L’Occidente e il valore delle libertà

La morte a 84 anni di Madeleine Albright giunge in un momento particolarmente complesso per l’Occidente. L’aggressione russa all’Ucraina riporta alla mente ferite mai del tutto rimarginate che hanno messo a dura prova l’apparato valoriale su cui si fondano le nostre democrazie liberali. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, quando l’appartenenza ad uno dei due blocchi si configurava come scelta obbligata e spesso oltremodo sofferta, perché indipendente dalla volontà dei popoli, la libertà di autodeterminarsi degli stati nazionali è stato il sentimento distintivo che più ha contribuito allo sgretolamento dell’Unione Sovietica. Questo concetto, apparentemente messo da parte, riemerge con tutte le sue contraddizioni e pone davanti ad un bivio l’Occidente, che mai nella sua storia è stato percorso da dubbi tali da rischiare di pregiudicarne il futuro.

Oggi sappiamo con certezza quanto la negazione delle legittime aspirazioni dell’uomo, come individuo e collettività, sia la più soffocante tra le forme di autoritarismo. Madeleine Albright, nei suoi anni da Segretario di Stato, ha dato prova di saper riconoscere quando la cappa opprimente dei regimi in crisi si trasforma nel pretesto per perpetrare i peggiori crimini, rivendicando il diritto all’impunità in nome di una particolare declinazione della legge del più forte. Oggi la Russia, vestiti i panni consunti della desueta eredità imperiale, mostra al mondo di non voler accettare il fallimento del proprio modello politico, erede mancato di uno altrettanto rovinoso e rivendica il diritto di decidere in nome e per conto di una nazione sovrana che non considera tale, un tempo persino sua “vassalla”, nella più totale indifferenza dei cambiamenti intercorsi dal crollo dell’Unione sovietica e delle aspirazioni del popolo ucraino.

Intendiamoci, spesso siamo noi occidentali a dare per scontata la natura stessa delle nostre istituzioni, delle quali mostriamo sempre più spesso di non apprezzarne la vetusta “normalità”, a cui però non abbiamo faticato ad abituarci. Non deve sfuggirci che quello stesso modello che viene criticato ingiustamente conserva una fortissima carica di attrattività, tanto più per chi non ha mai potuto beneficiare delle condizioni favorevoli in cui l’Europa è stata imbevuta, con la forza, dopo anni di conflitti.  Per qualcuno quindi, sarà sempre più facile ritenere che quella ucraina sia una pia illusione e che in ogni caso la collocazione geografica prevale su quella valoriale, dimenticando che quest’ultima, a differenza della prima, può pur cambiare. Anche per Croazia e Bosnia prima e Kosovo poi, si è dibattuto in Europa su una bizzarra forma di tacita accettazione delle aggressioni militari a danni di popolazioni inermi, un tempo facenti parte della ex Iugoslavia. Madeleine Albright ha dimostrato ai teorici della legge del più forte, che questa deve essere applicata sino in fondo, e non ipocritamente confinata alle dimensioni regionali di un’aggressione militare. Un concetto oggi più che mai valido, quando strani spiriti pacifisti manifestano la contrarietà all’invio di armi all’Ucraina, un modo vigliacco e pilatesco per consegnarla ipocritamente al proprio destino di vittima.

Oggi la Slovenia e la Croazia in poco più di vent’anni sono transitati a livelli di benessere mai sperimentati durante il lungo regime titino. Entrambe sono pienamente integrate nell’Unione Europea sia da un punto di vista valoriale che economico, se l’Occidente non avesse sostenuto a livello politico la volontà di affrancarsi da un regime ingombrante sulla via del tramonto, oggi non avremmo potuto dire lo stesso. In alcuni casi però, come quello del Kosovo, solo il supporto militare ha potuto scongiurare conseguenze simili a quelle della Bosnia, dove una sterile no fly zone non impedì all’ allora Repubblica Serba, capitanata da un personaggio tristemente noto come Radovan Karadzic, di portare avanti una lunga operazione di pulizia etnica. Senza l’intervento NATO in Kosovo avremmo potuto commemorare i morti della violenza prevaricatrice, a cui solo i bombardamenti hanno posto fine.

Sino a che punto è lecito rispondere con una forza soverchiante ad una che si pone in modo altrettanto schiacciante nei confronti della sua vittima designata ? Ben inteso, non è questo il caso dell’Ucraina, che ha dimostrato di resistere contro una potenza nucleare ben più di quanto noi Occidentali avessimo pronosticato, non solo grazie alle informazioni dei satelliti spia e alle armi leggere che giustamente affluiscono alle forze di Kiev. Il popolo ucraino appare ben più motivato e convinto delle proprie scelte e l’aggressione Russa, che è invece immotivata tanto quanto lo sono i suoi giovani coscritti sbandati, è destinata al fallimento anche sul piano tattico e non più solo su quello strategico.

L’occidente, che appare assalito dai sensi di colpa di un passato non troppo lontano, si percepisce come una civiltà in declino, ignorando però che sono gli imperi sulla via del tramonto che hanno bisogno di ricorrere alla violenza per riaffermare la propria primazia valoriale sui propri vicini. Se il modello del capitalismo democratico di ispirazione americana fosse un punto di arrivo di cui vergognarsi, non si comprende come mai la sua attrattività dopo un secolo sia intonsa e il complesso valoriale sotteso alla libertà economica e civile continui a rappresentare il faro per quei paesi che rivendicano il diritto di salire sul treno del progresso e delle libertà, come li intendiamo non senza le naturali contraddizioni negli Stati Uniti e in Europa.

È chiaro che queste aspirazioni utopistiche si scontrano con difficoltà spesso insormontabili: il Kosovo ancora oggi vive una condizione ibrida di tensione etnica e politica, molti paesi dell’ex Patto di Varsavia sono democrazie tutt’altro che mature come nel caso dell’Ungheria e della Polonia, Romania e Bulgaria d’altro canto rimangono ben lontane dagli standard di vita occidentali. La distanza che spesso intercorre tra le legittime aspirazioni e la capacità di realizzare gli obiettivi spesso è incolmabile, soprattutto quando si abbraccia un sistema politico ed economico radicalmente diverso da quello passato.

Calare un modello “di importazione” in una realtà con la propria identità nazionale senza rispettarne le singolarità, sconta diversi ostacoli che l’Occidente ha sperimentano rimediando concenti delusioni in Medio Oriente o creando inutili divisioni non rimarginate come in Nord Africa, dove semmai ci fossero vincitori non sono Europei. Le difficoltà però, se razionalmente ponderate, non devono essere addotte come ragioni che ostano ai grandi cambiamenti che ciclicamente la storia ripropone, tantopiù quando non sono indotte dall’esterno.

Se la volontà di autodeterminarsi nasce dalla rinata consapevolezza di un popolo sul suo collocamento storico, è giusto sostenerla sino in fondo. Non basta quindi neutralizzare le forze attaccanti come in Kosovo o fornire armi e supporto logistico come nell’Ucraina. Chi crede realmente nei valori dell’Occidente deve essere disposto a difenderli e promuoverli anche cessate le ostilità, con la stessa convinzione che porta i sostenitori del “capitalismo autoritario” alla Cinese a decantarne l’indubbio pregio di aver sottratto alla povertà un miliardo di contadini, ignorando però che questo ha avuto come prezzo il loro assoggettamento ad un regime leviatanico, a cui piace essere temuto più per la sua presunta efficienza che per le numerose crepe che l’Occidente in crisi di autostima finge di non vedere.

La competizione tra regimi che ha contraddistinto mezzo secolo di storia è destinata a tornare in auge, se gli Stati Uniti e l’Europa non riacquisteranno la necessaria consapevolezza sul proprio passato non sarà possibile difendere ad armi pari le vere istituzioni repubblicane, in patria e all’estero. Il Kosovo e l’Ucraina a suo modo rappresentano due esempi di affrancamento etnico e politico che il tempo ha potuto in parte attutire e che derivano da una nuova consapevolezza delle proprie capacità di autodeterminarsi. Sostenere un simile processo contro l’inevitabile reazione di paesi in declino permetterà di riacquisire fiducia anche nel nostro avvenire con una rinnovata unità di intenti.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Meglio un vero presidenzialismo

Caro Direttore,

dopo l’indecoroso spettacolo a cui la classe politica italiana ci ha costretti e la grande lezione di civiltà, eleganza istituzionale e disponibilità al limite del sacrificio personale offerta dal Presidente Mattarella, il tema che si sta dibattendo su queste pagine scivola fatalmente sul come e perché si sia arrivati ad un tale scollamento di tanto diverse facce di una stessa Italia.

Senza voler qui affondare le mani nella storia, da fare eventualmente in altra sede, mi sembra che tutto nasca dall’azione dei nostri Padri Costituenti, che certamente con le migliori intenzioni, nel 1948 ci hanno dotati di una Costituzione repubblicana.  E così per evitare che si potessero formare autoritarismi di ogni sorta, hanno costruito, a futura memoria, l’ossatura di una democrazia, forse esteticamente bellissima, ma strutturalmente debole e inefficiente. Più di quanto non lo sia, per sua stessa natura, qualunque democrazia. Una struttura che in anni di generalizzata crescita mondiale ha consentito al Bel Paese di svilupparsi anche in mancanza di una vera alternanza politica, ma certamente non adatta a tempi in cui i nuovi assetti causati dalla globalizzazione, la velocità di nascita di nuove tecnologie, e l’insorgere di nuove opportunità e minacce, richiedono chiarezza di obbiettivi e rapidità decisionale.  Mi permetto quindi di inserirmi nell’interessante dibattito aperto da alcuni tuoi editoriali, con autorevoli interventi di Hamel, Sunseri, Woodrow, La Loggia ed altri per sostenere che non è la politica che va riformata bensì la Costituzione.

Con un sistema maggioritario puro, che gli italiani, spudoratamente poi gabbati dal Parlamento, avevano plebiscitariamente votato nel 1993, sarebbe la politica ad adattarsi di conseguenza. È così avrebbe fine il florilegio di partitini e gruppuscoli parlamentari che pur di ottenere un raggio di sole (e utilità di ogni tipo), non esitano ad accodarsi ad improbabili alleanze, scambiandosi giuramenti di amore eterno e tradimenti quotidiani. Bipartitismo secco, dunque, dove persino il doppio turno, con le furbizie degli italiani, sarebbe un compromesso, se possibile da evitare.

Qualcuno dovrebbe spiegarmi perché fior di Paesi democratici- e nostri alleati- come Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Spagna, debbano godere di quella reattività e prontezza oggi preclusa agli italiani. Sistemi parlamentari realmente bipartitici, con formazioni limpide e democratiche, capaci entrambe di governare per una intera legislatura, salvo affidarsi alla fine al giudizio degli elettori che eleggono direttamente a loro volta un Capo dello Stato con funzioni di supervisione e presidio costituzionale. E allora usciamo dalle furbizie e dalle ambiguità in cui ahimè siamo specialisti, avendo finalmente il coraggio di forzare i nostri rappresentanti verso un sistema bipartitico e andare su un semipresidenzialismo “de iure” e non soltanto “de facto” come oggi sta fatalmente avvenendo.

*Carmelo Cosentino, ingegnere, presidente ASE spa

Reagan e il “Nuovo Mao”: libertà e comunismo a confronto

L’anno 2018, un anno di vigilia di quell’annus horribilis 2019 nel  quale la catastrofe della pandemia prima negata e poi censurata dalla Cina  Comunista ha devastato le economie e a salute globale, in quel 2018 il  trionfo del nuovo Mao veniva acclamato  quasi universalmente. Come era d’altra parte avvenuto nei media Americani ed europei di molti paesi nella Seconda metà degli anni Trenta per Adolf Hitler.

Nel 2018, la Rivista “Forbes”, nella annuale classifica dei 75 uomini più potenti del mondo, lo collocava al primo posto, davanti a Putin e a  Trump.

Il Corriere della Sera lo dichiarava, con decisione apparentemente unanime del suo comitato di Redazione, come uomo dell’anno, suscitando  una reazione indignata di numerosi firmatari della lettera al Direttore  Fontana che peraltro ribadiva la correttezza di tale decisione, ignaro di  quello che già accadeva in Xinjiang e in Tibet, nel Mar della Cina  Meridionale, e che si preannunciava a Hong Kong, nello stretto di Taiwan,  in Birmania e nelle operazioni di colonizzazione tentacolare, finanziaria,  economica e logistica, delle “Vie della Seta”.

Un lume di saggezza sembrava invece già nel marzo 2018, provenire dall’Economist che scriveva: “La Cina è passata dall’autocrazia alla dittatura”.

Questo è avvenuto quando Xi Jinping, l’uomo più potente del mondo, ha fatto sapere che avrebbe cambiato la costituzione della Cina così da poter governare a vita. Dopo Mao nessun leader cinese ha mai avuto così tanto potere.

Dopo il collasso dell’URSS, l’Occidente ha accolto il nuovo grande continente comunista nel suo ordine globale. I leader occidentali credevano che inserire la Cina in istituzioni quali il WTO avrebbe mantenuto le sue grandi potenzialità all’interno di un sistema di regole costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Speravano che l’integrazione economica avrebbe incoraggiato la Cina a evolvere verso l’economia di mercato e, il suo popolo avrebbe ottenuto maggiori libertà democratiche e diritti.

Per diversi decenni, sembrava che questo potesse accadere.

La Cina è diventata più ricca. Sotto la guida di Hu Jintao la scommessa dell’Occidente sembrava ripagata. E quando Xi Jinping prese il potere cinque anni fa si credeva ancora che la Cina si sarebbe mossa verso lo Stato di Diritto e l’adozione di una Costituzione che vi si ispirasse. Oggi questa illusione è scomparsa. Xi Jinping ha indirizzato la politica e l’economia verso un crescente autoritarismo, controllo e repressione delle libertà individualiIl Presidente ha usato il suo potere per riaffermare il dominio del partito comunista. Ha annientato i rivali. Ha creato nuove Forze Armate e riportato l’intero sistema di sicurezza, intelligence e Difesa sotto il suo diretto controllo.

La nuova leadership si è mostrata durissima nel reprimere ogni forma di dissidenza, creando una sorveglianza di Stato. La Legge sulla Sicurezza Nazionale ha fatto strage a Hong Kong di qualsiasi libertà che Pechino si  era impegnata a rispettare con l’Accordo Sino-Britannico ratificato anche  dalle Nazioni Unite.

Pechino pretende di applicare la Legge sulla Sicurezza Nazionale ovunque nel mondo, nei confronti di cittadini cinesi che non dimostrino “amore” per il Partito Comunista Cinese, e minaccia chiunque altro manifesti sostegno alla causa della Democrazia e della Libertà in Cina.

La Cina è diventata un nemico dichiarato della democrazia liberale.  Nell’autunno 2018 il Presidente Xi Jinping ha offerto una sua teorizzazione proponendo che i Paesi partners della Cina comprendano la saggezza cinese e l’approccio cinese alla soluzione dei problemi. Ancor prima, nel 2012, Xi Jinping precisava che la Cina non esporterà il suo modello. Ma da un paio di anni afferma il contrario. L’Occidente e l’America hanno nella Cina – sempre più – non solo un rivale economico, ma anche un antagonista ideologico e strategico.

La scommessa per l’integrazione dei mercati ha avuto successo per Pechino, assai meno per gli altri. La Cina è stata integrata nell’economia globale. È il primo esportatore al mondo, con più del 13% del totale. Ha creato una prosperità straordinaria per sé stessa. Tuttavia, la Cina non ha un’economia di mercato, e ne resta assai distante.

Controlla il commercio come arma del potere statale. Tutte le industrie strategiche dipendono dallo Stato e così – in base alla legge – anche tutte quelle private, e non soltanto quelle ritenute strategiche. Il piano Made in China 2025 punta a creare leader mondiali in dieci industrie, tra le quali l’aviazione, la tecnologia e l’energia, che coprono quasi il 40% del tessuto manifatturiero.

La Cina viola abitualmente il sistema di regole esistente nella società internazionale, ma sembra anche progettare un sistema parallelo “revisionista”, autonomo e alternativo. L’iniziativa Belt and Road, che prometteva di investire $1tn in mercati esteri è uno schema per sviluppare il Nord della Cina e per creare una rete di spionaggio industriale, di collegamenti strettissimi tra imprese ICT e altre a elevata tecnologia: per imporre così una totale capacità di controllo del vertice del PCC in tutto ciò che avviene. Il Governo cinese alimenta analoghi legami con decine di migliaia di ricercatori e studenti all’estero.

Sono ormai migliaia i casi di spionaggio sui quali l’FBI sta indagando, attribuiti a ricercatori cinesi negli Stati Uniti.

La Cina usa il commercio per affrontare i suoi rivali. Cerca di punire le imprese direttamente, come la Mercedes-Benz tedesca, che fu obbligata a chiedere scusa dopo aver citato il Dalai Lama online. Li punisce anche per il comportamento dei loro Governi. Quando le Filippine contestarono la rivendicazione cinese della Scarborough Shoal nel mare cinese del Sud, la Cina subito fermò il commercio di banane, per “problemi di sicurezza sanitaria”.

L’Occidente ha bisogno di ridisegnare i confini della politica verso la Cina. Cina e Occidente devono imparare a vivere con le loro differenze.

Più a lungo l’Occidente sarà accomodante nei confronti degli abusi della Cina, più sarà pericoloso affrontarli in futuro. di fare luce sui collegamenti tra fondazioni indipendenti, e Stato cinese.

Una sintesi delle difficoltà e delle minacce poste dalla Cina di Xi  Jinping veniva tracciata, durante la campagna presidenziale  americana, dal Senatore Elizabeth Warren, che sottolineava in Foreign  Affairs: … in tutto il mondo la democrazia liberale è sotto assedio. I Governi autoritari acquistano potere. I movimenti politici fautori del pluralismo sono sotto scacco. Le disuguaglianze crescono trasformando il Governo del popolo in governo delle élite più ricche. Il fenomeno parte innanzitutto dall’America che è stata, negli ultimi 70 anni, il paladino delle libertà democratiche, dello stato di diritto e della democrazia liberale.

Dall’inizio degli anni 2000, con il consolidarsi della globalizzazione e l’estrema finanziarizzazione dell’economia, Washington ha virato in direzione di politiche che, invece di andare a vantaggio di tutti, sono andate ad esclusivo vantaggio di un ristretto vertice di élite. Il divario fra l’1% dei detentori della ricchezza in ognuno dei Paesi OCSE e il 99% della popolazione è fortemente cresciuto nel corso degli ultimi 20 anni ed ha avuto un ulteriore impressionante accelerazione negli ultimi 10, mentre la crisi finanziaria e la recessione economica facevano perdere milioni di posti di lavoro con una crescita intollerabile di poveri e di emarginati dalla società. E’ questo il particolare brand di capitalismo sul quale sono parse concentrarsi le ultime amministrazioni repubblicane, riducendo le regolamentazioni, abbassando le tasse soprattutto sui ricchi, favorendo le società multinazionali.

L’emergere della Cina come potenza assertiva e neo-imperiale – sottolineava ancora Elizabeth Warren – è avvenuto in un contesto nel quale la superiorità militare degli Stati Uniti è rimasta certamente indiscussa sul piano regionale e globale.

Essa è stata tuttavia erosa dai successi considerevoli di Russia e Cina nell’ammodernamento e potenziamento delle rispettive forze militari e dei formidabili progressi tecnologici di queste due potenze nella “quinta dimensione” della sicurezza: il dominio cyber.

Credo che il Direttore Sangiuliano abbia avuto una grande intuizione nel dedicare i suoi due ultimi importanti lavori a due protagonisti di mondi ideologicamente contrapposti, il mondo della dittatura comunista da un lato, e il mondo della democrazia liberale dall’altro.

Sono entrambe storie di assoluta attualità, perché esprimono ancora oggi come quarant’anni fa una profonda diversità di impostazione sui valori fondamentali della dignità della persona, della libertà individuale e collettiva, della rappresentatività del popolo, del rispetto del pluralismo, dei diritti delle minoranze e delle diversità.

Vi sono alcune singolari coincidenze cronologiche nei due libri che, nel segnare l’iniziare ascesa di Xi Jinping e la fase trionfale della Presidenza Reagan, si presterebbero certamente a un esercizio storico – letterario come quello di Plutarco nelle “Vite Parallele” (Βίοι Παράλληλοι).

Tali coincidenze riguardano gli anni del secondo mandato del  Presidente Reagan, dal vertice di Ginevra con Michail Gorbaciov e al  suo discorso del 12 giugno 1987 a Berlino (“Signor Gorbaciov abbatta questo  muro”), e le vicende che riguardano in quegli stessi anni le ritrovate fortune politiche  del padre di Xi Jinping, Xi Zhongxun e  proprio nel 1987 -quando Reagan provocava una reazione di Gorbachev a Berlino- lo scoppio del caso Hu Yaobang, Segretario del  Partito Cinese al quale Xi Zhongxun era legato quale esponente delle  posizioni più liberali in materia economica e riformiste anche sul piano  politico.

Il confronto viene perfettamente descritto nel libro “Il nuovo Mao” ; un confronto che infiammava la politica cinese degli anni ’80: una contrapposizione, cioè, tra quanto ritenevano che le  riforme economiche dovessero rimanere solo tali, e quanti le vedevano invece come il preludio alla  formazione di un ceto medio e quindi a improcrastinabili riforme politiche.

Hu Yaobang si era spinto ad affermare che il Marxismo non era immune da errori e alcuni aspetti della vita in Occidente erano da apprezzare. Erano gli anni in cui gli studenti scendevano in piazza nelle grandi città per rivendicare quelle riforme. L’epilogo sarà Piazza Tienanmen.

Xi Jinping nell’86 aveva 33 anni ed era saldamente ancorato al sostegno del generale Geng Biao amico da sempre del padre. Con le sue scelte di carriera all’interno del partito e la stretta ortodossia ideologica al marxismo maoista abbracciata da Xi Jinping per quanto riguardava il ruolo assoluto del partito unico nella politica, Xi  Jinping iniziava quel percorso che avrebbe incardinato sempre più la Cina Comunista in una traiettoria nettamente antagonista e nemica della democrazia liberale , costantemente affermata da Ronald Reagan.

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli Affari esteri

 

 

Come difendere la qualità italiana

Questo saggio di Luisa Todini presidente del Comitato Leonardo, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Il momento estremamente difficile che il nostro Paese, unitamente alla maggior parte delle altre nazioni industrializzate, sta affrontando è del tutto straordinario ed impone riflessioni che impattano pesantemente su tutte le politiche economiche ed industriali da adottare. Va innanzi tutto considerato che l’Italia è il settimo Paese manifatturiero mondiale, con un comparto export componente irrinunciabile del Pil nazionale, contribuendo per oltre il 35% alla sua formazione, ma anche un Paese di industrializzazione relativamente recente, che ha saputo raggiungere in pochi decenni una produzione estremamente differenziata unita ad un settore agroalimentare vitale, strategico e di altissima qualità. I suoi fattori valoriali sono cambiati negli anni, e la qualità oggi ha in larga misura sostituito il prezzo del prodotto per la competitività del «Made in Italy».

Il nostro sistema industriale, sviluppatosi a cavallo del primo conflitto mondiale, solo nei primi anni Trenta inizia ad essere parzialmente competitivo a livello internazionale. Il secondo conflitto mondiale interrompe tutto ciò, ed alla fine della guerra la situazione dell’Italia è drammatica, con la produzione industriale al 30% di quella prebellica, le aziende fortemente danneggiate o obsolete, le infrastrutture carenti. La ripresa è tuttavia impetuosa: nei 15 anni dal 1945 al 1960 si passa, con una velocità sorprendente, da «l’Italia della ricostruzione» a «l’Italia del miracolo economico», col sistema industriale che è il grande protagonista di questo periodo, e trova il suo sbocco naturale nella crescente domanda interna di nuovi e più moderni prodotti, assorbendone oltre il 75% della produzione. L’export negli anni ‘50 si indirizza fondamentalmente verso mercati tradizionali e contribuisce solo per il 15% alla formazione del Pil.

Negli anni Sessanta la produzione industriale continua a crescere ed inizia ad essere in esubero rispetto alla domanda interna. L’export diventa sempre più uno sbocco essenziale per l’economia delle imprese: i mercati di riferimento rimangono quelli europei e, parzialmente, il Nord America, i punti di forza sono saldamente ancorati alle produzioni tradizionali. Tra 1960 ed il 1970, l’Italia comincia ad essere considerata la migliore produttrice di prodotti di buon gusto e fattura, la cui competitività è fondata essenzialmente sulla varietà degli stessi ed il prezzo. All’inizio degli anni Ottanta si afferma anche la qualità tecnologica dei macchinari italiani, che conquistano importati quote di mercato; ma accade ciò che condizionerà in assoluto la percezione internazionale dei nostri prodotti: esplode il boom dell’alta moda italiana. Da sempre ancillare alla moda francese, e sulla spinta di alcuni grandi stilisti – Valentino, Armani, Versace in primis – la nostra moda diventa il vero sinonimo di eccellenza, innovazione, gusto e lusso. E si inizia a parlare di Qualità Globale come elemento portante del «Made in Italy».

Quasi negli stessi anni scoppia negli Usa uno scandalo destabilizzante per tutto l’export italiano, quello dell’etanolo nei vini italiani, cui segue un crollo verticale dell’export del settore sul mercato americano e non solo. Con una decisione assolutamente innovativa viene deciso di lanciare una grande campagna promozionale, che punti non più sulla convenienza del prodotto, ma sulla qualità. La campagna ha un grandissimo successo ed influenzerà tutte le iniziative promozionali degli anni a venire: è la qualità del prodotto che viene indicata come il vero fattore vincente, a prescindere dall’elemento prezzo. Tutti questi eventi contribuiscono, in modo decisivo, a cambiare il metro di valutazione del «Made in Italy» da parte del mondo intero.

Con gli anni Novanta e la fine del bipolarismo internazionale, inizia l’era della globalizzazione e della liberalizzazione dei mercati. Sorgono nuovi competitor, che attaccano l’export italiano su quei prodotti economici o di livello medio dove il fattore prezzo rimane elemento assolutamente determinante. Le imprese italiane si trovano da un lato spiazzate per l’enorme differenza dei costi di produzione, e dall’altro costrette a trovare un riposizionamento produttivo ed un nuovo approccio commerciale sui mercati avanzati. Non basta più essere, come negli anni Settanta e Ottanta, dei buoni produttori per vendere: bisogna consolidare l’impresa e radicarsi sui mercati esteri, e questo può essere fatto solo arricchendo l’offerta con quei valori aggiunti che possono qualificare un prodotto: aumento del livello qualitativo, diversificazione in base ai mercati di destinazione, accorte politiche di vendita, servizi post-vendita, difesa del marchio. Al «Made in Italy» viene soprattutto richiesta una garanzia: lo standard di qualità dei prodotti. È in questa ottica che nasce, nel 1993, il Comitato Leonardo: un’Associazione indipendente di imprese, fondata da Confindustria e Ice, che riunisca l’eccellenza del «Made in Italy» e ne porti avanti i suoi valori fondanti: capacità innovativa, eccellenza produttiva, qualità esclusiva. Viene superato il concetto del lusso – che, al contrario, continua ad essere considerato dirimente da altri Paesi concorrenti, quali la Francia – per includere anche prodotti teoricamente «poveri», o economici, ma di totale leadership mondiale nel loro settore. Nell’intuizione italiana, il concetto di Qualità si dilata, in quanto include tutti gli altri fattori che concorrono a distinguere un prodotto: l’origine, l’innovazione, la tecnologia, lo stile, la competitività. Ecco così che questo concetto di «qualità globale» diviene il vero elemento distintivo e parte imprescindibile del «Made in Italy».

Nel nuovo secolo la concorrenza mondiale diventa più pressante: la globalizzazione porta investimenti produttivi e tecnologici anche in paesi emergenti a basso costo, l’offerta globale diviene più ampia e riguarda anche produzioni sinora considerate esclusive dei paesi avanzati. Il mercato globale si presenta molto più incerto rispetto al passato, con grandi tensioni internazionali, nuove barriere politiche e normative al libero scambio, una Brexit dalle conseguenze ancora non prevedibili, crisi economiche latenti e nuovi competitor. Emerge anche un altro forte elemento distorcente, a lungo sottovalutato, che limita pesantemente l’espansione del nostro sistema, ma anche il mantenimento di quote di mercato ormai acquisite: quello del prodotto «simil-italiano», contraffatto o ingannevole, che è stimato valere, per i soli prodotti agroalimentari, circa una volta e mezzo in più dell’intero export nazionale del settore. È una realtà difficile da contrastare, che riguarda anche altri settori, quali la moda, l’arredo, il design ed anche una parte dei beni strumentali: una vera e propria concorrenza illegale.

Se il prodotto italiano riesce a mantenere il passo della concorrenza soprattutto grazie al fattore qualità, si cominciano tuttavia a notare le prime crepe del mondo idealmente liberalizzato che era il presupposto della globalizzazione: nascono pulsioni protezionistiche, cresce l’insofferenza dei paesi meno sviluppati, sorge il protagonismo di nuovi giganti economici. In questo quadro così mutevole e potenzialmente instabile, si inserisce improvvisamente e prepotentemente la pandemia del Covid-19, diffondendosi con una rapidità inaudita in tutto il mondo creando, immediatamente, una stasi in tutte le attività economiche, ponendo quesiti sul come e quando riprendere e sui possibili scenari futuri. Appare innanzi tutto chiaro che la prima emergenza (superata, almeno parzialmente, quella sanitaria) sarà assicurare la conservazione economica e produttiva delle aziende italiane. È un aspetto questo che coinvolgerà tutti gli strumenti economici e finanziari del governo, ma che non potrà prescindere da un poderoso intervento dell’Europa, a costo della sua stessa sopravvivenza come unione politica ed economica tra Stati. Il secondo aspetto, più strettamente legato alla tematica base di questo intervento, riguarda l’esigenza di rafforzare e proteggere l’export italiano, rilanciando il concetto che comprare «Made in Italy» non significa solo acquistare un prodotto, ma soprattutto un’idea: quella qualità globale che ne è alla base conferendo ad ogni prodotto italiano una sua precisa identità, fatta di tradizione e al tempo stesso di innovazione. Anche qui occorre intraprendere iniziative finanziarie a largo respiro, che intervengano sia esternamente (sui mercati, sui consumatori, sul trade) sia all’interno delle aziende, la loro formazione e riorganizzazione, nonché su nuove politiche commerciali e promozionali.

In grande sintesi, possono essere così elencate:

  1. il primo intervento, che deve vedere il Governo assolutamente protagonista affiancandosi e coordinando anche tutte le misure decise dalla Ue, riguarda il sostegno economico alle imprese, sia sotto forma di liquidità che di garanzie, con prestiti a lungo termine ed a fondo perduto. Cancellazione parziale dell’anno fiscale. Eliminazione di quella giungla burocratica per arrivare ad una «Italia facile» che consenta alle stesse di superare la straordinaria emergenza e riprendere più forti di prima;
  2. indispensabile, con riferimento all’export, che il Governo imposti una convinta politica di sostegno dei principali settori produttivi, attraverso iniziative globali con progetti pluriennali, a forte componente mediatica, articolati con strumenti che la moderna politica di promotion può offrire e che ribadiscano come la qualità sia «il» valore assoluto del «Made in Italy»;
  3. per bloccare i prodotti imitativi o falsificati deve essere perseguita una sempre più decisa e rigorosa politica di forte contrasto, attraverso tutti gli strumenti legali e giuridici disponibili ed un convinto supporto del nostro Governo. In particolare per la difesa dell’autentico italiano è fondamentale lanciare una forte campagna di informazione e formazione del consumatore estero, che possa metterlo in grado di riconoscere il vero dal falso, la qualità del prodotto italiano dalle sue imitazioni;
  4. investire su una continua opera di educazione aziendale tesa alla convinzione che la difesa del prodotto si attua innanzitutto in casa, tramite un attento controllo dei processi produttivi e qualitativi del prodotto, che conduca anche a quella sostenibilità sempre più dirimente per i consumatori;
  5. Rafforzare ed incentivare le iniziative volte ad accelerare investimenti tecnologici ed innovativi in tutti gli aspetti del processo produttivo, gestionale e commerciale soprattutto delle piccole e medie imprese che rischiano di essere tagliate fuori dai grandi cicli di rinnovamento. È ormai chiaro che la promozione si modificherà radicalmente, almeno a breve, rispetto agli schemi tradizionali, e sarà fondamentale raggiungere direttamente il consumatore.

Un programma vasto, come si vede. Ma una crisi straordinaria come l’attuale impone un progetto altrettanto straordinario che, nella sua complessità, può essere realizzato se tutte le controparti, Imprese, Associazioni, Governo, sapranno collaborare per quella che sarà la vera sfida del nostro tempo, quella del dopo-virus: rafforzare le imprese per superare la grande crisi mondiale, sostenere e consolidare il «Made in Italy» nella sua posizione di eccellenza pronte al nuovo grande mercato post-globale che verrà.

*Luisa Todini, presidente Comitato Leonardo

Anche noi Robinhood

I fatti accaduti questi giorni a Wall Stret hanno una rilevanza che va oltre il mondo della finanza. Sono fatti che verranno consegnati alla storia perché sono destinati a cambiare radicalmente la società, l’economia e la politica dell’occidente. I mercati finanziari, nati come uno strumento di reperimento dei capitali necessari allo sviluppo dell’industria, nel corso dei decenni si sono progressivamente trasformati in una realtà parallela, una realtà nella quale in nome del profitto speculativo era ed è in parte lo è ancora, possibile scommettere su tutto. Un mercato oligopolistico dove pochi intermediatori sono in grado di influenzare l’andamento dei titoli, del prezzo delle materie prime, delle obbligazioni governative. Sono in grado, in altri termini, di decretare, sulla base di giudizi molto spesso sommari, la capacità di un’impresa o di un governo di sopravvivere ad un momento difficile. Sono in grado di influenzare il prezzo del grano o dell’avena decidendo sulla vita o sulla morte di molti abitanti dei paesi poveri la cui sopravvivenza dipende da beni alimentari di prima necessità.

Fondi speculativi immortalati da celebri film che esaltavano il mito di Wall Strett, coccolati dai giornali dei quali spesso sono azionisti, temuti da governi ostaggio dello spread. Un mondo irreale al quale, tutto sommato, c’eravamo abituati. Un’abitudine che nasce da un approccio culturale in base al quale se sei vincente hai ragione e se fai profitto sei un vincente. Punto. Come fai profitto è un aspetto irrilevante. Il dio mercato, o meglio, un dio che con il libero mercato ha poco a che fare, giustifica tutto, sempre, in ogni caso.

Questo è il mondo che abbiamo vissuto fino a qualche giorno fa. Fino a quando un gruppo di investitori, utilizzando i social network ed una piattaforma chiamata “robinhood” hanno deciso che forse era il momento di dire basta, sono scesi nella piazza telematica della finanza, si sono organizzati, si sono contrapposti al potere costituito, hanno espugnato la Bastiglia. Come? Scommettendo in modo uguale e contrario ai fondi speculativi ed hanno scelto come “campo di battaglia” una società che vende giochi on line, Game Stop. Una massa di piccoli investitori contro una cerchia di grandi speculatori. I risultati di questo scontro sono evidenti, perdite per gli speculatori pari a 40 miliardi nel giro di pochi giorni.

Quanti sono 40 miliardi? Più o meno la famosa quota a fondo perduto del recovery fund che spetta alla settima potenza industriale del pianeta, ovvero l’Italia. 40 miliardi sono il costo del reddito di cittadinanza per 10 anni o se preferite circa 10 linee di metropolitana a Roma o 20 ponti sullo Stretto di Messina. 40 miliardi sono una somma incredibile di denaro persi da chi per anni ha guadagnato senza produrre.

Cosa insegna quanto è accaduto e quanto sta accadendo negli USA? Insegna che l’impatto dei social non si esaurisce alle relazioni umane,  della politica, del giornalismo, nelle professioni. L’impatto dei social investe anche il dorato mondo della finanza perché è in grado di unire e di orientare il comportamento di una massa incredibile di piccoli investitori, un popolo di persone che smette di portare i soldi in banca ad un tasso negativo e che inizia ad investire con l’obiettivo di scardinare una sovrastruttura finanziaria che fa soldi sulle disgrazie altri.

Cosa dovrebbe insegnare all’Italia. Molto. Il nostro paese è il Paese dove il risparmio privato è il più alto del mondo e dove la liquidità nelle banche continua a crescere. Lasciamo i soldi in banca per paura, le banche li prestano ad investitori istituzionali che molto spesso li prestano ad investitori “meno istituzionali” a banche o istituti esteri che li usano per finanziare chi si compra le nostre aziende portando centri di ricerca e centri decisionali all’estero, rendendo, in altri termini, il Paese più povero.  Siamo al paradosso che ci stiamo impoverendo con i nostri soldi. E se guardassimo agli USA una volta tanto cogliendo lo spirito innovativo di quanto sta accadendo? Se lanciassimo una piattaforma che indirizzi i soldi degli italiani verso le aziende degli italiani, tanti piccoli azionisti, organizzati potrebbero vigilare su Generali, su Unicredit, su Stellantis, su Fincantieri, su pezzi dell’industria del Paese che rischiamo di perdere definitivamente compromettendo la nostra libertà economica, il nostro futuro, il futuro dei nostri figli. Non dobbiamo diventare la caricatura degli squali di Wall Strett, dobbiamo solo tornare ad essere padroni delle nostre cose e possiamo farlo con poco.

 

*Stefano Massari, Officine Moderne

INDUSTRIA DELLA DIFESA E APPLICAZIONI DUALI

Questo saggio di Guido Crosetto,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Il termine «interesse nazionale» trova decine di declinazioni diverse, tutte nobili e rilevanti, quindi difficilmente classificabili in una scala prioritaria universale. Tuttavia diventa difficile contestare il fatto che esistono dei presupposti necessari alla difesa dell’interesse di una nazione: ci si difende se si è temuti, se si ha un ruolo nel mondo, se si hanno assets necessari al resto del mondo, se si sa farsi rispettare nel contesto mondiale.

La debolezza, politica, economica, finanziaria, militare, tecnologica, culturale, non consente difesa. Il Qatar o gli Emirati, inesistenti come popolazione, come potenze militari o tecnologiche, hanno un ruolo nel mondo per le risorse che detengono. La Germania ha un ruolo nel mondo per il peso delle proprie tecnologie, per il peso della propria economia, per la dimensione demografica e per il peso politico in Ue. L’Italia, su cosa basa la propria forza nei contesti internazionali? Su cosa può far leva per difendere i propri interessi? Negli ultimi anni i principali elementi di credibilità internazionale e di cooperazione con altri nazioni in modo istituzionalmente coordinato, sono derivati dalla difesa e dall’industria della difesa e cioè dalla nostra possibilità e volontà di partecipare a missioni internazionali Nato, Onu, Ue e dalla nostra possibilità e volontà di fornire tecnologie militari di alto livello tecnologico ad altre nazioni.

Per una nazione come la nostra, priva di risorse naturali strategiche, quasi totalmente dipendente da altri per le risorse energetiche, con un’economia forte, tecnologicamente avanzata, ma non rilevante su scala mondiale nei settori più innovativi (elettronica, telefonia, informatica, chimica, etc.), forze armate preparate ed efficienti, supportate da un’industria credibile ed all’avanguardia, diventano presupposti di sopravvivenza, di credibilità e di competitività e quindi strumenti fondamentali per mantenere un ruolo rilevante nei consessi che contano. La necessità di disporre di tecnologie e know how propri, nel settore industriale della difesa è un punto rilevante ed imprescindibile, pertanto, nella difesa degli interessi di una nazione. Non soltanto perché la difesa fisica di una nazione passa attraverso la capacità di difenderla in acqua e sott’acqua, sulla terra e nel cielo, nello spazio e nell’etere, ma anche perché, sempre più spesso, le innovazioni tecnologiche rilevanti anche per il mondo civile (internet o Gps ad esempio) sono di derivazione militare. Se non altro perché molto spesso i finanziamenti alla difesa sono un modo facile e ampiamente utilizzato, per far avere aiuti di Stato alle industrie nazionali senza incorrere in sanzioni e per poter affidare appalti di entità rilevante senza passare attraverso gare.

Gli stessi Usa, fautori del liberismo più spinto, investono centinaia di miliardi per mantenere una superiorità tecnologica, attraverso la difesa. È quindi evidente quanto sia forte l’interesse nazionale collegato a questo settore: è lo strumento con cui difendo le mie ricchezze produttive industriali ed i miei patrimoni di conoscenza, ma anche quello con cui riesco ad aumentarlo ed incrementarlo, scavalcando magari la mancanza di possibilità di investimento in ricerca del sistema privato, alimentandolo, surrettiziamente, con soldi pubblici. Basterebbe solo questo a spiegarne l’importanza, ma c’è molto di più. Prodotti innovativi ed efficienti significano forze armate più temute, considerate e autorevoli. Prodotti più innovativi significano un maggiore export, ma soprattutto un export che poi lega i clienti per decenni. Prodotti più innovativi, in questo campo, consentono di sedersi al tavolo con nazioni che altrimenti non avrebbero alcun bisogno di rapporti con l’Italia. Prodotti più innovativi nel campo della difesa, significano applicazioni duali in altri settori tecnologici. L’industria della difesa in connubio indissolubile con le forze armate, è quindi il presupposto di qualunque difesa di interesse nazionale e non capirlo significa condannare un paese come il nostro ad un lento declino economico e ad un’irrilevanza politica internazionale repentina.

Capirlo, per contro, significa investire chiedendo esplicitamente risultati su tecnologie che si considerano rilevanti per il futuro ed imprescindibili nel confronto internazionale. Perché un’industria forte ed una difesa forte, non servono a nulla senza qualcuno che indichi la strada da percorrere. Per tutti questi motivi occorre la consapevolezza che esiste un interesse altrettanto forte nel volerci escludere da questo settore: se in Italia scomparisse l’industria della difesa, si potrebbe tranquillamente attuare il piano di una sola industria europea del settore, quella francese, alimentato dai bilanci di 26 nazioni. Questa non è una competizione commerciale e non è combattuta, dai nostri concorrenti, con le armi della diplomazia e del fair play: esiste una parte dei servizi francesi che si occupa specificamente di perseguire questo obiettivo e lo fa con mezzi, risorse, progetti e molti alleati o «dipendenti» in Italia. Anche sotto questo versante occorre quindi attrezzarsi.

 

*Guido Crosetto,  presidente AIAD – Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza

Commercio libero ma anche equo

Si dibatte dei recenti dazi USA contro la Cina sulle merci sottocosto, mentre la UE è al lavoro per finalizzare gli ennesimi accordi di libero scambio con Messico, Cile e Mercosur, verso il quale si elimineranno dazi e quote sul 90% dei commerci. Un certo buonismo tende a demonizzare i primi e santificare i secondi, sebbene la storia recente dia adito a ben altro punto di vista.

L’economia contemporanea si basa su imprese multinazionali che operano in assenza di limiti alla circolazione di merci e capitali, al fine di spostare la produzione nei paesi a bassi salari e gli utili imponibili in paesi a bassa fiscalità, generando extra profitti altrimenti non realizzabili.

Oggi il capitale è libero di muoversi in cerca delle condizioni migliori, mentre il lavoro deve adattarsi alle sue condizioni. Ma non è sempre stato così.

La libera circolazione di merci e capitali si è consolidata negli anni Ottanta, con il verificarsi congiunto di alcuni fattori: (1) la terza rivoluzione industriale dell’informatica, che ha permesso lo scambio di dati tra divisioni aziendali nel “primo” e “secondo” mondo; (2) l’ingresso nel mercato di paesi poveri dell’Asia e dell’ex URSS; (3) precise scelte politiche di eliminazione dei vincoli esistiti in precedenza, che avevano contributo al miracolo economico dell’Occidente. Senza sfruttare nessun cinese.

Tale sistema ha avuto come conseguenza diretta l’allargamento della forbice tra ricchi e poveri: la crescita delle diseguaglianze reddituali ha avuto inizio, dovunque, in contemporanea a questo processo. Cina inclusa. Questo perché la gran parte del “risparmio di costi” sopra esposto non finisce nelle tasche dei lavoratori (con maggiori salari), né nei consumatori (con minori prezzi) ma dell’imprenditoria che organizza la catena di approvvigionamento globale (con maggiori profitti).

È nell’interesse di tutti i Paesi fornirsi aiuto reciproco attraverso un Nuovo Accordo che limiti tali fenomeni e ripristini i presupposti di uno sviluppo equo. Il suo principio fondamentale dovrebbe essere che la libera circolazione di merci e capitali sia ammissibile solo qualora – primo – i Paesi in questione siano omogenei economicamente e – secondo – sussista tra di essi un meccanismo redistributivo come all’interno di uno Stato sovrano.

Centrale in questo senso è la differenza tra concorrenza e iperconcorrenza: la prima, realizzata sui prodotti, promotrice di sviluppo, va favorita; la seconda, realizzata sui fattori produttivi (in primis sul lavoro e sulla superiorità tecnologica), foriera di oligopoli, va evitata.

Una funzione degli Stati moderni è quella di operare da camera di compensazione tra chi vince e chi perde sul mercato, trasferendo ricchezza dai primi ai secondi attraverso lo stato sociale. Invece, il mercato globale della iperconcorrenza ha permesso grandi guadagni per i pochi che vincono ma perdite per tutti gli altri, proprio in assenza di strumenti in grado di assorbire le iniquità del sistema.

Il dogma che ha imperato negli ultimi decenni è stato invece quello della “libera volpe nel libero pollaio”. Un bell’affare per le volpi, assai meno per i polli!

*Stefano Lera, collaboratore Charta minuta

Nessuna discriminazione, nessuna sottomissione

11 settembre è una data che ricorre nello scontro tra civiltà. Ieri, come oggi. Nella storia e nella cronaca. La data più recente è da tutti ricordata, ha segnato la nostra generazione, cambiato costumi e paradigmi, le regole della sicurezza e la nostra vita quotidiana. Quella più lontana non lo ricorda più nessuno, eppure gli eventi che si verificarono, alle porte di Vienna, salvarono la civiltà cristiana ed europea dalla dominazione islamica, quando ormai in pochi ancora vi speravano e in molti anche allora si erano rassegnati.
11 settembre 2001, a New York, nella capitale dell’Occidente di oggi, il drammatico attentato alle Torri Gemelle segnò la fine del sogno globalista, evidenziando come il nuovo “nemico” fosse il fondamentalismo islamico a lungo tollerato e qualche volta persino utilizzato. È allora che si conclude la breve speranza di un mondo pacifico e di una crescita illimitata, descritti nella “fine della storia” di Francis Fukuyama, mai tanta profezia così presto smentita!
Il processo in atto in questi giorni negli Stati Uniti, intentato dalle famiglie delle vittime nei confronti dell’Arabia Saudita, che tanto imbarazzo suscita proprio alla Casa Bianca, ci farà capire quale sia stato il vero ruolo della potenza sunnita e della stessa famiglia reale nel terrificante attentato che ha cambiato gli assetti del mondo. Fatto tanto più importante alla luce degli avvenimenti odierni nel Golfo Persico che dovrebbero farci riflettere su chi siano i veri “nemici” e quali i potenziali “amici”. Il recente rapporto delle Nazioni Unite sul terrorismo ci ricorda come il pericolo sia ancora molto presente e lancia il suo allarme all’Europa su nuovi terrificanti attentati ad opera dell’ISIS, ricordando come l’organizzazione possa ancora contare su 30.000 foreign fighters molti dei quali rientrati nella nostra Unione e pronti a colpire.
Peraltro, che l’Europa e l’Italia sia accerchiata lo dimostrano gli avvenimenti che si succedono in tutto il Mediterraneo ed anche nei Balcani. In Libia, si combattano le potenze sunnite: da una parte Arabia Saudita ed Emirati, che possono contare sull’Egitto di Al Sisi e soprattutto sulla Francia di Macròn nel sostegno al generale Haftar; dall’altra Qatar e Turchia che sostengono le milizie di Tripoli che insieme con Misurata sono arroccate a difesa del governo di Al Serraj. L’Italia è orami fuori gioco in Libia, teatro di prioritario interesse nazionale per una serie di fattori strategici e vitali per il nostro Paese: energetici ed economici, culturali e politici e certamente sul fronte della sicurezza, come dimostra la cronaca e tanto più la storia.
La situazione è compromessa anche in Medio Oriente, in Siria e in Libano, area dove eravamo il primo partner commerciale e spesso politico, e persino in Turchia e nei Balcani, con il regime di Erdogan che ripropone l’Impero Turco sia nell’espansione a Sud, sia soprattutto nella penetrazione in Europa, teorizzata persino con l’arma della natalità e quindi della demografia.
Nel Balcani emerge in tutta evidenza un conflitto che vede in campo, in un intreccio di interessi con la Turchia, anche e soprattutto Russi, Americani, Tedeschi e Francesi. I Russi a difesa dei Serbi e con la antica aspirazione di raggiungere lo sbocco nel Mediterraneo; gli Americani a difendere il nostro e loro Mare, al fianco degli Albanesi, in Albania ma anche in Kossovo e in Macedonia, e nel sostegno a Dukanovic in Montenegro; la Germania che sin dal riconoscimento della Croazia ha ripreso la sua espansione nel Balcani, con la Francia che anche in questo caso, si fa sentire persino a Belgrado. Italia in arretramento su tutta la linea, rischia di apparire estromessa persino in quella terra così segnata dalla nostra storia e dalla nostra cultura.
L’esodo dei cristiani dalla Bosnia e in qualche modo anche dal resto della Regione e nel contempo la presenza non solo finanziaria di Arabia Saudita e Qatar alla locale comunità islamica, anche attraverso il finanziamento delle Moschee, evidenzia quando caldo sia il fronte persino dentro l’Europa e lungo la frontiera della integrazione. I conflitti politici esasperati all’interno di questi Paesi, le manifestazioni anche violente, qualche episodio di guerriglia e certamente le incombente minaccia della migrazione clandestina che qualcuno maneggia come “bomba demografica” da far esplodere contro il nostro Continente sin dai campi profughi Siriani in Medio Oriente, cosi come dalle nuove rotte dell’immigrazione, ci fanno presagire che possa tornare l’attacco al cuore d’Europa che solo i cavalieri cristiani di quelli che oggi chiameremmo Paesi di Visegrad, riuscirono a fermare nell’ultima decisiva battaglia.
Peraltro, i simboli ricorrono sempre: i leader di Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia, scelsero di realizzare la nuova Alleanza nella città-castello ungherese, il 15 febbraio del 1991, pochi mesi dopo la liberazione dal gioco sovietico, proprio per evocare il luogo dove si svolse nel 1335 il congresso medievale di Boemia, Ungheria e Polonia che molti storici richiamano quando evocano la reazione Cattolica alla Islamizzazione d’Europa.
In questo contesto, davvero plumbeo per il nostro Paese, si inserisce il conflitto in atto nel Golfo Persico con gli Stati Uniti, nostro principale alleato, schierati a sostegno del regime feudale di Riad, malgrado ciò che emerge proprio dal processo in corso ai mandanti dell’attentato alle Torri Gemelle, nello scontro tra la coalizione sunitta e l’Iran sciita che, comunque, ha combattuto in Siria e in Iraq, al nostro fianco, contro l’ISIS, così come aveva fatto contro Al Qaida.
La “guerra” si combatte in tutta la Regione ed ha raggiunto l’apice della sofferenza nello Yemen, dove secondo le Nazioni Unite si sta verificando la più grande attuale tragedia dell’umanità, le cui principali vittime sono proprio i bambini, massacrati dalle bombe della coalizione sunnita che colpiscono scuole ed ospedali per terrorizzare le popolazioni.
Sono tentato di scrivere questa introduzione alla luce della esperienza che vivo quale componente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica e descrivere il ruolo delle potenze sunnite nella strategia del fondamentalismo islamico ed anche la loro azione di penetrazione in Europa. Azione in atto da decenni, le cui prime avvisaglie erano già presenti nel conflitto – etnico, religioso e civile – che ha dilaniato i Balcani, cosi come nella guerriglia in Afghanistan, in Pakistan, in Indonesia, soprattutto nell’espansionismo lungo la frontiera “verde” nell’Africa nera. Ci sarà tempo e luogo per farlo, in modo più appropriato.
In questo primo Rapporto abbiamo preferito focalizzare lo stato di conoscenza del fenomeno e accertare quale sia l’atteggiamento degli italiani rispetto alla possibile islamizzazione d’Europa, nuova e più grave minaccia, dopo quella che come europei abbiamo evitato appunto 450 anni fa, sempre nella medesima giornata.
È l’11 settembre 1683 quando le forze cristiane riescono finalmente a spezzare l’assedio turco alla città di Vienna, che segna la fine dell’espansionismo islamico. La Turchia ieri come oggi, attraverso i Balcani, coniuga religione e nazione in una miscela esplosiva, carica di minacce.
A Vienna fu decisiva la mobilitazione dell’Europa centrale che, anche grazie alla partecipazione dei contingenti italiani allora sotto il dominio austriaco, vinse la battaglia, malgrado il doppio gioco a lungo praticato proprio dal Regno di Francia di Luigi XIV. La Francia era anche allora nascostamente alleata dei Turchi, perché riteneva di beneficiare di un ulteriore indebolimento dell’Austria, e solo per le ripetute insistenti pressioni papali fece finta di schierarsi contro la Cattolicità, inviando una missione navale di fronte ad Algeri, bel lontana dal fronte caldo di Vienna!
La storia, insomma, si ripete: la Francia finge di stare con l’Europa ma agisce spesso con i suoi nemici per prevalere in Europa.
L’11 settembre del 1683 come l’11 settembre del 2001, l’attacco giunge nel cuore dell’Occidente, che nel frattempo non è più Vienna ma New York. Data emblematica che vogliamo ricordare non come memoria ma come contributo per definire il futuro, nella piena consapevolezza che siamo ancora una volta nel crinale della storia
Questo rapporto, curato dalla Fondazione Farefuturo con il contributo dell’Ufficio Studi di Fratelli d’Italia, si pone l’obiettivo di rilevare, anno per anno, se, come e in che modo si stia realizzando una nuova minaccia di islamizzazione d’Europa, con quali strumenti e obiettivi e se, nel contempo, esistano politiche pubbliche di difesa efficaci e quali possano essere realizzate in sede statuale, negli organismi europei e in quelli internazionali.
Il rapporto si rivolge innanzi tutto agli attori pubblici, con una analisi rigorosa, scevra da pregiudizi ma anche da freni inibitori, che individua alcuni indicatori statistici e sociali, nel proporre soluzioni e linee di intervento a breve e medio periodo, ma intende, nel contempo, anche contribuire a sviluppare una più consapevole percezione del fenomeno, di quale sia la reale posta in palio e di quali siano gli attori in campo, cosi che si possano sviluppare i necessari anticorpi nel tessuto culturale e sociale, nazionale ed europeo. Se manca la consapevolezza di quale sia lo penetrazione islamica in Europa non si possono misurare a quale stadio sia giunto lo scontro in atto e le possibili reazioni. Per reagire all’assedio di Vienna fu necessaria la mobilitazione della migliore aristocrazia europea che, superate le ancestrali divisioni, accorse infine in battaglia nell’ultima linea di difesa possibile, quando ormai le armate turche erano nel cuore d’Europa.
Siamo oggi nelle stesse condizioni? La penetrazione islamica è già nel cuore d’Europa? E quali sono le armate turche? A quali nazioni appartengono? Quali strumenti utilizzano?
Oggi come allora, la minaccia appare lontana eppure è ormai vicinissima.
Oggi come allora, la linea di difesa non può essere ristretta a chi è in prima linea, a chi subisce l’offensiva ma riguarda la civiltà europea comunemente intesa, anche quella che appare lontana dal fronte.
Oggi come l’11 settembre del 2001, la reazione deve essere comune e consapevole.
Stavolta prima culturale e poi semmai militare. Perché proprio l’Afganistan insegna che la reazione militare è priva di efficacia se non accompagnata anche da una reazione culturale. Diciotto anni dopo, le truppe dell’Alleanza sono ancora a Kabul, costrette a trattare con i Talebani, perché non si combatte solo sul terreno né con Al Qaida, né tanto meno con l’ISIS, ancorché avesse proclamato il Califfato proprio in quella che era la Mesopotamia, culla della civiltà dell’uomo. Si combatte nei cuori e nei cervelli, tanto più in Europa.
Questo Rapporto contiene anche una indagine demoscopica, con indicatori misurati nel tempo, che evidenzia tra l’altro lo sviluppo del sentimento popolare su alcuni temi chiave e la percezione della situazione in atto, cosi come misura il grado di consenso di alcune politiche di cui si dibatte in Italia e in Europa, spesso senza alcun raffronto statistico o per lo meno demoskopico. Si avverte, in tutta evidenza, la consapevolezza, che cresce ogni giorno di più, della minaccia, ancorché permane la speranza di una convivenza pacifica tra Cristianità e Islam anche e soprattutto in Europa e nel Mediterraneo. È diffusa la percezione che la convivenza sia possibile e che, malgrado la crescita della radicalizzazione islamica, la gran parte dei cittadini europei di religione islamica sia tuttora propensa ad una pacifica integrazione. Emerge, soprattutto, in tutta evidenza il ruolo della donna, percepita come la principale vittima del fondamentalismo e nel contempo come il principale attore di una politica di integrazione, in quando moglie e soprattutto madre, fattore già rilevato alcuni anni fa in una precedente analisi della nostra Fondazione, quando la minaccia del fondamentalismo appariva ancora lontana dai confini europei.
In generale il nostro sondaggio evidenzia una visione degli Italiani non preclusiva nei confronti degli Islamici in Europa, verso i quali vi è ancora fiducia sulla loro capacità di integrarsi, anche se emerge in tutta evidenza la consapevolezza di quanto sia grave la sottomissione della donna nella cultura Islamica, questione che sembra la più rilevante e comunque emblematica. Gli Italiani in larghissima misura sono contrari a realizzare “eccezioni legislative” per venire incontro alle esigenze degli Islamici, ad esempio consentendo la poligamia, ed esigono anzi “il rispetto totale delle leggi in vigore”, senza eccezioni. Accettazione, quindi; tolleranza, convivenza, integrazione ma non “sottomissione”.
Gli Italiani avvertono l’importanza di nuovi più efficaci interventi sul fronte della sicurezza, della legalità e della tutela della nostra cultura e dei nostri costumi, ma sono assolutamente scevri da atteggiamenti xenofobi, che condannano senza infingimenti. Desiderano, ad esempio, che sia introdotto “uno speciale reato per chi predica odio tra le religioni e giustifica gli atti di terrorismo”, cosi come chiedono che “sia reso obbligatorio che le prediche nelle moschee avvengano in italiano, in modo che possano essere capite”. Aumenta la contrarietà alla “jus soli” ed è forte la richiesta che “gli immigrati facciano un corso di lingua italiana e di educazione civica prima di essere integrati”, mentre appare ancora minoritaria la proposta di gestire le quote dei migranti in favore dei cattolici, discriminando gli Islamici.
Non vi è, peraltro, piena consapevolezza di quale sia la reale condizione dei Cristiani e degli ebrei nei paesi Islamici e di come l’espansionismo Islamico si sia realizzato nel passato, lacune che devono far riflettere a fronte delle persistenti notizie di cronaca, talvolta drammatiche, sinora evidentemente ancora non pienamente percepite.
Emerge evidente su tutto quanto sia forte, radicata, condivisa la natura degli “Italiani brava gente”, popolo mediterraneo, aperto e inclusivo, che nemmeno la minaccia islamica potrà mutare. Vi è l’accettazione piena dell’altro, purché questo “altro” non pretenda di cambiare la nostra vita ma accetti di integrarsi rispettando le nostre leggi. Nessuna discriminazione ma anche nessuna sottomissione: questo ci appare l’elemento prioritario che emerge dalla nostra indagine.
Il rapporto è, inoltre, suffragato con analisi e commenti dei componenti del Comitato scientifico che definiscono alcuni aspetti cruciali della questione islamica, sempre frutto di una rigorosa interpretazione professionale rispettosa della realtà e priva di pregiudizi, che offre al lettore e certamente anche allo studioso ulteriore materiale per arricchire il proprio bagaglio culturale, spesso mettendo in discussione luoghi comuni ormai percepiti dai più come superati.
Siamo consapevoli che questo primo Rapporto abbia ancora alcune lacune nella raccolta dei dati e altri limiti interpretativi; sarà nostro impegno integrarlo nelle successive edizioni con indicatori ancora più specifici, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti economici, sociali e legislativi del fenomeno islamico in Europa.
Siamo, però, altrettanto convinti che il fatto stesso di aver realizzato un Rapporto specifico sul tema sia di per sé “rivoluzionario” proprio perché colma una lacuna non più giustificabile a fronte della portata dell’espansionismo islamico nel nostro Continente, come se ci fosse davvero una sorta di sottomissione culturale, tanto più pericolosa di quella reale, soprattutto nella società virtuale in cui predomina l’apparenza.
La sottomissione è la prima “catena mentale” non ancora materiale che l’Europa dovrà spezzare se intende davvero reagire alla “decadenza”, riaffermando i valori della propria civiltà, cosa necessaria per sé ma utile per il mondo intero.

*Introduzione di Adolfo Urso al Rapporto sull’islamizzazione d’Europa della Fondazione Farefuturo

Intervista a Giulio Terzi di Sant’Agata ed Adolfo Urso sui temi del convegno “Il Dragone in Europa: opportunità e rischi per l’Italia”

Intervista a Giulio Terzi di Sant’Agata ed Adolfo Urso sui temi del convegno “Il Dragone in Europa: opportunità e rischi per l’Italia”” realizzata da Massimiliano Coccia con Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (ambasciatore, presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Adolfo Urso (senatore, vice presidente Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Fratelli d’Italia).

Lezioni identitarie dall’America di Trump – the State of the Union address

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha tenuto nei giorni scorsi il suo primo State of the Union address di fronte al Congresso e alle istituzioni. Lo commentiamo per voi lettori con in mente l’orizzonte delle destre patriottiche nel mondo, che nella destra di governo americana, sotto la leadership di Trump, ritrovano oggi un formidabile esempio, mancato per i molti anni di opposizione ad Obama.
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