Le sfide della nuova politica agricola europea

La politica agricola dell’UE è una politica dinamica che, attraverso riforme successive, si è adattata alle nuove sfide che si pongono all’agricoltura europea.

La nuova politica include i seguenti elementi a livello dell’UE: un insieme comune di obiettivi, un ampio strumentario di interventi, un insieme comune di indicatori concordato a livello dell’UE per garantire parità di condizioni nella valutazione dell’efficacia delle misure adottate.

Ogni paese è libero di scegliere gli interventi specifici che ritiene più efficaci per conseguire i propri obiettivi specifici, sulla base di una chiara valutazione delle proprie esigenze.

Gli elementi principali della politica sono: pagamenti diretti e interventi di sviluppo rurale più mirati e soggetti a programmazione strategica; nuova architettura “verde” e approccio basato sull’efficacia in base al quale gli Stati membri devono riferire annualmente in merito ai progressi compiuti.

I regolamenti proposti dovevano inizialmente applicarsi a decorrere dal 1º gennaio 2021. A causa di alcuni ritardi nei negoziati nell’ottobre 2019 la Commissione ha deciso l’adozione di un regolamento transitorio, che è stato successivamente adottato dal Consiglio e dal Parlamento europeo, per il periodo 2021-2022. Di conseguenza, la PAC riformata si applicherà integralmente dal 2023 al 2027.

L’obiettivo generale del regolamento transitorio sulla PAC è garantire agli agricoltori e agli altri beneficiari la continuità del sostegno giuridico e finanziario della PAC prima dell’entrata in vigore delle nuove norme riformate nel 2023. Tale sostegno consente la continuità dei pagamenti, senza interruzione, in un periodo in cui, a causa della pandemia di COVID-19, gli agricoltori e gli altri beneficiari devono far fronte a difficoltà.

Inoltre, il regolamento prevede che gli Stati membri dispongano del tempo necessario per elaborare i loro piani strategici nazionali conformemente a quanto previsto dalla nuova legislazione sulla PAC e per pianificarne l’attuazione dopo l’approvazione da parte della Commissione.

Mentre la Commissione Europea ha approvato i primi sette Piani Strategici Nazionali della PAC la revisione della prima bozza del Piano Italiano ancora non è giunta alla Commissione.

Dallo scorso mese di luglio (Draghi presidente, Patuanelli ministro) non si sono più avute notizie circa la nuova versione del documento di programmazione della PAC che dovrebbe recepire anche le 40 pagine di osservazioni critiche inviate dalla Commissione UE. Non sono arrivati aggiornamenti né tantomeno una bozza della nuova versione del PSP. Scarso e inadeguato è stato il coinvolgimento degli attori sociali ed economici. Le regioni rimangono ancora autorità di gestione dei Programmi di sviluppo rurale. Il lavoro è stato disomogeneo, di fatto venendo meno quella uniformità nazionale che la Commissione europea auspica con la richiesta di un unico documento per Stato Membro, come si è verificato in altri paesi come la Spagna e la Francia che, pur avendo anch’essi un sistema regionalizzato, vedono già approvato il proprio PSP.

Le Regioni potrebbero entrare nel sistema solo come organismi intermedi, con una riduzione del loro potere negoziale nei confronti della Commissione europea. Dall’altra parte, questa riforma troverebbe le strutture amministrative centrali impreparate a costruire un coordinamento tra tutte le politiche della Pac, il che richiederebbe una loro rapida ed efficace riorganizzazione interna. Un altro forte condizionamento, in un sistema sempre più legato al monitoraggio dei flussi e soprattutto dei risultati, è dato dall’esistenza di sistemi informativi frammentati, che non dialogano tra loro (Agea, OP regionali, ecc.). Infine, un tema che rimane irrisolto è il coordinamento con gli altri Fondi UE, per l’assenza di un luogo comune di dialogo, come lo è stato l’Accordo di Partenariato 2014-2020. In questo senss, emerge l’isolamento della Pac nel suo complesso e del Fondo Europeo per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale (Feasr) in particolare, il quale non ha più alcun obbligo di integrarsi con gli altri strutturali. Questo condizionerà molto l’efficacia della Pac che, in un mondo sempre più interrelato, diviene una politica a sé stante con una forte impronta di pura redistribuzione, piuttosto che di contributo allo sviluppo locale.

Nessun aggiornamento anche sulla procedura di Valutazione Ambientale Strategica a cui deve essere sottoposto il PSP, il cui iter dovrebbe concludersi prima dell’approvazione da parte della Commissione Europea del Piano, al fine di assicurare che i fondi PAC non aggravino ulteriormente gli impatti che l’agricoltura genera sull’ambiente, come purtroppo si sta ora verificando.

La futura programmazione della PAC come appare ora dall’attuale versione del piano appare ben lontana dal perseguire gli obiettivi delle strategie Europee Biodiversità 2030 e Farm to Fork. Inoltre, ad essi dovrà essere affiancato un reale cambio di modello dell’intero sistema agro-alimentare che abbracci i principi dell’agroecologia, in particolare per una riduzione degli impatti su clima, salute.

C’è la necessità di garantire la sovranità alimentare a livello europeo. La crisi sugli approvvigionamenti non sarebbe stata così grave se si fossero fatte scelte lungimiranti.

I drammatici effetti del cambiamento climatico, della degradazione dei suoli e della perdita della biodiversità sono sotto gli occhi di tutti: siccità, alluvioni e invasione delle cavallette, sono le nuove piaghe del XXI° Secolo nel Mediterraneo. Nell’attuale contesto di crisi geopolitica ed economica un PSP realmente attento alla tutela di tutte le componenti ambientali e del paesaggio è uno degli strumenti di cui abbiamo bisogno anche per garantire l’accesso al cibo sano ed equo per le generazioni presenti e future.

Sarà interessante vedere quali nuove impostazioni verranno fuori dai diversi stakeholders, al di là della semplice difesa delle risorse finanziarie e dello statu quo; quali saranno le forze del cambiamento che sosterranno una strategia innovativa in alcuni punti qualificanti.

*Giuseppe Della Gatta, esperto di Diritto dell’Economia

Caro energia: contro speculazioni intervenga lo Stato

L’ascesa del prezzo del gas di oltre 10 volte nel corso di pochi mesi ha qualcosa di sconcertante per due motivi. Il primo motivo è che le risorse energetiche non sono comparabili allo scooter o al cappotto, che si decide se comprare o meno e con qualità diverse a seconda del portafogli, bensì trattasi di beni essenziali, di fattori produttivi. Il secondo motivo è che tale aumento sia avvenuto senza un’efficace contrasto da parte della pubblica autorità.

Analogamente a quanto successo molte volte nei mercati finanziari di mezzo mondo, è accaduto che speculatori professionali siano riusciti a portare i prezzi sul “libero mercato” a livelli non sostenibili dalla popolazione, sotto lo sguardo impotente, quando non indifferente, di quelle autorità che dovrebbero tutelarla. Autorità nazionali o europee poco importa, il risultato è lo stesso.

L’elettricità è anch’essa fortemente legata al gas: così, se il prezzo del gas sale da 30 a 150 €/Mwh, ecco che l’elettricità, pur prodotta mediante fonti diverse (gas, carbone, rinnovabili, nucleare etc.) si vende ad analogo prezzo sul mercato, perché è la fonte più cara a concorrere nella formazione del prezzo.

Se dunque io sono un accumulatore di gas che ha comprato (poniamo) a 50 ed oggi rivendo a 100, avrò un superprofitto del +100% in tre mesi, senza che questo sia giustificato dall’aver realizzato nessun investimento di natura produttiva, avendo invece solo speculato ai danni della signora Maria che paga la bolletta del gas.

Parimenti, se io sono un produttore di elettricità da fonte solare o eolica, con un costo di produzione di (poniamo) 30 €/Mwh, mi trovo a vendere l’elettricità da un momento all’altro da 60 a 300 €/Mwh, sempre ai danni della signora Maria che paga la bolletta elettrica.

Si dirà che i numeri non sono esattamente questi, che la tecnicalità è complessa, che il discorso è semplicistico, ma di fondo la questione non è molto più complicata di questa.

Il governo italiano ha iniziato a tassare gli extraprofitti nati da questi semplicistici esempi. Ma pensiamo che basti il 10% di imposta addizionale? Gli extraprofitti non avrebbero mai dovuto avere luogo, perché bisognava porre in essere meccanismi di fissazione del prezzo in fasi di ingiustificato rialzo (o ribasso) del mercato, che equivale a tassare gli extraprofitti ma in modo più chiaro e pulito.

A parere di chi scrive, bisognerebbe ritornare a discutere di un prezzo di vendita dell’energia concordato con lo Stato, nazionale o europeo. La fissazione di una banda di oscillazione dei prezzi, all’interno del quali si muovano gli operatori di mercato, potrebbe tutelare dagli eccessi speculativi sia in rialzo (a favore dei venditori) come in ribasso (a sfavore dei venditori). Perché vanno evitati anche prezzi eccessivamente bassi che potrebbero frenare gli investimenti produttivi.

Naturalmente si può condizionare o imporre un prezzo ai produttori interni ma non quelli di importazione. Eppure l’autorità politica dell’intera Unione Europea, grande importatore di energia, potrebbe far sì che tali imposizioni del prezzo possono avvenire non soltanto nei confronti dell’Eni italiana, della Total francese o del produttore eolico in Puglia, ma anche nei confronti dei fornitori esteri.

I fattori produttivi, diversamente dai beni di consumo, non andrebbero mai lasciati al solo mercato. Come per il lavoro esistono legislazioni di tutela di salario e condizioni contrattuali, al medesimo modo andrebbero trattati prezzi e modalità della compravendita di energia.

 

*Stefano Filippini Lera, esperto di finanza di impresa

La guerra in Ucraina e la reazione di UE e NATO

Farefuturo, International Republican Institute e Comitato Atlantico Italiano, hanno organizzato un importante convegno il 14 e 15 marzo u.s. su “La crisi ucraina: il ruolo
dell’Alleanza Atlantica e dell’Europa”.Nell’intervenire a nome del Comitato Globale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella, ho svolto alcune considerazioni che ho ulteriormente sviluppato in questo breve articolo per Charta Minuta.

L’imminente tragedia che un potere criminale di matrice nazi-comunista ha scatenato sull’Europa, colpendo l’eroica nazione Ucraina, il suo popolo, la sua identità pluralista e democratica, libera e solidale, deve essere riconosciuta, sentita da ogni europeo: non con giravolte facili e assicurazioni stucchevoli, ma deve essere dimostrata – tale consapevolezza – nei fatti, nei comportamenti, nel riconoscimento delle responsabilità. Anche per discutere di ricostruzione della pace e della sicurezza nel Mediterraneo, specialmente nel Mediterraneo Orientale, dobbiamo riconoscere – prima di avanzare proposte o sottoscrivere impegni – le responsabilità che hanno contribuito a scatenare la bestialità sanguinaria dei carnefici, e a impedire alle vittime di proteggersi e di essere protette.

Dobbiamo riconoscere le responsabilità; e queste sono di tutto l’Occidente: per non aver fermato Putin, con la politica di una vera deterrenza militare, economica, di influenza sino dal primo manifestarsi delle sue ossessioni sanguinarie nella Seconda guerra in Cecenia; e di non averlo mai voluto fare in seguito, nelle tappe di un crescendo sistematico da parte della Russia di Putin di “terra bruciata” in Georgia nel 2008, in Siria nel 2013, in Ucraina (Donbass e Crimea) nel 2014, ed ora nella completa distruzione di un immenso paese, ricchissimo di civiltà di umanità e di risorse.

Siamo, noi europei ed americani, responsabili come e forse più che nel ’38 a Monaco – e dico “che a Monaco” perché ora incombe persino la minaccia di un Olocausto nucleare che Putin brandisce – di una radicata propensione all’”appeasement” a tutti i costi, motivato dagli affari,dalla convenienza, dalla corruzione o semplicemente dalla colpevole ignoranza su quanto avvenuto sugli ultimi vent’anni tra Nato, UE, Russia e Cina.

Ma non basta certo nascondersi dietro a un gesto facile di generico senso di autocommiserazione tipica dell’”intellettualismo” anti-Atlantico purtroppo diffuso in Occidente, per non aver fatto capire come non sia assolutamente vero e si debba cessare di insistere che tutti i mali del mondo, le rivoluzioni totalitarie, gli spaventosi conflitti degli
ultimi due Secoli sono monopolio esclusivo delle Democrazie liberali dell’Occidente, ma piuttosto il netto contrario.

Discutere di pace e stabilità nel Mediterraneo significa ragionare su strategie politiche, economiche e militari, per ottenere equilibri durevoli ricostruendo capacità di una deterrenza credibile dell’Occidente – nel rispetto di norme e principi condivisi – nei confronti della Russia e della Cina, e di altre potenze regionali che sono peraltro sostenute da una visione fondamentalista e messianica nel loro ruolo, come l’Iran.
Occorre liberarsi da pregiudizi, basarsi sulla conoscenza di dati e di uomini, in modo da individuare e condividere i sacrifici da fare e le opportunità per far valere i nostri interessi nazionali. La catastrofe umanitaria, e persino identitaria – e quindi una strategia di genocidio – che il nazi-comunismo di cui è intrisa l’esperienza umana, professionale e ideologica di Putin ha imposto all’Ucraina, esige anzitutto di riconoscere che il prioritario interesse nazionale dell’Italia è di garantire la libertà e la sicurezza in Europa, nella Comunità Atlantica, nell’Indo-Pacifico. A tal fine l’obiettivo politico da perseguire riguarda l’impegno che va oltre la stessa deterrenza militare e si deve trasformare in “deterrenza politica”: attraverso il più fermo contrasto e la coesa risposta all’immenso apparato di disinformazione, di censura esportata, di pesantissima influenza che Putin ha infiltrato ovunque in Occidente, e che continua a infiltrare per incrinare la nostra volontà di risposta. Si tratta di far reagire non pochi settori dell’opinione pubblica, dell’informazione e della politica, che la Russia ha da molto tempo “coltivato” per trovare alleati all’interno delle società liberali. E lo ha fatto per
proseguire impunemente e continuare a trovare risorse – essendo la Russia un gigante militare ma un nano economico sulla soglia del fallimento – per raggiungere i suoi obiettivi criminali,e ora persino genocidari di eliminazione del popolo e dell’identità ucraina.

Nel 2013 l’attuale Capo di Stato Maggiore della Federazione Russa, lanciava la cosiddetta “dottrina Gerasimov” che sosteneva la priorità da riservare ai conflitti con l’Occidente ancor più che allo strumento militare, alla disinformazione, alla propaganda, alla infiltrazione degli strati influenti delle società liberali, per destabilizzarle dall’interno e poterle quindi agevolmente sottomettere. L’anno dopo, nel 2014, la disinformazione di Mosca in Occidentee in Ucraina, su Crimea e Donbass è stata centrale nell’offensiva russa che ha portato all’annessione della prima e a un conflitto con almeno diecimila vittime e già durato otto anni
in Donbass. Non ci vorrebbe certo altro per dimostrare che il primo strumento di difesa di cui disponiamo deve essere inflessibile e dura denuncia di tutti coloro che Putin l’hanno da sempre sostenuto e di quanti ora sostengono di fatto, esplicitamente o implicitamente, il “Patto d’Acciaio del XXI Secolo” tra Mosca e Pechino. La denuncia non può ignorare tutti quelli che avendo giustificato e propagandato velenosamente le sue buone ragioni di Putin persino dopo che i 180.000 militari russi erano già al confine ucraino per invadere il Paese, appaiono disposti, o interessati, a continuare a farlo, continuando ad applicare la “dottrina Gerasimov” per minare
le società liberali dall’interno. Persone, enti di ricerca, media, ambienti di “intellettuali” che magari ora restano zitti o fingono di essersi improvvisamente svegliati dinanzi al genocidio ucraino, ma che sono sempre pronti e disponibili – come numerosi tedeschi nella Germania Orientale che collaboravano con la Stasi – a ridare fiato ai loro megafoni appena i primi segni di stanchezza o di insofferenza verso il perdurare del conflitto, dovesse acuirsi in seno alla Nato e all’UE.

A tale mondo appartengono purtroppo enti di ricerca che, come durante la Guerra Fredda sceglievano il campo sovietico sotto la bandiera del “pacifismo” e del “neutralismo”, hanno continuato a tirare la volata alla propaganda del Cremlino quando già da almeno quattro mesi era dimostrato un gigantesco schieramento di forze russe sui confini ucraini. E’ il caso emerso, ad esempio, con la pubblicazione il 27 gennaio scorso su Charta Minuta dell’appello indirizzato ai Presidenti delle Istituzioni europee, dal think tank francese Geopragma con le tesi ben note della propaganda di Putin, circa le condizioni di una “pacificazione duratura”
nei rapporti tra USA, Nato e Russia. In particolare, si insisteva per il pieno riconoscimento del referendum in Crimea (anche se condannato dall’Onu) e quindi della appartenenza della Crimea allo Stato russo; il “reciproco abbandono di tutte le sanzioni politiche ed economiche” – incluse quelle per l’illegale annessione russa della Crimea, e per il conflitto in Donbass alimentato da Mosca – spingendosi a commentare, come tipico della propaganda russa “L’Occidente si riduce agli Stati Uniti, a un’Europa mentalmente e strategicamente vassalla, a una visione del mondo che da più di 30 anni stenta a metabolizzare le fine della Guerra Fredda”. Come ha scritto il 12 marzo scorso Atlantico ha sottolineato come il pensiero «…“meglio russi che morti” sia il succo del discorso di gran parte dei commentatori in queste settimane
di guerra Ucraina. Man mano che la guerra si prolunga, l’appello per la resa incondizionata degli ucraini si fa più forte e sentito, condito con discorsi terroristici su possibili escalation e guerre nucleari. Per alcuni il problema di questo conflitto è solo uno e si chiama: Zelensky, il Presidente ucraino il cui Paese è stato aggredito. La sua colpa? Resistere ai russi. Più resiste, dicono costoro, più sarà il responsabile delle vittime militari e civili del conflitto. Un pacifismo peloso, mascherato da umanitarismo, ma con la stessa logica dei Borg, razza aliena inventata dagli sceneggiatori di Star Trek: “Assimilatevi, la resistenza è inutile”. Questo pacifismo lo avevamo già visto in azione durante la Guerra Fredda, quando la sinistra di piazza e di opposizione chiedeva il disarmo unilaterale della Nato. Se i sovietici avessero invaso la Germania Ovest, avremmo dovuto accoglierli con i sorrisi e i fiori, se avessimo invece opposto resistenza sovietici avrebbe potuto innervosirsi. E sai, se una potenza nucleare si innervosisce…. La logica è esattamente la stessa: se i russi invadono l’Ucraina, i difensori devono accoglierli con tutti gli onori e guai agli europei se provano a protestare. La Nato non sta intervenendo, l’UE è neutrale, ci limitiamo a mandare armi leggere ed anche la fornitura di vecchi caccia sovietici dalla Polonia viene negata. Al massimo la risposta consiste in sanzioni economiche e una protesta politica all’Onu. Ma per alcuni commentatori, questa reazione pressoché nulla è già da considerarsi un atto di belligeranza. A loro avviso,
dovremmo solo voltarci dall’altra parte. E sorridere. Perché se non sorridiamo, i russi si innervosiscono.

E sai, se i russi si innervosiscono… hai capito, no?”…»

L’aggressione criminale della Russia a un grande popolo libero, che aveva riacquistato la libertà, nel cuore dell’Europa, è un drammatico spartiacque, come era stata la fine della Seconda Guerra Mondiale e la calata della “cortina di ferro”. Ora la cortina non è solo tra libertà e oppressione: è anche tra Diritto, legalità, rispetto dei Diritti umani e Stato di Diritto da un lato; e aggressione, genocidario uso della forza, radicalizzazione ideologica e disprezzo per ogni Trattato o Accordo sottoscritto.

Con l’Ucraina è calata una “cortina di aggressione”, contro l’Europa, nel Mediterraneo in Medio Oriente, sino all’Asia e al Pacifico. La Russia di Putin ne è la protagonista da
quattordici anni. La Cina di Xi Jinping, sua alleata, da dieci anni. Ma ora l’Occidente c’è; è coeso; sta rispondendo. La coesione e risposta devono rafforzarsi.
Spetta a noi. Nato, UE, Indo-Pacifico, Mediterraneo sono le aree geopolitiche dove l’Occidente e i paesi like mindend devono rafforzare la loro strategia, difendere puntualmente i loro interessi nazionali e collettivi, e soprattutto – rendere inoppugnabilmente credibile, e temibile la loro deterrenza: per capacità di “resilience” e di “risposta” economica, tecnologica, militare. In una parola deve accrescersi e mantenersi a livelli sempre più elevati la deterrenza complessiva dei loro sistemi nazionali e delle loro organizzazioni e Alleanze. Per l’Italia, questo significa alimentare la piena consapevolezza dell’opinione pubblica interna e della classe politica, su provenienza, natura, intensità della minaccia: dalla Russia, dalla Cina, e dai loro alleati altrettanto messianici e fondamentalisti come l’Iran.
Il Mediterraneo è il playfield fondamentale per la sicurezza italiana e un playfield essenziale per quella Atlantica. La deterrenza nel Mediterraneo ha acquisito un valore esponenzialmente accresciuto dopo la tragedia Ucraina: la Russia a Tartus e le sue altre basi in Siria; la Cina da Gibuti al Pireo, a Trieste; la Turchia e la Russia in Libia sino al Sahel; l’Alleanza di Russia e Cina con l’Iran anti-israeliano e antisemita; la Turchia a Cipro, in fase di nuova aggressione. Sono tutti termini scomponibili e ricomponibili in pericolose equazioni. Sovrasta su tutto la distruzione del popolo, dello Stato, della identità ucraina da parte di un Presidente criminale, Putin. Sovrastano le minacce sulla nostra sicurezza che sono poste dalle Vie della Seta: veri cavalli di Troia acclamati in Italia perfino da ex Presidenti del Consiglio e Ministri di Governo; ed ora diventate vere e proprie autostrade per il dominio strategico da parte dell’Asse neo-imperialista tra Cina e Russia.

Non vi è infatti una sola “Via della Seta”, terrestre, marittima, scientifica, tecnologica e Cyber che non rappresenti nella sua reale declinazione una “Via della Sottomissione” per i Paesi o i mari da essa attraversati.

Il “Patto di Acciaio del XXI Secolo” tra Putin e Xi, santificato il 4 febbraio scorso, sugella la minaccia militare, oltre che di influenza politica ed economica, delle già osannate “Vie della Seta” che il Governo italiano dell’epoca ha, per primo in Europa, sottoscritto entusiasticamente in occasione della visita di Stato di Xi Jinping a Roma.

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore,  presidente Global Committee for the Rule of Law-Marco Pannella presidente Global Committee for the Rule of Law-Marco Pannella

 

CHI CONTROLLA LE INFRASTRUTTURE CONTROLLA I DATI

Finalmente l’Europa si è svegliata e si tutela dagli investimenti cinesi e persino la Germania denuncia che la via della Seta è lo strumento del dominio globale di Pechino. Quando lo denunciammo noi, nel meeting internazionale della Fondazione Farefuturo, organizzato alla Camera proprio il giorno dell’arrivo trionfale a Roma del Presidente cinese, gli altri plaudivano agli accordi Italia-Cina sottoscritti dal governo Conte Lega-Cinque Stelle. Ecco il testo dell’intervento che in quella occasione fu svolto da Giorgio Cuscito

Per Pechino l’adesione dell’Italia alle nuove vie della seta ha un significato fortemente simbolico. La penisola è posizionata nel cuore del Mar Mediterraneo, a pochi passi dall’Africa e al cuore dell’Europa. In più ospita basi USA e NATO. A Roma tuttavia la nostra partecipazione ha acquisito erroneamente un significato esclusivamente economico. A ogni modo, non credo che firmando il memorandum sulle nuove vie della seta e accogliendo investimenti nei porti nostrani lasceremo il controllo dei flussi marittimi alla Cina per una semplice ragione. La libera circolazione delle merci è garantita dalla talassocrazia degli USA, che con la loro Marina possono intervenire su qualunque rotta marittima commerciale.

L’Europa e l’Italia in particolare fanno parte di una sfera di influenza americana. Il Vecchio Continente è terreno di confronto in un gioco più grande. Il tempismo non è dalla nostra parte; abbiamo scelto di aderire alla Belt and Road Initiative in una fase di avvitamento delle relazioni statunitensi piuttosto preoccupante. Questo soprattutto sul terreno tecnologico. La posta in palio tra le prime due potenze al mondo è il primato economico, militare e tecnologico. La Cina si comporta da potenza compiuta, da Paese che persegue un percorso di sviluppo, anche nel campo militare. Perché quando si diventa una potenza economica inevitabilmente si cerca di tutelare gli interessi all’estero anche sul piano militare.

Questo è quello che fanno anche gli Stati Uniti con un percorso diverso; però non possiamo credere veramente che la legge sulla intelligence sia la ragione per cui Huawei collabora con il governo cinese. In qualunque potenza compiuta le imprese collaborano con lo Stato. Dovrebbe essere così in qualunque Paese. Quindi quando parliamo di Facebook e Google per esempio dobbiamo ricordare che l’America al pari della Cina utilizza le proprie imprese per raccogliere dati e informazioni. Questo è un concetto fondamentale, è il presupposto per tutti gli altri ragionamenti che vogliamo fare. Ora, il discorso sulla presenza o meno nel memorandum della questione delle comunicazioni lascia il tempo che trova perché innanzitutto non conosciamo il contenuto del documento, ma poi perché Huawei e ZTE sono presenti in Italia già da qualche tempo e collaborano con enti statali e privati nello sviluppo della rete 5G nazionale; lo fanno a Bari, Matera, Milano, L’Aquila e ciò è avvenuto con il consenso dello Stato e delle imprese; quindi evidentemente c’è un interesse a farlo e una delle ragioni è che la Cina è leader nel 5G. Gli Stati Uniti non hanno in questo momento una grande impresa capace di contrastare la Cina nello sviluppo di tale tecnologia. Ed è anche per questo che l’America vuole spingere i Paesi occidentali a non utilizzare Huawei, questa strategia non sempre funziona. La Francia, la Germania, il Regno Unito hanno centri per l’innovazione di Huawei. Noi ne abbiamo due, una a Catania e uno a Pula vicino Cagliari che studiano soluzioni per le smart e per safest cities. Quindi si occupano di attività anche nel campo della sicurezza. Anche Acea sta sviluppando delle attività a Roma per il monitoraggio intorno al Colosseo.

Queste sono attività di tipo tecnologico che noi stiamo portando avanti a prescindere dal memorandum e da quello che verrà firmato. Questo è quello su cui ci dobbiamo interrogare e su cui abbiamo ricevuto le pressioni dagli Stati Uniti più che la questione dei porti. La presenza di basi militari americane in un certo senso definisce i margini della collaborazione con la Cina a prescindere da quello che può fare il governo attuale. Credo che sia possibile delineare i confini della collaborazione con la Cina. Lo hanno fatto altri Paesi prima di noi, confrontandosi con gli Stati Uniti sul modo di dialogare con la Cina. È giusto sviluppare una regolamentazione normativa e anche prendere delle misure concrete dal punto di vista della sicurezza cibernetica per prevenire un utilizzo improprio dei nostri dati. Faccio un esempio che riguarda la Cina: Apple, gigante dell’internet americano, opera in Cina. È stata costretta ad adempiere alle normative cinesi nell’ambito della cybersicurezza ed è stata costretta a spostare i data-center degli account iCloud cinesi in una provincia molto povera della Repubblica Popolare, che sta cercando di compiere quel salto verso il futuro sfruttando l’economia digitale. Quindi è possibile controllare le infrastrutture, è possibile controllare i dati.

Non ho molta fiducia nello sviluppo di una attività congiunta all’interno dell’UE nel campo della difesa e nello sviluppo di un colosso tecnologico in grado di contrastare i cinesi, perché questo dovrebbe occuparsi di tecnologie dual use. Se non parliamo di sicurezza e di difesa europea in maniera costruttiva e non individuiamo l’interesse europeo, è difficile portare avanti questo discorso. Qual è l’interesse europeo? Io non riesco a individuarlo. Ciascun Paese ha i propri interessi nazionali e si serve dell’UE per promuoverli; allora utilizziamo questo strumento per trovare una linea generale nei confronti della Cina, ma non vedo la possibilità di costruire un gigante europeo in grado di proiettarsi nel campo delle tecnologie  dual use.  Per quanto riguarda il 5G: dobbiamo chiederci se abbiamo delle alternative alla collaborazione con Huawei e se vogliamo rinunciarvi. Lo potremmo fare, archiviando tutti i progetti che abbiamo avviato. Ma dovremmo cercare un sostituto. Perché se noi rinunciamo a questa tecnologia, possiamo subire danni su più livelli. L’alternativa è trovare un modo per contenere la presenza cinese. Prima però è fondamentale trovare un punto di intesa con il nostro alleato principale, gli USA che ci consenta di non essere schiacciati dalla competizione sino-statunitense. (Il dibattito è avvenuto prima che l’Italia firmasse il memorandum di adesione alla Belt and Road Initiative.)

Per approfondire le tesi dell’autore: G. CUSCITO, “Come si sta arrivando allo scontro di civiltà tra Usa e Cina”, Limesonline, 17/5/2019 G. CUSCITO, “In Europa, Pechino gioca la sua partita per l’influenza globale”, Limes 4/2019 “Antieuropa, l’impero europeo dell’America”.

 

*Giorgio Cuscito, consigliere redazionale di Limes, analista, studioso di geopolitica cinese, curatore del Bollettino Imperiale al meeting Il dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” Roma, 20 marzo 2019

La strategia cinese in Europa

Finalmente l’Europa si è svegliata e si tutela dagli investimenti cinesi e persino la Germania denuncia che la via della Seta è lo strumento del dominio globale di Pechino. Quando lo denunciammo noi, nel meeting internazionale della Fondazione Farefuturo, organizzato alla Camera proprio il giorno dell’arrivo trionfale a Roma del Presidente cinese, gli altri plaudivano agli accordi Italia-Cina sottoscritti dal governo Conte Lega-Cinque Stelle. Ecco il testo dell’intervento che in quella occasione fu svolto da Helena Legarda

Nel mio intervento cercherò di descrivervi quello che sta facendo la Cina; qual è la strategia cinese per raggiungere il predominio e poi come tutto questo avrà un impatto sull’Europa e cosa riteniamo che l’Europa debba fare. Una questione di grande importanza per la Cina è la tecnologia dual-use. Obiettivo trasformare tutto in un esercito che possa non soltanto combattere ma combattere e vincere. Questo è molto importante perché nel 2049 ricorre il centesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese e in quell’anno potrebbe essere proclamata come superpotenza.

L’obiettivo è avere il predominio sugli Stati Uniti, sull’Europa. La Cina sa che dal punto di vista commerciale e militare è in affanno, per cui cercheranno di fare qualcosa di più per superare l’Europa e gli Stati Uniti. Entro il 2020 quindi l’anno prossimo il numero dei dispositivi connessi raggiungeranno tre miliardi per un valore di quattro o cinque miliardi di dollari. Significa, quindi, aziende, uffici, tutto quello che può essere automatizzato. In cosa l’Europa è stata un po’ lenta. Siamo stati lenti nel capire quali fossero le conseguenze della Via della seta. L’Europa non era un obiettivo della Cina in passato, lo è diventato adesso, quindi noi dobbiamo tener presente questo elemento.

Qual è il vantaggio della Cina? Come ha fatto a muoversi così velocemente?  Innanzitutto è il sistema monopartitico in quanto la Cina può utilizzare tutto l’intero Governo per adottare delle decisioni e quindi per cercare soprattutto di colmare il divario con l’Occidente. Loro utilizzano un sistema molto organizzato che consente di mobilitare il Governo, la società, la popolazione, tutti a sostegno degli obiettivi del partito. Ciò è una cosa che ovviamente l’Europa e gli Stati Uniti non possono fare, perché nessuno Governo in Europa può costringere la società o ricercatori accademici a collaborare col Governo. Possiamo convincerli, possiamo cercare di attirare i loro interessi ma non altro; invece la Cina può farlo. C’è stato, per esempio, il tentativo da parte degli Stati Uniti, di coinvolgere Google per sviluppare un sistema che utilizzasse l’intelligenza artificiale, ma Google ha rinunciato perchè in esso si vedeva un potenziale uso militare di questa tecnologia. Quindi in che modo si rinnova la Cina; un aspetto è legato agli incentivi dati all’innovazione.

Loro hanno dei piani top down: parliamo soprattutto di politiche industriali quindi per esempio c’è l’integrazione civile e militare che può incoraggiare le aziende private, naturalmente private tra virgolette, in quanto non esiste un settore privato per come lo intendiamo noi. Il settore privato è coinvolto nella difesa, ma quest’ultima è di proprietà del Governo. Poi ci sono dei Piani quinquennali con due elementi fondamentali da considerare: il piano industriale cinese dal 2020 al 2025 e la politica Internet +. Se noi consideriamo il piano 2020-2025 ci sono vari settori che riceveranno il sostegno massimo dal Governo cinese: la robotica, l’industria aerospaziale, le comunicazioni, le ferrovie, l’impiantistica in genere. Queste sono alcune delle aree coinvolte e poi naturalmente Internet +. Parliamo quindi di tutte le parti tecnologiche che diventano strumenti che noi utilizziamo e utilizzeremo. Cos’altro fanno? Intanto cercano di creare delle grandi entità nazionali, fornendo prestiti, finanziamenti, supporti finanziari ad alcune aziende specifiche che operano in questi settori, soprattutto per trasformarle in aziende che diventeranno competitive come Alibaba, Baidu.

Aziende cresciute in Cina, in un mercato protetto e che adesso si stanno diffondendo all’estero. Non è una cosa da ignorare, esiste, è qui. E poi nel 2014 Pechino ha fornito 220 mld di euro per supportare lo sviluppo di alcuni settori strategici. 5 mld di euro per la robotica negli ultimi cinque anni. Molti non conoscono queste cose. Poi c’è il fatto che ci sono molte barriere all’ingresso, molte barriere che i cinesi impongono per ostacolare l’ingresso degli stranieri. Parliamo di: requisiti, censura, oppure cyber security. In sostanza loro hanno impedito alle aziende straniere di entrare in alcuni settori del mercato cinese, settori in cui le aziende cinesi vengono coinvolte in Europa, ma lo stesso non vale al contrario; oppure si può entrare nel mercato cinese facendo delle jointventure con altre aziende cinesi.

Questo comporta la condivisione dei dati e delle informazioni delle aziende. Questo porta ad un altro elemento: l’accesso all’innovazione straniera. Loro acquisiscono talenti. Il governo centrale cerca di portare in Cina talenti stranieri; è vero ci sono i cinesi che hanno frequentato università all’estero ma poi sono stati richiamati in Cina; il piano dei talenti ha l’obiettivo di inviare i propri talenti all’estero, farli studiare e poi tornare; oppure acquisire talenti stranieri. Poi c’è lo spionaggio industriale che coinvolge molti settori e poi tutto quello che viene fatto nell’ambito degli investimenti e delle acquisizioni, nel senso che ci sono molte aziende cinesi che stanno investendo in Europa per acquisirle e quindi stanno trasferendo tutte le informazioni presenti nelle aziende europee, in Cina. Ci sono alcune falle nel sistema soprattutto quando parliamo di tecnologie dual-use prettamente militari che non hanno divieti di esportazione verso la Cina. Tutto questo si sta realizzando e le tecnologie UE vengono trasferite in Cina sia legalmente che illegalmente. Molti Paesi purtroppo non hanno un meccanismo di screening nazionale rispetto agli investimenti cinesi perché esiste in realtà un sistema europeo, molto generico.

La Cina molto spesso ha usato la via degli accordi per accedere alla tecnologia europea. L’obiettivo è quello di sostituire il GPS degli Stati Uniti con il BeiDou che dovrebbe entrare a pieno regime il prossimo anno, anche se credo abbiano già raggiunto l’obiettivo, si spostano e vanno avanti velocemente. Ciò è importante sia dal punto di vista commerciale ma ha anche un enorme interesse militare come per esempio le capacità di country space. Qual è il legame con la UE? La Cina inizialmente è stata coinvolta nel programma Galileo, diventandone nel 2003 un partner del programma contribuendo con 100 mln di euro. Quattro anni dopo l’UE ha impedito alla Cina di parterciparvi ancora. Sono serviti 4 anni per mettere fuori la Cina ma a quel punto questa aveva ottenuto l’accesso a tutte le informazioni di cui aveva bisogno, soprattutto per quanto riguarda il dual-use. La Cina con quelle informazioni ha comunque potuto sviluppare proprie cose. Anche la collaborazione avviata tra Cina e Regno Unito che si concretizza in 12 programmi di ricerca congiunti. Tutto ciò è stato benefico per il programma spaziale cinese. Così come la tecnologia del Quantum; parliamo di Quantum computing, crittografia ecc. Sono molti aspetti in cui la Cina ha utilizzato il talento europeo per andare a sviluppare le proprie capability.

La Cina ha già utilizzato diversi milioni di euro per la ricerca ed è stato il primo Paese al mondo a lanciare un satellite quantum nel 2016. Molti per esempio non sanno che c’era anche un progetto di collaborazione tra ricercatori cinesi e austriaci, tuttavia poi non sono stati stanziati fondi. Ma i cinesi hanno portato il progetto in Cina ed hanno spedito il satellite quantum che alla base aveva un talento europeo. Questo è un esempio chiaro degli investimenti e delle acquisizioni da parte dei cinesi per accedere alle tecnologie not-out. Un link, un legame con l’UE è stata l’azienda Midea acquisita da Germany Robotic nel 2016. All’apparenza si tratta di una operazione innocua: un’azienda cinese che fa lavastoviglie e una tedesca che si occupa di robotica. Ma quando valutiamo le applicazioni dual-use notiamo che il loro stare insieme è motivo di preoccupazione. In che modo la Cina ha potuto accedere a tanta innovazione europea senza che l’UE lo notasse e fosse in grado di bloccarla? Non tutto è colpa della Cina, questa sta facendo le cose in maniera legale, mentre gli Stati europei non hanno prestato attenzione e non hanno considerato tutto questo come un problema. Questo è stato il punto focale. L’UE e gli Stati membri non hanno delle strategie coordinate; è vero che ci sono delle politiche a livello nazionale, ma alcune di queste si sovrappongono, altre si contraddicono; ci sono tecnologie che ricevono attenzione più delle altre, come quella sull’intelligenza artificiale che può sembrare più importante delle altre. Il problema è l’assenza di una strategia unica europea. Nei regolamenti europei sul dual-use si hanno interpretazioni diverse a seconda degli Stati; pertanto spetta a ciascun Governo stabilire quanto e come attuare quanto previsto e porre eventuali controlli. Per converso esistono molti Paesi che non hanno un meccanismo nazionale di controllo. Questo è un problema.

Forse c’è una carenza di volontà politica? Non lo sappiamo, ma ciò sta consentendo alla Cina di fare grandi passi in avanti. Gli Stati Uniti, per esempio, stanno stringendo le maglie; pertanto l’UE diventa un obiettivo più di quanto non lo fosse in passato. Cosa possiamo fare. Ci sono delle raccomandazioni che dobbiamo tener presente; in particolar modo due aspetti di queste. Uno riguarda la promozione dell’innovazione europea, la ricerca dello sviluppo che devono essere nostre e poi soprattutto proteggere quella che è l’industria e la tecnologia europea. Suggeriamo di avviare un processo di valutazione strategica a livello europeo con l’obiettivo di avere una valutazione comune delle minacce e dei rischi. Inoltre ci sono degli strumenti già sviluppati da un punto di vista militare, in quanto l’Agenzia europea per la difesa ha coinvolto gli Stati membri per definire quali sono le tecnologie chiave che devono rimanere in Europa. A questa si aggiunge il Centro di ricerca della Commissione europea che ha avviato un sistema di monitoraggio e controllo che è un’ottima cosa ma che non trova compiuta applicazione. Stiamo andando verso la direzione giusta, il meccanismo è buono ma va migliorato.

C’è qualche falla nel sistema che va individuata e rimossa come ad esempio il fatto che le raccomandazioni della Commissione europea da questo punto di vista sono opzionali in quanto la decisione finale spetta ai singoli Stati. Pertanto, tutto questo non vuol dire che dobbiamo smettere di collaborare con i ricercatori cinesi; ci sono molte ricerche che possono essere realizzate in maniera congiunta, ma tutti devono trarne vantaggio. Pertanto se un istituto di ricerca europeo oppure una università avvia una collaborazione con la controparte cinese, dobbiamo sapere: quali informazioni condividiamo, dove vengono tenuti i dati, di chi sono, chi è il proprietario delle componenti del progetto. Chiudo dicendo che l’argomento è molto ampio e per questo va meglio strutturato e studiato.

 

Emerging technology dominance: what China’s pursuit of advanced dual-use technologies means for the future of Europe’s economy and defence innovation di Helena Legarda

 

*Helena Legarda Ricercatore, Mercator Institute for China Studies, GB, al meeting “Il dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” Roma, 20 marzo 2019

L’interesse nazionale e la concorrenza europea

Nell’ambito delle linee guida politiche adottate dalla Commissione europea per il mandato della Presidente Ursula von der Leyen per gli anni 2019-2024, Margrethe Vestager, ancora una volta titolare della delega alla concorrenza economica, ha reso nota la sua intenzione di introdurre novità normative in materia di regolamentazione della politica industriale europea in rapporto all’economia digitale.

Per gli addetti ai lavori, il programma del Commissario Vestager non è un fulmine a ciel sereno, bensì la concretizzazione di un lavoro politico e tecnico accumulato in cinque anni, dal 2014 al 2019. Nonostante la natura fortemente composita dell’Unione europea, data dalla struttura articolata nel Trattato di Lisbona, il tema della concorrenza è sempre stato uno dei fiori all’occhiello della Commissione, snocciolata in precise ed accurate normative a copertura di concentrazioni ed acquisizioni industriali, aiuti di Stato e meccanismi di filtraggio degli investimenti diretti esteri.

La decisione presa nel 2019 dalla Commissione di fermare il merger tra la francese Alstom e la tedesca Siemens per la creazione di un colosso europeo delle infrastrutture su rotaia è considerato tipicamente lo spartiacque che ha portato la riforma del diritto europeo della concorrenza tra le priorità delle agende europee dei grandi Paesi-industria d’Europa: Francia e Germania.

D’altro canto, il tenore stesso dell’atteggiamento tenuto dal Commissario Vestager fornisce una cifra stilistica e politica di due grandi visioni d’Europa: allorché Francia e Germania ponevano come condizione necessaria e sufficiente per l’approvazione dell’operazione la necessità di creare un campione europeo (il primo tra tanto) nel campo del trasporto ferroviario per far fronte alle crescenti sfide poste dai grandi apparati industriali cinese ed americano, la DG Comp del Commissario Vestager si è opposta indicando come non sussista il rischio, allo stato attuale, di una invasiva ed anticoncorrenziale presenza di attori stranieri (in primis la Cina) nel mercato europeo tale da dover giustificare la creazione di campioni industriali europei.

Il dibattito, tra le Cancellerie con sede a Bruxelles, ha disposto immediatamente la creazione di due grandi paradigmi: favorire una politica industriale orientata alla creazione di campioni industriali europei, anche con deroghe alla normativa attuale per “ragion di Stato”, o mantenimento del rigoroso status quo? Sebbene Francia e Germania fossero capifila della prima corrente di pensiero, il tema del “come” rappresentava e rappresenta tuttora una questione interamente differente. Ammessa e non concessa la possibilità di un regime di deroga ai meccanismi di controllo del Regolamento n. 139/2004 (cd. EUMR), con che meccanismo dovrebbe vedersi attuata? Il diavolo è nei dettagli, e nei dettagli di queste grandi proposte di riforma si scorgono le vere differenze tra i giocatori in gara. Le Autorità francesi, infatti, hanno più volte caldeggiato un meccanismo di deroga di natura politica, da identificarsi idealmente nel Consiglio dei Ministri dell’Unione europea, o, comunque, mediante logiche intergovernative; i tedeschi, di converso, hanno sempre apprezzato l’idea di istituire una vera e propria antitrust europea, o comunque di delegare le valutazioni di questo tipo ad un organo completamente indipendente.

La Commissione europea, infatti, segue un modello ibrido, basato prevalentemente su un rigoroso rispetto di tutta una serie di crismi e di procedure di filtro e di controllo sulle acquisizioni industriali, lasciando in ogni caso l’ultima decisione in capo al Commissario responsabile che, in ogni caso, è un attore finemente e squisitamente politico.

Questo vivace dibattito ha inaugurato tutta una serie di iniziative volte ad influenzare e comprendere la direzione di un eventuale processo di riforma. Tale occasione pare finalmente essere arrivata con le proposte di regolamento sui servizi (DSA) e sui mercati (DMA) digitali avanzati dalla Commissione nel 2021, in attesa di un più ampio processo di riforma dell’EUMR. L’opportunità e le eventuali modalità di adattamento della normativa sulla concorrenza per l’era digitale è ancora oggi oggetto di un forte dibattito quando si toccano tematiche di policy ed applicazione normativa. Il nodo gordiano è in questo caso rappresentato dal fenomeno delle “killer acquisitions”, o acquisizioni ostili (estremamente ricorrenti in ambito digitale), operazioni di concentrazione di mercato dove gli acquirenti (genericamente aziende over the top) decidono di acquistare potenziali rivali, siano esse aziende o prodotti, per poterne neutralizzare l’influenza sul mercato.

Da un punto di vista meramente tecnico, l’EUMR prevede che un’operazione di concentrazione industriale finisca sotto la giurisdizione della Commissione europea solo quando il fatturato totale mondiale delle attività oggetto di merger superi i 5 miliardi di euro e il fatturato realizzato a livello europeo da almeno due delle imprese coinvolte superi i 250 milioni di euro. Le operazioni sono sottoposte al controllo della Commissione anche qualora si superino altre soglie di fatturato delle imprese interessate. Data la dimensione economica palesemente sotto soglia delle startup oggetto di acquisizioni ostili, le operazioni non finiscono quasi in nessun caso sotto la lente della DG COMP.

L’unica deroga è fornita dalla cd. “Dutch clause”, l’articolo 22 dell’EUMR, che stabilisce che uno o più Paesi membri possa richiedere alla Commissione di esaminare una determinata operazione di M&A che, pur non avendo una dimensione strettamente comunitaria, abbia tangibili ripercussioni sulla propria economia interna. Dal 1989 ad oggi, a fronte di oltre 8.000 casi esaminati dalla Commissione europea, questa disposizione è stata utilizzata solo 42 volte.

Nel marzo 2021, la Commissione europea, sotto impulso del Commissario Vestager, ha esteso l’applicazione della Dutch clause anche alle operazioni non regolarmente segnalabili alla Commissione. Il nuovo regime applicativo dell’articolo 22 ha portato a porre due nuove operazioni di concentrazione sotto l’occhio della DG COMP: Illumina/Grail e Facebook/Kustomer.

La modifica della Dutch clause costituisce solo un piccolo tassello di un più grande processo di riforma in ambito europeo, dove si discute l’eliminazione del meccanismo di competenza giurisdizionale della DG COMP basato sulle soglie di fatturato e dimensione economica. L’Italia deve buona parte del suo output economico alla produzione manifatturiera che, a parte qualche eccezione, si basa su una enorme rete frastagliata di cluster di piccole e medie imprese, e non di giganti industriali per settore.  Se Francia e Germania su questo tema hanno posto a più riprese le proprie posizioni, a tutela dei loro interessi economici e dei loro campioni industriali, il silenzio da parte italiana desta non poche preoccupazioni. Ora più che mai, dato l’inevitabile impulso riformatore delle normative europee in seguito alla crisi da COVID-19, le Cancellerie europee si pongono tutte il medesimo quesito: che cosa vuole l’Italia?

*Alessandro Guidi Batori, analista di politiche pubbliche

La nostra salvezza verrà dal mare

Dovrebbe essere oggetto di stupore che oggi la nozione di «interesse nazionale» possa essere oggetto di dibattito, e quindi di contrapposizione politica. E che questo venga visto come un fatto normale, di cui discorrere, e non per ciò che è: e cioè una patologia che testimonia dell’involuzione del discorso pubblico in Italia. Una patologia che si è avviata con la crisi istituzionale degli anni 1991-93; che, pur conoscendo diverse fasi, non si è mai interrotta; e che ha condotto alla situazione attuale di disorientamento della politica nazionale. Del resto l’Italia è l’unico paese dell’Europa occidentale che ha assistito, dopo il 1989, alla rimozione integrale di una classe politica, esattamente come è avvenuto nelle democrazie popolari dell’Est Europa (F. Fejto, La fine delle democrazie popolari. L’Europa orientale dopo la rivoluzione del 1989, Milano 1994). Lo stesso non è avvenuto in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, per guardare a paesi comparabili all’Italia per dimensioni, tradizione, capacità produttiva, e cultura, che invece hanno vissuto il Nuovo Ordine Mondiale (H. Kissinger, Ordine Mondiale, Milano 2015), Maastricht, e il nascere dell’Unione in una situazione di sostanziale continuità. Un giorno si spiegheranno meglio le ragioni che furono alla base di quello strano periodo: e si spiegheranno meglio quando la storia d’Italia di quel periodo sarà ricostruita sulla base della letteratura straniera che ne ha dato conto, durante e dopo quegli anni. Non sulla base di quanto è stato scritto in Italia. Sta di fatto che è da allora, e dalla Grande Cesura che lì si è prodotta, che l’Italia vive un «8 settembre» a bassa intensità e di lunga durata, che ne ha pregiudicato la collocazione sullo scenario mondiale, sia in termini economici, sia di ruolo geopolitico nelle aree di sua tradizionale spettanza, e cioè Mediterraneo e Vicino Oriente.

Questa situazione ha contato molto anche su altri versanti. Se si dovesse fare un bilancio del ruolo giocato dall’Italia all’interno dell’Unione è difficile negare che questo bilancio non sia stato altro che negativo. Senza ragionare qui delle cause che hanno condotto a questa situazione, ci vuol poco a riconoscere che in Europa l’Italia ha contato molto di più prima che dopo Maastricht. E che da Maastricht in poi il peso specifico di un paese di 60 milioni di abitanti, con un’economia splendidamente diversificata, con la seconda capacità industriale del Continente, ed eccellenze in praticamente tutti i settori della ricerca e della cultura, che ha contribuito come pochi alla formazione di quella che da europei, dovremmo chiamare cultura europeo-occidentale, sia andato riducendosi fino a diventare l’ombra di ciò che era solo trent’anni fa. Il che si dice nella consapevolezza di tutti i problemi e gli squilibri che erano evidenti ancora trent’anni fa, e che oggi si sono accentuati, fino a fare dell’Italia qualcosa di simile ad una Baviera con annessa una enorme Grecia. Detto questo sia chiaro: il Nord Italia non è la Baviera, e il Sud Italia non è la Grecia. Ma si tratta di una metafora utile a mettere in luce le tendenze in corso nel Paese, che indicano una chiara e forte tendenza alla divaricazione dei territori, in via di forte accelerazione. E che non danno mostra di interrompersi o rallentare. Tutto questo è una anomalia.

Ma è un’anomalia interessante, fortemente indicativa della condizione in cui versa il discorso sullo Stato – sulla statualità dovremmo dire – in Italia. Si sa che lo Stato, da G. Jellinek in poi, è un triangolo fatto di territorio, popolazione e governo: se viene a mancare o si indebolisce uno di questi tre elementi, lo Stato semplicemente cessa di essere uno Stato. Ma se le incrinature di territorio e popolazione sono tutto sommato facilmente riconoscibili (cosa è più misurabile di una perdita di Zona Economica Esclusiva?), lo stesso non avviene quando si parla di governo. Qui governo non è solo apparato o dominio: è innanzitutto azione, e cioè capacità di perseguire e realizzare obiettivi politici alla luce degli interessi che lo Stato di volta in volta ritiene di perseguire. Lo Stato, da questo punto di vista, si identifica con la politica, che è innanzitutto volontà e capacità di perseguire interessi. E allora non ci vuole molto a capire che uno Stato che non persegue un suo «interesse» può essere molte cose, ma ha già cessato di essere uno Stato perché non produce più politica. E di conseguenza ha lasciato spazio alla costellazione di interessi e di poteri indiretti – i poteri situazionali di cui parla sovente G. Sapelli (La democrazia trasformata. La rappresentanza tra territorio e funzione: un’analisi teorico-interpretativa, Milano 2007) – che ne occupano transitoriamente il territorio e che vengono di volta in volta scambiati per interessi italiani, tedeschi, francesi etc.: quando in realtà, nella maggior parte dei casi si tratta soltanto di interessi che si ammantano delle vesti dell’interesse nazionale (altrui) per trovare forma e realizzarsi. Quella tra potere statale e poteri indiretti, insomma, è una tensione ineliminabile, che si riflette sulla raffigurazione della rete degli interessi (del sistema, si dovrebbe dire, degli interessi) che alimentano la politica, e la sostanziano all’interno e al di fuori dello Stato. Interessi che, di quella rete, fanno una struttura in perenne movimento, decifrabile solo a prezzo di grandi sforzi e grande abilità e prudenza. Prudenza che, diciamolo pure, non sembra granché esserci stata dai tempi della Grande Cesura. Sicché la domanda che ci si dovrebbe porre è quali siano – e quali dovrebbero essere – gli interessi che sono stati perseguiti dalla politica nazionale da allora ad oggi. E quali siano i mezzi a disposizione – competenze, risorse, apparati – per perseguire oggi questi interessi. Ed è a fronte di queste domande – ma non solo di queste – che si scoprono gli effetti prodotti dalla cesura 1991-1993 sul Paese.

È su questo che si dovrebbe avviare una riflessione. Perché la politica è senz’altro identificazione di interessi altrui e capacità di realizzazione dei propri. Ma prima ancora è pensiero e capacità di ricognizione delle situazioni in cui è chiamato a muoversi lo Stato o quel che ne resta. Perché da sempre sono le domande a generare le risposte. E quindi a delineare gli scenari di azione. Questo dovrebbe essere il punto di partenza di una riflessione sull’interesse nazionale, dal momento che, se ci si muove da qui, si scopre che la società italiana ha smesso da allora, e cioè dai tempi della Grande Cesura, di interrogarsi sul proprio ruolo sullo scenario europeo e mondiale, essendosi appagata della sua dissoluzione nella nuova realtà istituzionale prodotta da Maastricht. Qualcuno, negli anni ’80, prima di Maastricht, aveva predetto che i tedeschi sarebbero entrati in Europa da tedeschi, i francesi da francesi, gli inglesi da inglesi, mentre gli italiani sarebbero stati gli unici ad entrarci da europei. I fatti gli hanno dato ragione. Ed è da allora che la politica italiana ha smesso di pensare e di pensarsi, acquietandosi nella delega firmata allora alle istituzioni europee, fino a trasformarsi in attività di esecuzione locale di scelte assunte altrove, e segnatamente in quel livello europeo dove – nel discorso pubblico italiano – tutto si fa indistinto ed opaco.

La seconda Grande Cesura, prodottasi nel 2011 con il fatto costituzionale del commissariamento finanziario della Repubblica, ha dato il colpo di grazia alla capacità del Paese di pensarsi come entità politica, favorendo il sorgere di un ceto politico sempre più penetrato da interessi esterni, che va cercando legittimazioni altrove. È esemplare – e dovrebbe essere oggetto di riflessione – la lista di politici e figure istituzionali italiane che hanno ricevuto medaglie e riconoscimenti provenienti da Stati esteri. Lo stesso non è avvenuto in altri paesi. Anzi, altrove – e non soltanto negli stati di democrazia classica occidentale, e cioè Francia e Germania, ma soprattutto negli stati di democrazia recente dell’Est, gli Stati cioè, dell’Intermarium – si è saputo capire che la nuova realtà istituzionale dell’Unione poteva essere un moltiplicatore di potenza per la realizzazione degli interessi nazionali, solo che si fosse stati in grado di coglierne le enormi potenzialità in termini di produzione di effetti egemonici. Il Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania del 2019 ne è un esempio; così come rischia di essere dello stesso fenomeno un esempio, ma a contrario, l’analogo Trattato tra Francia e Italia (Trattato del Quirinale) in gestazione da mesi. La vincolatività di questi Trattati sappiamo essere quella che è. Ma sono comunque spie di un unico processo in corso da decenni, che ha condotto, per merito altrui, e per incapacità nostra, alla situazione attuale. Il fatto che qualcuno sia entrato nell’Unione da Tedesco o da Francese, e solo noi da Europei ha prodotto, con il trascorrere del tempo, i suoi effetti. E lo stesso discorso dovrebbe essere fatto per altre forme di collaborazione, a cavallo tra il diritto internazionale ed il diritto dell’Unione, quali il Trattato Mes o il Trattato di Velsen con l’istituzione dell’Eurogendfor, i cui effetti benefici sul Paese sono tutto tranne che evidenti.

Tutto questo ha avuto, in aggiunta, l’effetto di allontanare il ceto politico italiano da quello che è il suo tradizionale alleato, e cioè gli Usa, i quali, anche per ragioni interne alle ultime amministrazioni, si sono progressivamente disimpegnati dal teatro europeo. E questo ha giocato non poco sulle condizioni che hanno portato all’attuale situazione, perché se il radicamento culturale ed economico dell’Italia è – e non può che essere – in Europa, bisogna capire che il suo radicamento politico non può che essere Oltreoceano, per le ragioni che si sono appena dette, stante che il disimpegno statunitense dal Mediterraneo e dall’Europa ha creato le condizioni affinché l’egemonia franco-tedesca potesse affermarsi, sia pure in modo zoppo e claudicante, sul resto del continente.

Bisogna riconoscere che ciò che, forzando il linguaggio, ci si è abituati a chiamare Europa – per farci dimenticare che Europa è una categoria della storia e della cultura mondiale, e non un disfunzionale gruppo di Stati retti da rapporti egemonici, il cui nome proprio è Unione europea – è esclusivamente una potenza terrestre. Governa un piccolo e limitato pezzo di Eurasia. Non ha capacità di proiezione marittima, nonostante la Francia da sempre aspiri ad essere presente sul mare. Il suo naturale ambito di espansione sta nell’Oceano di Terra che inizia, al confine tra Germania e Polonia, tra Chemnitz e Wroclaw, e finisce a Khabarovsk sulle coste del Pacifico, dove l’ultimo pezzo di costa siberiana affronta le coste giapponesi e a sud confina, per terra, con un lembo di Cina. Ma quello spazio le è precluso perché da sempre quell’Oceano di Terra è troppo vasto per poter essere controllato, ed è presidiato in modo insuperabile dal gigante russo. A differenza del suo ingombrante vicino, la proiezione di potenza dell’Unione non è militare, ma esclusivamente commerciale e mercantile. Tant’è che il suo diritto è una lex mercatoria riadattata all’età della tecnica e dell’informatica, impiegata come strumento di governo contabile, ed abbellita da una retorica dei «diritti fondamentali» fatta per distruggere la tradizione plurimillenaria del diritto razionale europeo. L’Unione non può proiettarsi nel mondo attraverso la forza della finanza, perché la finanza è affare esclusivamente anglosassone. Si proietta nel mondo attraverso la produzione e l’esportazione di manufatti,  e l’accumulo di surplus commerciali superiori a quelli cinesi.

La sua massima economia, quella tedesca, è un aliante trainato dal motore dell’aereo cinese e non è autosufficiente, essendo condannata all’esportazione dal modello economico scelto fin dal dopoguerra, e codificato nella Stabilitätsgesetz del 1967. Il progetto europeo per una proiezione di forza finanziaria in competizione con il dollaro nelle aree asiatiche e del Medio Oriente, che pure c’è stato, è fallito anche prima della crisi del 2008. Di quel progetto restano solo gli effetti interni, e cioè la capacità da parte di alcuni Stati-nazione di impiegare una moneta creata dall’ingegneria finanziaria per egemonizzarne altri con la collaborazione della classe dirigente di questi stati nuovamente asserviti. Con l’unica differenza, rispetto al passato recente, che questa egemonia si basa sulla forza contabile e non più militare. Da qui la differenza tra Core e Piigs – e cioè tra «Nucleo» e «Porci» – che descrive in due parole l’attuale disequilibrio europeo. La collocazione geografica degli Stati-nazione egemoni, e cioè Germania e la subordinata Francia, è però determinante per il loro destino politico. Vista la loro collocazione, la proiezione di forza attraverso l’esportazione è destinata a svolgersi soltanto per vie di terra, come per via di terra doveva proiettarsi la potenza manifatturiera tedesca sulla direttrice Berlino-Baghdad-Baku all’inizio del XX secolo: la via di terra, insomma, che, secondo il pensiero strategico tedesco di fine ‘800, doveva essere la risposta continentale alla rotta che, attraverso Suez, da Londra arrivava in India e in Australia e che costituiva la «spina dorsale» dell’Empire da proteggere ad ogni costo (Correlli Barnett, The Collapse of British Power, London 1972).

Già la diversa percezione degli spazi coinvolti dalle vie di terra e dalle rotte di mare avrebbe dovuto mettere in guardia i suoi architetti dal riporre troppe speranze in un progetto che si è interrotto con l’avvio della guerra civile europea, iniziata nel 1914 e finita nel 1945. Così non è stato, come aveva capito benissimo Carl Schmitt, quando diceva «la Germania non è mai stata altro che uno stato continentale europeo di media grandezza. Questo è il nostro destino: un destino da topi di terra! Il Reich tedesco è ridicolo a confronto con l’Empire inglese» (Terra e Mare. Riflessioni sulla storia del mondo, Adelphi 2002). Il Landnahme, l’impossessamento di Terra, insomma, non è niente in confronto al Seenahme, all’impossessamento di Mare: questa è la lezione lasciata da Carl Schmitt ai mediocri strateghi di Maastricht e Lisbona. E questo segna il destino dell’Unione, che è un destino di inevitabile fallimento, nonostante le sue strategie mercantiliste. In realtà l’Europa di Maastricht ha avuto la possibilità di diventare una potenza marittima attraverso  il rapporto con la Gran Bretagna, che è stata la grande continuatrice, in età moderna, della tradizione medievale veneziana – e dunque italiana – di traffici commerciali ed influenze politiche. Un’Europa che avesse saputo dare alla Gran Bretagna il ruolo che le spettava nel progetto europeo avrebbe potuto espandersi strategicamente sia per terra che per mare. Ma avrebbe dovuto risolvere l’equilibrio di potenza tra Terra e Mare attraverso un patto del genere di quello cercato nel 1940 e mai realizzato. Questo patto non c’è mai stato. E allora non deve stupire che la Gran Bretagna di Maastricht sia salpata una seconda volta nella sua storia, dopo il XVII secolo, ed abbia abbandonato i topi di terra al loro destino. Perché la convivenza tra Terra e Mare – e, cioè, fra pensieri strategici diversi e diverse percezioni dello spazio – è impossibile. Se temporaneamente questa convivenza si realizza, è sempre instabile e occasionale. Questo è il senso storico della Brexit, che riporta la Gran Bretagna nella sua antica posizione di ago della bilancia dello scacchiere europeo, e che restituisce il Foreign Office alla sua tradizione funzione di regolatore, per via diplomatica, degli equilibri europei.

Da oggi in poi l’unico suo interesse sarà lavorare per contenere o distruggere quel che resta di quel progetto imperiale europeo, che era poi nient’altro, come ha spiegato benissimo sempre H. Kissinger, se non la riproposizione in età moderna del modello di Carlo V d’Asburgo da parte del pensiero strategico americano del dopoguerra. E infatti, per qualcosa che non è una coincidenza della storia, l’altra grande potenza marittima che, dopo aver preso il dominio degli Oceani nel 1945, ha preso il dominio del Mediterraneo dai tempi di Suez, e cioè gli Usa, è oggi, sia pure con i nuovi limiti di pensiero strategico che un tempo non le appartenevano, in rotta di collisione con quel che resta del progetto neoimperiale europeo. E cioè di un progetto che, in origine, era stato voluto proprio dagli americani, prima in funzione di contenimento dell’Urss e poi, dopo il 1989, per stabilizzare un lembo comunque rilevante – una regione – di Eurasia, partendo dal presupposto della realizzabilità di un mondo unipolare a dominio americano. Gli anni della presidenza Obama-Clinton sono stati gli anni di massimo sviluppo del progetto neo-asburgico e l’euro ne è stata parte integrante. Così come ne è stata parte integrante, in Italia, la collaborazione di buona parte della classe dirigente di quegli anni, che, per sopravvivere e governare un paese che doveva deindustrializzarsi in nome della teoria dei vantaggi comparati, si è alimentata del doppio rapporto con la centrale americana e con i suoi terminali europei, in Francia e Germania. Sono anni, questi, che, nel Mediterraneo, sono finiti. E sono finiti prima con la vicenda libica, iniziata con una guerra combattuta dell’Italia, per conto terzi, contro gli interessi italiani, e poi con la vicenda siriana, in cui la Francia ha mostrato tutta la sua incapacità di sostituire la Gran Bretagna come braccio marittimo di proiezione di potenza, nonostante iniziative come la Scuola di Guerra Economica (Ecole de guerre économique), concepita dagli enarchi per perseguire, in forme non militari, e a discapito dei vicini europei, tra cui l’Italia, gli interessi francesi. E a buon diritto: in fondo il conflitto economico è il cuore del progetto europeo, come dimostra l’art. 3 del Trattato Unico Europeo, che fa della «forte competizione» l’obiettivo privilegiato dell’ordinamento dell’Unione, cui tutti gli altri devono subordinarsi. La creazione, da parte della Francia, di un’istituzione come la Scuola di Guerra Economica è solo un sintomo di salute e consapevolezza di sé da parte di uno Stato che non vuole rinunciare ad essere Stato, pur all’interno del «sogno» europeo. E che sfrutta il «sogno» per continuare ad operare, sia pure nel modo tradizionalmente velleitario e sbilenco che gli è proprio, come uno Stato. Semmai sono stati i paesi o, meglio, le classi dirigenti di paesi come l’Italia, che si sono voluti fare satellite, a precludersi questa consapevolezza di organizzazione e, dunque, di azione politica. Accettando così, e anzi, accelerando, una sorte di declino che sarebbe stata evitabilissima.

Oggi quel che resta del progetto europeo si è ridotto, come già nel 1943, all’area franco-tedesca e ai rispettivi satelliti (F. Merusi, Il sogno di Diocleziano, Torino 2012), anche extraeuropei, come sono dei satelliti le excolonie del Franco CFA, le cui popolazioni sono state fatte fluire in Italia negli ultimi anni come destinazione di seconda scelta, che alleggerisse la naturale pressione sulle coste francesi di popolazioni francofone. È un’area, quella franco-tedesca, tutta di Terra che oggi è sotto pressione dal Mare tanto da Ovest, con la Brexit, quanto da Sud, e cioè dal Mediterraneo, attraverso l’Italia. Non sono ricorrenze casuali quelle in corso, per il semplice fatto che la geopolitica ha una sua logica e che, come aveva capito benissimo Schmitt settant’anni fa, il mostro mitologico di Terra, il Behemoth, è destinato ad essere sempre strangolato dal mostro mitologico di Mare, il Leviatano. Una volta che gli equilibri di potere americani si saranno definitivamente stabilizzati, sarà solo questione di tempo perché l’anglosfera riprenda il controllo del piccolo gigante di Terra, e riduca a ragione uno strumento – in realtà un esperimento – di governo regionale sfuggito di mano ai suoi creatori. E che è stato venduto alle popolazioni di questa parte di Eurasia come «sogno europeo», infarcendolo di richiami a Kant, alla «pace perpetua», all’ideologia dei diritti in impossibile, perenne espansione, all’economia «in equilibrio» dell’ordoliberismo, e ad altre amenità del genere. Per l’Italia, che è una potenza regionale anfibia, che non ha mai scelto veramente fra Terra e Mare, e dunque non si è mai veramente compiuta, presa com’è fra un Nord manifatturiero ed esportatore, ed un Sud centro naturale del Mediterraneo, se ci sarà salvezza, questa salvezza verrà dal Mare. E sarà una salvezza dolorosa da raggiungere. Come, sempre dal Mare e dalle sue potenze, verrà – se verrà – la salvezza del resto d’Europa.

*Alessandro Mangia, professore ordinario di Diritto Costituzionale Università Cattolica, Milano

Come rispondere al governo in formazione

Su invito del Presidente della Repubblica si sta formando un Governo «al di fuori di una predefinita formula politica». Ciò comporta un interrogativo di fondo ad un movimento che ha la promozione dell’interesse nazionale come obiettivo di fondo: lo si promuove meglio entrando in un Governo composto in buona misura da «avversari storici» anche e soprattutto sotto il profilo della cultura politica oppure restando una voce vigile e critica all’opposizione?

Ambedue le posizioni sono, ovviamente, legittime. Il Governo nasce, su iniziativa del Capo dello Stato, con linee già indicate anche se non articolate nei dettagli: combattere la pandemia e mettere in atto un «programma di riassetto strutturale» di riforme e di investimenti, finanziato in larga misura con fondi dell’Unione europea, per rimuove ostacoli alla crescita in sei aree già definite (giustizia, pubblica amministrazione, dotazione di infrastrutture, istruzione, sanità, ambiente).

I «programmi di riassetto strutturale», nati con il «Rapporto Brandt» del 1980, affinati in Banca Mondiale ed al Fondo monetario negli ultimi vent’anni del secolo scorsi, sono giunti alla Banca centrale europea ed alla Commissione europea dopo la crisi del 2008-2009 e sono stati adottati da Grecia, Irlanda e Portogallo. Sono, di norma, finalizzati all’aumento della produttività, della produzione, del valore aggiunte, dell’occupazione ed anche ad una migliore distribuzione del reddito. Loro caratteristiche sono a) rigore nelle politiche di bilancio per contenere disavanzo pubblico; b) ri-orientamento delle priorità della spesa pubblica verso comparti tali da offrire, al tempo stesso, rendimenti economici elevati ed il potenziale di migliorare la distribuzione dei redditi (quali l’infrastruttura, l’istruzione e la sanità); c) riforma tributaria (per ridurre le aliquote marginali ed ampliare, in parallelo, la base imponibile); d) riforma della giustizia per rendere procedimenti più veloci e dare a tutti maggiori certezze ; e) modernizzazione dell’istruzione; f) maggiore attenzione alle politiche ambientali ed alle implicazioni ambientali di politiche in tutti i settori.

Il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza (PNRR) di cui il Governo Conte 2 ha predisposto due bozze criticate severamente anche dal servizio studi di Camera e Senato deve essere in gran misura scritto di nuovo e presentato all’Unione europea entro il 30 aprile. Il «programma di riassetto strutturale» dura sei anni; quindi, le scelte prese adesso vincolano in gran misura anche la prossima legislatura.

Quindi, se la decisione è di sostenere il Governo, occorre essere rappresentati tramite o politici o tecnici di area in modo da incidere sulla definizione del PNRR e del relativo «programma di riassetto strutturale».

Se, invece, la decisione è quella di porsi all’opposizione, comunque un baluardo democratico in uno Stato di diritto, occorre chiedersi se si intende esercitare un’«opposizione reattiva» ad un’«opposizione proattiva e propositiva».

In ambedue i casi si tratta, in termini di «teoria dei giochi», di «giochi multipli» su almeno due tavoli. In uno la posta in gioco è «l’incisitività» sulle scelte pubbliche; nell’altro «la popolarità» nei confronti del proprio elettorato attuale e potenziale.

Un’«opposizione reattiva» può dare poco in termini di «incisività» ma molto in termini di «popolarità» da utilizzare nella prossima legislatura, pur se nei vincoli di manovra concessi da impegni pluriennali presi non solo con la Commissione europea ma soprattutto con gli altri 26 Stati dell’Unione europea.

Un’«opposizione proattiva» necessità di una strumentazione e di un supporto tecnico di alto profilo per «incidere» in questa legislatura e prepararsi alla prossima. Si tenga presente che sul sito di web di Forza Italia si può leggere da oltre un mese una bozza di PNRR alternativa a quanto presentato dal Governo Conte 2- le cui idee confluiranno in parte nel «programma di riassetto strutturale del Governo Draghi. Altro esempio, nella legislatura 2013-2014 ho presieduto il Board scientifico del Centro Studi Impresa/Lavoro sponsorizzato da un imprenditore del Nord. Il Board era costituito oltre che da me dal Presidente della Hayek Society, dall’ex Segretario Generale dell’OCSE e da un Professore Emerito della LUISS. Ovviamente non percepivamo compenso (ma ci veniva offerta una cassetta di vino l’anno a Natale ed un incontro conviviale ogni due mesi), ma disponevano di un ufficio a Via dei Prefetti, di due collaboratori fissi e di fondi per consulenti. Oltre ad un web magazine, abbiamo prodotto quattro libri (di cui uno è stato a lungo nella bacheca del Ministero dell’Economia e delle Finanze per mesi come «libro dell’anno») ed alcuni opuscoli distribuiti con il quotidiano «Il Giornale Nuovo»- In breve, per fare «opposizione proattiva» occorrono risorse. Quante ne può mettere in campo Fratelli d’Italia?

*Giuseppe Pennisi, economista 

PROMUOVERE L’INTERESSE NAZIONALE IN UN MONDO COMPLESSO

Questo saggio di Giampiero Massolo, ambasciatore,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Nel nostro Paese, per motivi storici e culturali, ci si riferisce spesso con pudore e cautela al tema dell’interesse nazionale. Oggi, peraltro, esso è tornato di attualità in quanto fattore qualificante dello «stare al mondo», un requisito necessario per il bene della collettività.  L’impatto di una crisi grave e inattesa, come quella dovuta alla pandemia da Covid19, riassume in sé molti aspetti caratterizzanti: una minaccia nuova, immateriale e asimmetrica, che mette alla prova assetti e alleanze, così come la nostra coerenza nel farne parte; che comporta la necessità di conciliare l’emergenza sanitaria con quella economicosociale; l’opportunità di tutelare asset strategici potenzialmente in posizione di minore forza da appetiti stranieri. L’urgenza di definire e difendere l’interesse nazionale si ripropone, quindi, viepiù oggi con grande evidenza. Cresce coerentemente l’esigenza di formulare politiche improntate all’interesse nazionale, fra tutte il primato spetta alla politica estera. Sembra evidente che quest’ultima risponda all’interesse nazionale per sua stessa natura, ma in realtà, perché ciò accada, è necessaria una chiara definizione degli ambiti verso i quali prioritariamente ci si intende rivolgere, come necessaria appare una coscienza dei limiti, una disponibilità di strumenti e, soprattutto, l’attitudine a usarli per assumersi responsabilità in proprio.

Non sempre accade. È intuitivo constatare che l’interesse nazionale consiste in un esercizio di sintesi. Non vi è un interesse nazionale aprioristico, ma una sommatoria di fattori che spetta ai Governi sintetizzare. E di tale potere di sintesi essi sono responsabili, poiché nell’esercitarlo definiscono priorità e operano scelte. Queste scelte trovano la propria verifica politica nei parlamenti e, in definitiva la propria sanzione, nel voto dei cittadini. Torna qui il tema della difficoltà nel definire il proprio interesse nazionale, in qualche modo correlata alla poco assidua attenzione per le cose del mondo e alla spesso non profilata sensibilità dei cittadini. Anche da noi. È difficile quindi che i governi si sentano responsabili in via prioritaria su questi specifici temi. I governi si muovono comprensibilmente alla ricerca del consenso e sembrano dare spesso per scontato il peso relativo della politica estera e delle aspettative dell’opinione pubblica al riguardo. Oggi questo trend è in qualche inversione, anche a seguito della progressiva presa di coscienza dell’impatto che hanno sui nostri destini avvenimenti fuori dai confini nazionali (paradigmatici il conflitto libico, come i flussi migratori o il drastico passaggio della crisi finanziaria del 2008 e seguenti). E ancora, la pandemia che ha colpito il mondo ha accentuato drammaticamente la presa di coscienza.

D’altra parte il nostro Paese (e i suoi cittadini) deve tenere conto della realtà nella quale è chiamato a operare, inserito com’è in un sistema di relazioni internazionali, su un campo di gioco, ove competono e si confrontano diversi interessi nazionali. È difficile perseguire il proprio, senza essere vigili ai cambiamenti dello scenario globale. Perché questo accade in misura crescente? Conta sotto questo profilo, la rapida evoluzione del contesto internazionale in questi anni. Anzitutto, il contesto internazionale in cui si muovono gli Stati è ormai privo di «ombrelli protettivi». Il progressivo declino del multilateralismo, l’allentamento del carattere valoriale delle alleanze ha indotto una diluizione della differenza fra la nozione di partner e di alleato. Insomma, oggi il mondo è sempre più un mondo di competitors nel quale ancoraggi tradizionali come la Nato, la stessa Ue, l’Onu sembrano attenuarsi come mezzi di legittimazione dell’attività internazionale. In secondo luogo, sono mutati gli attori. Non è chiaro se si stia marciando a tappe forzate verso un nuovo «condominio bipolare» sino-statunitense. È ancora presto per dirlo. Ciò che è incontrovertibile, tuttavia, è che l’ordine mondiale liberale come l’abbiamo conosciuto, basato sulla primazia dell’Occidente, sul libero mercato e sui valori della democrazia rappresentativa è venuto meno e difficilmente potrà riproporsi almeno nella sua forma originaria. Siamo come «in mezzo al guado», perché se è vero che il condominio sino-americano sembra intravedersi, ci troviamo ancora in una fase fluida, di «recessione geopolitica», si potrebbe dire in uno stato di «G Zero». Senza un protagonista unico riconosciuto e senza regole universali. Al tempo stesso, si affollano nel mondo odierno molti nuovi attori essenzialmente non statali: grandi aziende, individui, Ong, terrorismo jihadista, le «piazze» (da non sottovalutarne l’impatto sul panorama internazionale).

A medio termine, dunque, non sembra alle viste un ritorno alla logica della cooperazione, una volta affermatasi quella di potenza che sempre più connota le relazioni internazionali. La logica «transazionale» promossa in primis – ma non solo – anche dall’amministrazione americana tende a prevalere al momento («pesi» e sei mio alleato non in nome di un valore fondante della nostra alleanza, ma per ciò che puoi darmi). Anche la risposta internazionale alla pandemia ne ha risentito: il mondo è apparso molto più diviso rispetto, ad esempio, alla reazione alla crisi finanziaria del 2008/2009.  Attenzione meritano poi le crescenti forme di influenza extra-statuali, la cui dirompente portata è esemplificata da quella della cibernetica.

È vero che non siamo nuovi all’esperienza di diverse forme di influenza, ma oggi questa è così pervasiva, penetrante da rappresentare una minaccia straordinaria. Se da un lato ciò non può far concludere  che ogni appuntamento elettorale in una democrazia rappresentativa sia falsato, dall’altro comporta una mutazione del sistema delle relazioni internazionali e implica la necessità di assumere opportune contromisure a propria difesa. Se questo è il mondo di oggi con le sue prospettive di medio termine, come può modellarsi una politica basata sull’interesse nazionale date le circostanze? Ogni governo, che voglia fare l’interesse dei propri cittadini deve intanto abituarsi a navigare in mare aperto senza dare per scontate più di tanto amicizie e inimicizie, identificando chiaramente il proprio interesse nazionale, dandosi un sistema decisionale efficiente, assumendo sempre più responsabilità in proprio senza pensare di poterle troppo delegare agli organismi multilaterali. E se l’autorevolezza e la solidità delle organizzazioni internazionali dipende dall’autorevolezza e solidità dei loro Stati membri, si può concludere che Stati forti e autorevoli rafforzerebbero il multilateralismo oggi in crisi. Rafforzare le capacità, all’occorrenza, di poter decidere in proprio è cruciale. Accrescere poi la partecipazione delle proprie opinioni pubbliche. L’opinione pubblica non può entrare in gioco solo come macchina di consenso (e di voti), ma deve contribuire, in modo informato, ai processi decisionali responsabilizzando i propri rappresentanti. Far crescere consapevolezza e responsabilità è essenziale. Ricercare i partner e alleati con i quali compiere percorsi comuni, distinguendo gli uni dagli altri. Con i primi entrano in gioco gli interessi, che a volte possono coincidere e indurre a compiere un tratto di strada insieme, con i secondi sono i valori (non sempre gli interessi contingenti) a fungere da collante. La capacità di discernere è decisiva. Rilanciare infine il multilateralismo è centrale, specie per un Paese come il nostro e più in generale per i Paesi Europei.

Per superarne la crisi oggi bisogna partire con un approccio bottom up, dagli interessi concreti, promossi da coalizioni di Paesi che intendano compiere lo stesso percorso, per dirigersi auspicabilmente nella medesima direzione. In un mondo «multi-concettuale» diventa allora prioritario ricercare temi unificanti e fra tutti quelli della sicurezza cibernetica e dei cambiamenti climatici sembrano i più adatti a lanciare un simile esperimento. Lavorare insieme tra Stati «willing», senza troppi distinguo, ricostruendo la dimensione multilaterale, è la prospettiva di speranza per il futuro. Ma se non accadesse, non potremmo evitare di assumerci le nostre responsabilità. Meglio prepararsi per tempo.

 

*Giampiero Massolo, presidente ISPI, ambasciatore

PROGRAMMAZIONE DEMOCRATICA CONTRO ECONOMIA TECNOCRATICA

Questo saggio di Giulio Sapelli, economista, storico e accademico, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

 

La crescita dei sistemi economici mondiali è sempre stata caratterizzata da un intreccio a geometria e a composizione variabile tra stato e mercato e tra corpi intermedi, tra queste due entità che mai si presentano divise e scomposte. La retorica marginalistica e neoliberistica ha conquistato l’egemonia culturale e ha assunto il controllo di tutti gli organismi di direzione tecnocratica dell’economia mondiale e delle università anglosassoni ed europee. Tale egemonia ha capovolto il mondo e la scienza economica ponendo il mondo a testa in giù. La finanza dispiegata ha soffocato, del resto, sia i mercati del lavoro sia quelli delle merci in quella che è l’unica, vera, globalizzazione realizzatasi: quella delle monete simboliche create non solo più dalle banche centrali, ma anche da tutti gli intermediari finanziari con gli strumenti derivati. La grande rivoluzione dell’ITC ha fatto il resto, con la proliferazione degli algoritmi per gli investimenti su larghissima scala imponendo il tempo della decisione in forma così immediata da impedire ogni forma di negoziazione nell’immediatezza degli scambi.

Il feticismo dello scambio si è unito al feticismo delle merci. Il lavoro e l’occupazione sono divenuti non più obbiettivi, non più scopi dell’economia, ma sue derivate subordinate sull’altare della rendita finanziaria. Tanto il profitto capitalistico quanto il reddito da lavoro sono stati colpiti e sono tracimati in pure variabili della rendita finanziaria governata dai detentori degli algoritmi che egemonicamente dominano sia gli strumenti di governance delle imprese, sia i mezzi di comunicazione di massa. Il sistema dell’economia mista è stato non solo travolto ma delegittimato sull’altare dell’ingiustizia, annichilendo sia la ribellione sia l’indignazione. Di qui l’emergere di una produzione economica di beni reali rivolta non al mercato interno in misura necessaria per l’occupazione e il sostegno del reddito ma tutta diretta, invece, ai mercati esteri teorizzati come entità senza crisi cicliche. L’inveramento pressoché totalitario del modello export-lead è stato particolarmente dannoso per quei sistemi economici che il grande Michael Kaleckj chiamava sistemi intermedi, ossia quei sistemi che erano gli ultimi tra i primi e i primi tra gli ultimi dei plessi geopolitici economici in cui la storia li aveva posti secolarmente.

L’Italia è la nazione più significativa a questo proposito. A tardiva e fragile unificazione, a profonde divergenze territoriali (nord e sud) e strutturali (industrie rivolte all’estero e quelle rivolte al mercato interno) e di dimensione, con poche grandi imprese recentemente distrutte dal modello di privatizzazione Prodi-Eltsin  senza liberalizzazione e ad alto tasso di corruzione, e una miriade di coraggiose e resistenti piccole e medie imprese penalizzate dalle politiche economiche governate dalla tecnocrazia. Tutto si svolge dopo e con un giro di boa storicamente determinato. Nella decade degli anni Novanta del Novecento tutto si decise con decisioni subalterne al mercato mondiale dei capitali e all’egemonia tedesca in Europa inveratasi dopo il crollo dell’Urss, con un pericoloso allentamento dei legami con gli Usa, legami che sono sempre stati l’ancoraggio vitale per l’Italia sin dagli anni Venti, quelli precedenti la grande crisi del 1929.

Giuseppe Guarino, il Maestro che ci ha lasciati in questi difficili tempi per la Repubblica, fu colui che più interpretò e comprese questo cambiamento. Tutto inizia in quel plesso di anni che vanno dalla fine del decennio Settanta all’inizio di quello Ottanta del Novecento, plesso temporale decisivo. Il divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro, avvenuto nel 1981, fu preceduto nel 1978 dall’adesione allo Sme. A esso, di fatto, si aderì – per cecità politica – contro l’opinione della stessa coorte dirigente di quella Banca d’Italia. E di poi la strada disastrosa di quel tipo specifico di privatizzazioni che allora si scelse produsse gli effetti di cui oggi paghiamo, come italiani ed europei, tutti i prezzi. Per richiamare ancora l’alta figura di Giuseppe Guarino, Egli, contrario alla linea che a quel tempo prevalse, tentò di condizionarla, cercando d’inverare la creazione di ancor più grandi gruppi strategici privati a partecipazione statale (con quote da negoziare volta a volta non impedendone la valorizzazione borsistica anche su piazze non italiane). Esemplare fu la proposta di unire Eni ed Enel in un’unica grande compagnia energetica, ben sapendo che la buona managerialità era possibile tanto con l’allocazione privata dei diritti di proprietà quanto con quella pubblica. Il tentativo fallì.

Prevalsero le privatizzazioni «a spezzatino», nella linea voluta dall’allora ex presidente dell’Iri, Romano Prodi, ch’era simile a quella argentina e post sovietica, con addirittura l’eliminazione che ne seguì di alcune grandi presenze italiane allora prestigiose nelle popolazioni economico-organizzative dei mercati internazionali, come era del resto già accaduto con la sconfitta del grande disegno di Schimberni nell’industria chimica e su cui oggi disponiamo dei primi studi incontrovertibili. E incontrovertibili erano le convinzioni di coloro che pensavano che un’area di moneta unica che concatenava nazioni a diversissimo gradiente di produttività, non poteva che accrescere le divergenze economiche e sociali. Gli avvenimenti di oggi confermano quella tesi in modo incontrovertibile. I trattati internazionali che regolavano e regolano l’Unione Economica Europea che ne derivò e ne deriva sino a oggi, non potevano virtuosamente sostituire una Costituzione che era impossibile far accettare dai popoli (i referendum fallirono sia in Francia, sia in Olanda) e i regolamenti di funzionamento dei trattati che sostituivano e costituivano, insieme, ordinamenti non giuridici ma di fatto, non potevano che essere il trionfo di una linea europeista conservatrice e non riformista, come Guarino e pochi altri come lui auspicavano. Una stagnazione secolare iniziò con gli anni Novanta del Novecento, inizialmente mascherata dall’«irrazionale esuberanza borsisitica». La stagnazione secolare che Hansen aveva previsto sul finire degli anni Trenta, stagnazione da deflazione (secolare anch’essa) quale quella instabilmente determinata da una situazione monetaria da currency board con moneta artificiale parametrata dalla precedente moneta europea storicamente più forte (il marco) per abbassarne il valore e favorire il surplus della nazione dominante nell’Unione Europea. La creazione di un impero economico senza costituzione e quindi a regime metagiuridico giurisprudenziale e non legale-parlamentare si unisce all’assenza di una politica economica che non sia solo redistributiva di risorse accumulate dal sistema regolatorio e senza una banca centrale in grado di agire con tutti gli strumenti del prestatore in ultima istanza.

È evidente che i «sistemi economico-sociali intermedi» sono quelli che hanno più sofferto di codesta situazione – che prima che economica è culturale, politica – e che ha coinciso con l’impossibilità di esprimere una qualsivoglia politica economica nazionale: gli insediamenti umani a lunga stabilità e a rilevante omogeneità culturale in questa fase della storia del capitalismo iper-finanziarizzato e iper-liberalizzato non possono più render manifeste politiche economiche nazionali perché questa è l’essenza stessa del modello di economia a mercato e finanza dispiegati inveratosi su scala mondiale, sia attraverso le ciclicità sistemiche sia attraverso le decisioni politiche centralizzate realizzate dalle oligarchie politico-imprenditoriali e finanziarie negli ultimi cinquant’anni e tutte dirette a creare spazi di iper-regolazione tecnocratica dell’economia attraverso il controllo dei bilanci statali. Le politiche sociali sono divenute derivate e non strumenti e obbiettivi generatori delle politiche economiche e diviene oltremodo difficile – in una economia non mista ma regolata dall’alto – inverare modelli di crescita fondati sull’equilibrio tra propensione all’esportazione e ampliamento del mercato interno. La politica economica neoliberista non ha inverato una economia mondiale a mercato dispiegato, ma un mercato mondiale iper-regolato in una sorta di ordo-liberismo universale che sta affossando deflazionisticamente l’economia mondiale. Le politiche monetarie (helicopter money, tassi negativi, ecc. di cui si è fatta la prova generale nell’Unione Europa) si sono rivelate devastanti e l’Italia è stata con la Grecia l’area di sperimentazione più devastante di codeste politiche. Una programmazione economica è tutt’altra cosa dalla politica di regolazione fondata sulla ipostatizzazione dell’indicatore del debito sovrano per determinare il tasso di distribuzione delle risorse economiche centralizzate tecnocraticamente, come invece si fa in Europa, tramite la burocrazia europea, e su scala mondiale tramite il Fondo Monetario.

Una programmazione democratica è, infatti, possibile, ma solo operando in un regime costituzionale, ossia razional-legale weberianamente inteso e di possibilità di costruzione di politiche economiche nazionali, come dimostra l’esempio nordamericano, anche in sistemi intra-nazionali a diversa produttività del lavoro e, ciò nonostante, a moneta unica. Ma tutto è frutto sempre di una decisione politica e non tecnocratica. Di nuovo la politica estera ritorna con nettezza a determinare le politiche interne. In Europa, con il declino del neo-gaullismo francese di Emmanuel Macron ormai inarrestabile, a dominare un’Europa colpita dalla pandemia che ci riporta ai tempi delle carestie economico-sociali senza un governo nazionale in grado di farvi fronte, rimane la potenza tedesca circondata dai suoi alleati anseatici e i Pays Plat storicamente determinanti, tanto più oggi che l’Impero Inglese non esercita più il ruolo di contenimento tanto della Francia quanto della Germania, come sempre è accaduto. La storia tedesca, quindi, piaccia o non piaccia, sarà la determinante archetipale della storia europea e italiana. Ma è essenziale evitare ogni esorcismo nazionalistico e comprendere che tale storia è sempre stata goethianamente dialettica ed è sempre stata quella dialettica a dipanarsi benevolmente. Una dialettica che magistralmente ci hanno rappresentato i Maestri più profondi e oggi dimenticati della cultura tedesca che, invece, tanto servirebbe leggere o rileggere, tanto all’Europa tutta quanto ai tedeschi medesimi, in primis alle loro classi e ceti dominati. La Germania potrebbe dilaniarsi tra le sue diverse radici storiche con la conseguenza politica forse irreversibile di vedere il tramonto dell’era ordo-liberista. Questo è importante più che mai oggi, quando il livello della classe politica europea a partire dalla sua cuspide, è disastroso.

La cancelliera Angela Merkel rischia di presiedere nel futuro prossimo un’Unione Economica Europea sull’orlo di una crisi di direzione simile a quella che si é già abbattuta sulla nostra Italia sottoposta a un dominio extra costituzionale non solo di origine europea – come ci spiga da tempo Alessandro Mangia – ma anche nel seno stesso del nostro albero costituzionale, sfigurato da comitati, task force di illustri signore e signore che spesso non si muovono dalle nazioni in cui risiedono e pensano di poter contribuire a cambiare il corso di una crisi pandemica rimanendo velati dalle conference call, mentre il Parlamento è di fatto umiliato dai Dpcm, un processo assai simile a quello che caratterizzò l’Argentina peronista degli ultimi anni del Novecento. La crisi argentina ai tempi dei coniugi Kirchner, che precipitarono una delle nazioni più ricche al mondo di cultura, scienza e coraggio, in un baratro che non è terminato neppure oggi, dopo anni di tormento. Nessuno  auspica una cosa di questo genere. Il disordine è il nemico vero di ogni costrutto sociale. Ma ciò che sta accadendo in Italia è grave soprattutto perché senza unità nazionale si rischia di non aiutare quel processo di trasformazione della cultura tedesca per effetto pandemico. Invece si colpisce con forme di pressione extra politiche, financo giudiziarie, la regione economica e culturale che con il Veneto e l’Emilia Romagna e la Lombardia, è il retroterra storico della Baviera e dell’Hinterland asburgico dell’Italia. Solo da una unione economica e culturale trans-europea, la trasformazione post-pandemica può essere positiva. Continuare, invece, in questa frantumazione alveolare del potere politico ed economico italico vuol dire provocare un massacro sociale che si abbatterà in primis contro gli italiani più deboli e soli. Proprio mentre in Germania stanno cambiando molti orientamenti all’azione.

Occorre avere piena consapevolezza che una crisi irreversibile dell’Italia e della Spagna significherebbe e significa di già la crisi irreversibile anche della Francia e aprirebbe la via a un condominio cinese continentale che da tempo si sta preparando. Crisi che non potrà che colpire anche la Germania stessa, con un effetto domino sulla stessa Europa come identità storica e morale. Un gioco troppo pericoloso perché non si intervenga autorevolmente, sperando di poter essere ancora ascoltati e che ancora esista, l’istituzionale autorevolezza. Hic Rodhus. Hic salta!

*Giulio Sapelli, economista, storico e accademico