Cina risultavano essere 3,6 ogni mille abitanti, un decimo di quelli Americani che hanno superato ormai i 30 e meno della metà di quelli di Singapore (11,4) e Hong Kong (7,1). Se il problema riguardasse le sole strutture sanitarie si potrebbe porre rimedio costruendo nuovi ospedali sul modello di Wuhan nel 2020, purtroppo però il deficit peggiore di Pechino riguarda il personale, assolutamente insufficiente per contenere un focolaio di medie dimensioni in una grande città. Il sistema sanitario è ormai da anni alle prese con il sovrappopolamento e con una popolazione di età avanzata a cui diventa difficile assicurare cure con uno standard occidentale in tempi ordinari, impossibile durante una pandemia. Le scene caotiche del gennaio 2020, con i medici e gli infermieri inviati in massa nell’Hubei dalle altre province per lo screening di tutta la popolazione si sono ripetute questi giorni a Shanghai e la propaganda non ha perso l’occasione di enfatizzare la durissima lotta contro un virus ormai contagioso quanto la varicella. Qualora il contenimento fallisse e le autorità dovessero far fronte ai ricoveri con la creazione di nuovi posti letto, la Cina rischia di assistere inerme a casi come il focolaio di Jilin, dove gli ospedali improvvisati, costruiti come a Wuhan in pochissimi giorni, contavano su appena 5 medici e 20 infermieri ogni 100 pazienti ricoverati in gravi condizioni.

Simili previsioni sono confermate dalla mortalità per Covid che ad Hong Kong si è assestata ben sopra i 25 decessi ogni 100mila abitanti, con numeri che in alcuni giorni hanno superato i 300 morti al giorno. È naturale che le autorità cinesi abbiano valutato con grande attenzione le conseguenze di una diffusione incontrollata del virus come nella ex colonia britannica, sulla carta dotata di strutture sanitarie all’avanguardia e sicuramente più organizzate di quelle della confinante Shenzen o di Shanghai. A novembre il CDC di Pechino aveva stimato in almeno 260 milioni i casi e in 3 milioni i morti di covid, qualora la Cina avesse adottato restrizioni di intensità simile a quella di Regno unito e Stati Uniti. Oggi con Omicron è facile dedurre che il bilancio sarebbe da ritoccare al rialzo, anche in considerazione della bassissima efficacia dei vaccini a tecnologia “tradizionale” che non proteggono dalla malattia grave senza terza dose.

La Cina si trova dunque ad un bivio, la stretta autoritaria e illiberale che ha trovato in occidente le lodi sincere di una nutrita pattuglia di cultori dell’efficienza è ormai inattuabile per contenere omicron. Da metà marzo, più di 70 città che rappresentano il 40% della produzione industriale cinese hanno dovuto implementare misure restrittive per controllare i focolai di Covid, destinati ad essere sempre più aggressivi e diffusi. Se Pechino non dovesse riuscire nella missione di coniugare salute e libertà economica, accettando di convivere con il virus, l’obiettivo di crescita del 5,5% sarà un miraggio almeno per i prossimi due anni. In caso contrario, Xi Jinping dovrà prepararsi ad un numero di morti considerevole, non solo di Covid ma anche di tutte le altre patologie che gli ospedali hanno difficoltà a curare durante le campagne di screening. Il bilanciamento tra stabilità interna e benessere economico sarà ancora una volta la chiave di volta per comprendere il margine di rischio del governo cinese che, in ogni caso, non potrà rinunciare ai prodotti dell’industria farmaceutica americana ed europea per vincere la sfida finale al virus. Toccherà all’occidente decidere se e a quali condizioni fornirli a Pechino.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

Dal virus biologico al virus digitale, il passo è breve

Oggi il virus che destabilizza interi popoli del globo si chiama covid-19 e colpisce, sotto il profilo sanitario, il “fisico” delle persone. La sua origine – secondo quanto è stato diffuso da informazione e controinformazione – è principalmente di natura “biologica” e che già nel 2015 si studiava in laboratorio. Manipolazione, incoscienza, premeditazione, predeterminazione e tanto altro ancora. Il discorso diventerebbe troppo lungo ed articolato e addentrarsi nell’analisi che ne seguirebbe distoglierebbe l’attenzione da alcuni aspetti altrettanto importanti.

Quello che dobbiamo rilevare è che tutto ciò che è accaduto fino ad oggi deve servire di lezione e di monito a tutti. Potrebbe essere una prova generale? Forse si o forse no. Non ci sono certezze e comunque non serve essere dei complottisti per comprendere quanto sia in pericolo non solo la sicurezza fisica e psichica dell’uomo quanto quella digitale e virtuale dell’intera società mondiale. Infatti oggi è il covid-19 a seminare paura, incertezza, terrore, scontri sociali, crisi economica, morte, instabilità, proteste, oscurando tutti quei mali che fino a ieri hanno messo in apprensione il mondo intero quali il terrorismo, l’inquinamento e le tempeste finanziarie.

Fenomeni questi che esistono ancora ma non sono più enfatizzati dalla comunicazione e dalle luci della ribalta mediatica. Ora quanti stanno ponendo l’attenzione su un ipotetico virus non biologico, ovvero su un virus digitale, informatico? Solo qualche addetto ai lavori, operatori di intelligence, visionari o semplicemente qualche lungimirante. Proviamo ad immaginare un mondo ancora più schiacciato dalle restrizioni e dagli obblighi determinati dalla lotta alla “pandemia da virus biologico” e presto ne ricaveremo uno scenario raccapricciante, degno di una trama da film horror e fantascienza in chiave apocalittica.

È di questi giorni l’ennesimo grido di allarme lanciato a ragion veduta dalle istituzioni. Vediamo il perché. Oggi il lavoro da casa grazie al cosiddetto smartworking ha preso forte consistenza e milioni di lavoratori si connettono via WIFI al server della rete aziendale. Il lavoro da casa permette a molti lavoratori di non assembrarsi in azienda ma, se da un lato contrastiamo il virus “biologico”, dall’altro ci apriamo al mondo digitale abbassando la guardia sulla sicurezza informatica. È provato, infatti, che quasi il 99% delle connessioni internet presenti nelle case sono vulnerabili per inesistenza di password o password deboli facilmente attaccabili e, nella peggiore delle ipotesi, anche i software antivirus di molti terminali non sono aggiornati o addirittura non sono nemmeno installati.

La condivisione di dati da un ID all’altro con questo livello di vulnerabilità comporta un rischio enorme per la sicurezza digitale, direi inimmaginabile, infatti ogni qualvolta che ci si connette alla rete si apre una autostrada verso il server dell’azienda che ha in archivio dati commerciali, dati sensibili del personale, dati finanziari, dati fiscali, dati sui prodotti e sui servizi, dati strategici e segreti. In un batter d’occhio sono a rischio milioni di dati aziendali in favore dello spionaggio industriale. Una filiera produttiva violata che, sia questa dell’auto motive o della moda poco importa, tale violazione potrebbe mettere in ginocchio un’intera economia nazionale. La “pandemia biologica” in questi 18 mesi ha prodotto un altro fenomeno di dimensioni globali che potrebbe mettere a forte rischio la sicurezza digitale. È facilmente intuibile che mi riferisco alla sempre più massiccia pratica dell’acquisto online.

Un fenomeno questo che provoca una spaccatura tra il mercato fatto di negozi di vicinato, di aree mercato all’aperto, di piccoli centri commerciali e outlet che vedono ridursi drasticamente la domanda e il mondo dell’e-commerce fatto piccoli, medi e soprattutto da giganti marketplace che ne traggono vantaggi milionari. Fino a qui è stato analizzato l’impatto economico e sociale, ma dietro a questo si nasconde la vulnerabilità della rete che porta direttamente alle movimentazioni bancarie fatte di pagamenti ed incassi. Ogni giorno scopriamo che da un codice di accesso si passa all’inserimento della seconda password, da questa al token auto generatore di codici, poi si giunge alla conferma telefonica e chissà cos’altro nel tempo dovranno aggiungere per migliorare la difesa informatica. Tutto ciò accade perché le banche scoprono continui bug informatici e cercano di adeguarsi, le norme seguono a ruota per evitare il peggio, ma una cosa è certa: tutte queste transazioni in un sistema colabrodo come sopra descritto sono a forte rischio. Bastano solo questi due scenari per comprendere quanto sia ghiotto alla “malavita internazionale” il furto dei dati. Altra attività che ha goduto di un autentico boom grazie alla “pandemia da virus biologico” è quella delle riunioni online in video conferenza su piattaforme che inizialmente sono state attaccate con interferenze da malintenzionati di basso livello.

Inutile sottolineare quanto anche questa pratica della comunicazione online fatta di video e condivisione di documenti sia appetibile agli attacchi hacker ma ciò che più importa è che questi nuovi canali di comunicazione costituiscono una nuova ed ulteriore serie di porte di accesso all’immenso mondo della transazione dei dati. Questa “pandemia da virus biologico” è micidiale, ci fa stare a casa ed abbiamo imparato a divertirci da casa senza andare più al cinema, a teatro, allo stadio, quasi assuefatti tra tamponi, contagi e green pass, preferiamo stare a casa a guardare la TV e fare zapping sulle piattaforme a pagamento. Adesso tutti utilizzano rigorosamente il WIFI dalla telefonia alle TV e con un click si rinnova l’abbonamento o lo si modifica.

Dati che vanno e che vengono col WIFI nell’insicurezza più totale. E che dire della Pubblica Amministrazione? E di pochi giorni fa l’attacco informatico al sistema dei server della Regione Lazio. Un recente rapporto citato nel dibattito parlamentare afferma che il 95% degli Enti pubblici è a rischio attacco, è vulnerabile, le piattaforme informatiche spesso sono inadeguate e presentano dei limiti strutturali che si sommano alle vulnerabilità del cittadino – rete WIFI, password, ecc.. – che invia online il 730, la dichiarazione dei redditi, si iscrive ai concorsi, richiede il rinnovo dei documenti, chiede l’appuntamento con il medico di base o semplicemente si scarica il referto medico.

Tutto ciò ci deve portare a fare un nuovo serio ragionamento. Ma se ad essere attaccate in modo massiccio fossero le istituzioni più strategiche dello Stato come quelle nell’ambito militare, del commercio internazionale, delle strutture sovranazionali? Ma se tutto questo fosse finalizzato a fossilizzarci a casa? Se tutto fosse mosso per farci assuefare dallo stare forzatamente a casa e non per il semplice bisogno di stare all’interno delle mura domestiche? E se tutto ciò fosse una guerra? E se le armi fossero solo digitali e non più armi da sparo? Siamo pronti a difenderci o siamo impreparati? Le domande sono lecite. I dubbi altrettanto. E allora chi sta muovendo i fili di tutto ciò?

A questo punto proviamo a pensare ed immaginare che dopo una serie di prove di attacchi informatici venga lanciato un attacco cibernetico su scala nazionale o addirittura internazionale. Proviamo ad immaginare un blackout informatico su larga scala. La interconnessione delle reti è a un punto tale che qualsiasi attacco importante e mirato alle banche dati creerebbe un’apocalisse nazionale o internazionale. Sembra fantascienza ma purtroppo non lo è perché una così ampia vulnerabilità potrebbe far fermare la produzione nelle aziende, potrebbe fermare le torri di controllo, le ferrovie, potrebbe fermare l’approvvigionamento alimentare, potrebbe fermare l’erogazione di servizi come acqua, gas, luce o fermare tutti i semafori come i telepass delle autostrade migliaia di servizi dai quali dipendiamo quotidianamente. Potrebbe interferire pericolosamente nelle basi militari, nella erogazione dei carburanti, negli ospedali. È evidente che occorre prendere in mano la situazione e creare una task force digitale per anticipare eventuali attacchi di simile portata, creare un ambiente di filtri e di contrasto che quanto meno evitino il peggio.

Il nemico arriva dalla rete e non sappiamo cosa abbia in mente, quale sia il suo vero obiettivo e quale sarà il prossimo, il fenomeno del ramsonware è solo che l’inizio e noi tutti saremo sempre più vulnerabili quanto maggiore sarà la nostra dipendenza dal digitale causata da un lato dalla “pandemia da virus biologico” e dall’altro dall’uso quasi ipnotico dei social. Quest’ultimo, ma non per importanza, altro punto debole della società interconnessa poiché basterebbe un cavallo di troia ben congegnato per metterci tutti a terra. Ben venga quindi in Italia l’Agenzia per la cyber sicurezza nazionale per prevenire e arginare eventuali attacchi.

*Stefano Lecca, consulente in comunicazione social e webmarketing

 

Le origini del virus. Censura e autocensura

Su una cosa vi è consenso nella comunità scientifica internazionale: trovare le origini del virus che ha scatenato la più grande pandemia mondiale nella storia dell’umanità è di primordiale importanza. Ciò nonostante per oltre un anno, tra la censura imposta dal regime cinese sulle indagini internazionali e l’autocensura praticata dal mainstream occidentale, la pista sempre più probabile di una fuga accidentale del laboratorio di Wuhan ed eventuali esperimenti ‘gain of function’ che coinvolgono anche scienziati occidentali rimangano ancora un tabù nel dibattito pubblico allargato. Una storia ancora in pieno sviluppo che mai come prima mette in luce le sfide gigantesche nello scontro esistenziale tra democrazie e regimi autoritari.

La Fondazione Farefuturo è da sempre molto attenta a queste tematiche che non riguardano solo gli aspetti geopolitici ma anche e soprattutto valoriali.

Nei giorno della visita del presidente Xi Jinping  a Roma per la firma degli accordi sulla Belt and Road abbiamo realizzato  il meeting Il Dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia  proprio per denunciare i rischi di sottomissione dell’Italia a Pechino.  Ma  la Fondazione si è impegnata soprattutto sul fronte dei diritti umani facendo intervenire in due occasioni il leader di Hong Kong Joshua Wong, attivista e fondatore del Partito Demosito in teleconferenza nella Sala Nassirya del Senato. La prima  il 28 novembre 2019 che tanto rumore a suscitato per la reazione inconsueta e inusuale da parte dell’ambasciata cinese, e la seconda volta il 18 novembre 2020 per una lezione  sul valore della libertà tenuta appunto  da Wong al corso di formazione della Fondazione FormarsiNazione dove manifestò tra l’altro il timore i essere a breve arrestato così come di fatto è avvenuto poche ore dopo. Un impegno continuativo che ha prodotto la pubblicazione del Rapporto dal titolo La sfida cinese e la posizione della Repubblica italiana sull’attenzione all’interno dei Paesi democratici verso le iniziative di regimi autoritari volte a minare la stabilità, nonché i principi e i valori costituzionali, delle democrazie liberali e, ora rivolge la sua attenzione sull’origine del Corona virus e sull’uso politico della pandemia.

Al webmeeting di Farefuturo di venerdì 11 giugno  sono intervenuti lo scienziato Mariano Bizzarri, il sociologo Arnaldo Ferrari Nasi e l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli Esteri, i giornalisti Marco Gaiazzi (Fuori dal Coro) e Enzo Reale (Atlantico Quotidiano), ha coordinato i lavori Laura Harth.

Nel corso del meeting è stato illustrato un sondaggio a cura del sociologo Arnaldo Ferrari Nasi sulla percezione che hanno gli italiani sull’origine del virus e sull’uso politico della pandemia.

L’evento  trasmesso sui canali social della Fondazione: facebook,  Instagram e LinkedIn è visibile anche sul canale Youtube di Farefuturo