“La Fiat non sarà mai una legione straniera”

Da patriota e grande europeo, Gianni Agnelli che aveva fatto risorgere dalle ceneri del dopoguerra il sistema industriale automobilistico italiano quando gli fu chiesto come mai non avesse ceduto la Fiat rispose: “..è un esercito nazionale, non posso trasformarla in legione straniera”.

Su queste basi si è svolto il meeting nazionale sul web Fiat addio? Anche sull’auto serve uno Stato stratega organizzato dal Dipartimento Impresa di Fratelli d’Italia con collegamenti dalle Città in cui vi sono i principali stabilimenti dell’azienda: Torino, Cassino, Melfi, Pomigliano, Modena e con una testimonianza da Termini Imerese. Sono intervenuti parlamentari, assessori regionali e sindaci, in confronto con le realtà produttive locali, rappresentanti di tutte le organizzazioni sindacali e di associazioni di impresa. Il programma ha visto la partecipazione del sen. Adolfo Urso, responsabile Dipartimento Impresa Fratelli d’Italia, del prof, Cesare Pozzi, docente Economia Industriale LUISS, del sen. Antonio Iannone, coordinatore regionale Campania, del sen. Massimo Ruspandini, commissione Trasporti Senato, dell’on. Salvatore Caiata, Commissione Attivita’ produttive Camera, dell’on. Federico Mollicone, responsabile Innovazione FdI, di Elena Chiorino, assessore al Lavoro Regione Piemonte, Maurizio Marrone, assessore delegificazione e cooperazione internazionale Regione Piemonte, Michele Napoli, responsabile Dipartimento Impresa Basilicata.

Nutrita anche la rappresentanza sindacale con: Fabrizio Amante, componente segretaria nazionale Associazione Quadri e Capi Fiat, Fabio Bernardini, segretario provinciale metalmeccanici CISL Frosinone, Enrico Gambardella, segretario regionale CISL Basilicata, Vincenzo Tortorelli, segretario regionale UIL Basilicata, Angelo Summa, segretario regionale CGIL Basilicata, Tullia Bevilacqua, segretaria regionale UGL Emilia-Romagna.

In rappresentanza delle imprese dell’indotto automotive: Francesco Somma, presidente Confindustria Basilicata, Michele Somma, presidente CCIIA Basilicata; Roberto Vavassori, consiglio direttivo CLEPA, associazione europea imprese automotive, Marco Bonometti, presidente Confindustria Lombardia, Hella Colleoni, Presidente Confimi Industria.

“Serve un piano industriale, ha spiegato il senatore di FdI, Adolfo Urso, responsabile nazionale del Dipartimento Impresa, per il settore automobilistico che veda lo Stato come regista usando ogni strumento dal golden power quanto necessario come nel caso Iveco a Cdp con il suo Patrimonio destinato al recovery plan per quanto riguarda la transizione economica. Fiat, ormai, è soltanto un marchio di Stellantis ma è necessaria un’azione patriottica che tuteli la nostra tecnologia e mantenga i livelli occupazionali degli stabilimenti in Italia. E questo perchè la nascita di Stellantis, contrariamente a quanto era stato prospettato, non nasce da una fusione paritetica ma da una vendita in cui la governance è prevalentemente francese, con Parigi che addirittura aumenta la sua quota azionaria diventando maggioritaria rispetto agli azionisti italiani. Tutto il contrario di quello che era stato dichiarato”. Da qui la proposta che “Cdp entri nel capitale azionario di Stellantis con una quota pari a quella dello Stato francese per salvaguardare gli interessi della produzione e del lavoro italiano”.

Ipotesi di uno Stato stratega che condivide il senatore di FdI, Antonio Iannone, che in qualità di commissario regionale in Campania ha lanciato l’allarme per “evitare che si verifichi un vero e proprio deserto occupazionale in alcune aree. La Fiat di Pomigliano d’Arco rappresenta uno dei pochi polmoni lavorativi in un territorio che ad oggi vanta 229mila percettori di reddito di cittadinanza. Una situazione allarmante, come evidenziato dalle crisi industriali di Whirpool a Napoli, ItalCementi a Salerno, Treofan a Battipaglia, Meridbulloni a Castellammare, che impongono la necessità di difendere la produzione italiana”. A sua volta il senatore di FdI e responsabile nazionale del Dipartimento Trasporti, Massimo Ruspandini ha sottolineato l’allarme sugli impianti di Cassino che “rappresentano una risorsa senza eguali per il nostro territorio, dove sono presenti ed operanti ben 432 aziende dell’indotto distribuite su 42 Comuni. Ad oggi non è comprensibile quale sia la strategia dello Stato per il futuro dell’auto e in generale dell’industria del Paese. Una condizione di incertezza che purtroppo fa apparire l’Italia come la preda ideale per gli assalti dei grandi gruppi esteri, Francia in primis”.

Assenza di una strategia statale che rileva con preoccupazione Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, per il quale “purtroppo l’Italia non ha mai considerato quello dell’auto un settore strategico. La grande responsabilità da parte nostra è quella di non aver fatto diventare l’industria automobilistica competitiva in modo strutturale. Per far questo bisogna semplificare e ridurre la burocrazia per le imprese e rendere i nostri prodotti allo stesso livello di quelli della concorrenza. Serve quindi un intervento pesante da parte dello Stato”. Mentre Hella Colleone, presidente Confimi Industria, ha chiamato in causa il Ministero dello Sviluppo economico che può essere “fondamentale per rendere i nostri prodotti meno cari e far sì che non finiscano in mani francesi. Stellantis è più una questione di orgoglio che di vera competitività. Ci sono anomalie e pesi sulla nostra filiera, ma mancano i controlli”. E da Francesco Somma, presidente di Confindustria Basilicata, è arrivata la presa d’atto che “serve una politica di sistema per il settore della mobilità privata in Italia. In Europa c’è una diversa consapevolezza della politica industriale ma secondo noi c’è ancora la possibilità di rivedere gli equilibri in Stellantis”. Invece, Fabrizio Amante – componente segretaria nazionale Associazione Quadri e Capi Fiat ha rilevato come “la fusione fra FCA e PSA ha tutte le caratteristiche per consentire la sopravvivenza in un mercato sempre più aggressivo e competitivo”, ma non dimentica di ammonire che “in questa ottica ci aspettiamo che lo Stato italiano faccia sentire la sua voce per consentirci la salvaguardia dei livelli occupazionali”.

Sul fronte sindacale, Enrico Gambardella, segretario regionale CISL Basilicata, ha ricordato che “siamo sempre stati favorevoli alla partecipazione dei lavoratori alle scelte d’azienda” ma “le scelte storiche del nostro Paese invece ci condannano da questo punto di vista, basti pensare che nel CdA di Stellantis non sono presenti sindacalisti italiani ma solo francesi, americani e tedeschi perché in quei Paesi la rappresentanza lavorativa ha un’altra connotazione”. E su questa linea anche Angelo Summa, Cgil Basilicata, ha sottolineato come “il tema vero di Stellantis è che dentro quella fusione c’è un evidente sperequazione a favore francese. Lo Stato francese ha posto condizioni, come avere la sede in Francia e che i propri stabilimenti non subissero ridimensionamenti, non fossero toccati. Serve dunque uno sforzo di unità nazionale e bene ha fatto Fratelli d’Italia a porre questo problema”. Unità nazionale che per Fabio Bernardini, segretario provinciale metalmeccanici CISL Frosinone, si traduce nell’invito alla politica italiana di “giocare un ruolo da protagonista. Occorre sostituire le politiche passive degli ammortizzatori sociali con politiche attive. Gli investimenti previsti sugli stabilimenti italiani sono insufficienti, basti pensare che a Cassino siamo a meno del 10 per cento di produzione rispetto ai 380mila veicoli previsti a pieno regime”. Infine, Tullia Bevilacqua, Ugl Emilia Romagna, ha ricordato come “in Italia c’è una fortissima resistenza relativamente alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende”. Da qui la richiesta di “meccanismi di protezione nei confronti delle nostre imprese” alla luce della “globalizzazione che sta creando forti problemi all’economia nazionale”.

Un tempo era la Fiat. Orgoglio italiano, proprietà di una grande famiglia che ha segnato la storia produttiva di questa Nazione, che nel frattempo anche sotto la guida lungimirante di Marchionne, ha realizzato un’operazione internazionale di tutto rilievo che ha portato la società a diventare un’azienda italo-americana con FCA e che adesso ha fatto un altro salto realizzando, così come prospettata, un’operazione di fusione con il  Gruppo Peugeot e PSA e dalla cui fusione è nata Stellantis, un’azienda multinazionale, di diritto olandese, quattordici marchi con siti produttivi in tutti i continenti.

Uno Stato stratega che definisca una politica industriale sull’auto. Stellantis conta su 14 marchi e stabilimenti in 29 Paesi sparsi nei vari continenti, compresa ovviamente l’Italia. Ma il suo Cda risulta, dopo la sua nascita, sbilanciato verso la parte francese, con 6 consiglieri su 11 e con una quota azionaria maggioritaria francese pari al 15 per cento. E non solo, anche i rappresentanti sindacali risultano essere solo quelli francesi, americani, manca la rappresentanza italiana.

Anche per il settore automobilistico serve un piano industriale, serve un’azione patriottica per tutelare la nostra tecnologia e mantenere i livelli occupazionali degli stabilimenti in Italia.

Abbiamo bisogno di una sana politica industriale, uno Stato che agisca come Sistema Italia perchè è anche il momento dell’offensiva industriale, affinchè Stellantis possa essere una multinazionale che agisca come un corpo unico nel quadro europeo.

Il governo deve realizzare un tavolo internazionale sull’automotive che possa accompagnare il percorso di Stellantis affinchè questa sia uni multinazionale italo-francese-americana che agisca come un corpo unico nel quadro europeo e globale e possa far diventare questa azienda leader nel suo settore se c’è quella parateticità che per esempio si è dimostrata in un campo importante come quello di STM.

“È un esercito nazionale, non posso trasformarla in legione straniera”. Frase di attualità oggi? Noi vorremmo che fosse un esercito europeo e se non può essere un esercito nazionale dopo l’azione di Marchionne che ha creato una multinazionale italo-americana, non vorremmo da questo, degradare a legione straniera.

*Alberto Franciacorta, collaboratore Charta minuta

Servizio su Cronache Lucane

ARTICOLO MILANO FINANZA

ARTICOLO GAZZETTA DI FOGGIA

Interrogazione

Anche noi Robinhood

I fatti accaduti questi giorni a Wall Stret hanno una rilevanza che va oltre il mondo della finanza. Sono fatti che verranno consegnati alla storia perché sono destinati a cambiare radicalmente la società, l’economia e la politica dell’occidente. I mercati finanziari, nati come uno strumento di reperimento dei capitali necessari allo sviluppo dell’industria, nel corso dei decenni si sono progressivamente trasformati in una realtà parallela, una realtà nella quale in nome del profitto speculativo era ed è in parte lo è ancora, possibile scommettere su tutto. Un mercato oligopolistico dove pochi intermediatori sono in grado di influenzare l’andamento dei titoli, del prezzo delle materie prime, delle obbligazioni governative. Sono in grado, in altri termini, di decretare, sulla base di giudizi molto spesso sommari, la capacità di un’impresa o di un governo di sopravvivere ad un momento difficile. Sono in grado di influenzare il prezzo del grano o dell’avena decidendo sulla vita o sulla morte di molti abitanti dei paesi poveri la cui sopravvivenza dipende da beni alimentari di prima necessità.

Fondi speculativi immortalati da celebri film che esaltavano il mito di Wall Strett, coccolati dai giornali dei quali spesso sono azionisti, temuti da governi ostaggio dello spread. Un mondo irreale al quale, tutto sommato, c’eravamo abituati. Un’abitudine che nasce da un approccio culturale in base al quale se sei vincente hai ragione e se fai profitto sei un vincente. Punto. Come fai profitto è un aspetto irrilevante. Il dio mercato, o meglio, un dio che con il libero mercato ha poco a che fare, giustifica tutto, sempre, in ogni caso.

Questo è il mondo che abbiamo vissuto fino a qualche giorno fa. Fino a quando un gruppo di investitori, utilizzando i social network ed una piattaforma chiamata “robinhood” hanno deciso che forse era il momento di dire basta, sono scesi nella piazza telematica della finanza, si sono organizzati, si sono contrapposti al potere costituito, hanno espugnato la Bastiglia. Come? Scommettendo in modo uguale e contrario ai fondi speculativi ed hanno scelto come “campo di battaglia” una società che vende giochi on line, Game Stop. Una massa di piccoli investitori contro una cerchia di grandi speculatori. I risultati di questo scontro sono evidenti, perdite per gli speculatori pari a 40 miliardi nel giro di pochi giorni.

Quanti sono 40 miliardi? Più o meno la famosa quota a fondo perduto del recovery fund che spetta alla settima potenza industriale del pianeta, ovvero l’Italia. 40 miliardi sono il costo del reddito di cittadinanza per 10 anni o se preferite circa 10 linee di metropolitana a Roma o 20 ponti sullo Stretto di Messina. 40 miliardi sono una somma incredibile di denaro persi da chi per anni ha guadagnato senza produrre.

Cosa insegna quanto è accaduto e quanto sta accadendo negli USA? Insegna che l’impatto dei social non si esaurisce alle relazioni umane,  della politica, del giornalismo, nelle professioni. L’impatto dei social investe anche il dorato mondo della finanza perché è in grado di unire e di orientare il comportamento di una massa incredibile di piccoli investitori, un popolo di persone che smette di portare i soldi in banca ad un tasso negativo e che inizia ad investire con l’obiettivo di scardinare una sovrastruttura finanziaria che fa soldi sulle disgrazie altri.

Cosa dovrebbe insegnare all’Italia. Molto. Il nostro paese è il Paese dove il risparmio privato è il più alto del mondo e dove la liquidità nelle banche continua a crescere. Lasciamo i soldi in banca per paura, le banche li prestano ad investitori istituzionali che molto spesso li prestano ad investitori “meno istituzionali” a banche o istituti esteri che li usano per finanziare chi si compra le nostre aziende portando centri di ricerca e centri decisionali all’estero, rendendo, in altri termini, il Paese più povero.  Siamo al paradosso che ci stiamo impoverendo con i nostri soldi. E se guardassimo agli USA una volta tanto cogliendo lo spirito innovativo di quanto sta accadendo? Se lanciassimo una piattaforma che indirizzi i soldi degli italiani verso le aziende degli italiani, tanti piccoli azionisti, organizzati potrebbero vigilare su Generali, su Unicredit, su Stellantis, su Fincantieri, su pezzi dell’industria del Paese che rischiamo di perdere definitivamente compromettendo la nostra libertà economica, il nostro futuro, il futuro dei nostri figli. Non dobbiamo diventare la caricatura degli squali di Wall Strett, dobbiamo solo tornare ad essere padroni delle nostre cose e possiamo farlo con poco.

 

*Stefano Massari, Officine Moderne