COPASIR, CHI È COSTUI?

Una domanda che il contribuente italiano avrebbe potuto farsi, fino a sei mesi addietro.

Oggi, quello che era uno strumento (a stento) conosciuto soltanto negli ambienti parlamentari, è assurto invece agli onori della cronaca politica e non solo.

Bisogna dare atto agli attuali componenti del Comitato di aver riportato questo oscuro organismo interparlamentare alla sua nominale funzione di “Comitato per la Sicurezza della Repubblica. E non soltanto, come prima avveniva, con una funzione di visibilità e controllo del Parlamento sulle attività dell’intelligence nazionale, interno ed esterno. Per la verità i nostri costituzionalisti, affidandone, de iure o de facto, la guida ad un membro dell’opposizione politica, avevano individuato ab origine l’importanza che questo  strumento parlamentare  avrebbe dovuto avere per il nostro dettato democratico.

La sicurezza della Repubblica non è infatti qualcosa di cui dovrebbero occuparsi soltanto i nostri 007 che in giro per il mondo proteggono gli interessi attuali o potenziali del Paese o che contrastano attività illecite di potenze straniere nel nostro territorio.

È qualcosa che dovrebbe interessare tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro appartenenza politica, come avviene in Paesi che hanno un forte senso di identità nazionale. E per rendersene conto basta assistere ad alcuni talk show televisivi in Francia o nel Regno Unito dove viene spesso dibattuta la sicurezza dello Stato come tutela dell’interesse nazionale. Se consultiamo il sito web dell’Istituto Treccani: ” interesse nazionale è ciò che uno Stato non può evitare di perseguire senza creare un danno alla collettività”.

Da genuino liberale, orgogliosamente senza tessera di partito, con parole mie preferisco parlare di protezione dell’identità nazionale. E per far questo non possiamo evitare di toccare delicati aspetti di geopolitica, di sufficienza energetica, di sovranità nazionale, di difesa dei confini, di lingua e cultura storica del Paese, di fiscalità, di sicurezza cibernetica, di flussi migratori, persino di criminalità internazionale sempre più organizzata e minacciosa.

Insomma la tutela dell’interesse nazionale è un’attività che, come una passatoia, ha necessità di srotolarsi tra un presente che ci tocca da vicino, un passato che identifica il nostro Paese e un futuro che deve essere di umanità e tolleranza.

E allora non posso che plaudire a questo nuovo corso del COPASIR, che non esita a convocare in audizione Parlamentari e Sindacalisti, Alti Dirigenti e Amministratori Delegati, Autorità locali e nazionali, Ministri e Presidenti del Consiglio.

*Carmelo Cosentino, ingegnere, presidente onorario ASE spa

Caro energia: contro speculazioni intervenga lo Stato

L’ascesa del prezzo del gas di oltre 10 volte nel corso di pochi mesi ha qualcosa di sconcertante per due motivi. Il primo motivo è che le risorse energetiche non sono comparabili allo scooter o al cappotto, che si decide se comprare o meno e con qualità diverse a seconda del portafogli, bensì trattasi di beni essenziali, di fattori produttivi. Il secondo motivo è che tale aumento sia avvenuto senza un’efficace contrasto da parte della pubblica autorità.

Analogamente a quanto successo molte volte nei mercati finanziari di mezzo mondo, è accaduto che speculatori professionali siano riusciti a portare i prezzi sul “libero mercato” a livelli non sostenibili dalla popolazione, sotto lo sguardo impotente, quando non indifferente, di quelle autorità che dovrebbero tutelarla. Autorità nazionali o europee poco importa, il risultato è lo stesso.

L’elettricità è anch’essa fortemente legata al gas: così, se il prezzo del gas sale da 30 a 150 €/Mwh, ecco che l’elettricità, pur prodotta mediante fonti diverse (gas, carbone, rinnovabili, nucleare etc.) si vende ad analogo prezzo sul mercato, perché è la fonte più cara a concorrere nella formazione del prezzo.

Se dunque io sono un accumulatore di gas che ha comprato (poniamo) a 50 ed oggi rivendo a 100, avrò un superprofitto del +100% in tre mesi, senza che questo sia giustificato dall’aver realizzato nessun investimento di natura produttiva, avendo invece solo speculato ai danni della signora Maria che paga la bolletta del gas.

Parimenti, se io sono un produttore di elettricità da fonte solare o eolica, con un costo di produzione di (poniamo) 30 €/Mwh, mi trovo a vendere l’elettricità da un momento all’altro da 60 a 300 €/Mwh, sempre ai danni della signora Maria che paga la bolletta elettrica.

Si dirà che i numeri non sono esattamente questi, che la tecnicalità è complessa, che il discorso è semplicistico, ma di fondo la questione non è molto più complicata di questa.

Il governo italiano ha iniziato a tassare gli extraprofitti nati da questi semplicistici esempi. Ma pensiamo che basti il 10% di imposta addizionale? Gli extraprofitti non avrebbero mai dovuto avere luogo, perché bisognava porre in essere meccanismi di fissazione del prezzo in fasi di ingiustificato rialzo (o ribasso) del mercato, che equivale a tassare gli extraprofitti ma in modo più chiaro e pulito.

A parere di chi scrive, bisognerebbe ritornare a discutere di un prezzo di vendita dell’energia concordato con lo Stato, nazionale o europeo. La fissazione di una banda di oscillazione dei prezzi, all’interno del quali si muovano gli operatori di mercato, potrebbe tutelare dagli eccessi speculativi sia in rialzo (a favore dei venditori) come in ribasso (a sfavore dei venditori). Perché vanno evitati anche prezzi eccessivamente bassi che potrebbero frenare gli investimenti produttivi.

Naturalmente si può condizionare o imporre un prezzo ai produttori interni ma non quelli di importazione. Eppure l’autorità politica dell’intera Unione Europea, grande importatore di energia, potrebbe far sì che tali imposizioni del prezzo possono avvenire non soltanto nei confronti dell’Eni italiana, della Total francese o del produttore eolico in Puglia, ma anche nei confronti dei fornitori esteri.

I fattori produttivi, diversamente dai beni di consumo, non andrebbero mai lasciati al solo mercato. Come per il lavoro esistono legislazioni di tutela di salario e condizioni contrattuali, al medesimo modo andrebbero trattati prezzi e modalità della compravendita di energia.

 

*Stefano Filippini Lera, esperto di finanza di impresa

Il Politico e la destra. Risposta a Galli della Loggia

I– L’errore più consueto tra gli intellettuali di ogni tempo e schieramento è quello di voler insegnare ai politici ciò che dovrebbero fare, come agire, quali fini perseguire e semmai anche il nome da scegliere per il proprio partito. Sul Corriere della Sera del 29 marzo 2021 si può leggere un editoriale a firma di Ernesto Galli della Loggia (La destra moderna che serve) che sembra ripetere l’errore, anche se in questo caso l’errore è voluto, trattandosi, in fondo, più di una garbata provocazione nascosta dietro un auspicio, etichettato addirittura come utopico, che del solito forbito ma incomprensibile pastone di ricette (“bisogna che”, “si deve”) del professore ‘onnisciente’ che vorrebbe ergersi a consigliere del principe. In un passato nemmeno tanto lontano ricordo almeno uno di questi intellettuali esperti di pratiche politiche altrui, subito rientrato all’ovile (leggi: università) senza essere stato minimamente toccato dalla gloria del campo di battaglia.

Nel caso in questione non si tratta di un ‘consigliere del principe’, ma appunto di un intellettuale che ritiene doveroso, e non solo per riempire qualche colonna di piombo di quotidiano, dire la sua su ciò che potrebbe e dovrebbe essere la destra ai giorni d’oggi, la “destra che serve”, per l’appunto, come la definisce Galli, una destra “moderna”, della quale sembra suggerire anche il nome: PCI, Partito conservatore italiano. Per la verità di partiti che hanno l’aggettivo ‘conservatore’ addirittura nel nome non ce ne sono molti in giro per il mondo ‘moderno’, eccezion fatta per lo storico Conservative ­– and Unionist – Party britannico e un poco noto partito americano che in realtà è solo un ‘pensatoio’ dentro il Partito Repubblicano. Va anche detto che i conservatori britannici sono più conosciuti come ‘Tories’ e quelli americani senz’altro come repubblicani. Il termine conservatore è riservato alle posizioni ideali, alla filosofia politica che si professa e diciamo pure alla ideologia che si difende, un’ideologia che oramai assai più negli Usa che nel Regno Unito resta formalmente legata alle sue premesse d’origine, ovvero “il trono e l’altare”, non necessariamente un trono assolutistico o un altare fondamentalistico (in Gran Bretagna il laicismo ha preso buona parte dei conservatori britannici nonostante il fatto che la religione del paese è molto legata alle istituzioni politiche, essendo Sua Maestà il capo della Chiesa anglicana).

E qui mi piace ricordare che proprio un filosofo inglese tra i massimi del Novecento, considerato di regola un conservatore (ma su ciò altrove ho espresso i miei dubbi[1]), scrisse a metà degli anni Cinquanta un saggio (ora pubblicato anche in italiano[2]) intitolato On being conservative (Sull’essere conservatori). Quando Michael Oakeshott, questo il nome del filosofo inglese (1901-1990), inviò per la pubblicazione il manoscritto a Irving Kristol, direttore di Encounter, una delle più note riviste conservatrici americane del tempo, questi lo respinse con una semplice argomentazione: nell’articolo mancava ogni riferimento alla religione, che per un “vero conservatore” americano costituiva il fondamento naturale e obbligato del conservatorismo. In effetti, era proprio così e ciò non a caso, perché il (presunto) conservatorismo di Oakeshott (idolo della destra inglese prima di Roger Scruton) non conosceva la religione e i suoi dogmi come presupposto necessario dell’essere conservatori, cui attribuiva piuttosto l’opportunità di un sano scetticismo filosofico.

Il saggio di Oakeshott delineava in effetti non il conservatorismo, ma i tratti dell’essere conservatori, lo stile, la propensione ad agire ‘en conservateur’ più che il propugnare gli stilemi di un pensiero che dal suo punto di vista faceva parte, in ultima istanza, di un tipo di politica che in sé non si distingueva da quella apparentemente opposta: l’essere entrambi, il ‘conservatorismo’ e il ‘progressismo’, politiche della fede, cioè fondate su quella che Max Weber chiamerebbe etica della convinzione. Alla politica della fede egli contrapponeva la politica dello scetticismo, in realtà entrambi tipi ideali di azione, che nella concreta realtà storica dovevano affrontare inevitabilmente le rispettive nemesi, essendo di tanto in tanto necessari anche per lo scettico un po’ di fede e per il credente un po’ di scetticismo[3].

Il discrimine stava nella opposizione tra ‘stile conservatore’, modo d’essere conservatore, e ideologismo, dove ideologico è necessariamente anche il conservatorismo, nella misura in cui, appunto, non è solo uno stile di vita, una condotta quotidiana e un modo di pensare e di agire, ma un insieme di dogmi, compresi quelli religiosi, ai quali assimilava i dogmi del progressismo, che guarda solo ad un ‘futuro migliore’ più che al duro ma spesso anche gratificante presente, un presente che non a caso impone obblighi e non cert utopie. In altri termini, se Oakeshott a Londra votava ‘conservative’ questo non significava che non avrebbe preferito un partito con un nome diverso, più pragmaticamente orientato verso le scelte ragionevoli e rispettose dell’ordinato andamento della vita politica secondo le regole del diritto; essendo però il suo stile di vita quello sì scetticamente conservatore (tra corse dei cavalli, libri e belle donne), non avrebbe mai proposto ai Tories che ogni tanto era costretto a frequentare (la Thatcher voleva farlo baronetto, ma garbatamente Oakeshott rifiutò l’onore di essere associato ai Beatles) cambiare il nome al Partito conservatore sarebbe stato un inutile e superfluo cambiamento.

 

II– Questa premessa per dire che suggerire al partito “Fratelli d’Italia” di diventare un “moderno partito conservatore” è un suggerimento discutibile per molte ragioni, alcune delle quali cercherò di argomentare in questa sede, indipendentemente dal fatto che poi ‘consigliare’ il principe qualcosa è sempre la volta buona che il consigliere perda la testa, cosa che nel caso di Galli della Loggia non vale non essendo, né volendo egli essere, il consigliere di Giorgia Meloni. Ma un suggeritore questo sì e i suoi suggerimenti – distinti quindi dai ‘consigli’ – vanno presi sul serio perché tutt’altro d’occasione e forse potrebbero rappresentare l’opportunità per una riflessione ad ampio spettro sulla destra oggi, o, se si vuole, sulle destre oggi.

Galli, infatti, di destre italiane ne individua almeno tre: liberali, populisti e questa cosa in divenire che sarebbe a suo avviso “Fratelli d’Italia”, la cui politica dovrebbe far perno sullo Stato nell’età della globalizzazione al fine di rafforzare coesione sociale e solidarietà. Fin qui la cosa ha senso e giustamente la Meloni ha fatto subito presente (cfr. il Corriere della Sera del 30 marzo 2021: La destra moderna che già c’è) che è proprio ciò che lei fa in Europa e in Italia: difendere l’interesse nazionale italiano contro la finanza globalista e quindi lavorare per la coesione e la solidarietà entro i confini nazionali, da buona patriota. Persino diventare conservatore non avrebbe senso, in quanto è già persino Presidente del raggruppamento dei “conservatori e riformisti europei”, anche se l’unico partito che si dichiara conservatore, dopo l’abbandono dei britannici, è un piccolo partito croato.

Ora l’interrogativo fondamentale che va posto dopo l’intervento di Galli della Loggia è questo: ha senso essere ‘conservatori’ per differenziarsi dai populisti e dai liberali? Come ho già accennato, il conservatorismo è un’ideologia, che può avere molte facce, ma resta un’ideologia ed è certamente a quella cui si pensa di regola quando se ne parla, un’ideologia che in quanto tale non è a mio avviso compatibile con la natura della politica della destra di cui oggi si ha veramente bisogno: una destra che difenda l’interesse nazionale e prenda le mosse da questo come bussola del proprio agire[4] va considerata non come una opzione ideologica, bensì come l’essenza, il nòcciolo, la dimensione propria e autentica del Politico, specificamente di un Politico di destra (nel senso che sta dall’altra parte rispetto alla ‘sinistra’ europeista, mondialista, giusmoralista, buonista). Se il Politico ha una natura polemica, nel senso del conflitto e del rapporto amico/nemico, l’interesse nazionale non è una possibilità tra altre del fare politica secondo i criteri del Politico, ma la forma naturale, spontanea e direi dovuta del Politico in quanto tale. In altri termini, essere conservatori nel senso di un ‘pensiero’ conservatore, non solo non sarebbe consono con uno stile conservatore, ma contravverrebbe ai canoni propri del Politico, che si fonda sul principio della autonomia del Politico in quanto tale, che non è riducibile né all’economico né alla morale né al giuridico. Essere conservatori dal punto di vista ideologico non si addice ad un partito di destra che accetti di essere un movimento squisitamente politico, che all’ideologia e ai suoi ineludibili pregiudizi preferisce l’opportunismo necessario dettato dalla obbedienza ai criteri della autonomia del Politico, una dimensione dell’esistenza che ha i suoi propri diritti e privilegi e naturalmente i suoi obblighi.

Diventare un ‘moderno partito conservatore’, nel momento in cui il conservatorismo è oggettivamente in crisi (giudizio che nulla ha a che fare con i pregi assolutamente possibili degli ideali del ‘conservatorismo’) e soprattutto nel momento in cui le sue premesse classiche, ovvero il nesso con certi dogmi religiosi, non trovano rispondenza nel sentimento popolare, sarebbe a mio avviso un errore politico, così come errore politico sarebbe quello di separarsi in quanto presuntamente ‘conservatori’ sia da ogni forma di liberalismo sia dal cosiddetto ‘populismo’. Per tacere del fatto che modernità e conservatorismo non è che si associno tra loro molto felicemente, se si ricorda che una certa ideologia conservatrice si è individuata come tale proprio contro il Moderno e le sue categorie, a partire dall’ideologia dei diritti e della sovranità dell’individuo.

 

III. – Una destra ‘moderna’ che lotti per la coesione sociale e la solidarietà e rimetta al centro lo Stato può oggi essere considerata come ipso facto il contrario del liberalismo e del populismo? Occorre naturalmente accordarsi sul senso delle parole (la grande rivoluzione propugnata da Confucio era non a caso la “rettificazione dei termini”). Personalmente reputo che il liberalismo di un Marco Minghetti dopo l’unità d’Italia fosse un tipo di liberalismo (certo di tipo conservatore, lo definiremmo oggi), centrato sul senso dello Stato e contro le derive di parte, ovvero dei partiti, nell’amministrazione del potere, di cui oggi avremmo assoluto bisogno. Essendo forse tra i pochi giuristi che da sempre sostengono la non perenzione del concetto di Stato, insieme a quelli classici della filosofia politica, in primis quello di sovranità[5] (comunque ben distinto dal termine, a mio avviso ambiguo, di ‘sovranismo’), dovrei rallegrarmi del fatto che Galli della Loggia metta al centro delle sue proposte proprio lo Stato, anche se andrebbe ricordato il fatto che il liberalismo italiano, almeno quello classico di Minghetti, proprio nello Stato aveva visto una via di tutela delle libertà private e dell’interesse nazionale contro le derive partitocratiche, sicché rinunciare a priori all’idea di un collegamento almeno tra la tradizione di un certo liberalismo italiano, di impronta nazionale (omologo, direi, al liberalismo nazionale di un Max Weber in Germania), e la rivendicazione dell’interesse nazionale e della centralità dello Stato in nome della sovranità politica, costituirebbe a mio avviso esattamente una deminutio per il tipo di destra di cui oggi l’Italia ha bisogno.

Il liberalismo non è solo l’ideologia liberale che dubita dello Stato e della politica in nome del mercato autoregolato (non solo un’utopia, ma storicamente una catastrofe), ma anche una certa prassi politica fondata sull’idea di rule of law che si colloca ancora oggi a destra e che merita di essere valorizzata in quanto tale. Il liberalismo di “Forza Italia” dal quale la destra della Meloni dovrebbe distinguersi è un liberalismo molto sui generis (del resto quando tutti sono liberali nessuno lo è più), uno tra i tanti, che spesso di liberale sembra avere poco, se non per quel sospetto dello Stato e per lo Stato (si ricordi il famoso “teatrino della politica” di Berlusconi, in fondo esso stesso una premessa della successiva, finta antipolitica di Grillo) che è proprio della cattiva ideologia liberale, dalla quale una destra politica nazionale deve saper distinguersi, così come dal conservatorismo.

Se, dunque, la destra politica dovrebbe non essere conservatrice se non nello stile dei suoi esponenti, essere sia pure in parte liberale riallacciandosi alla tradizione del miglior liberalismo italiano, dovrà almeno distinguersi dal populismo della Lega o di chiunque altro faccia pratica di ‘populismo’? Anche qui non credo che i suggerimenti di Galli della Loggia vadano nel senso giusto (ma la discussione è aperta). Se indubbiamente destra significa ritorno dello Stato, che cosa si deve intendere oggi per ‘Stato’? Discorso troppo complesso e scientificamente condizionato per essere affrontato qui; mi limito però a sottolineare il fatto che lo Stato, anche lo Stato che conosciamo in quanto apparato-macchina proprio della modernità, espressione massima dello jus publicum europaeum, ha senso sempre e solo in quanto istituto fornito sia di legalità (rule of law) sia di legittimità; ora questa legittimità è data non dai salotti di una certa ‘intellighentzia’ – che possono ‘legittimare’ solo nuovi e astratti diritti dell’uomo –, ma proprio e solo dal ‘popolo’. Contrapporre la destra che dovrebbe essere ‘moderna’ e ‘conservatrice’ al populismo significa dimenticare che la tradizione tipicamente italiana del Politico guarda al senso romano dell’autorità che qualifica legittimo lo Stato, tradizione che altro non era che il Senato e il Popolo di Roma. Una destra all’altezza del tempo storico presente ha l’obbligo di riprendere esattamente quel simbolo, che tiene insieme popolo ed autorità. Una destra ‘moderna’ (dove poi ci si dovrebbe domandare: perché moderna? di quale ‘modernità’?), o, meglio, politicamente attrezzata deve essere per il popolo e per l’autorità che lo difende e ne garantisce l’interesse. Se questo è populismo, la destra non può non essere – anche – populista. Tanto più, va detto, che il populismo è un generico atteggiamento, più che una ideologia, e certamente ha in sé la premessa e il fondamento legittimante di ogni azione politica, a patto, ovviamente, che non venga ridotto a, o confuso con, la demagogia (il M5s non è populista, per esempio, ma puramente demagogico).

 

IV– Del resto ‘Stato’ richiama necessariamente il popolo, altrimenti il concetto di Stato rischia di restare impigliato in quello di nazione, che è una categoria importante, ma storicamente determinata. Se si vuole mettere l’accento sulla Patria e sul patriottismo sarebbe anche importante sottolineare il fatto che ‘Patria’ è un concetto più concreto di ‘nazione’. Sarebbe del resto importante per una destra del XXI secolo riflettere sulle origini del concetto di nazione, che sono a ‘sinistra’, non a ‘destra’: la nazione è il fulcro dell’ideologia robespierrista: la nazione, la virtù, il terrore, in altri termini espressione – almeno inizialmente – di quell’astratto che caratterizza il Moderno e contro il quale il Politico dovrebbe agire in nome dei privilegi del concreto, sia questo l’individuo o la comunità.

Non è un caso che la sinistra, la sinistra dei diritti, dell’umanità, dello ‘Stato di diritto’ dei Trattati europei, della ‘democrazia’ al servizio della finanza, abbia dimenticato completamente il popolo (lo ricordate il ‘popolo lavoratore’ dei comizi comunisti?) a favore dei diritti degli immigrati, degli omosessuali e della competizione economica funzionale al mercato mondiale. Certo, come ‘nazione’ anche ‘popolo’ può essere un concetto astratto, ma se dico popolo italiano o spagnolo mi avvicino a qualcosa di più storicamente determinato, che non a caso suscita immagini rappresentative a volte di stereotipi, spesso di realtà esistenti. La destra deve essere dunque per lo Stato, per uno Stato politico che sia espressione del popolo e miri a tutelarne l’interesse. Bene, ma proprio qui si pone subito un altro problema: la forma di Stato di cui questa nuova destra dovrebbe farsi carico. ‘Stato’ è diventato infatti in sé un termine troppo generico e ambiguo nell’epoca globalista della presunta e decantata “morte dello Stato”, che in realtà è il trionfo delle astrazioni: il denaro, i diritti, il mercato.

L’attenzione al concreto implica necessariamente non solo lo sguardo critico ma attento verso l’alto, verso l’Europa, ma anche un’attenzione nuova alle autonomie territoriali, nella misura in cui siano premesse di una vera e funzionale responsabilizzazione delle periferie. Una destra politica è una destra federalista. Guai a immaginare lo Stato forte e autorevole come uno Stato centralizzato o centralista. Molti difetti dell’ordinamento italiano a partire dall’unità stanno tutti proprio nell’aver rifiutato il modello federale ed essersi appiattiti su un ‘piemontesismo’ burocratico, alle origini di tutti i mali italici. Federalismo non significa quello che è stato spacciato per tale dalla Lega di Bossi, rispetto alla quale andrebbe appunto rialzata, troppo rapidamente e malamente abbandonata dai suoi eredi, la bandiera del federalismo, che al contrario è unità (foedus, appunto) e non divisione, messa in comune delle energie diverse che tali devono essere considerate e conservate, come patrimonio tipico delle ‘nazioni’ stesse, da questo punto di vista intese come contenitori di differenze (chi sa la storia – che la destra deve difendere oggi più che ieri – non conosce solo i ‘tedeschi’, ma anche il prussiano e il bavarese, l’hannoveriano – dove si parla il tedesco più ‘puro’ – e il francone, non solo i francesi ma il normanno e il provenzale, non solo gli italiani ma il pugliese e il lombardo, il veneto e il siciliano). Nella sua replica Giorgia Meloni ha citato Roger Scruton a proposito del patriottismo, ma la Heimat, per usare il termine tedesco, che non è immediatamente il Vaterland, è sempre maledettamente concreta, si riferisce alla comunità direttamente e immediatamente conosciuta, vissuta e vivibile: si parte sempre dal piccolo, come insegna l’idea di sussidiarietà della dottrina sociale cattolica. Solo una forma federale dello Stato (una volta stabilito bene cosa deve intendersi per ‘federalismo’) può essere la base di una forte autorità centrale, rispettosa delle autonomie ma anche delle isonomie necessarie (ben al di là dei formalistici “livelli essenziali di prestazione” del Titolo V della nostra costituzione). Può trattarsi di presidenzialismo, di cancellierato, di premierato, ma ciò che deve caratterizzare la destra è sempre il concreto, il determinato, il ‘confinabile’ entro uno sguardo in grado di dominare l’orizzonte, non di perdersi romanticamente al di là della linea.

 

V– La grande contrapposizione polemica del Politico nel XXI secolo resta quella classica della modernità: la contrapposizione tra chi è per l’essere e chi è per il dover (essere), chi è per il governo politico del presente e chi è per l’organizzazione utopica del futuro. Questa contrapposizione è secondo me assai più essenziale di ogni altra: chi (anche quando pensa di essere di sinistra) guarda umilmente e rispettosamente alla cose che sono e che sono state è di destra, o come altrimenti si voglia chiamare questo ‘luogo’, e il suo atteggiamento è effettivamente ‘conservatore’ perché non vuole buttar giù le statue di Colombo, di Robert E. Lee e di Churchill o finanche di Dante, ma vuole conoscere e capire la storia e il proprio passato.

Tanto più questo è vero oggi, in un’epoca di capitalismo finanziario assoluto. Quando si parla di ‘globalizzazione’ è un errore pensare solo alla Cina e ai fenomeni di immigrazione selvaggia, perché questi sono un epifenomeno rispetto al dato fondamentale rappresentato dalla totale ‘virtualizzazione’ del mondo e dei rapporti umani, che sarà accentuato nei prossimi anni a causa della pandemia (lasciate stare i discorsi lacrimosi che prevedono per tutti noi una universale e reciproca bontà, il punto è la marcata e disperante separatezza sociale e la crescente pauperizzazione generalizzata). L’Ottocento fu l’epoca dell’utopia malsana del mercato autoregolato, che subito dopo la grande guerra produsse le necessarie reazioni ‘sostanzialistiche’ all’idea di un mondo puramente ‘funzionalistico’: il comunismo sovietico, il fascismo italiano, il nazismo tedesco, ma anche – cosa che molti dimenticano – il New Deal americano di Roosevelt. La seconda metà del Novecento ha gradualmente prodotto, anche in virtù della rivoluzione informatica, una ulteriore ‘virtualizzazione’ del modo di produzione e una liquefazione dei rapporti sociali, che sta lasciando fuori dal mercato del lavoro nuove fasce della popolazione. Il rischio è che la fase puramente finanziaria del modo di produzione capitalistico produca alla fine una nuova forma di reazione, di cui oggi è difficile cogliere i confini e la natura, ma che potrebbe essere violenta e tirannica.

Nell’epoca del capitalismo finanziario (in verità ne aveva parlato già Hilferding a inizio Novecento), o forse della finanza capitalistica globalizzata, lontana mille miglia dalla base aurea che ancora nell’Ottocento mitigava le pretese del monetarismo, si tratta preliminarmente di capire dove materialmente si sono collocate e perché le forze politiche o presunte tali. Un indizio significativo è il rapporto con l’Unione europea. Perché la ‘sinistra’ è così cocciutamente europeista? In altri termini, più concreti: chi sono i padroni del mondo e chi sono i loro servitori? Quali sono le politiche funzionali agli interessi dei padroni del mondo, almeno del mondo occidentale? Non vi è dubbio che il liberalismo del laissez-faire, o meglio il liberalismo del “mercato libero e non falsato” (citazione dal fallito Trattato per una costituzione europea) è l’ideologia funzionale ai padroni attuali. Ma questa politica non è solo né tanto il liberalismo di destra cui accenna Galli della Loggia, quanto il liberalismo della sinistra, che è diventata il luogo eletto degli interessi padronali, come si sarebbe detto un tempo, ovvero della finanza globale. Non è certo un caso che molti capitalisti prosperino nel cosiddetto Partito democratico o che certi ex-comunisti pratichino il profitto sulla via della seta divertendosi a fare gli ‘industriali’.

La verità è che le vecchie opposizioni non reggono più: la difesa del libero mercato era una volta di destra, oggi è appannaggio della sinistra in nome dell’umanitarismo mondialista. Certo, il libero mercato, se regolato, resta una pratica della “destra”, ma anche di una certa sinistra che oggi appare utopista, sicché non è facile, partendo dalla ‘struttura’, avere una ‘sovrastruttura’ omogenea ai fondamenti materiali. Il mondo si è girato e occorre prenderne atto, pur considerando prioritariamente che restano comunque in piedi alcune dimensioni ontiche dell’esistere, a partire dalla dimensione conflittuale del criterio del Politico.

La mia difesa dello Stato si è sempre accompagnata con la consapevolezza che se la morte dello Stato era una ipocrita scusa per fare gli interessi della finanza mondiale, al tempo stesso va detto che lo Stato-nazione dell’Ottocento e della prima metà del Novecento è oggettivamente in crisi, da intendere però più nel senso di una trasformazione che di una dissoluzione. Da questo punto di vista non ho mai accolto la previsione di Carl Schmitt sulla fine dello Stato quale espressione storicamente determinata del Politico. Sarebbe tuttavia dimostrazione di miopia non cogliere il dato oggettivo della crescente dipendenza degli Stati da una contingenza mondiale che determina una riduzione degli spazi di autonomia dei singoli Stati-nazione. È un errore assolutizzare una fase storica determinata e non cogliere l’elemento ultra-nazionale che ha caratterizzato gli Stati in passato e caratterizza oggi gli Stati più rilevanti dal punto di vista geopolitico: non è un semplice Stato-nazione la Russia, né lo sono gli Stati Uniti d’America o la Cina. La stessa Turchia, con la quale fino a non molto tempo fa noi europei avevamo rapporti oscillanti tra guerra e pace, in fondo è una potenza del genere. Voglio dire che un partito di destra che pratichi l’interesse nazionale come sostanza del Politico deve guardare sì allo Stato, ma al tempo stesso al grande spazio (Großraum) che consente una effettiva vitalità sovrana o sovranità vitale a livello mondiale, sia economico sia politico. Un certo scetticismo e relativismo è a mio avviso un modo intelligente di fare politica in questi tempi schiodati, come direbbe Shakespeare, oggi che lo stesso clivage destra/sinistra si è per l’appunto relativizzato (ma lo era già per esempio nella Germania di Weimar) e che paesi deboli come l’Italia si trovano sempre più preda degli interessi altrui[6].

Anche per questo è centrale il rapporto con il progetto di ‘integrazione’ europeo. Contro l’europeismo astratto la destra politica è fautrice di un europeismo concreto, che saldi i legami vitali tra i popoli europei (non esiste un popolo europeo, né al momento una ‘nazione europea’) entro una forte struttura confederale, che salvaguardi un interesse comune e non consideri, come invece fa l’Unione europea, il proprio ordinamento al servizio della pace universale e dei diritti dell’uomo. Una destra all’altezza del nostro tempo storico deve avere l’ardire di contrastare, con piena consapevolezza culturale, l’ideologismo dei diritti dell’uomo le cui carte sono state poste alla base del processo di integrazione, una retorica di stampo teologico che serve solo a nascondere interessi ben più concreti. Non a caso la sinistra più accorta – penso ad un vecchio intellettuale ex-comunista-‘gentiliano’ come Biagio de Giovanni – si rende conto del pericolo di abbandonare il concreto – i ceti medi e più poveri, il lavoro manuale e intellettuale – al dominio dell’astratto: i diritti, l’umanità (“chi dice umanità vuole ingannare”: Proudhon), la pace universale. Così Massimo Cacciari, nel suo recente libro su Weber[7], sottolinea l’esigenza del lavoro intellettuale come premessa per la ricostituzione del Politico nell’epoca dell’impero del capitalismo finanziario: una sorta di nuovo ‘cervello sociale’ alternativo.

Non che i diritti dei singoli non debbano essere difesi, ma nella misura in cui essi, tutelati da uno Stato autorevole e forte, siano il corrispettivo di obblighi. Ecco un altro lemma fondamentale per un partito di destra politicamente responsabile: il dovere, l’obbligo, come fondamento dei diritti, donde il primato del sociale rispetto all’atomismo individualistico. Da questo punto di vista la destra politica di oggi è ancora la migliore ‘destra’ quale già fu in passato, la destra che nel ‘liberalismo’ (quello nato a sinistra, non quello di Minghetti) vedeva la frantumazione dell’organico, ma anche dello stesso individuo, come appare con evidenza nel ribollente laboratorio della modernità rappresentato dalla cultura viennese tra Otto e Novecento. Ovviamente non si tratta di trovare la verità in questo o quel filosofo e tanto meno in qualche cosiddetto ‘scienziato della politica’. La verità sta nell’occasione, nel saper afferrare la domanda che il tempo storico pone al politico. Il Politico sta prima, assai prima, del clivage destra/sinistra, “conservatore”/“progressista”.

[1] Cfr. A. Carrino, Michael Oakeshott filosofo dello scetticismo: liberale o conservatore?, in corso di stampa in Nuova storia contemporanea, 2021.

[2] M. Oakeshott, Sull’essere conservatori, (1956), in Id., Razionalismo in politica e altri saggi, trad. it. a cura di G. Giorgini, Milano, IBLLibri, 2021.

[3] Cfr. M. Oakeshott, La politica moderna tra scetticismo e fede, trad. it. a cura di A. Carrino, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013.

[4] È quanto ho scritto anche nel Rapporto sull’interesse nazionale della Fondazione Farefuturo.

[5] Cfr. A. Carrino, Il problema della sovranità nell’età della globalizzazione. Da Kelsen allo Stato-mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012.

[6] Cfr. gli articoli in Limes 2/2021: L’Italia di fronte al caos.

[7] M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Milano, Adelphi, 2020, su cui cfr. A. Carrino, L’altro impero. Max Weber e il lavoro intellettuale come professione, in Lo Stato, 15/2020, pp. 479-492.

Draghi, Meloni e le generazioni future

L’incarico a Mario Draghi – da molti preconizzato – è maturato dopo le convulsioni della maggioranza del “Conte bis” e ha sparigliato il quadro politico, tagliando trasversalmente le alleanze tra i partiti.

La sciabolata improvvisa del Presidente Mattarella ha gettato nello scompiglio l’alleanza giallorossa.  PD e M5S avevano coltivano l’illusione di poter fare a meno di Italia Viva per andare avanti con la rinnovata formula politica di centro-sinistra saldata dalla figura di Giuseppe Conte, magari attraverso l’utilizzo dei miliardi del Recovery Fund. Sino alla conclusione dell’esplorazione di Roberto Fico i partiti della vecchia maggioranza si sono mostrati sin troppo sicuri che sarebbero riusciti a varare un “Conte ter” con l’aiuto dei soliti “responsabili”. Invece, come spesso accade in politica, si è imposta una realtà differente da quella immaginata ed è improvvisamente crollato il castello di carte di chi pensava di aver costruito – anche con l’uso mediatico dell’emergenza pandemica – il nuovo orizzonte strategico della sinistra di governo giallorossa.

Ma anche nel campo del centrodestra non sono tardate le divaricazioni. Alcune erano ampiamente previste, come quella che riguarda Forza Italia e la sua adesione ad ipotesi di governi tecnici o istituzionali, che potessero consentire il superamento della formula di governo giallorossa.

Altre, invece, erano sicuramente meno prevedibili, come quella derivante dalla disponibilità della Lega a partecipare ad un Governo di unità nazionale presieduto da Draghi.

L’unica eccezione alla grande alleanza per affrontare la crisi pandemica e provare a rilanciare l’Italia con l’utilizzo del prestito europeo del Recovery Plan è, dunque, quella di Fratelli d’Italia. Solo Giorgia Meloni ha volontariamente declinato l’invito del Presidente Mattarella, non chiudendo, tuttavia, la porta ad un concreto sostegno parlamentare su singoli provvedimenti nell’interesse della Nazione.

Anche questa scelta ha suscitato perplessità e un acceso, ma interessante dibattito nei circuiti politici, culturali ed editoriali della destra italiana. Da un lato, chi sostiene che in periodo di guerra (ormai consueta metafora dell’emergenza pandemica) nessuno dovrebbe sottrarsi alle istanze di una solidarietà politica nazionale, espressa con un corale appoggio al “Gabinetto bellico”.

Con il suo celebre “Whatever it takes” e con l’invenzione del Quantitative Easing l’ex Presidente della BCE ha salvato la moneta europea dalla speculazione internazionale e ha imposto, esponendosi agli anatemi dei rigoristi teutonici, un primo importante cambio di passo rispetto alle cieche politiche economiche depressive, fondate sull’ossessione tedesca per la stabilità monetaria.

Inoltre – last, but not least – il sostegno a Mario Draghi avrebbe potuto mettere in soffitta, definitivamente, i tentativi di riedizione, sotto mentite spoglie, del vecchio “arco costituzionale”. La conventio ad excludendum della destra, infatti, nella strategia del PD zingarettiano varrebbe ad imporre il ritorno ad una “democrazia bloccata” e il conseguente restringimento dell’area di governo al perimetro di un centro-sinistra con tonalità giallorosse.

Nell’interesse del Paese e non solo dei partiti che si collocano a destra dell’arco parlamentare, è fondamentale disinnescare questo grave rischio, la cui concretizzazione riporterebbe le lancette della democrazia italiana indietro di trent’anni. Si deve, tuttavia, riconoscere che l’ingresso in maggioranza della Lega di Salvini renderà spuntata quest’arma di delegittimazione rispetto a chi intendesse utilizzarla contro chicchessia e, a maggior ragione, nei confronti del partito nazionale che esprime il presidente dei Conservatori e riformisti europei.

D’altra parte, non mancano le ragioni a sostegno di quello che inizialmente è apparso come un “gran rifiuto” di Giorgia Meloni, ma che, con il passare delle ore, è stato messo a fuoco nei termini di una “opposizione patriottica”. La crescita progressiva di Fratelli d’Italia si spiega anche con una linea di rigorosa coerenza e con una visione dell’interesse nazionale (dalla economia agli assetti istituzionali, dal modello di sviluppo alla collocazione geo-politica del nostro Paese) non sempre espresse, con altrettanta organicità, da altre componenti del centro-destra. Probabilmente è vero che la visione “nazionale” di Fratelli d’Italia avrebbe faticato ad esprimersi con un governo di emergenza, magari sottoposto ai veti delle componenti grilline, democratiche e post-comuniste. La scelta, dunque, quella di convergere con la maggioranza che sosterrà il Governo Draghi, se e quando giungeranno in Parlamento indirizzi di politiche pubbliche coerenti con un disegno di riscossa dell’Italia e dell’Europa condivisibile per la destra identitaria e popolare.

Archiviato, dunque, il fisiologico, quanto utile dibattito interno su una scelta fondamentale per il destino del Paese (come si conviene ad un partito che possa dirsi veramente tale e non un mero coacervo di interessi elettorali), si tratta adesso di percorrere sino in fondo la via della “opposizione patriottica”.

Occorre, innanzi tutto, smascherare la falsa narrazione oppositiva tra europeisti e (presunti) antieuropeisti. Nessun europeo può e vuole oggi dire no all’Europa; ma ogni europeo può pretendere che il progetto di integrazione avanzi verso un modello di unione politica confederale. Una Unione che si regga sulle radici di una identità bimillenaria e sia capace di proiettarsi, non solo economicamente, nello scenario globale come potenza continentale. Una confederazione europea fondata sulla partecipazione politica dei suoi cittadini e sulla eguaglianza delle opportunità nell’intero suo territorio. Una comunità di Stati che sappia difendere i suoi ceti produttivi dall’economia finanziaria e dalla concorrenza sleale dei liberi battitori dei mercati internazionali. Un ordinamento sovrastale che, riavviando il processo di integrazione, restituisca le scelte monetarie e gli indirizzi di politica economica e fiscale alla sovranità di istituzioni politiche continentali, democratiche e rappresentative.

Del resto, proprio il “Whatever it takes” di Mario Draghi ha tutti i caratteri di una potente affermazione di sovranità rispetto alle dinamiche adespote dell’economia finanziaria globale. Una decisione politica anomala e in un certo senso paradossale, perché assunta da una autorità tecnica e “non politica”, che ha però dimostrato come, anche nel mondo globalizzato, non si possa fare a meno di istituzioni di governo dell’economia.

Un disegno, in definitiva, profondamente diverso dall’attuale Unione europea, troppo spesso concepita quale fonte di legittimazione tecnocratica e non, invece, come proiezione politica continentale di una concreta comunità democratica di cittadini e di Stati.

In questo senso, i conservatori possono essere, al contempo, europei e sovranisti. Nella tradizione del diritto pubblico europeo, infatti, al contrario rispetto a quanto sostenuto da alcune superficiali narrazioni, la sovranità è democrazia e partecipazione, universalismo inclusivo di cittadini, di comunità intermedie, di imprese e di lavoratori, nel quadro unificante di comuni principi di civiltà.

Una visione “patriottica europea”, dunque, può ben conciliarsi con la tutela degli interessi nazionali. Anche sul piano interno, quindi, l’opposizione costruttiva potrà esprimere il suo sostegno a tutte le iniziative di modernizzazione del Paese fondate sull’utilizzo razionale dell’enorme massa finanziaria del Recovery Plan. La risposta alla crisi indotta dalla pandemia ha, infatti, determinato un primo momento di rottura rispetto alle politiche rigoriste che rifiutavano l’idea di un debito comune per alimentare la solidarietà politica, sociale ed economica dell’Europa.

Un piano che dovrà sostenere, in Parlamento e nel Paese, il rilancio infrastrutturale dell’Italia e la ricucitura delle distanze fra il Nord e il Sud, con il potenziamento delle reti e con la valorizzazione delle identità territoriali. Un programma di supporto per assicurare nuova libertà di azione al genio nazionale sul piano della cultura, dell’impresa, dell’arte, della tecnica, della ricerca e dell’innovazione, da troppo tempo strozzato dalle rigidità burocratiche o dalle false rappresentazioni di una possibile “decrescita felice”. Un progetto di rilancio che sprigioni le energie individuali e collettive della nazione con il sostegno dello Stato e dell’Europa, garanti delle regole del gioco e delle infrastrutture strategiche. Una visione di competizione aperta al mondo nei termini della migliore tradizione dell’universalismo europeo, anziché sulla fiducia ingenua e incondizionata nel mercato globale.

In questo scenario dovrà misurarsi il contributo della maggioranza che sosterrà il Governo Draghi e il ruolo dell’opposizione costruttiva della destra italiana, con il pensiero rivolto alle generazioni future.

*Felice Giuffrè, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico, Università di Catania

PROMUOVERE L’INTERESSE NAZIONALE IN UN MONDO COMPLESSO

Questo saggio di Giampiero Massolo, ambasciatore,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Nel nostro Paese, per motivi storici e culturali, ci si riferisce spesso con pudore e cautela al tema dell’interesse nazionale. Oggi, peraltro, esso è tornato di attualità in quanto fattore qualificante dello «stare al mondo», un requisito necessario per il bene della collettività.  L’impatto di una crisi grave e inattesa, come quella dovuta alla pandemia da Covid19, riassume in sé molti aspetti caratterizzanti: una minaccia nuova, immateriale e asimmetrica, che mette alla prova assetti e alleanze, così come la nostra coerenza nel farne parte; che comporta la necessità di conciliare l’emergenza sanitaria con quella economicosociale; l’opportunità di tutelare asset strategici potenzialmente in posizione di minore forza da appetiti stranieri. L’urgenza di definire e difendere l’interesse nazionale si ripropone, quindi, viepiù oggi con grande evidenza. Cresce coerentemente l’esigenza di formulare politiche improntate all’interesse nazionale, fra tutte il primato spetta alla politica estera. Sembra evidente che quest’ultima risponda all’interesse nazionale per sua stessa natura, ma in realtà, perché ciò accada, è necessaria una chiara definizione degli ambiti verso i quali prioritariamente ci si intende rivolgere, come necessaria appare una coscienza dei limiti, una disponibilità di strumenti e, soprattutto, l’attitudine a usarli per assumersi responsabilità in proprio.

Non sempre accade. È intuitivo constatare che l’interesse nazionale consiste in un esercizio di sintesi. Non vi è un interesse nazionale aprioristico, ma una sommatoria di fattori che spetta ai Governi sintetizzare. E di tale potere di sintesi essi sono responsabili, poiché nell’esercitarlo definiscono priorità e operano scelte. Queste scelte trovano la propria verifica politica nei parlamenti e, in definitiva la propria sanzione, nel voto dei cittadini. Torna qui il tema della difficoltà nel definire il proprio interesse nazionale, in qualche modo correlata alla poco assidua attenzione per le cose del mondo e alla spesso non profilata sensibilità dei cittadini. Anche da noi. È difficile quindi che i governi si sentano responsabili in via prioritaria su questi specifici temi. I governi si muovono comprensibilmente alla ricerca del consenso e sembrano dare spesso per scontato il peso relativo della politica estera e delle aspettative dell’opinione pubblica al riguardo. Oggi questo trend è in qualche inversione, anche a seguito della progressiva presa di coscienza dell’impatto che hanno sui nostri destini avvenimenti fuori dai confini nazionali (paradigmatici il conflitto libico, come i flussi migratori o il drastico passaggio della crisi finanziaria del 2008 e seguenti). E ancora, la pandemia che ha colpito il mondo ha accentuato drammaticamente la presa di coscienza.

D’altra parte il nostro Paese (e i suoi cittadini) deve tenere conto della realtà nella quale è chiamato a operare, inserito com’è in un sistema di relazioni internazionali, su un campo di gioco, ove competono e si confrontano diversi interessi nazionali. È difficile perseguire il proprio, senza essere vigili ai cambiamenti dello scenario globale. Perché questo accade in misura crescente? Conta sotto questo profilo, la rapida evoluzione del contesto internazionale in questi anni. Anzitutto, il contesto internazionale in cui si muovono gli Stati è ormai privo di «ombrelli protettivi». Il progressivo declino del multilateralismo, l’allentamento del carattere valoriale delle alleanze ha indotto una diluizione della differenza fra la nozione di partner e di alleato. Insomma, oggi il mondo è sempre più un mondo di competitors nel quale ancoraggi tradizionali come la Nato, la stessa Ue, l’Onu sembrano attenuarsi come mezzi di legittimazione dell’attività internazionale. In secondo luogo, sono mutati gli attori. Non è chiaro se si stia marciando a tappe forzate verso un nuovo «condominio bipolare» sino-statunitense. È ancora presto per dirlo. Ciò che è incontrovertibile, tuttavia, è che l’ordine mondiale liberale come l’abbiamo conosciuto, basato sulla primazia dell’Occidente, sul libero mercato e sui valori della democrazia rappresentativa è venuto meno e difficilmente potrà riproporsi almeno nella sua forma originaria. Siamo come «in mezzo al guado», perché se è vero che il condominio sino-americano sembra intravedersi, ci troviamo ancora in una fase fluida, di «recessione geopolitica», si potrebbe dire in uno stato di «G Zero». Senza un protagonista unico riconosciuto e senza regole universali. Al tempo stesso, si affollano nel mondo odierno molti nuovi attori essenzialmente non statali: grandi aziende, individui, Ong, terrorismo jihadista, le «piazze» (da non sottovalutarne l’impatto sul panorama internazionale).

A medio termine, dunque, non sembra alle viste un ritorno alla logica della cooperazione, una volta affermatasi quella di potenza che sempre più connota le relazioni internazionali. La logica «transazionale» promossa in primis – ma non solo – anche dall’amministrazione americana tende a prevalere al momento («pesi» e sei mio alleato non in nome di un valore fondante della nostra alleanza, ma per ciò che puoi darmi). Anche la risposta internazionale alla pandemia ne ha risentito: il mondo è apparso molto più diviso rispetto, ad esempio, alla reazione alla crisi finanziaria del 2008/2009.  Attenzione meritano poi le crescenti forme di influenza extra-statuali, la cui dirompente portata è esemplificata da quella della cibernetica.

È vero che non siamo nuovi all’esperienza di diverse forme di influenza, ma oggi questa è così pervasiva, penetrante da rappresentare una minaccia straordinaria. Se da un lato ciò non può far concludere  che ogni appuntamento elettorale in una democrazia rappresentativa sia falsato, dall’altro comporta una mutazione del sistema delle relazioni internazionali e implica la necessità di assumere opportune contromisure a propria difesa. Se questo è il mondo di oggi con le sue prospettive di medio termine, come può modellarsi una politica basata sull’interesse nazionale date le circostanze? Ogni governo, che voglia fare l’interesse dei propri cittadini deve intanto abituarsi a navigare in mare aperto senza dare per scontate più di tanto amicizie e inimicizie, identificando chiaramente il proprio interesse nazionale, dandosi un sistema decisionale efficiente, assumendo sempre più responsabilità in proprio senza pensare di poterle troppo delegare agli organismi multilaterali. E se l’autorevolezza e la solidità delle organizzazioni internazionali dipende dall’autorevolezza e solidità dei loro Stati membri, si può concludere che Stati forti e autorevoli rafforzerebbero il multilateralismo oggi in crisi. Rafforzare le capacità, all’occorrenza, di poter decidere in proprio è cruciale. Accrescere poi la partecipazione delle proprie opinioni pubbliche. L’opinione pubblica non può entrare in gioco solo come macchina di consenso (e di voti), ma deve contribuire, in modo informato, ai processi decisionali responsabilizzando i propri rappresentanti. Far crescere consapevolezza e responsabilità è essenziale. Ricercare i partner e alleati con i quali compiere percorsi comuni, distinguendo gli uni dagli altri. Con i primi entrano in gioco gli interessi, che a volte possono coincidere e indurre a compiere un tratto di strada insieme, con i secondi sono i valori (non sempre gli interessi contingenti) a fungere da collante. La capacità di discernere è decisiva. Rilanciare infine il multilateralismo è centrale, specie per un Paese come il nostro e più in generale per i Paesi Europei.

Per superarne la crisi oggi bisogna partire con un approccio bottom up, dagli interessi concreti, promossi da coalizioni di Paesi che intendano compiere lo stesso percorso, per dirigersi auspicabilmente nella medesima direzione. In un mondo «multi-concettuale» diventa allora prioritario ricercare temi unificanti e fra tutti quelli della sicurezza cibernetica e dei cambiamenti climatici sembrano i più adatti a lanciare un simile esperimento. Lavorare insieme tra Stati «willing», senza troppi distinguo, ricostruendo la dimensione multilaterale, è la prospettiva di speranza per il futuro. Ma se non accadesse, non potremmo evitare di assumerci le nostre responsabilità. Meglio prepararsi per tempo.

 

*Giampiero Massolo, presidente ISPI, ambasciatore

La mancata riforma del MES

Nei prossimi giorni il governo dovrà affrontare la questione della sottoscrizione delle modifiche al trattato MES. Il dibattito atteso in Parlamento non sarà semplice e si dà per scontato che i problemi maggiori deriverebbero dalla mancata sottoscrizione del nuovo trattato.

Ma è così?

Se ci si domanda quali siano i nodi che si celano dietro la riforma del MES è agevole rispondere che siamo di fronte ad una incompiuta proprio dal punto di vista istituzionale e che non promette bene per il futuro.

Per comprendere meglio bisogna andare indietro ai giorni della crisi economica e finanziaria, allorquando, nel 2010, furono istituiti due programmi di finanziamento temporaneo a livello europeo per fare fronte alle difficoltà economiche di alcuni stati membri: il meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (EFSM) e lo strumento europeo di stabilità finanziaria (FESF). La differenza tra i due programmi non sta in quello che possono fare, in quanto entrambi erano chiamati a prestare assistenza finanziaria agli Stati membri in difficoltà, bensì nella loro struttura istituzionale. Infatti, il primo era uno strumento comunitario di assistenza e aveva la sua base giuridica nell’art. 122, comma 2, TFUE; il secondo, invece, nasceva da un accordo tra i sottoscrittori di una società di diritto lussemburghese e mancava di ogni collegamento diretto con il diritto dei Trattati europei.

Non a caso, si dovette procedere all’inserimento di un paragrafo nell’art. 136 TFUE (con Decisione del Consiglio Europeo del 25 marzo 2011), per consentire agli Stati membri la cui moneta è l’euro di istituire un meccanismo di stabilità a carattere permanente, precisando che “la concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”.

In questo modo si è giunti all’istituzione del Meccanismo europeo di Stabilità (MES) attraverso la sottoscrizione di un apposito trattato (2012), al di fuori dell’ordinamento giuridico dell’Unione europeo.

Ora, la differenza tra i due meccanismi è incommensurabile: con il primo, lo Stato membro che chiedeva assistenza si obbligava nei confronti delle Istituzioni europee; con il secondo, invece, nei confronti dei governi degli altri Stati membri. Di conseguenza, fu subito evidente che il MES dal punto di vista istituzionale indeboliva oltre misura l’Unione europea, anche perché questa appariva incapace di fronteggiare la crisi economica e finanziaria, e metteva così in discussione l’euro, nonostante apparentemente tendesse a rafforzarlo.

Non è un caso che, non appena ci si avvide di questo errore, si pose il problema di come cercare di recuperare il disastro istituzionale che si era causato nei giorni della paura cagionata dalla crisi.

Le prime reazioni, che servirono a bloccare la speculazione sull’euro e sui titoli del debito degli Stati membri, furono del Presidente della BCE, Mario Draghi, che, prima, nel suo intervento alla Commissione Affari economici e monetari del Parlamento europeo, in data 19 dicembre 2011, dichiarava l’irreversibilità dell’Euro e, dopo, in occasione dell’incontro presso la Global Investment Conference, il 26 luglio 2012, a Londra, pronunciava la celebre frase: “All’interno del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto quanto è necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza” (Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough).

Anche la Commissione europea intervenne in modo deciso e nel suo “blueprint for a deep and genuine economic and monetary union. Launching a European Debate” (COM(2012) 777 final/2, 30.11.2012) affermò la necessità di una riforma profonda del coordinamento delle politiche economiche, dal momento che, con riferimento ai processi di legittimazione, si riteneva che il modo di procedere non avrebbe potuto essere dato dal metodo intergovernativo, ma da quello comunitario. La Commissione così poneva in discussione il MES (“non è chiaro dove si situi la responsabilità nei confronti del Parlamento di un livello intergovernativo europeo che cerca di influenzare le politiche economiche dei singoli Stati membri della zona euro”).

La Commissione richiedeva di sottoporre il MES, attraverso l’incorporazione nei Trattati, al controllo del Parlamento e la modifica del trattato avrebbe dovuto comportare anche il rafforzamento della responsabilità democratica della BCE nella sua veste di autorità di vigilanza sulle banche.

La Commissione sembrava porre le premesse per una politica fiscale (di bilancio) europea finanziata, con risorse proprie derivanti da un’imposizione europea (“un potere impositivo mirato e autonomo”) e la creazione “di una struttura analoga ad un ‘Tesoro’ dell’UEM in seno alla Commissione”, al fine di “dare una direzione politica e accrescere la responsabilità democratica”, in modo che l’Unione venisse posta in condizione di resistere a eventuali shock economici. Essa avrebbe altresì avuto la capacità di emettere obbligazioni da cui potrebbero derivare risorse a seguito della “possibilità di emettere debito sovrano proprio dell’UE”.

Questo disegno venne avallato dalla relazione dei cinque Presidenti (Completing Europe’s Economic and Monetary Union. Pubblicato il 12 giugno 2015) e la Commissione lo riprese in un successivo documento (Reflection Paper on the Deepening of the Economic And Monetary Union, COM(2017) 291 del 31 maggio 2017), e portò alla proposta di trasferire le funzioni economico-finanziarie del MES in capo al “Tesoro” e a trasformare il MES nel Fondo Monetario Europeo, dopo la sua integrazione nel quadro giuridico dell’Unione.

A tal fine, venne anche presentata una proposta di regolamento da parte della Commissione (COM(2017)827) che avrebbe risolto la coesistenza tra le Istituzioni europee e un meccanismo intergovernativo permanente come il MES che dava luogo a molteplici aporie decisionali, di responsabilità democratica e di rispetto dei diritti fondamentali.

Inoltre, l’incorporazione del MES avrebbe garantito nel quadro istituzionale europeo anche il sostegno comune (backstop) al Fondo di risoluzione unico, il cosiddetto meccanismo di risoluzione unico che avrebbe rafforzato la credibilità delle azioni del Comitato di risoluzione unico e accresciuto la fiducia nel sistema bancario.

In questo modo, in sostanza, il Fondo monetario europeo si sarebbe affermato come un solido organismo di gestione delle crisi nell’ambito dell’Unione europea, in piena sinergia con le altre Istituzioni.

Tuttavia, la proposta della Commissione sembra essere stata accantonata – non è dato comprendere se per sempre o per un altro periodo, comunque lungo – per andare nella direzione di una revisione del trattato del MES. Infatti, a seguito delle discussioni tenutesi nelle riunioni dell’Eurogruppo (in particolare dicembre 2018 e giugno 2019), e dei vertici euro del 14 dicembre 2018 e del 21 giugno 2019, sono stati definiti i termini generali della riforma del MES, che mantiene la sua attuale struttura come accordo intergovernativo.

Gli emendamenti proposti, che riconoscono ulteriori funzioni di rilievo al MES, perciò, implicano un ulteriore spostamento in sede intergovernativa di poteri che non si giustificano pienamente nelle mani dei governi degli Stati sottoscrittori, mentre avrebbero un ben diverso significato in quelle delle Istituzioni europee.

In particolare, gli emendamenti amplierebbero il mandato del MES sulla governance economica degli Stati membri. Infatti, si consentirebbe al MES di “seguire e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria dei suoi membri, inclusa la sostenibilità del loro debito pubblico e di effettuare analisi di informazioni e dati pertinenti” (art. 3). Inoltre, grazie all’accordo dell’aprile 2018 tra la Commissione e il MES, relativo alle loro relazioni di lavoro nel contesto dell’assistenza finanziaria agli Stati membri della zona euro, la struttura di governo del MES verrebbe coinvolta nella valutazione della sostenibilità del debito degli Stati membri, fornendo una base giuridica esplicita per la “cooperazione all’interno e all’esterno dell’assistenza finanziaria”. Infine, avendo reso più precisi i criteri di ammissibilità e di condizionalità, potrebbe sussistere una maggiore difficoltà per gli Stati membri nell’accesso all’assistenza finanziaria, senza contare anche il pericolo che il consiglio di amministrazione del MES possa richiedere un margine aggiuntivo se lo Stato membro ha prelevato fondi dallo strumento.

Quanto poi al sostegno del Fondo di risoluzione unico, in misura tale da resistere a una crisi bancaria più pronunciata o generalizzata nell’area dell’euro, questa non rafforza l’Unione bancaria, perché inframmetterebbe forme intergovernative con forme comunitarie. Infatti, lo strumento di sostegno assumerebbe la forma di una linea di credito rotativa, in base alla quale il MES potrebbe fornire prestiti al Comitato di risoluzione unico.

In conclusione, ci si aspettava un rafforzamento dell’Unione economica e monetaria e, invece, l’avere scelto la linea del trattato di revisione del MES, anziché quella dell’inserimento di questo nel quadro istituzionale dell’UE, non va a favore del processo di integrazione europeo, nel quale si punta, sia pure con tutte le imperfezioni del caso, a una maggiore trasparenza del processo di decisione e al rafforzamento dei poteri democratici del Parlamento europeo, anche per la politica economica.

Invero, il trattato di revisione del MES determinerà – nella migliore delle ipotesi – il mantenimento dell’attuale frammentazione dei poteri tra sfera comunitaria e sfera intergovernativa. La sottoscrizione e la ratifica del trattato di revisione del MES, perciò, non porterà ad una maggiore trasparenza istituzionale del sistema europeo. Inoltre, bisogna considerare che anche questo trattato, al pari di quello del 2012, interessa la questione della distribuzione del potere di decisione comune tra gli Stati membri ed è noto che trattati del genere, determinando una cessione di sovranità, senza mettere in chiaro chi effettivamente gestisce le quote di potere politico conferite dagli Stati con simili Accordi, accentueranno l’asimmetria del potere politico di decisione tra i governi e non miglioreranno la qualità dei rapporti tra gli Stati membri, sia in termini di solidarietà e sia di costruzione di un orizzonte europeo comune.

 

*Stelio Mangiameli, ordinario di Diritto costituzionale – Università di Teramo

Che cos’è una Nazione?

In una conferenza tenuta alla Sorbona nel 1882, il grande pensatore Ernest Renan cercò di rispondere ad una questione chiara in apparenza ma difficile: Che cos’è una Nazione?

Secondo Renan l’essenza di una Nazione sta nel fatto che tutti gli individui abbiano molte cose in comune e che ne abbiano dimenticate tante altre. Per tenere insieme delle persone, oltre che nel ricordo, occorre accomunarle anche nell’oblio di tutto ciò che può essere divisivo e che a distanza di tantissimi anni è meglio metter da parte.
Il più grande errore è confondere la razza con la Nazione, attribuendo a gruppi etnografici una sovranità analoga a quella dei popoli realmente esistenti. E a tal proposito l’Italia è il Paese dove l’etnografia è più intricata, dove Galli, etruschi, pelasgi, greci, ed altri elementi, si incrociano in un indecifrabile miscuglio che testimoniano come non esista una razza pura e dunque basare la politica sull’analisi etnografica significa fondarla su una chimera. Andando avanti nella sua analisi, Renan esclude la lingua, la religione, la geografia. A riguardo della lingua, prendono come esempio la Svizzera costruita con il consenso delle sue differenti parti, analizza che nonostante vi siano presenti tre lingue c’è la volontà di esser Nazione. La religione essendo transnazionale non può essere un fattore che identifica un popolo dal momento che non ci sono più religioni di Stato; si può essere italiani, francesi, tedeschi, inglesi o di qualunque altra Nazione pur essendo cattolici, protestanti, israeliti o non praticando alcun culto dal momento che la religione è un affare individuale. La geografia, pur avendo una parte considerevole nella divisione delle nazioni, ha i suoi limiti dal momento che le acque che delimitano i confini hanno sempre favorito i movimenti storici e dunque hanno unito le razze che hanno poi modificato le forme dei popoli.
In conclusione Renan sostiene che una Nazione è un principio spirituale, risultato di complicazioni profonde della storia. Non basta creare principi come razza, lingua, religione, geografia. Due elementi costituiscono questo principio spirituale e sono uno nel passato, l’altro nel presente. L’uno è il possesso comune di una ricca quantità di ricordi e di oblio; l’altro è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l’eredità che si è ricevuta indivisa, un progetto di futuro comune. E per marcare il secondo elemento di tal principio spirituale, Renan afferma con enfasi che l’esistenza di una Nazione è un plebiscito quotidiano di convivenza.
Seppur spesse volte in posizioni opposte, le Nazioni per le loro caratteristiche diverse servono l’opera comune della civilizzazione apportando ognuna una nota al grande concerto dell’umanità. Ma in tal proposito se isolate, non sono altro che parti caduche.
*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta

tav: analisi toninelli reinventa la ruota

Sono due settimane che leggo e rileggo la relazione che il gruppo di lavoro del Prof. Ponti ha scritto per il Ministro Toninelli sugli input, il metodo e i risultati dell’analisi costi-benefici del progetto della linea AC/AV Genova Milano. Ho anche partecipato ad un incontro pubblico con alcuni dei membri del gruppo di lavoro.

Non sono un economista, ma un Ingegnere che si occupa di ferrovie da 35 anni, ho cercato di capire se il metodo fosse affetto da inesattezze e devo dire che non presenta evidenti motivi di critica in sè, anche se andrebbe confrontato puntualmente con quanto riportato con le linee guida della UE.

Quello che ho capito dai vari amici economisti a cui ho posto quest’ultima richiesta di verifica, è che per quanto riguarda l’ormai famoso mancato beneficio per lo Stato causato dalla riduzione delle accise incassate sui carburanti le linee guida lasciano libertà di considerarlo o meno fatta salva la coerente definizione delle condizioni al contorno dell’analisi stessa. Ok l’economia non è una scienza esatta, ma allora possiamo accettare l’orgogliosa affermazione del gruppo di lavoro che ci spiega che se gli introiti dalle accise sono superiori ai costi ambientali da inquinamento e gas serra, ai costi delle perdite di vite umane in incidenti stradali e ai costi del tempo perso per la congestione, più si spostano merci e passeggeri dalla ferrovia alla strada, più benefici per la collettività si hanno?

A questo punto siamo di fronte al problema etico. Etica, economia, tecnica, visone a lungo termine sono gli ingredienti della politica e nient’altro che della politica.

Siamo tutti disposti ad accettare che il valore di una vita umana sia di 1,916 milioni di euro in Italia, 3,3 milioni di euro in Lussemburgo e 989 mila euro in Bulgaria? Sì perché questi sono proprio i valori usati nel calcolo presi dall’”Handbook DG MOVE” dell’Unione Europea ripetutamente citato nell’analisi costi benefici del gruppo di lavoro.

I morti per incidenti stradali sono in Italia circa 10 al giorno mentre sulle ferrovie Italiane mediamente, escludendo gli investimenti ai passaggi a livello, 10 all’anno. La copertura dei media è al contrario mille volte superiore, e giustamente, per gli incidenti ferroviari.

Dicono dal gruppo di lavoro che le strade saranno sempre più sicure, e meno male! Restano i morti e i malati per l’inquinamento che a parità di passeggero trasportato e di tonnellate trasportate al kilometro è monetizzato mediamente, sempre avendo come riferimento il documento UE prima citato, per il ferroviario nella misura di un quarto di quello del modo stradale. Questo in autostrada mentre per i centri urbani le cose peggiorano ancora di più per l’auto.

E, sorpresa, sorpresa, l’auto elettrica (e l’auto autonoma) o il camion elettrico con le due prese di corrente sul tetto (stanno reinventando il filobus degli anni dell’autarchia) non migliorano di molto la situazione portando come vantaggio solo il migliore rendimento del motore elettrico (il cosidetto “powertrain”) e la possibilità di recuperare parzialmente l’energia di frenatura (l’energia di frenatura dei treni soprattutto urbani, è da decenni che parzialmente viene recuperata!) attestandosi a livelli di inquinamento comunque tre volte superiori a quello della ferrovia. Il motivo sta tutto nella ruota: una ruota di acciaio su una rotaia di acciaio provoca una resistenza all’avanzamento (detta resistenza al moto) 4 volte minore di quella di un pneumatico sull’asfalto. Vi assicuro per esperienza personale che due persone riescono a spingere un vagone di 40 tonnellate un TIR dello stesso peso non credo.

La resistenza al moto in pianura è la sola causa del consumo energetico ed è in prima approssimazione propozionale all’inquinamento prodotto dal motore diesel localmente o dalle centrali elettriche se il veicolo è a trazione elettrica.  Per non parlare del fatto, sempre sottovalutato, che il pulviscolo generato dal consumo dei pneumatici delle auto (anche quelle elettriche o autonome) è altamente pericoloso per la salute.

La differenza della resistenza al moto a pari velocità e pari carico di un veicolo su rotaia rispetto ad uno su gomma è un numero non un’opinione. Consumare meno energia anche se l’energia è prodotta da fonti rinnovabili è comunque obbligatorio perché le risorse, rinnovabili o no, non possono essere sprecate.

Ma torniamo all’analisi costi benefici a cui di queste ultime considerazioni gli importa il giusto.

A questo punto considerando il beneficio per lo Stato proveniente dalle accise sui carburanti sembra proprio che l’analisi costi benefici sia negativa, al netto di aver preso i dati di input corretti, soprattutto per quanto riguarda i costi, i fondi europei, la valutazione del valore di quanto è già stato speso e le possibili penali per fermare i lavori. Per affermazione pubblica da parte di alcuni membri del gruppo di lavoro, la metodologia usata per l’analisi per la AV/AC Genova Milano è la stessa uitilizzata per la Torino Lione, credo quindi che nessuno si aspetti nient’altro che un risultato negativo.

Sono però altrettanto certo che due altre opere che personalmente e con grande entusiasmo sostengo, e  che vengono indicate come impiego alternativo delle risorse provenienti dall’eventuale stop della TAV Torino Lione cioè la seconda linea della Metro di Torino (con le ruote di ferro però vi prego!) e la AV Napoli – Bari, non passeranno mai le forche caudine dell’analisi costi benefici che include i proventi delle accise. Senza tenere conto che per queste due opere i fondi Europei saranno pari a zero.

Che contributo tecnico si può portare alla discussione su cui basare decisioni così politiche e strategiche? Innanzi tutto la già citata questione dei consumi energetici che per un veicolo su rotaia sono e saranno sempre almeno tre volte inferiori a quelli di un veicolo su pneumatici a causa di un paio di leggi fisiche. Una quella della resistenza al moto data dall’attrito di rotolamento della ruota (eh si si chiama così) di cui ho già detto, l’altra della resistenza al moto data dall’aria.

E qui per semplicità diciamo che, giusto per dare un’idea, da certe velocità in su l’attrito con l’aria comincia a prevalere su quello della ruota sul terreno (aumento quadratico si dice: cresce due volte propozionalmente alla velocità, raddoppia la velocità quadruplica il consumo e dipende dalla forma geometrica). Ma anche qui la forma geometrica del treno che è stretto e lungo fa sì che, finchè non si riusciranno a fare treni di camion che viaggiano a 120 km/h a mezzo metro l’uno dall’altro o treni di auto che corrono a 300 km/h a 10 centimetri una dietro l’altra, il vantaggio della ferrovia in termini di consumi a pari velocità e pari carico (sia di merci che passeggeri) è schiacciante.

Qualche Professore del Politecnico sarà ormai inorridito leggendo alcune imprecisioni in cui sono incorso a favore del tanto inflazionato concetto di semplificazione.

Quindi per sviluppare una nuova tecnologia di trasporto ancora più efficiente della ferrovia bisogna semplicemente eliminare la ruota e l’aria. Questo è il concetto a cui si è rifatto Elon Musk per lanciare l’idea di Hyperloop.

Ultime notazioni:

1) Andare a Lione in treno forse non è una mia priorità (con buona pace dei Lionesi) ma di andare da Milano a Parigi in 4 ore e mezza senza prendere l’aereo risparmiando chili di CO2 come faccio sempre quando vado nella splendida Napoli, invece mi importa eccome.

* Gianvito Lionetti, esperto  della Commissione Europea

Rischio Italia. La nuova "guerra fredda"? Tecnologica ed economica

Poco tempo fa il quotidiano Il Sole 24 Ore ha riportato la vicenda di un’azienda italiana leader mondiale nella realizzazione di pannelli in vetro e acciaio (che oggi rivestono la maggior parte degli immobili moderni) con sede in Veneto e da qualche anno passata a proprietari giapponesi, la cui vendita ai cinesi è stata bloccata. La Commissione per gli investimenti esteri negli USA, avendo competenza giuridica perché l’azienda ha uno stabilimento produttivo anche negli States, ha bloccato la trattativa. Ufficiosamente la decisione della Commissione Cfius sembra motivata dal timore che i cinesi inseriscano dei microchip nei pannelli per attività di spionaggio su scala globale. Siamo dinnanzi ad una nuova guerra fredda? La risposta sembra essere proprio positiva anche se non è percepita dal momento che la partita tra Stati Uniti e Cina si pratica sul tavolo della capacità di penetrazione del campo dell’avversario attraverso due armi principali: la leva finanziaria volta alla acquisizione degli asset strategici di un Paese e quella tecnologica per il reperimento delle informazioni dello stesso. In gioco tra Occidente ed Oriente c’è la supremazia globale.
Lo scorso 20 novembre il vice presidente del Copasir Adolfo Urso ha presentato una interrogazione parlamentare ai ministri Di Maio e Moavero, al fine di sollecitare una chiara presa d’atto del sempre più emergente problema di sicurezza nazionale, soprattutto a seguito di un atteggiamento di arrendevolezza, da parte del Governo, riguardo lo screening degli investimenti esteri nel nostro Paese. Il senatore Urso ha sottolineato un’azione del Governo dai tratti incomprensibili e che suscita molta curiosità: l’astensione, presso il Coreper (il comitato dei rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri dell’Unione europea) nella votazione riguardo al Regolamento sullo screening degli investimenti esteri in Europa. L’astensione in tale sede equivale a voto contrario! Il precedente Governo insieme a Francia e Germania aveva fortemente sollecitato il regolamento in questione al fine di proteggere gli Stati europei dalle invadenze estere, perché non tutti i Paesi dell’Unione hanno gli strumenti per tutelarsi e dunque ciò che viene respinto frontalmente grazie alle proprie difese può entrare lateralmente a causa della mancanza delle difese altrui. Fortunatamente il Regolamento è stato approvato e ciò consentirà ai singoli Paesi di compiere la propria sovranità grazie ad un celere reperimento di informazioni riguardanti le attività economiche estere a protezione delle proprie imprese e tecnologie.
Tutelare il proprio Stato non significa solo prevenire attacchi terroristici, perché vi possono essere aggressioni invisibili, silenziose, legali e molto letali anche se prive di impatto mediatico. La difesa di un Paese passa anche e soprattutto dal contrasto contro coloro che esercitano veri e propri atti predatori a detrimento della propria sovranità. E se siamo ormai nella nuova guerra fredda tecnologica ed economica, abbiamo necessità di un Governo pienamente consapevole, compiutamente sovrano ed in grado di difendersi.

*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta