Lockdown, la falsa efficienza dell’autoritarismo Cinese

Il recente focolaio che ha coinvolto l’area urbana di Shangai in Cina, dovuto al diffondersi della nuova variante omicron 2 del coronavirus, ha riacceso ancora una volta i riflettori sulle modalità scelte da Pechino per contrastare la pandemia.

Le tradizionali misure di contenimento basate sul trittico: lockdown, test e tracciamento vengono impiegate in modo ortodosso dalle autorità cinesi e sin dalla loro prima applicazione a Wuhan si confermano come l’unico meccanismo di contrasto alle infezioni ritenuto in concreto praticabile. La strategia “Covid zero”, la cui efficacia con le varianti meno contagiose era fuori discussione, ha iniziato a mostrare delle criticità evidenti al crescere dell’indice di trasmissibilità del virus. Le conseguenze sul piano economico inoltre, hanno interessato sul piano geografico tutto il mondo con le frequenti interruzioni della supply chain, soprattutto per il blocco delle città portuali, più colpite dai focolai rispetto all’entroterra. È la Cina tuttavia a pagare da un punto di vista economico il prezzo più alto per una strategia che in occidente appare fuori discussione. Se l’ultimo trimestre del 2021 ha visto un rallentamento della crescita di Pechino, pari solo al 4%, è nel 2022 che Xi Jinping rischia di mancare gli obiettivi di crescita prefissati, che diversi analisti stimano inferiori al 5% su base annua complici anche la crisi energetica e il calo degli investimenti esteri innescato dalla recente stretta autoritaria figlia della “Teoria del benessere comune”.

L’iniziale inasprimento delle misure restrittive deciso sin dagli esordi della pandemia nel gennaio di due anni fa, aveva trovato in Europa e negli Stati Uniti uno stuolo di sostenitori, pronti a sottolineare l’apparente efficienza del governo cinese nel contrasto al Covid. Misure draconiane imposte sfruttando un’indole altrettanto decantata della popolazione ad obbedire alle Autorità. Per tutto il 2020 e buona parte dell’anno successivo non sono mancati nemmeno coloro che ne chiedevano l’adozione speculare in Occidente per bloccare sul nascere i focolai più insidiosi, soprattutto nelle grandi conurbazioni che si confermano il serbatoio perfetto per i contagi.

Oggi, dopo aver testimoniato la straordinaria efficacia dei vaccini ad mRNA, frutto di una indiscussa superiorità tecnologica nel settore farmaceutico e biomedicale, la pandemia appare sotto controllo sul piano sanitario ed economico. Inoltre l’arrivo in quantità sempre più consistenti dei farmaci antivirali e degli anticorpi monoclonali di nuova generazione, anch’essi sviluppati tra Stati Uniti ed Europa, consentono di programmare concretamente un ritorno alla normalità, che culminerà con l’abbattimento della mortalità da Covid19 a valori simili all’influenza (0,1%).

La Cina sembra non possa contare su nessuna delle armi disponibili nell’arsenale occidentale. I vaccini a virus attenuato prodotti da Pechino con la tecnologia “tradizionale”, non solo risultavano di gran lunga meno efficaci contro il ceppo originario, ma già con la variante delta offrivano una protezione inferiore a quella di Pfizer e Moderna contro la malattia grave e il ricovero. Il divario si è ulteriormente ampliato con omicron, contro la quale ci sono dubbi che persino la terza dose dei vaccini cinesi possa riportare la protezione a livello comparabili a quelli occidentali. Non è un caso che Pechino abbia avviato da tempo la sperimentazione di vaccini a mRNA sviluppati in casa, pur non disponendo degli impianti e del know-how della nostra industria farmaceutica. Non è un caso infatti che per la produzione su larga scala delle dosi necessarie siano stati sondati stabilimenti in Europa e Asia a cui la Cina dovrà rivolgersi per disporre, con un ritardo di due anni, di un farmaco comparabile ai prodotti di Pfizer e Moderna.

Anche sul fronte degli antivirali Pechino si trova a dipendere completamente dalle forniture occidentali, a cui si aggiungono ostacoli regolatori, che hanno ostacolato l’approvazione del paxlovid, giunta condizionata e solo a febbraio e di approvvigionamento. Questi ultimi sono destinati a diventare insormontabili qualora la Cina pensasse di usare i nuovi farmaci come leva per mitigare il decorso clinico e temperare il confinamento. L’arco temporale richiesto per soddisfare tutti gli ordini sarebbe senz’altro superiore ad un anno ed è difficile pensare che senza una produzione in loco, le importazioni possano soddisfare le richieste anche nell’ipotesi assai remota in cui fossero concessi alla Cina canali preferenziali per le forniture. A differenza dei vaccini, l’industria farmaceutica di Pechino non ha ancora sviluppato alternative credibili e di efficacia sovrapponibile a quelle di Pfizer e Merck e non sembra che questo accadrà nel breve e medio periodo.

Tuttavia è la fragilità intrinseca del sistema sanitario cinese a costituire il fattore rende i lockdown l’unica soluzione praticabile per contrastare la circolazione del virus. In un recente studio del Journal of critical care medicine i letti di terapia intensiva disponibili in Cina risultavano essere 3,6 ogni mille abitanti, un decimo di quelli Americani che hanno superato ormai i 30 e meno della metà di quelli di Singapore (11,4) e Hong Kong (7,1). Se il problema riguardasse le sole strutture sanitarie si potrebbe porre rimedio costruendo nuovi ospedali sul modello di Wuhan nel 2020, purtroppo però il deficit peggiore di Pechino riguarda il personale, assolutamente insufficiente per contenere un focolaio di medie dimensioni in una grande città. Il sistema sanitario è ormai da anni alle prese con il sovrappopolamento e con una popolazione di età avanzata a cui diventa difficile assicurare cure con uno standard occidentale in tempi ordinari, impossibile durante una pandemia. Le scene caotiche del gennaio 2020, con i medici e gli infermieri inviati in massa nell’Hubei dalle altre province per lo screening di tutta la popolazione si sono ripetute questi giorni a Shanghai e la propaganda non ha perso l’occasione di enfatizzare la durissima lotta contro un virus ormai contagioso quanto la varicella. Qualora il contenimento fallisse e le autorità dovessero far fronte ai ricoveri con la creazione di nuovi posti letto, la Cina rischia di assistere inerme a casi come il focolaio di Jilin, dove gli ospedali improvvisati, costruiti come a Wuhan in pochissimi giorni, contavano su appena 5 medici e 20 infermieri ogni 100 pazienti ricoverati in gravi condizioni.

Simili previsioni sono confermate dalla mortalità per Covid che ad Hong Kong si è assestata ben sopra i 25 decessi ogni 100mila abitanti, con numeri che in alcuni giorni hanno superato i 300 morti al giorno. È naturale che le autorità cinesi abbiano valutato con grande attenzione le conseguenze di una diffusione incontrollata del virus come nella ex colonia britannica, sulla carta dotata di strutture sanitarie all’avanguardia e sicuramente più organizzate di quelle della confinante Shenzen o di Shanghai. A novembre il CDC di Pechino aveva stimato in almeno 260 milioni i casi e in 3 milioni i morti di covid, qualora la Cina avesse adottato restrizioni di intensità simile a quella di Regno unito e Stati Uniti. Oggi con Omicron è facile dedurre che il bilancio sarebbe da ritoccare al rialzo, anche in considerazione della bassissima efficacia dei vaccini a tecnologia “tradizionale” che non proteggono dalla malattia grave senza terza dose.

La Cina si trova dunque ad un bivio, la stretta autoritaria e illiberale che ha trovato in occidente le lodi sincere di una nutrita pattuglia di cultori dell’efficienza è ormai inattuabile per contenere omicron. Da metà marzo, più di 70 città che rappresentano il 40% della produzione industriale cinese hanno dovuto implementare misure restrittive per controllare i focolai di Covid, destinati ad essere sempre più aggressivi e diffusi. Se Pechino non dovesse riuscire nella missione di coniugare salute e libertà economica, accettando di convivere con il virus, l’obiettivo di crescita del 5,5% sarà un miraggio almeno per i prossimi due anni. In caso contrario, Xi Jinping dovrà prepararsi ad un numero di morti considerevole, non solo di Covid ma anche di tutte le altre patologie che gli ospedali hanno difficoltà a curare durante le campagne di screening. Il bilanciamento tra stabilità interna e benessere economico sarà ancora una volta la chiave di volta per comprendere il margine di rischio del governo cinese che, in ogni caso, non potrà rinunciare ai prodotti dell’industria farmaceutica americana ed europea per vincere la sfida finale al virus. Toccherà all’occidente decidere se e a quali condizioni fornirli a Pechino.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

L’ARMA NECESSARIA DELLE SANZIONI E LE SUE CONSEGUENZE

La guerra in terra ucraina continua nonostante gli incontri tenutosi a Brest per negoziare la pace, o per lo meno una duratura tregua dei combattimenti, e siamo ormai tutti a conoscenza della scelta dell’Unione Europea innanzi all’invasione russa, ossia l’imposizione di una serie di sanzioni economiche a partire dal 22 febbraio, giorno in cui Putin comunicò al mondo intero la scelta di riconoscere l’indipendenza delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk. A tanti, anzi tantissimi, compreso il sottoscritto, le sanzioni sembravano l’unico modus operandi che avrebbe evitato un’entrata in guerra di alcuni paesi europei in difesa dell’Ucraina, o peggio la Terza Guerra mondiale con la partecipazione degli Stati Uniti e la NATO tutta. Si tratta di un ampio pacchetto di sanzioni imposte a livello individuale, come quelle rivolte ai membri della Duma russa che hanno votato a favore del riconoscimento suddetto e agli oligarchi vicini a Putin, colpito lui stesso insieme al Ministro degli Esteri Lavrov, ma anche a livello economico, bancario, tecnologico, mediatico e altro. E’ facilmente intuibile dalle parole che emergono in questi ultimissimi giorni da parte dei leader europei, compreso il premier italiano, che il primo pacchetto di sanzioni non rimarrà solo: l’unica arma del mondo occidentale è quella di bloccare i mezzi attraverso i quali la Russia, forse meglio dire la cricca di oligarchi vicina a Putin, aumenta la propria competitività internazionale, quindi in primis tutto l’export degli idrocarburi, che nel 2019 hanno rappresentato il 59% delle esportazioni russe per un totale di 240 miliardi di dollari.

Non possiamo qui elencare tutte le sanzioni, ma alcune meritano una precisa e concreta menzione perché influiscono pesantemente sulla nostra Italia, che, nonostante meritatamente si sia schierata insieme a tutti i paesi europei in difesa dell’indipendenza e della libertà ucraina, è stata una delle più restie a imporre determinate sanzioni, prevalentemente quelle che riguardano il settore energetico. È qui che sorge il vulnus di queste sanzioni per il quale dobbiamo chiederci: l’urgenza delle sanzioni che danno crea all’economia italiana? Le sanzioni europee impongono il divieto di esportazione di beni e tecnologie relativi alla raffinazione del petrolio e hanno introdotto delle restrizioni alla prestazione dei servizi connessi. È inevitabile che l’imposizione del divieto di export di tali materie, uno dei vari fattori dal quale sta conseguendo un aumento del tasso di riferimento della politica monetaria russa dal 9,5% al 20%, ha determinato un aumento dei tassi di interesse imposto dalla Banca Centrale russa. Ciò conduce la Federazione Russa in una grave recessione economica per la quale, secondo Alessandro Terzulli, chief economist di Sace (durante il talk “Ucraina, prove di resistenza” organizzato da ISPI), inevitabilmente il prezzo del gas schizzerà alle stelle, determinando nell’area euro circa -0,25 punti percentuali del PIL.

Guardando esclusivamente a casa nostra, forse siamo il Paese che soffrirà maggiormente dei rincari del costo del gas dato che circa il 45% del nostro fabbisogno energetico è colmato dalle esportazioni russe. Ma se noi importiamo gas, allo stesso tempo esportiamo beni strumentali in Russia, che è il 14esimo mercato di destinazione per il Made in Italy. Contiamo circa 660 imprese italiane in Russia, che si dislocano prevalentemente nei settori agroalimentari, automobilistici e dell’energia. Già la guerra in Crimea causò un declassamento molto grave dell’export italiano perché, come ricordiamo bene, le sanzioni europee non nascono “ieri” e nemmeno “oggi”, bensì si tratta ormai di svariati anni, durante i quali i rapporti economici son caratterizzati da pesanti sanzioni. Tra il 2013 e il 2021 le nostre vendite sul mercato russo hanno accumulato perdite per 24.712 milioni di euro, pari a 3.089 milioni di euro medi all’anno.

Non dimentichiamo tutto l’apporto economico derivante dal turismo russo nelle nostre coste italiane e nelle nostre città: Banca d’Italia sostiene che nel 2019 la spesa dei viaggiatori provenienti dalla terra di Vladimir Putin si aggira attorno ai 984 milioni di euro, vale a dire circa il 2,2% dei circa 44 miliardi spesi dai turisti in Italia. Si vedranno ridotti il proprio lavoro, di conseguenza gli ingressi economici soprattutto nella stagione estiva, i lavoratori italiani impiegati nei porti che ospitavano i lussuosi yacht dei magnati russi, anch’essi destinatari delle sanzioni europee perché vicinissimi a Putin.

Saremmo stolti se dimenticassimo che perdiamo anche gran parte degli effetti positivi derivanti dall’interscambio con l’Ucraina, dove l’export italiano era cresciuto del 20% rispetto al 2019, toccando il valore di poco più di 2 milioni di euro (dati ConfArtigianato 2021). Come abbiamo visto in questi giorni, tanti italiani si sono spostati nelle città ucraine, dove lì hanno ricostruito la propria vita. Chiaramente, i settori dove siam più apprezzati sono quelli che ruotano intorno al comparto alimentare, alla moda, ai mobili, al legno e ai metalli.

Conseguenze positive dalla guerre non ne vedremo, soprattutto data la globalizzazione moderna e del mercato (appunto) globale che viviamo nella nostra epoca. Allo stesso tempo le sanzioni sembrano ai più, e al sottoscritto pure, l’unico mezzo per frenare l’avanzata russa su Kiev a danno dell’indipendenza del popolo ucraino. Putin sa bene che sia i suoi fedelissimi sia il popolo non vivranno effetti positivi degli eventi odierni scaturiti dallo stesso Presidente russo, ma è necessario un distinguo perché a Putin interessa esclusivamente la solidità della sua base politica ed economica, mentre al popolo russo non credo proprio dia importanza. Si, gli oligarchi non potranno utilizzare le loro ville nelle nostre colline toscane o le loro imbarcazioni nei mari cristallini italiani, d’altra parte gran parte dei loro fondi sono depositate su banche non europee, lontane dagli occhi inviperiti che abbiamo in queste settimane noi occidentali. L’unica strada da percorrere si chiama diplomazia: concedere qualcosa per garantire la pace e la stabilità, facendo accordi, il mezzo col quale poi attaccare l’avversario qualora quest’ultimo non rispetta i patti.

Non dimentichiamo mai da che parte stiamo: come ha ricordato il Senatore Urso in un’intervista di lunedì (7 marzo, n.d.r.), gli ucraini hanno scelto l’Occidente, la pace e la libertà. Garantiamo a loro questa libera scelta, garantiamo il loro diritto di auto-determinarsi e garantiamo all’Occidente pace e benessere economico.

*Jacopo Ugolini, studente di Scienze politiche, Università di Parma

Le incertezze di una guerra alle porte dell’Europa

Il protrarsi delle ostilità in Ucraina da parte della Russia rappresenta oggi un evento singolare e di eccezionale gravità, quanto ad effetti sul piano economico e umanitario, destinato a mettere alla prova le previsioni formulate nei paesi occidentali sullo scoppio e l’andamento del conflitto. Ben prima che si materializzasse la decisione dell’uso della forza, una progressiva escalation politica e poi militare ha spinto i vari governi e le cancellerie, sino agli Stati Uniti, a concepire soluzioni in grado di sciogliere insieme alla Russia il nodo gordiano alla base del conflitto, che appare invece ancora più stretto dopo mesi di frustranti e infruttuose trattative. La crisi, che è ormai assurta alla dimensione di una guerra di aggressione condotta su più fronti ai danni dell’Ucraina, con l’esplicito obiettivo del suo annichilimento politico e territoriale, non figurava come una priorità nelle agende dei principali leader e ora sconta il vuoto di chi potrebbe quanto meno candidarsi a governarla. La decisione della Russia di raggiungere manu militari i propri obiettivi, con un impeto novecentesco, ha colto alla sprovvista chi prefigurava una sostanziale condizione pacifica dell’Europa, non più teatro di offensive su larga scala contro una nazione sovrana, ma anche chi all’opposto immaginava un’operazione tanto rapida quanto di successo per Mosca. Nessuna delle due previsioni si è avverata e oggi . È evidente che l’andamento del conflitto sin dalle prime ore ha tradito le aspettative di chi confidava in una facile vittoria, lasciano spazio ad una serie di valutazioni sulle conseguenze del protrarsi delle ostilità sul piano militare ed economico.

Se è vero che l’Ucraina ha scontato sin dalle prime ore una radicale asimmetria sul piano tattico, le forze armate Russe non sono state in grado di sfruttare la loro superiorità per una serie di fattori: in primis contrariamente alla narrazione diffusa l’esercito di Kiev non somiglia più ad una compagnia di sbandati, ricordo sbiadito del 2014. Dopo 8 anni di combattimenti nel Donbass e un piano di riarmo con il supporto dei paesi occidentali, l’Ucraina schiera delle truppe altamente motivate e ben equipaggiate, con una notevole esperienza bellica sostenuta in patria, sia in teatri urbani che in campo aperto, a cui si è aggiunto il prezioso contributo dell’addestramento americano in tecniche di combattimento in grado di ostacolare azioni offensive come quelle Russe. Gli ultimi mesi inoltre hanno visto un grande afflusso di aiuti militari, specialmente armi anticarro e antiaeree, che a fronte del costo relativamente esiguo sono in grado di infliggere perdite rilevanti e neutralizzare mezzi ben più dispendiosi e soprattutto difficilmente sostituibili ad un ritmo accettabile, se il conflitto dovesse perdurare per diverse settimane. L’esercito Russo al contrario oltre ad essere parso demotivato e smarrito, è sembrato incapace di sfruttare appieno le proprie dotazioni, finendo impantanato in clamorosi errori logistici ripetuti nel corso del tempo, che chiamano in causa l’intera catena di comando. Ci si potrebbe chiedere legittimamente come le decine di migliaia di coscritti inviati al fronte da Mosca dalla tundra siberiana possano prendere l’iniziativa, in una guerra che se è vero che è apparsa tanto insensata alle gerarchie Bielorusse da farle desistere dal partecipare alle operazioni, è altrettanto intuibile quanto possa interessare ai nativi dalle aree più remote del Paese. Meno inclini a fraternizzare con gli Ucraini con cui si scontrano per la prima volta, anche per differenze linguistiche ed etnoculturali, ma non per questo meno restii dei loro connazionali a combattere per conquistare Kiev, che dista pur sempre 5000 chilometri dalla Buriazia. Le débâcle dei primi giorni pongono la questione di quante siano effettivamente le truppe russe addestrate secondo i criteri dell’Alleanza Atlantica. Probabilmente meno di diecimila: un numero di gran lunga insufficiente per prevalere senza rinforzi, contro un nemico che padroneggia il terreno alla perfezione e che sembra disposto a resistere sino in fondo anche in contesti urbani.

L’impatto delle sanzioni economiche invece, è destinato a produrre i suoi effetti nel medio e lungo periodo, ma non è escluso che misure più radicali come una rimozione pressoché totale della Russia dal sistema di pagamenti SWIFT o l’embargo americano sugli idrocarburi, in particolare il petrolio, possano risultare insostenibili già nell’immediato. Decapitare un flusso di cassa di 800 milioni di dollari che giornalmente si riversano nell’erario di Mosca per garantire quel minimo livello di benessere accettabile dal popolo Russo, potrebbe avere contraccolpi altrettanto severi in Europa per la ormai arcinota dipendenza energetica, ma anche gli stessi Stati Uniti verrebbero investiti da una ulteriore fiammata inflazionistica “indotta” dalla crescita del prezzo dell’energia. Mosca potrebbe incorrere in una crisi del debito sovrano, come già accaduto in diverse circostanze ai tempi di Yeltsin, e potrebbe tentare di rimborsarlo in rubli anche in presenza di altri compratori dei suoi titoli di stato, come la Cina e in misura nettamente minore l’India. In assenza di altri paesi esportatori di greggio, l’Arabia Saudita (che sconta notevoli incomprensioni con la Casa Bianca) e l’OPEC rimangono maldisposte ad incrementare la produzione di petrolio e con il Venezuela e l’Iran ben lontani da un accordo politico maturo con gli USA, è facilmente intuibile le ripercussioni che una simile mossa avrebbe sulla ripresa post-covid e sulla tenuta sociale, che nelle democrazie occidentali è sicuramente più a rischio rispetto ad un paese autoritario come la Russia e di quest’ultimo particolare a Mosca sono ben consapevoli. È importante tenere a mente che il prezzo del petrolio si colloca intorno al 6% del PIL in Italia e la soglia della recessione si materializza al 7%, non è difficile intuire che ad Aprile la congiuntura diventerà negativa se il trend fosse confermato.

L’incognita rimane tuttavia comprendere come incideranno i due fattori, militare ed economico in rapporto all’arco di tempo di un conflitto che sembra voler durare abbastanza a lungo da dissanguare l’aggressore. Il supporto ancorché indiretto della NATO gioca un ruolo fondamentale nel contribuire ad infliggere notevoli perdite ai Russi, sia nelle divisioni corazzate che nelle forze aeree, così da distruggere le residue speranze di un blitzkrieg vittorioso. Una situazione di logoramento non potrà avvenire a queste condizioni, perché sarebbe per la Russia semplicemente insostenibile da un punto di vista economico sopportare intensità di un conflitto troppo alte per un paese che conta meno di un decimo della spesa militare degli Stati Uniti e poco più del Regno Unito, non potendo già adesso che impiega la quasi totalità degli effettivi nelle operazioni, rimpiazzare la totalità delle perdite senza sguarnire o depauperare le proprie forze armate al di fuori dell’Ucraina.

Uno stallo destinato a prolungarsi nei prossimi giorni che potrebbe aprire giocoforza lo spazio delle trattative, uno scenario ancora incerto con diversi attori che si affacciano con aspiranti ruoli di mediazione. In Europa Macron, Presidente di turno del Consiglio dell’UE, tiene i fili con il Cremlino forse per emulare il suo predecessore Sarkozy che dalla medesima posizione negoziò nel 2008 il cessate il fuoco in Georgia con Putin e Saakashvili. La Germania paga le consuete contraddizioni energetiche con la Russia, alimentate a vario titolo dagli ultimi cancellieri e si trova a dover prendere frettolosamente le distanze da un passato recentissimo. Se alcune voci autorevoli rimpiangono la leadership di Angela Merkel, ne dimenticano le sue responsabilità nel comportamento ambivalente che Berlino ha in un certo senso imposto all’Europa sulle forniture di gas naturale e nei tentennamenti mostrati davanti ad una crisi che dura ormai da 8 anni e che è parsa per tutto questo tempo una sorta di commedia degli equivoci, oscillante tra proclami internazionalisti e arrocchi mercantilisti. La Turchia gioca una sua partita autonoma dalla NATO, non applicando le sanzioni alla Russia con cui mantiene buoni rapporti, ma vendendo droni all’esercito Ucraino e ribadendo la propria primazia sugli stretti. Erdogan prova ad apparire come l’unico leader abbastanza equidistante da entrambi i contendenti sia da un punto di vista geografico che politico, così da poter promuovere una svolta, quantomeno apparente, nelle trattative in corso ed alimentare una presunta fama di risolutore di conflitti. I legami economici con la Russia poi pendono a suo favore e le recenti intese con Mosca in Siria trovano la diplomazia turca preparata a raggiungere un accordo. Anche Israele sembra apparentemente in grado di inserirsi e sfruttare i legami etnici e culturali che la legano ad ambedue le parti, ma l’eventualità di un successo sconta i limiti di una mediazione forse ancora non matura dal punto di vista temporale, che appare ancora oggi incerta e difficile da concretizzare. Chi si staglierà nei prossimi giorni come possibile paciere è la Cina: maggiore sarà la durata le conflitto, maggiori saranno le difficoltà Russe che potrebbero facilitare una soluzione orientale dalla quale Mosca uscirebbe doppiamente sconfitta. Sul piano militare perché costretta ad invocare l’intervento salvifico di Pechino da una guerra che non sembrerebbe più in grado di controllare autonomamente e su quello economico dove si troverebbe a brandelli, a fronte di conquiste territoriali dal discutibile valore strategico, con la certezza di finire nell’orbita cinese su interni settori produttivi: banche, energia e semiconduttori.

La reazione di Putin dinanzi ad un insuccesso militare, ancorché momentaneo, che si presenterebbe come l’anticamera di quella che fu la guerra in Afghanistan per l’Unione Sovietica, potrebbe spingere la Russia ad innalzare l’intensità dello scontro con uno scenario diametralmente opposto ad una trattativa lampo. Una vittoria di Pirro non è da escludere se l’impegno di Mosca fosse tale da rendere le forze Russe così soverchianti rispetto a quelle Ucraine, da portarle ad una sconfitta sicuramente dolorosa per entrambi o quantomeno da imporre una trattativa a senso unico che ha come precondizione la conquista delle grandi città, a cominciare dalla capitale. Se le perdite fossero eccessive persino in questo scenario, il modello che Putin potrebbe adottare è quello di Grozny, il che presupporrebbe rinunciare al combattimento urbano classico per radere al suolo con l’artiglieria le principali città ucraine in una sorta di riedizione della guerra in Cecenia, nella misura ritenuta sufficiente ad imporre un cessate il fuoco a Kiev, che si ritroverebbe a patire numerosissime vittime civili senza l’evacuazione con i corridoi umanitari. Facile intuire le finalità dal lato Russo di una misura apparentemente rivolta a mettere al riparo i civili, che darebbe il via libera al fuoco indiscriminato dell’artiglieria sui centri abitati, per altro già in corso in sprezzante contrasto con le convenzioni internazionali. Le perdite economiche sarebbero in quest’ultimo caso enormi, Mosca non risulterebbe in grado di colmarle ricostruendo i centri abitati e le infrastrutture. Ciò che rimarrebbe dell’Ucraina somiglierebbe ad una striscia di terra di nessuno devastata che ben si presta alla teoria dello stato cuscinetto più orientato verso l’annichilimento che l’equidistanza.

Un’escalation con il clima arroventato diventerebbe così più probabile, Le tensioni latenti, unite a quelle che un’ulteriore crescita del livello dello scontro sul piano economico e militare possono innescare, formano un mix esplosivo in grado di ipotecare sostanzialmente ogni residua aspettativa di pace nel breve periodo. Le modalità di escalation e di de-escalation sono speculari e spesso non dipendono fino in fondo dalla volontà dei contendenti: la NATO per esempio potrebbe anche istituire una no fly-zone nell’ovest del paese per assicurare il deflusso dei profughi ma al di là dell’aspetto provocatorio, le difficoltà dell’aviazione Russa, martoriata dagli stinger e spinta al volo notturno, renderebbero una  simile misura inutile contro gli attacchi portati avanti con artiglieria e missili cruise, che i caccia sarebbero difficilmente in grado di intercettare. Si aprono allora interessanti prospettive rispetto alla dichiarazione Russa di cobelligeranza, è qui che potrebbero nascere i presupposti per un’improvvisa accelerazione del conflitto: in assenza di un’invasione dal confine Bielorusso, che finora non ha avuto seguito, una Russia esausta con caccia e tank braccati da Kiev con le armi NATO, potrebbe pensare di colpire i trasferimenti degli aiuti militari al confine qualora risultassero così decisivi per le sorti del conflitto da portarla alla sconfitta. Questo in che misura possa interessare i membri dell’alleanza atlantica ancora non è chiaro e ovviamente dipenderebbe dall’area geografica interessata da un potenziale attacco. L’articolo 5 del trattato non contribuisce a sciogliere i dubbi e la stessa definizione di “attacco armato” si presta a diverse interpretazioni in assenza di una prassi applicativa. Lo stesso accadrebbe con la messa a disposizione dell’Ucraina delle infrastrutture aeroportuali in Polonia, avendo la Russia distrutto la quasi totalità degli aeroporti di Kiev, e di alcuni vecchi caccia MIG da trasferire, la cui utilità però appare dubbia in considerazione della scarsa importanza che l’aviazione ha avuto in questo conflitto. Contrariamente a quanto si crede, i bombardamenti aerei hanno avuto un impatto relativamente ridotto rispetto al loro potenziale e anche per i diversi errori di Mosca nelle prime fasi del conflitto l’Ucraina sembra conservare ancora una piccola parte delle proprie difese aeree che non ha esitato ad impiegare con successo.

Anche le sanzioni infine potrebbero influire su scenari inaspettati: non sarebbe difficile immaginare le conseguenze che una rimozione totale della Russia dallo SWIFT unita all’embargo dagli idrocarburi produrrebbero sulla leadership Russa, che appare sotto pressione in tutti i casi e che per questo potrebbe essere portata a compiere scelte avventate. La debolezza è spesso una caratteristica connaturata agli Stati autoritari e il paradosso di un Putin sempre più debole potrebbe essere il rafforzamento interno delle forze armate, non più semplice strumento di proiezione di una flebile potenza imperiale ma ormai le vere indiziate di questo conflitto, che le ha viste finora prevalere sul blocco di potere dei servizi di sicurezza che in Russia è da sempre dominante. La vera incognita potrebbe presto riguardare il ruolo nascosto dei generali, pronti a tessere la trama di uno scontro interno al Cremlino dove a prevalere sarebbero i falchi più che le colombe.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

 

 

 

L’autonomia strategica europea riparte dai semiconduttori

Nel mondo globalizzato ed interconnesso, della transizione digitale ed ecologica, i semiconduttori rappresentano la spina dorsale del nuovo paradigma produttivo: dall’automotive ai dispositivi informatici come smartphone e computer, alle console dei videogiochi, i semiconduttori sono ormai una tecnologia critica, e garantirne l’approvvigionamento è un tema di interesse nazionale per tutte le principali economie sviluppate.

La recente crisi delle materie prime ha dato luogo al cosiddetto chip crunch, che ha portato poi alla recente saturazione del mercato dei semiconduttori con evidenti ripercussioni sui mercati globali: nella vita quotidiana l’enorme difficoltà nell’acquistare una PlayStation 5 è la cartina al tornasole dell’intensità di questo fenomeno.

La crisi pandemica ha fermato i mercati globali, portando alla chiusura degli stabilimenti produttivi di microchip, in uno scenario dove lockdown e misure pandemiche hanno comportato ad una improvvisa domanda di dispositivi elettronici per via del boom dello smart working, il tutto nel mezzo di una guerra commerciale tra blocco cinese e blocco statunitense, che ha portato inevitabili tensioni ripercossesi proprio nei mercati e sugli utenti finali.

Si parla di crisi di saturazione, con picchi improvvisi di domanda a cui l’offerta non riesce a fare fronte nel breve periodo, portando a veri e propri colli di bottiglia che paralizzano, o comunque mettono in seria difficoltà, numerosi comparti. Basti pensare in questo caso a come nello scenario di riduzione della produzione di semiconduttori, accompagnata da una crescita nella domanda di dispositivi elettronici, sia esplosa, in un secondo momento, la domanda di automobili di ultima generazione, fortemente basate su sistemi di comunicazione elettronica, anche per via delle misure di rilancio economico disposte dai governi nazionali di tutto il mondo.

La crisi delle catene di fornitura dei semiconduttori trova origine già nel 2018 con le crescenti tensioni tra gli Stati Uniti e la Cina, anche a seguito dell’enorme concentrazione di terre rare e materiali essenziali per la produzione dei microchip proprio in capo alla Repubblica Popolare cinese ed in generale in Asia: i principali produttori di microchip sono infatti la cinese SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation), la taiwanese TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Co) e la sudcoreana Samsung.

Solo Intel negli Stati Uniti è riuscita ad affermarsi come importante realtà del settore, in particolar modo per la progettazione e fabbricazione dei chip, ma nulla a che vedere rispetto alle controparti asiatiche e soprattutto Taiwan, da cui proviene il 50% dei microchip mondiali e oltre il 90% dei semiconduttori più sviluppati ed avanzati: l’Europa, in questa partita, non è pervenuta.

Lo sviluppo dell’IPCEI sui semiconduttori ha anticipato l’European Chips Act (ECA) come primo grande intervento di natura strategica per lo sviluppo di un’industria e di un settore dei semiconduttori di livello europeo.

Gli IPCEI sono i cosiddetti “Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo”, progetti di investimento che permettono la partecipazione di consorzi composti da varie aziende di settore con più Paesi membri, che permettono in via del tutto straordinaria l’erogazione di aiuti di Stato con enormi deroghe rispetto alle disposizioni attuative dell’articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

Sul solco di questa iniziativa si pone l’European Chips Act, con l’intenzione di ripristinare la sovranità tecnologica europea, portare la produzione europea di semiconduttori dal 9% al 20% entro il 2030 con l’intento di mobilitare oltre 40 miliardi di euro (tramite il cd. Chips Fund), quasi quanto i 52 miliardi stanziati dagli USA di Biden per il Chips for America Act: nel dettaglio si tratta di 15 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati aggiuntivi entro il 2030 rispetto ai 30 miliardi già stanziati nel quadro di Next Generation EU, HorizonEU e dai bilanci nazionali.

Il settore dei semiconduttori è sia ad alta intensità di conoscenza che di capitale, ed in quest’ottica le rigide regolamentazioni ai sussidi nel mercato interno sono uno dei principali fattori di arresto per lo sviluppo di un’industria dei chip europea.

Su questa falsariga l’ECA mostra i muscoli, lanciando un piano di investimento basato su partenariato pubblico-privato a valere su risorse comunitarie fino al 2027 (ultimo anno relativo alla programmazione del bilancio UE 2021-2027): la manovra muscolare dell’Unione consiste proprio nell’intento di non limitarsi a emanare documenti programmatici e strategie politiche di ampio respiro, ma un vero e proprio pacchetto normativo con tutte le carte in regola per istituire il programma di incentivi economici più ambizioso mai emanato dalla Commissione europea (dopo la Politica Agricola Comune, chiaramente).

I punti toccati dall’ECA sono molteplici: R&D, produzione, sostenibilità, catene di fornitura e gestione delle crisi. L’ambizione UE si intravede non tanto nel voler sviluppare un’industria europea dei semiconduttori, intersecata con lo sviluppo di IA e supercomputer, ma nello strumento normativo che permetterebbe alla Commissione di chiedere, in situazioni emergenziali, ai produttori di semiconduttori UE di concentrare la propria produzione su prodotti ad alto tasso di criticità.

L’ECA è indubbiamente una delle politiche industriali europee più ambiziose, ma è anche vero che la Commissione europea sinora non è mai stata in grado di disporre di una vera e propria politica industriale, vivendo un confronto costante tra la visione del mondo di Parigi e quella di Berlino, col risultato che sinora le politiche interventiste di stampo UE non sono mai state in grado di portare agli stessi risultati a cui abbiamo assistito in Cina o negli Stati Uniti: già nel 2013 la Commissione propose una strategia di investimento nei semiconduttori con l’idea di mobilitare 100 miliardi di euro di investimenti privati, misura che poi ha faticato a tradursi in risultati concreti.

Il recente successo dell’IPCEI sullo sviluppo di un’industria europea sulle batterie e l’indirizzo del Commissario al mercato interno Thierry Breton, francese non solo nella nazionalità, ma anche nella politique, stanno tuttavia lasciando intendere che un cambio di passo è possibile.

All’interno di questa intersezione dal lato della policy ci sono anche altre criticità tra cui l’assenza di grandi stabilimenti industriali di produzione di semiconduttori in Europa, ipotesi che le grandi aziende asiatiche non stanno al momento esplorando, nonché la difficoltà dal lato europeo di coordinare gli sforzi di spesa e di coordinamento politico, dovuto anche alla peculiare struttura dell’Unione: dal lato del budget i 40-45 miliardi previsti per il 2030 sono il frutto dell’unione di programmi di spesa pre-esistenti a budget nazionali ed a ulteriori stanziamenti ad hoc, allorché la Corea del Sud ha mobilitato oltre 400 miliardi di dollari fino al 2030, con Cina e Stati Uniti in grado di stanziare ex novo rispettivamente 150 e 52 miliardi di dollari.

A fronte di uno scenario del tutto inesplorato e pieno di incertezze, emergono tuttavia numerose opportunità, soprattutto per un Paese come l’Italia che è passato dal non toccare palla ad essere un attore determinante per la partita dei microchip, nonostante i due player principali restino Germania e, con molto distacco, Francia.

C’è poi il tema sulla capacità effettiva di approvvigionamento dei materiali necessari per la produzione dei semiconduttori: l’estrazione di terre rare (o rare earth elements, REE) richiede l’utilizzo di pratiche e materiali particolarmente dannosi per l’ambiente e, sebbene siano materiali non rari di per sé, è complesso riuscire a trovare luoghi di estrazione con una concentrazione di REE tale da rendere l’attività estrattiva sostenibile: su questo sarà inevitabile affrontare il tema della possibile estrazione di terre rare da giacimenti italiani ed europei in chiave di diversificazione delle fonti di approvvigionamento rispetto al monopolio cinese.

Se da un lato infatti la capacità di investimento della Germania nell’IPCEI sui semiconduttori (anche per via dei diversi valori di finanza pubblica) sovrasta di gran lunga le possibilità di Francia e Italia, il forte attivismo mostrato dal Governo nello stimolare una partnership tra Berlino, Parigi e Roma da un lato e con le grandi colossi esteri (la americana Intel prima tra tutti) dall’altro, lasciano ben sperare in un cambio di passo.

Per produrre microchip occorrono enormi quantità di acqua e ampi spazi per costruire gli impianti di lavorazione e su questo la geografia può rendere attrattiva ed appetibile per i grandi gruppi esteri l’ipotesi di sbarcare in Europa ed in Italia.

Sul lato interno, invece un ruolo chiave potrà essere ricoperto dalla STMicroelectronics, colosso italo-francese dei semiconduttori che sta effettuando importanti investimenti proprio in Italia, per una fabbrica di chip in silicio in Sicilia, e che può trovare spazio nel nuovo perimetro disegnato da Bruxelles. Proprio STM è protagonista, lato italiano, di buona parte dei progetti inquadrati nell’IPCEI sui semiconduttori, e può, anche grazie al PNRR trovare una dimensione europea riportando la penisola al cuore dell’interesse strategico del continente.

*Alessandro Guidi Batori, analista di politiche pubbliche

La dimensione strategica della sicurezza energetica in Italia.

Come ogni anno, con l’inverno che entra nel vivo, l’Italia è chiamata a fare i conti con la prevedibile crescita della domanda di energia. Accanto alle perduranti criticità che cronicamente si trascinano e riguardano lo squilibrio degli approvvigionamenti di gas naturale, quest’anno per la prima volta si sono palesate le difficoltà della transizione ecologica, il ritorno dell’inflazione (in parte indotta proprio dal prezzo dell’energia), tensioni geopolitiche (Russia e Kazakhistan) e le strozzature della catena del valore. Questi cinque fattori, che pure presi singolarmente erano in grado di esercitare una notevole pressione sulle condizioni di debolezza intrinseca dell’Italia, si sono combinati dando luogo ad un fenomeno distruttivo su scala internazionale di cui ancora facciamo fatica ad intuire la portata.

È noto che il nostro paese ormai da un trentennio pecchi dal punto di vista programmatico delle ampie vedute che avrebbero potuto, almeno in parte, correggere la rotta. Fattori esogeni ed endogeni si sommano mettendo a dura prova linee di difese, la cui sola concezione richiederebbe anni di pianificazione da un punto di vista strategico. Appurata l’assenza di quest’ultima su scala Europea, quasi tutti gli Stati membri sono stati costretti, ancora una volta, ad affidarsi a tatticismi improvvisati senza una regia affidabile affidabile, che spesso nascondono le vere responsabilità imputabili a chi, con grande miopia, ha apparentemente privilegiato gli interessi del proprio universo produttivo (è il caso paradigmatico della Germania), ricavandone tuttavia molto meno di quanto pianificato per una serie di errori (tra cui l’abbandono del nucleare), frutto di immaturità decisoria, che si ripercuotono su tutta l’Unione.

È pur vero che individuare il principale “colpevole” del momento rischia di essere uno sforzo puramente teorico. La complessità del mondo globalizzato unita alle peculiarità del mercato dell’energia, soprattutto dal lato dell’offerta, fanno sfumare i confini delle responsabilità. È noto già da prima che i pochi pozzi propagandistici di Mattei fiorissero nella Pianura Padana, che l’Italia non sia mai stata un importante produttore di idrocarburi e in generale si trovi nella difficile condizione di chi è privo di importanti materie prime. Per questa ragione, anche volendo i volumi di metano estratti nell’Adriatico non potrebbero superare i 5 miliardi di metri cubi in un arco di tempo almeno triennale, che permetta di riallineare la produzione con gli investimenti necessari mai effettuati. Questi ultimi per essere programmati necessitano di un quadro regolatorio omogeneo che garantisca gli operatori dalle giravolte improvvisate della politica, senza certezza del diritto le trivelle rimarranno ferme. Con la liberalizzazione dei mercati dell’energia, l’Italia ha rinunciato ad attrarre considerevoli investimenti di imprese estere dell’oil&gas per le attività di prospezione mineraria: una filiera virtuosa, con il pregio di garantire una piccola protezione nei confronti di tempeste geopolitiche e che avrebbe contribuito ad integrare l’ottimo meccanismo di stoccaggio di cui il nostro paese si è dotato e che con l’autoproduzione ai minimi è destinato ad operare a metà.

Esulano dal destino dei pozzi dell’Adriatico e del canale di Sicilia le scelte attuate su scala Europea che hanno condotto l’Unione nelle mani della Russia. Una condizione di assoluta debolezza, fonte di numerosi interrogativi, che ha visto una crescita dei suoi profili di criticità in corrispondenza delle crisi geopolitiche degli ultimi 15 anni. L’UE oggi ha scelto consapevolmente di vestire i panni del vaso d’argilla e con le tensioni in Ucraina e Bielorussia si trova alla mercè degli eventi: alla prospettiva scongiurata di sanzioni sul gasdotto Nord stream 2, ancora in attesa delle autorizzazioni nonostante la fine dei lavori, si aggiunge la totale indisponibilità dell’Unione ad accodarsi agli Stati Uniti per imporre ulteriori sanzioni alla Russia sull’export di idrocarburi.

Non è paradossale immaginare anzi, che in caso di escalation in Ucraina possa essere Mosca a ridurre o tagliare le forniture, facendo piombare l’Europa in una crisi energetica simile a quelle che negli anni 70’ costarono all’Italia il tracollo dell’industria chimica e il ricorso ad un prestito del Fondo Monetario Internazionale, un MES ante litteram.

Se il ragionamento degli Stati Uniti si inserisce nella convinzione diffusa che il completamento del Nord stream 2 possa più agevolmente compromettere la stabilità economica dell’Ucraina, legata a doppio filo al transito del gas, che verrebbe facilmente aggirata e privata dei mezzi di sostentamento, è tutto da dimostrare l’assunto che la Russia disponga di una produzione di idrocarburi artificiosamente calmierata per scatenare una guerra dei prezzi: Mosca paga lo scotto delle sanzioni imposte durante la prima crisi Ucraina che hanno danneggiato l’industria estrattiva di Stato, già gravata da croniche inefficienze e scarsamente propensa ad attuare quegli investimenti la cui mancanza viene avvertita anche in altri paesi esportatori che, al contrario della Russia, hanno potuto contare su scambi di tecnologia mineraria pressoché illimitati con gli Stati Uniti e l’Europa.

Tutti gli sforzi diplomatici profusi dalle amministrazioni americane per contrastare il progressivo incremento della dipendenza energetica dell’Unione Europea nei confronti della Russia sono falliti e c’è da aspettarsi che presto le valvole del Nord stream 2 verranno aperte, non appena arriverà l’imprimatur amministrativo. Anche il suo gemello meridionale, il South stream in cui Eni giocava un ruolo fondamentale, è riemerso sotto mentite spoglie nel Turkstream che ha comportato un’ipoteca sull’autonomia energetica dei paesi balcanici e cementato i legami tra un ambiguo paese NATO e il più importante fornitore di gas naturale dell’Unione Europea.

C’è da chiedersi se la miopia pianificatrice che ha interessato lo sviluppo dei nuovi gasdotti sia il concorso di più fattori di carattere politico ed economico e delle presunte connivenze che, lungi dall’essere dimostrate, ne hanno accompagnato la realizzazione e da cui nemmeno le voci contrarie possono dirsi immuni.

Oggi il quadro energetico europeo appare irrimediabilmente compromesso. L’inflazione indotta dall’aumento dei prezzi di petrolio e gas naturale rischia di alzare significativamente il livello di scontro sociale e portare all’esasperazione un continente stretto ancora nelle morse della pandemia, ogni tentativo di invertire la rotta o di alzare i toni con Mosca si è tradotto in un simbolico aiuto Americano consistente in una flotta di navi gasiere che coprono appena il consumo giornaliero dell’Unione. In caso di scontro armato tra Russia e Ucraina è l’UE a rischiare le conseguenze peggiori e la consapevolezza di questa ambiguità ormai instillata nelle agende di Capi di Stato e di Governo va al passo con l’inettitudine di istituzioni prive di legittimazione decisionale.

Tutte le soluzioni valutate come compatibili con l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica sono state colpevolmente accantonate o sono risultate dei parziali correttivi: il gasdotto TAP è oggi in servizio dopo anni di deliranti boicottaggi ambientalisti e garantisce uno sbocco fondamentale al gas Azero, che in un futuro prossimo potrebbe essere affiancato da quello Turkmeno se la pipeline fosse prolungata sino all’altra sponda del Caspio. EastMed pur non essendo apparentemente necessario dal punto di vista della domanda rappresenta un asset fondamentale di diversificazione degli approvvigionamenti, nonché un importantissimo strumento geopolitico su cui l’Italia avrebbe potuto basare una ancorché limitata influenza. Impossibile non menzionare il futuribile gasdotto transahariano ormai in avanzato stato di progettazione e destinato a collegare la Nigeria all’Algeria, che sarebbe stata la plastica rappresentazione dell’impegno dell’Unione Europea per la pacificazione del Sahel. Al momento non si intravvedono scelte in tal senso neppure da parte dell’Italia che dovrebbe avere tutto l’interesse a sostenere il progetto, pur pagando lo scotto delle continue inchieste della magistratura milanese che hanno flagellato le attività di Eni in Africa, danneggiando la credibilità internazionale del gruppo e del suo management, sottraendo valore al suo primo azionista: lo Stato Italiano.

Un copione che negli ultimi anni si è ripetuto due volte, colpendo gli affari in due paesi fondamentali per la diversificazione delle importazioni di gas naturale. La Nigeria infatti si candida a giocare un ruolo di primo piano anche nell’esportazione del GNL insieme ad Egitto, Angola e Mozambico. L’Algeria rimarrà un partner fondamentale per i prossimi decenni.

Se il Mediterraneo non ha avuto grande fortuna, nemmeno gli sforzi di diversificare in Asia Centrale hanno segnato traguardi importanti. Se di petrolio si parla non si può non citare il giacimento di Kashagan che costò la guida di Eni a Mincato dopo 10 miliardi bruciati nelle profondità del Caspio, per il gas naturale è andata meglio e Karachaganak appare minacciato solo dalle nuvole che si addensano sul futuro del Kazakhistan e che rischiano di compromettere l’attività di siti estrattivi di notevole importanza. Dispute sul controllo dei ricchi giacimenti del Caspio hanno impedito al Turkmenistan di affermarsi come forte esportatore di gas naturale in Europa e ad oggi è improbabile che questo avvenga con la costruzione di un nuovo gasdotto.

La scelta di puntare tutte le fiches sulla Russia ha saturato l’offerta di gas naturale e reso apparentemente sconveniente costruire nuove pipeline. I costi nascosti non contemperano però gli aumenti repentini dei prezzi a cui saremo chiamati a far fronte comune nei prossimi anni in assenza di investimenti su scala globale. Poter contare su una più vasta pletora di fornitori avrebbe permesso all’Unione Europea di prendere una posizione più decisa nei confronti di Mosca, pur non pregiudicando in alcun caso l’importazione di idrocarburi che si sarebbe svolta con un minor rischio di ritorsioni, perché in fondo ad un’economia arretrata e basata sulle materie prime come quella Russa è imperativo vendere per poter comprare.

Un’ulteriore alternativa degna di nota, che vede l’arrendevolezza della Germania far soccombere gli altri Stati membri, è l’uso del nucleare come sostegno all’elettrificazione delle filiere economiche europee. Con la chiusura delle centrali Berlino si avvia a decretare un inverno energetico parzialmente compensato da quei bizzarri strumenti che sono i meccanismi di capacità, pronti a bruciare costosa lignite (se opportunamente sussidiati), quando le nuvole coprono il sole e non soffia vento nei parchi eolici del mare del Nord. Senza contare le conseguenze ambientali drammatiche, sottese a questa scelta immatura che pesa sull’eredità di Angela Merkel, la decisione di rinunciare all’atomo rischia di sommarsi alle strozzature della supply chain che stanno rendendo economicamente impossibile la transizione ecologica, unita all’inflazione che probabilmente ne è diretta conseguenza.

A conti fatti, un corollario di errori da matita blu difficilmente risolvibili nel breve periodo, richiederà nei prossimi anni soluzioni concrete, a partire dai nuovi investimenti nel settore minerario che sarà centrale per assicurare la tenuta sociale più che ipotetiche derive ideologiche destinate a consumarsi a contatto con la realtà, come ogni massimalismo all’esito dell’incontro con la Storia. I sistemi di accumulo da soli non salveranno l’Europa del 2025 e probabilmente nemmeno quella del 2030, la miopia geopolitica condanna l’Unione di oggi e farà lo stesso con quella di domani. È certo che il gas naturale ci accompagnerà ancora a lungo e l’idrogeno non sarà mai prodotto in modo conveniente e senza emissioni se non ricorrendo all’energia nucleare, unico modo di affrontare l’elettrificazione della società post-industriale. Pensare di alimentare il sistema produttivo con i parchi eolici può essere un’utopia ancora più pericolosa di chi predica la chiusura di fabbriche e acciaierie.

Per farsi trovare all’altezza delle sfide del reshoring è necessario garantire quel minimo di stabilità dei prezzi che convinca gli investitori internazionali a scommettere sull’Europa, non solo come terra di consumo ma anche di produzione. Un orizzonte che si avvicina sempre più e che rischia di condannare l’Italia in primis alla desertificazione industriale, con i redditi che non crescono falcidiati da bollette sempre più esose e un’inflazione indotta dai prezzi dell’energia che condiziona in concreto la vita dei cittadini, in nome di un ambientalismo ideologico e pericoloso che sembra aver smarrito la sua carica sociale che in passato l’ha contraddistinto.

Includere nucleare e gas naturale nella tassonomia “verde” della Commissione è una mossa necessaria che dovrà essere integrata con un regime agevolato di aiuti di stato e uno sforzo comune andrà indirizzato allo stoccaggio comune del metano su scala Europea, ad oggi la più importante riserva strategica nel vecchio continente che ha “rinunciato a combattere”.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Una risposta comune dell’Occidente alla crisi ucraina

In una fase della vita internazionale complessa, in rapida evoluzione  e per più di un motivo inquietante ( basti pensare, sul versante dell’Indo-Pacifico ,alle perduranti minacce della Repubblica Popolare cinese all’indirizzo della democrazia taiwanese) , le tensioni in atto tra Kiev e i suoi partner occidentali, da un lato, e Mosca dall’altro –  con correlati  movimenti / ammassamenti di truppe ai confini – non possono che accrescere il livello delle nostre preoccupazioni.

Anche perché tali tensioni  si collocano  sullo sfondo di un rapporto tra gli Stati Uniti e il Cremlino che resta difficile e improntato a diffidenza reciproca, per una pluralità di motivi. Motivi che vanno, per non citarne che alcuni :  dalla persistenza , in seno alla dirigenza e a larghi settori della popolazione russa, di quel “complesso dell’accerchiamento” che da secoli accompagna e condiziona le scelte di Mosca in politica estera – e che è per certi versi l’equivalente di quel che è per la Turchia Repubblicana, altro orgoglioso e sospettoso ex- impero…- il “complesso di Sèvres” –  alle inconciliabili tesi  , di  Mosca e di Washington,  circa l’esistenza di un “impegno”  americano a non procedere ad allargamenti della NATO verso est ( impegno che il Cremlino asserisce essere stato preso ai più alti livelli all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso: ciò che Washington nega) ;   alle confliggenti posizioni delle due Capitali in relazioni a crisi regionali di peso come quella siriana e quella libica nonché con riferimento, ad esempio, alla delicata questione del “nucleare iraniano”; alla perdurante aspettativa di Putin di vedere nuovamente riconosciuto al suo Paese, da parte   americana  , quello “status” di potenza globale a suo tempo negatogli, con formulazione oggettivamente poco felice..( “la Russia è una potenza regionale”)  , dall’allora Presidente Obama; alle accuse di molti Paesi occidentali al Cremlino, USA in primis,   di interferenze anche per via cibernetica nelle  proprie consultazioni  elettorali e nei processi democratici interni.

Di tale perdurante e  acceso confronto ad ampio spettro le rinnovate tensioni in atto  tra Washington e Mosca relativamente alla “questione ucraina” con richieste incrociate di “garanzie” – per il Cremlino essenziale quella che l’Ucraina mai sarà ammessa a far parte  della NATO, per la Casa Bianca quella che la Federazione Russa in nessuna circostanza  violerà  i confini e la sovranità di quel Paese – rappresentano per così dire il punto di fissazione e, al tempo stesso, un potenziale moltiplicatore , ove la via diplomatica  non riesca in tempi stretti a imporsi come strada maestra e senza subordinate… per uscire dalla crisi.

Sotto tale profilo il colloquio di martedi scorso di ben due ore , seppur in tele-conferenza, tra il Presidente Biden e il suo omologo russo non può che essere registrato positivamente, al di là del suo esito non risolutivo ( ma nessuno pensava lo sarebbe stato). Nel merito, si apprende dal comunicato finale diffuso dalla Casa Bianca, Biden ha tenuto a esprimere “ le profonde preoccupazioni degli Stati Uniti e degli alleati europei per l’escalation delle forze armate che stanno circondando l’Ucraina”.

Ha aggiunto, con un passaggio improntato a condivisibile  fermezza che “ deve essere chiaro gli Stati Uniti e gli alleati europei risponderanno con forti sanzioni e altre misure nel caso  di una ulteriore escalation militare ”. Egli ha poi  voluto   ribadire, come era lecito attendersi e in linea con la posizione degli alleati europei a cominciare dal nostro Paese, il sostegno degli Stati Uniti alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina   ( sostegno – merita ricordare a fronte delle attuali forti pressioni/intimidazioni di Mosca nei confronti di Kiev – che la stessa Federazione Russa non aveva   mancato di assicurare nel dicembre 1994 attraverso la sottoscrizione –   insieme con Stati e Uniti e Regno Unito seguiti poi da Cina e Francia – del cosiddetto “Memorandum di Budapest”   ) .

Accordo con il quale le potenze in parola – in cambio dell’accettazione da parte di Kiev dello smantellamento dell’enorme scorta di armi nucleari che aveva ereditato a seguito della dissoluzione  dell’URSS  e della sua adesione al Trattato di non-proliferazione –  si impegnavano, all’ articolo 1, a “ rispettare  l’indipendenza , la sicurezza e l’integrità territoriale dell’Ucraina entro i suoi attuali confini” ( impegno che da parte ucraina si era ovviamente tenuto  a ricordare a Mosca , pur se purtroppo senza esito, già nel 2014: all’epoca cioè della annessione russa della Crimea..).

La Casa Bianca  ha tenuto tuttavia significativamente a precisare , all’indomani della videoconferenza , che tra le opzioni di sostegno all’Ucraina oggetto di esame non rientra quella militare,  e che l’articolo 5 del Trattato istitutivo dell’Alleanza – la reciproca difesa tra alleati nel caso di un attacco di una Parte terza a uno di essi –  “ non si può applicare all’Ucraina che membro della NATO non è ”.

Osservo per inciso che il Presidente americano – ciò che non è dato secondario- ha peraltro tenuto ieri a rassicurare personalmente l’omologo ucraino Zelensky quanto al fatto che, si legge nel relativo comunicato della Casa Bianca, “ il sostegno statunitense alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina non conoscerà cedimenti “, rinnovando però in pari tempo la sua aspettativa di una soluzione diplomatica “ anche attraverso un rilancio delle trattative tra Kiev e Mosca , attualmente in stallo”.

Tornando al suo colloquio di martedi scorso con Putin  Biden ha poi voluto sottolineare   di essere stato molto chiaro con quest’ultimo, “che ha ricevuto il messaggio”, circa il  fatto che gli Stati Uniti adotterebbero “sanzioni mai viste” nel caso di un’invasione da parte di Mosca dell’Ucraina. Tra queste, secondo indiscrezioni che circolano a Washington riprese da autorevoli organi di stampa, figurerebbe anche l’ulteriore sospensione della realizzazione del gasdotto Nord Stream 2 : prospettiva di rinnovata  messa in “stand-by” del progetto ( progetto  al quale il nuovo Ministro degli Esteri tedesco, la verde Annalena Baerbock , è peraltro da sempre contraria) che avrebbe già ricevuto il tacito avallo del nuovo Esecutivo a Berlino.

Si tratterebbe in sostanza  di scelta che potrebbe essere utilizzata come sanzione, in caso di ingresso di forze russe in Ucraina;  in modo , si osserva, da togliere a Mosca  l’arma del ricatto del gas nei confronti dell’Unione Europea.

Da parte sua, Putin ha ribadito – nel corso della sua conversazione da remoto con Biden – la richiesta all’Ucraina di una piena messa in atto delle intese firmate a Minsk nel 2015 sotto l’egida di Parigi, Berlino e Mosca : a cominciare dalla concessione della prevista “autonomia regionale” alle regioni a maggioranza russofona facendone una precondizione per il ritiro delle forze filo-russe dal Donbass.  E’ richiesta cui, come noto, le componenti nazionaliste ucraine continuano ad opporsi impedendo l’adozione in Parlamento di  misure nel senso indicato nonostante le aperture  suo tempo manifestate dal Presidente Zelensky. Putin ha inoltre, a quanto è dato sapere, rinnovato a Biden  la richiesta di un “ impegno formale” da parte americana  che l’Alleanza Atlantica, dopo l’ingresso nel 2004 delle Repubbliche Baltiche, non si estenderà  ad altre Repubbliche ex-sovietiche a cominciare da Ucraina e Georgia. Domanda per evidenti motivi – anche di natura giuridica, non prevedendo il Trattato di Washinton o altri strumenti internazionali in vigore l’avallo di stati terzi a scelte “sovrane” dell’Alleanza- difficilmente ricevibile. Né – a essere onesti e al di là delle ricorrenti recriminazioni di Mosca –  paiono  al momento sussistere le premesse per raggiungere, sul tema dell’ adesione di Kiev alla NATO, la richiesta  unanimità in seno a un Consiglio Atlantico composto ormai da ben 30 Paesi membri con sensibilità e priorità geo-politiche non  necessariamente convergenti.  Anche perché , merita ricordare, a oggi non esiste alcun invito formale ad Ucraina ( e Georgia), da parte  degli stati membri, ad aderire alla NATO.

E tutto questo senza contare le stringenti condizioni poste, per l’ingresso di nuovi membri, dall’articolo 10 dello stesso  Trattato istitutivo ( Trattato di Washington dell’aprile 1949). A cominciare da quella secondo la  quale lo Stato invitato ad aderire deve essere in grado di “ promuovere i principi alla base del Trattato di Washington “ nonché – condizione  che mi sembra ancor più rilevante, e di difficile realizzazione, nel caso di specie – di “contribuire alla sicurezza dell’area  nord-atlantica”.

Come sopra accennato di tali fattori di complessità ( per non parlare di vera e propria criticità) la dirigenza russa non può non essere consapevole. Mi sento pertanto di concordare con quanti sostengono che l’insistenza di Mosca sui suoi timori di una prossima adesione all’Alleanza Atlantica di Ucraina ( e Georgia) possa essere  in realtà l’espressione, più che di una reale e a mio avviso infondata inquietudine , di una volontà del Cremlino di avvalersi di ogni carta possibile – anche di quelle oggettivamente meno spendibili ….- per rafforzare la propria mano negli  attuali e futuri negoziati a  tutto campo con Washington.

In tale ottica negoziale e di messa in guardia degli Stati Uniti credo vada letto anche il gioco al rialzo di Putin che  , il giorno successivo alla video-conferenza con  l’omologo americano , si è così espresso, dopo aver definito “provocatoria” l’accusa che il suo paese voglia attaccare la vicina Repubblica ucraina : ”….sarebbe criminale stare a osservare passivamente gli sviluppi di una possibile adesione dell’Ucraina alla NATO”. Aggiungendo che entro pochi giorni da parte russa sarebbero stati inviati a Washington “ i dettagli di quello che Mosca chiede” a titolo di garanzia. Allo stesso spirito  di tattica negoziale c’è da augurarsi ( ma è ,appunto, solo un auspicio..) rispondano le gravi affermazioni, di ieri, del vice-Ministro degli Esteri russo Rybakov spintosi a definire le tensioni che si registrano al confine orientale dell’Ucraina , delle quali sarebbe a suo avviso esclusivamente responsabile l’Occidente e la dirigenza di Kiev, “una minaccia all’ordine mondiale, paragonabile a quelle dei momenti più gravi della guerra fredda”.

Altrettanto preoccupanti le parole di Putin sempre ieri – due giorni dopo dunque la sua videoconferenza con Biden che si poteva sperare avrebbe  favorito  quanto meno  un  abbassamento dei toni –  secondo le quali “la situazione del conflitto nel Donbass è molto simile a un genocidio” ; cosi come inquietante suona la pressoché contestuale affermazione del Capo di Stato Maggiore russo secondo cui “ la situazione si sta aggravando e qualsiasi tentativo di Kiev di risolvere la crisi del Donbass con l’uso della forza sarà stroncato”.  Il percorso per un effettivo e durevole riavvicinamento tra Washington e Mosca sul tema Ucraina e per il superamento delle attuali tensioni resta, dunque, decisamente in salita né il colloquio da remoto  tra i due Capi di Stato ( con l’indiretto riconoscimento alla Russia, ciò che Putin notoriamente auspicava, di un ruolo di potenza globale ) appare aver davvero contribuito  almeno per ora – ma i fatti diranno- a raffreddare la crisi.   Anche se da parte americana- si apprende da autorevoli fonti interne all’Amministrazione riprese oggi tra gli altri dal “Guardian” – si intende proseguire nei contatti con la controparte russa per cercare insieme una via di uscita.

Non a caso – a conferma della serietà e delicatezza della questione ( e , penso, anche per non ripetere il grave errore e danno d’immagine rappresentato dal caotico ritiro statunitense dall’Afghanistan senza alcun previo coordinamento con gli alleati europei) – Biden ha tenuto  , subito dopo la conclusione della sua videoconferenza con Putin, a intrattenersi telefonicamente con i “leader” dei principali Paesi alleati europei, tra i quali il Presidente Draghi ( nel cosiddetto “formato    Quint ”: Francia Regno Unito, Germania, Italia più Stati Uniti) e altri contatti nello stesso formato sono previsti per i prossimi giorni .  Per informarli personalmente  dell’esito della sua discussione con Putin e consultarsi su come ulteriormente procedere, a pochi giorni dal Consiglio Affari Esteri UE del 13 dicembre e dal Consiglio Europeo  di tre giorni dopo : appuntamenti nel corso dei quali il tema Ucraina e quello di  eventuali nuove sanzioni nei confronti di Mosca occuperanno  certamente spazio importante.

Su tale sfondo, di per sé quanto mai  delicato, la dura reazione di Mosca ( e Pechino) alla tenuta  del       “  vertice  delle democrazie” convocato da Biden  al momento in corso in modalità virtuale  e che si chiuderà oggi – con Russia e Cina tra i Paesi non invitati – introduce  un ulteriore fattore di tensione . Tensione anticipata e alimentata , nei giorni scorsi, anche  dall’ articolo a firma congiunta degli Ambasciatori a Washington di Russia  e Cina nel quale si accusano gli Stati Uniti di “ dividere il mondo in buoni e cattivi, sulla base di loro criteri”.

Altro appuntamento diplomatico importante , di qui alla prossima settimana, è il confronto anche sul tema Ucraina e dei rapporti con Mosca che il Segretario di Stato Biden –  affiancato dall’influente  Sottosegretario Victoria Nuland – avrà a Liverpool con i suoi omologhi del G7 da oggi  a domenica.        Sarà  a mio avviso anche un  modo per cominciare a dare attuazione da parte americana – sul piano della necessaria previa concertazione con i principali alleati e partner occidentali –   all’appello lanciato da Biden a Putin  al termine della  video-conferenza di due giorni orsono : “ torniamo alla diplomazia e facciamo lavorare i nostri consiglieri”. Appello che, a voler essere ottimisti, lascia in qualche misura la porta aperta alla speranza  di una soluzione per via negoziale pur a fronte di ostacoli  che restano, senza dubbio, assai difficili da superare….

E  proprio per questo motivo la coesione dell’Occidente – in particolare    nel quadro  atlantico ed europeo : i due pilastri della nostra politica estera –  mi sembra più che mai indispensabile, rifuggendo dalla tentazione di fughe in avanti nei rapporti con Mosca  ( magari per il perseguimento di benefici   di breve periodo ad esempio sul terreno economico o energetico )  che qualche Capitale europea  ancora forse coltiva.

Da convinto “atlantista” – consapevole però al tempo stesso del peso geo-politico e della  capacità di condizionamento della Federazione Russa, ancor oggi ineludibile potenza euro-asiatica,  sulla scena internazionale e regionale – sono però in pari tempo dell’avviso  che il convincimento dei Paesi della “vecchia Europa” ( dalla Francia, alla Germania all’Italia)  in merito alla necessità continuare ad adoperarsi per mantenere aperto un qualche  canale di interlocuzione  con Mosca resti, in via di principio, corretto. A condizione  , naturalmente, che i comportamenti russi – con riferimento, ad esempio,  alla vicenda ucraina o a interferenze nei processi elettorali e nel gioco democratico di  paesi terzi – non rendano  tale strada  impraticabile. E i segnali che giungono in queste ore da Mosca , con le pesanti minacce alla sicurezza e integrità territoriale di uno stato sovrano come l’Ucraina , non inducono  all’ottimismo.

E’ dialogo , quello che ho sopra evocato, che andrà condotto con fermezza – in stretto coordinamento con i nostri alleati d’oltre- oceano ( Canada e Stati Uniti) –  e con un chiaro disegno politico di lungo periodo: avendo a mente tra l’altro la necessità di fare il possibile per evitare che il riavvicinamento in corso tra Mosca e Pechino si trasformi in un asse durevole e strutturato – seppur dettato, almeno per la parte russa, da motivi tattici – che si risolverebbe in una perdita secca per l’Occidente nel suo complesso. E per le democrazie nostre alleate anche di area asiatica .

L’importante è in sostanza, a mio avviso, definire un obiettivo per il raggiungimento del quale può  rivelarsi necessario  proseguire un dialogo con la Federazione Russa sui vari teatri di crisi: dal Mediterraneo allargato al futuro dell’Afghanistan e dell’Asia Centrale alla crisi libica a  quella siriana.

Per tornare all’obiettivo di fondo cui ho sopra accennato penso, ad esempio,  al traguardo di rilievo mondiale del raggiungimento della “stabilità strategica”, al rinnovo in tale prospettiva del Trattato START sulla riduzione degli armamenti nucleari strategici ( venuto a scadenza lo scorso febbraio)  e, infine,  al contributo che il Cremlino potrebbe offrire alla realizzazione del condivisibile auspicio statunitense, e della NATO, che il cosiddetto “NEW START” possa coinvolgere anche la Repubblica Popolare cinese :  da tempo impegnata, come noto,  in un impressionante e inquietante  potenziamento del proprio arsenale convenzionale e nucleare .

E’  linea del resto, quella del dialogo  con Mosca in presenza delle appropriate condizioni ,  che il nostro Paese – naturalmente all’interno della  inequivoca scelta atlantica ed europea da noi effettuata da decenni e opportunamente ribadita più di recente,  e con forza, dal Presidente Draghi – da sempre caldeggia al pari di Francia e Germania. Approccio che dovremo continuare a perseguire –  sempre che , ripeto, le iniziative di Mosca sul terreno non la rendano impraticabile – attraverso  una interlocuzione costante col nostro imprescindibile alleato statunitense. Interlocuzione che dovrà  essere  in grado però , più di quanto  non sia sinora avvenuto, di far valere anche il nostro “interesse nazionale” non necessariamente convergente con quello di Parigi e Berlino: due capitali tradizionalmente assai attente a calcolare i ritorni politici ed economico/commerciali di ogni loro azione di politica estera, anche  sul terreno dei contatti col nostro principale alleato .

In sostanza, quello che auspico è un’ Italia membro convinto dell’Alleanza atlantica – e fedele agli obblighi che ne derivano –  non pregiudizialmente chiusa però all’esigenza per l’Occidente di mantenere aperto per quanto possibile il dialogo con Mosca, nel segno di interessi di portata più generale ( come quelli, per non citarne che alcuni,  del controllo e della riduzione delle armi di distruzione di massa e del contenimento delle ambizioni cinesi su scala mondiale) . La duplice via della deterrenza e del dialogo con Mosca  , ma solo in presenza delle necessarie  condizioni, è del resto quella che la stessa NATO persegue , esplicitamente ribadita, da ultimo, nelle conclusioni del vertice alleato di Bruxelles dello scorso 14 giugno . Un’ invasione russa del territorio ucraino, indipendentemente da come Mosca tentasse poi di  giustificarla, si rivelerebbe evidentemente ostacolo non superabile sulla via della prosecuzione del dialogo ;  e tale da innescare da parte americana  la presa in considerazione di altre opzioni, tra le quali quella di un accresciuto sostegno anche sul versante  delle forniture militari agli alleati più a ridosso del confine russo ( oltre che , va da sé, in termini di invio di ulteriore equipaggiamento difensivo all’Ucraina).

*Gabriele Checchia, responsabile per le Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

 

LO SCONTRO TRA CINA E STATI UNITI è GLOBALE

Finalmente l’Europa si è svegliata e si tutela dagli investimenti cinesi e persino la Germania denuncia che la via della Seta è lo strumento del dominio globale di Pechino. Quando lo denunciammo noi, nel meeting internazionale della Fondazione Farefuturo, organizzato alla Camera proprio il giorno dell’arrivo trionfale a Roma del Presidente cinese, gli altri plaudivano agli accordi Italia-Cina sottoscritti dal governo Conte Lega-Cinque Stelle. Ecco il testo dell’intervento che in quella occasione fu svolto da Andrea Margelletti

Nelle ultime settimane si è parlato molto di Belt and Road Initiative (BRI) e della presenza della Cina non tanto in Italia, ma in tutta Europa. Se ne è parlato come se la BRI o gli investimenti cinesi fossero iniziati l’altro ieri o fossero una novità da gestire. In realtà, è da circa sei anni che il governo di Pechino, spinto da una chiara visione strategica di ripensamento dei propri modelli di crescita interna e internazionale, ha iniziato la manovra di avvicinamento al Vecchio Continente.

Oggi tutto ciò anima il dibattito pubblico perché si inserisce in una partita di ben più ampio respiro, che si gioca tra Cina e Stati Uniti per la ridefinizione dei tradizionali equilibri internazionali. Da una parte, c’è una leadership cinese che sta provando a costruire un ordine mondiale alternativo a quello fuoriuscito dalla Seconda Guerra Mondiale, in cui il peso del gigante asiatico possa fare la differenza e riequilibrare il sistema di governance globale rispetto a quelli che sono i nuovi rapporti tra gli Stati. Dall’altra parte, o sull’altra sponda del Pacifico, gli Stati Uniti si trovano ad affrontare una sfida al proprio ruolo di superpotenza, che si gioca su diversi piani e in diversi ambiti: economico, tecnologico e politico.

Quello tra Cina e Stati Uniti, dunque, è un rapporto strategico, in cui la componente militare continua ad essere una componente fondamentale. Sfido chiunque a dire che l’11 settembre, il terrorismo, la guerra in Iraq, non abbiano avuto una diretta conseguenza sulla propria vita, se non altro come tasse che abbiamo dovuto pagare per la partecipazione a missioni di stabilizzazione e di supporto alla pace. Quindi la componente strategicomilitare conta e conta molto. Se il XX secolo è stato, e lo è stato, il secolo degli Stati Uniti, il XXI secolo i cinesi ritengono debba essere il loro, perché desiderano, per l’appunto, ridisegnare un sistema che abbia la Cina come modello di riferimento.

Per capire la portata di questo disegno si pensi, per esempio, al GPS. Il GPS sui cellulari, strumento che consideriamo parte della nostra quotidianità, è uno degli strumenti più importanti di pressione politica che esiste. Il GPS, infatti, è un sistema eminentemente militare. Già i russi in passato hanno provato ad avere un proprio sistema, il Glonas, che però guarda ad alcune zone e non garantisce nemmeno lontanamente la copertura totale. Ora i cinesi hanno sviluppato il sistema di navigazione satellitare BeiDou, BDS, che vuole essere un’alternativa al GPS e fa immaginare l’interesse di Pechino ad unirsi a Stati Uniti e Russia come attore preponderante nel dominio dello spazio. Parallelamente, la competizione strategica tra Stati Uniti e Cina si gioca anche a livello di capacità di proiezione di potenza, ambito nel quale gli americani possono ancora godere di un netto vantaggio, tecnico e dottrinale. Ciò che accade nel Mar Cinese Meridionale risponde proprio a questa dinamica.

L’installazione da parte delle autorità cinesi di infrastrutture portuali e aeroportuali sugli isolotti artificiali all’interno di queste acque contese, infatti, è funzionale alla Cina per creare degli avamposti da cui ampliare il proprio raggio di azione al di là dello Stretto di Malacca. Oltre al valore economico e di sicurezza alimentare legato al controllo delle risorse presenti in questi tratti di mare, per Pechino le dispute marittime rappresentano un tassello importante anche sul piano di crescita strategica. Quando si parla di potenzialità della Cina bisogna sempre tenere in considerazione che, a differenza di quanto accade in alcuni Stati europei e negli Stati Uniti, le autorità di Pechino godono, per la struttura del sistema istituzionale, di una stabilità che permette loro una pianificazione di lungo, lunghissimo periodo. Il monopolio decisionale di fatto esercitato dalla leadership del partito permette al governo di poter allocare le risorse come meglio ritiene, in una pianificazione a lungo termine, a dispetto di quanto accade, invece, in Europa. Ed è per questo che la Cina, in prospettiva, ha la possibilità di essere più forte: non solo una massiccia disponibilità economica, ma anche la possibilità di decidere come investire e con chi.

L’avvio di un programma di portaerei, per esempio, ha una ragione fondamentale: i cinesi si stanno trasformando da una forza eminentemente continentale terrestre a quella che nel gergo strategico si chiama Blue-Water Navy, cioè Marina oceanica. Chi pensa che possa essere una cosa che non ci riguarda da vicino trascura il fatto che la scorsa estate una squadra navale cinese sia venuta nel Mediterraneo per studiare e conoscere questo mare e che, casualmente, abbia superato Suez. Perché costruire portaerei? Perché costruire importanti flotte di altura? Perché sia Cinesi sia gli Stati Uniti (non è un caso che gli americani abbiano spostato quasi il 70% delle risorse strategico-militari nell’ambito del Pacifico) sanno che non c’è abbastanza spazio nell’area dell’Oceano Indiano nè del Pacifico per l’ego di due Nazioni così. Ciò significa che è molto probabile che si arriverà, prima o poi, ad uno scontro. Non sarà adesso, domani o dopodomani, ma certamente si attrezzano per farlo. La ricerca di una classe di portaerei, e quindi più squadre navali strutturate in una certa maniera, è per affrontare gli americani lontano dalle coste. Perché se il conflitto rimane legato a un rapporto tra Stati Uniti e Cina, senza coinvolgere nè il Giappone né la Corea del Sud nemmeno in termini di supporto logistico, diventa una partita esclusivamente tra Washington e Pechino. Ma le distanze geografiche, in questo caso, ancora contano. Gli Stati Uniti cercano di esercitare pressione con incursioni a lungo raggio con il supporto degli aerei rifornitori (i Tanker) e naturalmente con le portaerei.

Questo perché gli americani sanno che la Cina ha l’esigenza di spostare le tensioni lontano dalle proprie coste, per due ordini di motivi: in primis perchè, nonostante le politiche di sviluppo interno, le fasce costiere continuano ad essere uno dei traini principali dell’economia cinese; in secondo luogo, perché un conflitto a ridosso della costa ridurrebbe la Cina a potenza eminentemente terrestre. Il pensiero strategico della leadership si trasforma in supporto all’industria e diventa linea guida per lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma che meglio rispondano alle priorità di lungo periodo dello Stato. Si prenda il caso del nuovo caccia cinese J20, che è stato studiato per neutralizzare la capacità di rifornimento aereo statunitense, fondamentale per garantire all’aeronautica degli Stati Uniti di penetrare in territorio cinese. Ed è la stessa operazione che ha portato i cinesi a costruire dei missili balistici per colpire le portaerei in movimento. In questa partita a due, inevitabilmente entrambi i contendenti cercano di capire come modificare o mettere in sicurezza le architetture di alleanze.

Tuttavia, come al solito, la realtà non è fatta di bianchi o grigi e spesso sono le sfumature quelle che contano. Ciò significa che, in un mondo multipolare e globalizzato, la gestione delle relazioni con gli altri Stati difficilmente può essere dicotomica, basata ancora sulla mentalità del “noi e loro”. La famosa arte della diplomazia è la capacità di mediare tra le diversi parti per poter perseguire quelli che sono gli interessi nazionali dello Stato. Il problema talvolta è che per difendere in maniera adeguata l’interesse nazionale occorre averlo, addirittura individuarlo ancor prima di pensare a come proteggerlo, e non lasciarlo in balia delle crisi di Governo. La complessità del mondo attuale non fa sconti a chi non riesce a disegnare una chiara mappa dei punti da raggiungere. In un mondo in cui esistono Nazioni come la Cina, la Francia, la Gran Bretagna, la Turchia (per citarne solo alcune), che si muovono come imperi, perché ciascuna Nazione è quello che è sempre stato al di là della temporanea forma di governo, chi rimane in balia dell’assenza di una strategia per le relazioni internazionali rischia di far la fine del manzoniano vaso di coccio. La tutela dell’interesse nazionale, dunque, deve passare attraverso un’attenta valutazione di quelli che sono i pro e i contro di alcune scelte e, fatta la valutazione, scegliere la strada migliore da percorrere per raggiungere i propri obiettivi. Altrimenti ci si potrebbe ritrovare ad essere dei piccoli alfieri, delle piccole torri o dei piccoli cavalli, all’interno di una partita a scacchi giocata da chi è molto più grande di noi.

*Andrea Margelletti, presidente Centro Studi Internazionali, Ce.S.I. al meeting Il dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” Roma, 20 marzo 2019

Identità e made in Italy. Un Paese come un brand

Nell’epoca della globalizzazione si parla sempre più di made in Italy. Tutto quello che viene prodotto in Italia rappresenta un brand riconosciuto a livello mondiale. Un marchio, quello del made in Italy, sinonimo di alta qualità, tradizione di famiglia, artigianalità, ma anche lusso ed esclusività. Parliamo di abbigliamento, scarpe, e più semplicemente di cibo e vino delle nostre bellissime regioni. Ma non solo. Il prodotto italiano fa riferimento anche ai servizi e riguarda l’industria turistica e il marketing territoriale. I nostri tour eno-gastronomici, il nostro patrimonio artistico-culturale e le tradizioni locali si vendono in tutto il mondo.

Un brand che rappresenta il suo modo di vivere, la sua storia, le sue radici culturali. La vocazione manifatturiera italiana è talmente apprezzata al mondo, da far considerare il Made in Italy uno dei brand più importanti a livello globale.

Ma c’è un modo per misurare la percezione del Made in Italy nel mondo?

Il Best Countries Report, redatto dallo US News & World Report, il BAV Group e la Wharton School of the University of Pennsylvania attraverso dei parametri quali quantitativi cerca di dare un valore a questo intangible asset.

Tale report misura il Made in Italy calcolando il valore di mercato dei 30 brand italiani più importanti, cercando di estrapolarne i punti di forza.

Nel Best Countries Report 2020, relativo all’anno 2019, l’Italia è considerata al 17° posto su una classifica di 80 Paesi. Rispetto al 2017, quando ricopriva il 15° posto, è stata superata da Singapore e Cina. Ciò che non avrebbe aiutato la posizione internazionale dell’Italia sarebbe stato, in primis, la forte instabilità politica. Quest’ultima caratteristica, strutturale nella nostra Repubblica, negli ultimi anni avrebbe determinato una crescita economica più lenta rispetto ad altri Paesi sviluppati. Tale fattore, insieme alla disoccupazione e al calo demografico, costituiscono gravi fonti di preoccupazione da un’ottica internazionale. A livello globale, i principali brand italiani vengono percepiti come garanzia di qualità, autenticità e stile. Questi brand fanno però riferimento ad un gruppo ristretto di imprese grandi, agili e interconnesse con una fitta rete di altre imprese di piccole/medie dimensioni. In particolare, si fa riferimento ad imprese guidate da un forte spirito imprenditoriale e caratterizzate da innovazione, internazionalizzazione e focus sulla costumer experience.

Nel 2020 il valore del brand Italia è stimato circa di 1.776 miliardi di dollari (-15,8% rispetto al 2019). Le prime 100 nazioni avrebbero perso 13.100 miliardi dollari di valore per via della pandemia.
Dall’analisi di Brand Finance traspare che vi sono alcune imprese italiane molto abili nello sfruttare la propria immagine. Ad eccezione di settori specifici come lusso, moda, design e food, il Made in Italy sembra avere un’immagine meno forte del Made in Germany, in Usa e in France.

La debolezza del brand Italia dipenderebbe per Brand Finance principalmente dalla difficoltà di fare business, dalla gestione della cosa pubblica e dalla qualità della comunicazione di privati e imprese.
A livello globale, USA, Cina, Giappone, Germania e Regno Unito risultano i brand nazionali a più alto valore aggiunto. La Cina continua a colmare il divario con gli USA; il marchio Cinese varrebbe 18.800 miliardi di dollari contro 23.700 miliardi di quello statunitense.

Ma nonostante ciò e le acquisizioni che hanno interessato il brand, il proliferare di nomi italiani nel mondo, il vero made in Italy resta ancora molto forte e riconosciuto a livello globale. La ragione è legata al concetto di rarità del brand. Le nostre materie prime sono spesso di rara qualità e si trovano solo in determinate aree geografiche (pensiamo ai nostri vini o al nostro olio). Lo stesso concetto di rarità lo ritroviamo nelle skills delle risorse umane: i lavoratori delle nostre aziende sono tecnicamente preparati, con competenze uniche e difficilmente imitabili. Sarà anche per questo che molti marchi di moda italiana hanno la loro scuola dove formano sarti e modellisti.

La strategia per mantenere positiva la percezione del Paese diventa ancora più cruciale durante la pandemia da Covid-19. Alcuni esperti suggeriscono l’istituzione di un team specifico che dovrà gestire l’immagine dell’Italia nel periodo post-crisi. Quest’ultimo non dovrà limitarsi ad un’ottima comunicazione, ma dovrebbe condurre analisi di marketing e finanziarie per stabilire lo stato attuale del marchio Italia. Attraverso tali dati, occorrerà difatti identificare i fattori su cui focalizzare la strategia con relativo impatto economico, tenendo conto dei costi e dei ritorni sugli investimenti.

Noi abbiamo tradizionalmente avuto difficoltà a fare sistema, cioè mettere a disposizione delle imprese strumenti di formazione per stare sul mercato; sistema significa mettere a disposizione delle imprese risorse e strumenti per l’innovazione e la ricerca, perché nella competizione globale un paese a costo del lavoro mediamente alto come l’Italia vince soltanto se punta sulla qualità dei prodotti e sull’innovazione.

Il “Made in Italy” è un elemento centrale dell’identità culturale di questo paese.  C’è uno spessore di professionalità, di know-how, di sapere, di lavoro, di innovazione, di ricerca, di qualità, di straordinario valore. L’Italia deve essere molto più consapevole della forza economica, sociale e culturale che esprime come paese dell’estetica, del gusto, del design, dell’immagine, della identità e della storia che l’hanno da sempre accompagnata.

*Giuseppe Della Gatta, analista finanziario

Il Politico e la destra. Risposta a Galli della Loggia

I– L’errore più consueto tra gli intellettuali di ogni tempo e schieramento è quello di voler insegnare ai politici ciò che dovrebbero fare, come agire, quali fini perseguire e semmai anche il nome da scegliere per il proprio partito. Sul Corriere della Sera del 29 marzo 2021 si può leggere un editoriale a firma di Ernesto Galli della Loggia (La destra moderna che serve) che sembra ripetere l’errore, anche se in questo caso l’errore è voluto, trattandosi, in fondo, più di una garbata provocazione nascosta dietro un auspicio, etichettato addirittura come utopico, che del solito forbito ma incomprensibile pastone di ricette (“bisogna che”, “si deve”) del professore ‘onnisciente’ che vorrebbe ergersi a consigliere del principe. In un passato nemmeno tanto lontano ricordo almeno uno di questi intellettuali esperti di pratiche politiche altrui, subito rientrato all’ovile (leggi: università) senza essere stato minimamente toccato dalla gloria del campo di battaglia.

Nel caso in questione non si tratta di un ‘consigliere del principe’, ma appunto di un intellettuale che ritiene doveroso, e non solo per riempire qualche colonna di piombo di quotidiano, dire la sua su ciò che potrebbe e dovrebbe essere la destra ai giorni d’oggi, la “destra che serve”, per l’appunto, come la definisce Galli, una destra “moderna”, della quale sembra suggerire anche il nome: PCI, Partito conservatore italiano. Per la verità di partiti che hanno l’aggettivo ‘conservatore’ addirittura nel nome non ce ne sono molti in giro per il mondo ‘moderno’, eccezion fatta per lo storico Conservative ­– and Unionist – Party britannico e un poco noto partito americano che in realtà è solo un ‘pensatoio’ dentro il Partito Repubblicano. Va anche detto che i conservatori britannici sono più conosciuti come ‘Tories’ e quelli americani senz’altro come repubblicani. Il termine conservatore è riservato alle posizioni ideali, alla filosofia politica che si professa e diciamo pure alla ideologia che si difende, un’ideologia che oramai assai più negli Usa che nel Regno Unito resta formalmente legata alle sue premesse d’origine, ovvero “il trono e l’altare”, non necessariamente un trono assolutistico o un altare fondamentalistico (in Gran Bretagna il laicismo ha preso buona parte dei conservatori britannici nonostante il fatto che la religione del paese è molto legata alle istituzioni politiche, essendo Sua Maestà il capo della Chiesa anglicana).

E qui mi piace ricordare che proprio un filosofo inglese tra i massimi del Novecento, considerato di regola un conservatore (ma su ciò altrove ho espresso i miei dubbi[1]), scrisse a metà degli anni Cinquanta un saggio (ora pubblicato anche in italiano[2]) intitolato On being conservative (Sull’essere conservatori). Quando Michael Oakeshott, questo il nome del filosofo inglese (1901-1990), inviò per la pubblicazione il manoscritto a Irving Kristol, direttore di Encounter, una delle più note riviste conservatrici americane del tempo, questi lo respinse con una semplice argomentazione: nell’articolo mancava ogni riferimento alla religione, che per un “vero conservatore” americano costituiva il fondamento naturale e obbligato del conservatorismo. In effetti, era proprio così e ciò non a caso, perché il (presunto) conservatorismo di Oakeshott (idolo della destra inglese prima di Roger Scruton) non conosceva la religione e i suoi dogmi come presupposto necessario dell’essere conservatori, cui attribuiva piuttosto l’opportunità di un sano scetticismo filosofico.

Il saggio di Oakeshott delineava in effetti non il conservatorismo, ma i tratti dell’essere conservatori, lo stile, la propensione ad agire ‘en conservateur’ più che il propugnare gli stilemi di un pensiero che dal suo punto di vista faceva parte, in ultima istanza, di un tipo di politica che in sé non si distingueva da quella apparentemente opposta: l’essere entrambi, il ‘conservatorismo’ e il ‘progressismo’, politiche della fede, cioè fondate su quella che Max Weber chiamerebbe etica della convinzione. Alla politica della fede egli contrapponeva la politica dello scetticismo, in realtà entrambi tipi ideali di azione, che nella concreta realtà storica dovevano affrontare inevitabilmente le rispettive nemesi, essendo di tanto in tanto necessari anche per lo scettico un po’ di fede e per il credente un po’ di scetticismo[3].

Il discrimine stava nella opposizione tra ‘stile conservatore’, modo d’essere conservatore, e ideologismo, dove ideologico è necessariamente anche il conservatorismo, nella misura in cui, appunto, non è solo uno stile di vita, una condotta quotidiana e un modo di pensare e di agire, ma un insieme di dogmi, compresi quelli religiosi, ai quali assimilava i dogmi del progressismo, che guarda solo ad un ‘futuro migliore’ più che al duro ma spesso anche gratificante presente, un presente che non a caso impone obblighi e non cert utopie. In altri termini, se Oakeshott a Londra votava ‘conservative’ questo non significava che non avrebbe preferito un partito con un nome diverso, più pragmaticamente orientato verso le scelte ragionevoli e rispettose dell’ordinato andamento della vita politica secondo le regole del diritto; essendo però il suo stile di vita quello sì scetticamente conservatore (tra corse dei cavalli, libri e belle donne), non avrebbe mai proposto ai Tories che ogni tanto era costretto a frequentare (la Thatcher voleva farlo baronetto, ma garbatamente Oakeshott rifiutò l’onore di essere associato ai Beatles) cambiare il nome al Partito conservatore sarebbe stato un inutile e superfluo cambiamento.

 

II– Questa premessa per dire che suggerire al partito “Fratelli d’Italia” di diventare un “moderno partito conservatore” è un suggerimento discutibile per molte ragioni, alcune delle quali cercherò di argomentare in questa sede, indipendentemente dal fatto che poi ‘consigliare’ il principe qualcosa è sempre la volta buona che il consigliere perda la testa, cosa che nel caso di Galli della Loggia non vale non essendo, né volendo egli essere, il consigliere di Giorgia Meloni. Ma un suggeritore questo sì e i suoi suggerimenti – distinti quindi dai ‘consigli’ – vanno presi sul serio perché tutt’altro d’occasione e forse potrebbero rappresentare l’opportunità per una riflessione ad ampio spettro sulla destra oggi, o, se si vuole, sulle destre oggi.

Galli, infatti, di destre italiane ne individua almeno tre: liberali, populisti e questa cosa in divenire che sarebbe a suo avviso “Fratelli d’Italia”, la cui politica dovrebbe far perno sullo Stato nell’età della globalizzazione al fine di rafforzare coesione sociale e solidarietà. Fin qui la cosa ha senso e giustamente la Meloni ha fatto subito presente (cfr. il Corriere della Sera del 30 marzo 2021: La destra moderna che già c’è) che è proprio ciò che lei fa in Europa e in Italia: difendere l’interesse nazionale italiano contro la finanza globalista e quindi lavorare per la coesione e la solidarietà entro i confini nazionali, da buona patriota. Persino diventare conservatore non avrebbe senso, in quanto è già persino Presidente del raggruppamento dei “conservatori e riformisti europei”, anche se l’unico partito che si dichiara conservatore, dopo l’abbandono dei britannici, è un piccolo partito croato.

Ora l’interrogativo fondamentale che va posto dopo l’intervento di Galli della Loggia è questo: ha senso essere ‘conservatori’ per differenziarsi dai populisti e dai liberali? Come ho già accennato, il conservatorismo è un’ideologia, che può avere molte facce, ma resta un’ideologia ed è certamente a quella cui si pensa di regola quando se ne parla, un’ideologia che in quanto tale non è a mio avviso compatibile con la natura della politica della destra di cui oggi si ha veramente bisogno: una destra che difenda l’interesse nazionale e prenda le mosse da questo come bussola del proprio agire[4] va considerata non come una opzione ideologica, bensì come l’essenza, il nòcciolo, la dimensione propria e autentica del Politico, specificamente di un Politico di destra (nel senso che sta dall’altra parte rispetto alla ‘sinistra’ europeista, mondialista, giusmoralista, buonista). Se il Politico ha una natura polemica, nel senso del conflitto e del rapporto amico/nemico, l’interesse nazionale non è una possibilità tra altre del fare politica secondo i criteri del Politico, ma la forma naturale, spontanea e direi dovuta del Politico in quanto tale. In altri termini, essere conservatori nel senso di un ‘pensiero’ conservatore, non solo non sarebbe consono con uno stile conservatore, ma contravverrebbe ai canoni propri del Politico, che si fonda sul principio della autonomia del Politico in quanto tale, che non è riducibile né all’economico né alla morale né al giuridico. Essere conservatori dal punto di vista ideologico non si addice ad un partito di destra che accetti di essere un movimento squisitamente politico, che all’ideologia e ai suoi ineludibili pregiudizi preferisce l’opportunismo necessario dettato dalla obbedienza ai criteri della autonomia del Politico, una dimensione dell’esistenza che ha i suoi propri diritti e privilegi e naturalmente i suoi obblighi.

Diventare un ‘moderno partito conservatore’, nel momento in cui il conservatorismo è oggettivamente in crisi (giudizio che nulla ha a che fare con i pregi assolutamente possibili degli ideali del ‘conservatorismo’) e soprattutto nel momento in cui le sue premesse classiche, ovvero il nesso con certi dogmi religiosi, non trovano rispondenza nel sentimento popolare, sarebbe a mio avviso un errore politico, così come errore politico sarebbe quello di separarsi in quanto presuntamente ‘conservatori’ sia da ogni forma di liberalismo sia dal cosiddetto ‘populismo’. Per tacere del fatto che modernità e conservatorismo non è che si associno tra loro molto felicemente, se si ricorda che una certa ideologia conservatrice si è individuata come tale proprio contro il Moderno e le sue categorie, a partire dall’ideologia dei diritti e della sovranità dell’individuo.

 

III. – Una destra ‘moderna’ che lotti per la coesione sociale e la solidarietà e rimetta al centro lo Stato può oggi essere considerata come ipso facto il contrario del liberalismo e del populismo? Occorre naturalmente accordarsi sul senso delle parole (la grande rivoluzione propugnata da Confucio era non a caso la “rettificazione dei termini”). Personalmente reputo che il liberalismo di un Marco Minghetti dopo l’unità d’Italia fosse un tipo di liberalismo (certo di tipo conservatore, lo definiremmo oggi), centrato sul senso dello Stato e contro le derive di parte, ovvero dei partiti, nell’amministrazione del potere, di cui oggi avremmo assoluto bisogno. Essendo forse tra i pochi giuristi che da sempre sostengono la non perenzione del concetto di Stato, insieme a quelli classici della filosofia politica, in primis quello di sovranità[5] (comunque ben distinto dal termine, a mio avviso ambiguo, di ‘sovranismo’), dovrei rallegrarmi del fatto che Galli della Loggia metta al centro delle sue proposte proprio lo Stato, anche se andrebbe ricordato il fatto che il liberalismo italiano, almeno quello classico di Minghetti, proprio nello Stato aveva visto una via di tutela delle libertà private e dell’interesse nazionale contro le derive partitocratiche, sicché rinunciare a priori all’idea di un collegamento almeno tra la tradizione di un certo liberalismo italiano, di impronta nazionale (omologo, direi, al liberalismo nazionale di un Max Weber in Germania), e la rivendicazione dell’interesse nazionale e della centralità dello Stato in nome della sovranità politica, costituirebbe a mio avviso esattamente una deminutio per il tipo di destra di cui oggi l’Italia ha bisogno.

Il liberalismo non è solo l’ideologia liberale che dubita dello Stato e della politica in nome del mercato autoregolato (non solo un’utopia, ma storicamente una catastrofe), ma anche una certa prassi politica fondata sull’idea di rule of law che si colloca ancora oggi a destra e che merita di essere valorizzata in quanto tale. Il liberalismo di “Forza Italia” dal quale la destra della Meloni dovrebbe distinguersi è un liberalismo molto sui generis (del resto quando tutti sono liberali nessuno lo è più), uno tra i tanti, che spesso di liberale sembra avere poco, se non per quel sospetto dello Stato e per lo Stato (si ricordi il famoso “teatrino della politica” di Berlusconi, in fondo esso stesso una premessa della successiva, finta antipolitica di Grillo) che è proprio della cattiva ideologia liberale, dalla quale una destra politica nazionale deve saper distinguersi, così come dal conservatorismo.

Se, dunque, la destra politica dovrebbe non essere conservatrice se non nello stile dei suoi esponenti, essere sia pure in parte liberale riallacciandosi alla tradizione del miglior liberalismo italiano, dovrà almeno distinguersi dal populismo della Lega o di chiunque altro faccia pratica di ‘populismo’? Anche qui non credo che i suggerimenti di Galli della Loggia vadano nel senso giusto (ma la discussione è aperta). Se indubbiamente destra significa ritorno dello Stato, che cosa si deve intendere oggi per ‘Stato’? Discorso troppo complesso e scientificamente condizionato per essere affrontato qui; mi limito però a sottolineare il fatto che lo Stato, anche lo Stato che conosciamo in quanto apparato-macchina proprio della modernità, espressione massima dello jus publicum europaeum, ha senso sempre e solo in quanto istituto fornito sia di legalità (rule of law) sia di legittimità; ora questa legittimità è data non dai salotti di una certa ‘intellighentzia’ – che possono ‘legittimare’ solo nuovi e astratti diritti dell’uomo –, ma proprio e solo dal ‘popolo’. Contrapporre la destra che dovrebbe essere ‘moderna’ e ‘conservatrice’ al populismo significa dimenticare che la tradizione tipicamente italiana del Politico guarda al senso romano dell’autorità che qualifica legittimo lo Stato, tradizione che altro non era che il Senato e il Popolo di Roma. Una destra all’altezza del tempo storico presente ha l’obbligo di riprendere esattamente quel simbolo, che tiene insieme popolo ed autorità. Una destra ‘moderna’ (dove poi ci si dovrebbe domandare: perché moderna? di quale ‘modernità’?), o, meglio, politicamente attrezzata deve essere per il popolo e per l’autorità che lo difende e ne garantisce l’interesse. Se questo è populismo, la destra non può non essere – anche – populista. Tanto più, va detto, che il populismo è un generico atteggiamento, più che una ideologia, e certamente ha in sé la premessa e il fondamento legittimante di ogni azione politica, a patto, ovviamente, che non venga ridotto a, o confuso con, la demagogia (il M5s non è populista, per esempio, ma puramente demagogico).

 

IV– Del resto ‘Stato’ richiama necessariamente il popolo, altrimenti il concetto di Stato rischia di restare impigliato in quello di nazione, che è una categoria importante, ma storicamente determinata. Se si vuole mettere l’accento sulla Patria e sul patriottismo sarebbe anche importante sottolineare il fatto che ‘Patria’ è un concetto più concreto di ‘nazione’. Sarebbe del resto importante per una destra del XXI secolo riflettere sulle origini del concetto di nazione, che sono a ‘sinistra’, non a ‘destra’: la nazione è il fulcro dell’ideologia robespierrista: la nazione, la virtù, il terrore, in altri termini espressione – almeno inizialmente – di quell’astratto che caratterizza il Moderno e contro il quale il Politico dovrebbe agire in nome dei privilegi del concreto, sia questo l’individuo o la comunità.

Non è un caso che la sinistra, la sinistra dei diritti, dell’umanità, dello ‘Stato di diritto’ dei Trattati europei, della ‘democrazia’ al servizio della finanza, abbia dimenticato completamente il popolo (lo ricordate il ‘popolo lavoratore’ dei comizi comunisti?) a favore dei diritti degli immigrati, degli omosessuali e della competizione economica funzionale al mercato mondiale. Certo, come ‘nazione’ anche ‘popolo’ può essere un concetto astratto, ma se dico popolo italiano o spagnolo mi avvicino a qualcosa di più storicamente determinato, che non a caso suscita immagini rappresentative a volte di stereotipi, spesso di realtà esistenti. La destra deve essere dunque per lo Stato, per uno Stato politico che sia espressione del popolo e miri a tutelarne l’interesse. Bene, ma proprio qui si pone subito un altro problema: la forma di Stato di cui questa nuova destra dovrebbe farsi carico. ‘Stato’ è diventato infatti in sé un termine troppo generico e ambiguo nell’epoca globalista della presunta e decantata “morte dello Stato”, che in realtà è il trionfo delle astrazioni: il denaro, i diritti, il mercato.

L’attenzione al concreto implica necessariamente non solo lo sguardo critico ma attento verso l’alto, verso l’Europa, ma anche un’attenzione nuova alle autonomie territoriali, nella misura in cui siano premesse di una vera e funzionale responsabilizzazione delle periferie. Una destra politica è una destra federalista. Guai a immaginare lo Stato forte e autorevole come uno Stato centralizzato o centralista. Molti difetti dell’ordinamento italiano a partire dall’unità stanno tutti proprio nell’aver rifiutato il modello federale ed essersi appiattiti su un ‘piemontesismo’ burocratico, alle origini di tutti i mali italici. Federalismo non significa quello che è stato spacciato per tale dalla Lega di Bossi, rispetto alla quale andrebbe appunto rialzata, troppo rapidamente e malamente abbandonata dai suoi eredi, la bandiera del federalismo, che al contrario è unità (foedus, appunto) e non divisione, messa in comune delle energie diverse che tali devono essere considerate e conservate, come patrimonio tipico delle ‘nazioni’ stesse, da questo punto di vista intese come contenitori di differenze (chi sa la storia – che la destra deve difendere oggi più che ieri – non conosce solo i ‘tedeschi’, ma anche il prussiano e il bavarese, l’hannoveriano – dove si parla il tedesco più ‘puro’ – e il francone, non solo i francesi ma il normanno e il provenzale, non solo gli italiani ma il pugliese e il lombardo, il veneto e il siciliano). Nella sua replica Giorgia Meloni ha citato Roger Scruton a proposito del patriottismo, ma la Heimat, per usare il termine tedesco, che non è immediatamente il Vaterland, è sempre maledettamente concreta, si riferisce alla comunità direttamente e immediatamente conosciuta, vissuta e vivibile: si parte sempre dal piccolo, come insegna l’idea di sussidiarietà della dottrina sociale cattolica. Solo una forma federale dello Stato (una volta stabilito bene cosa deve intendersi per ‘federalismo’) può essere la base di una forte autorità centrale, rispettosa delle autonomie ma anche delle isonomie necessarie (ben al di là dei formalistici “livelli essenziali di prestazione” del Titolo V della nostra costituzione). Può trattarsi di presidenzialismo, di cancellierato, di premierato, ma ciò che deve caratterizzare la destra è sempre il concreto, il determinato, il ‘confinabile’ entro uno sguardo in grado di dominare l’orizzonte, non di perdersi romanticamente al di là della linea.

 

V– La grande contrapposizione polemica del Politico nel XXI secolo resta quella classica della modernità: la contrapposizione tra chi è per l’essere e chi è per il dover (essere), chi è per il governo politico del presente e chi è per l’organizzazione utopica del futuro. Questa contrapposizione è secondo me assai più essenziale di ogni altra: chi (anche quando pensa di essere di sinistra) guarda umilmente e rispettosamente alla cose che sono e che sono state è di destra, o come altrimenti si voglia chiamare questo ‘luogo’, e il suo atteggiamento è effettivamente ‘conservatore’ perché non vuole buttar giù le statue di Colombo, di Robert E. Lee e di Churchill o finanche di Dante, ma vuole conoscere e capire la storia e il proprio passato.

Tanto più questo è vero oggi, in un’epoca di capitalismo finanziario assoluto. Quando si parla di ‘globalizzazione’ è un errore pensare solo alla Cina e ai fenomeni di immigrazione selvaggia, perché questi sono un epifenomeno rispetto al dato fondamentale rappresentato dalla totale ‘virtualizzazione’ del mondo e dei rapporti umani, che sarà accentuato nei prossimi anni a causa della pandemia (lasciate stare i discorsi lacrimosi che prevedono per tutti noi una universale e reciproca bontà, il punto è la marcata e disperante separatezza sociale e la crescente pauperizzazione generalizzata). L’Ottocento fu l’epoca dell’utopia malsana del mercato autoregolato, che subito dopo la grande guerra produsse le necessarie reazioni ‘sostanzialistiche’ all’idea di un mondo puramente ‘funzionalistico’: il comunismo sovietico, il fascismo italiano, il nazismo tedesco, ma anche – cosa che molti dimenticano – il New Deal americano di Roosevelt. La seconda metà del Novecento ha gradualmente prodotto, anche in virtù della rivoluzione informatica, una ulteriore ‘virtualizzazione’ del modo di produzione e una liquefazione dei rapporti sociali, che sta lasciando fuori dal mercato del lavoro nuove fasce della popolazione. Il rischio è che la fase puramente finanziaria del modo di produzione capitalistico produca alla fine una nuova forma di reazione, di cui oggi è difficile cogliere i confini e la natura, ma che potrebbe essere violenta e tirannica.

Nell’epoca del capitalismo finanziario (in verità ne aveva parlato già Hilferding a inizio Novecento), o forse della finanza capitalistica globalizzata, lontana mille miglia dalla base aurea che ancora nell’Ottocento mitigava le pretese del monetarismo, si tratta preliminarmente di capire dove materialmente si sono collocate e perché le forze politiche o presunte tali. Un indizio significativo è il rapporto con l’Unione europea. Perché la ‘sinistra’ è così cocciutamente europeista? In altri termini, più concreti: chi sono i padroni del mondo e chi sono i loro servitori? Quali sono le politiche funzionali agli interessi dei padroni del mondo, almeno del mondo occidentale? Non vi è dubbio che il liberalismo del laissez-faire, o meglio il liberalismo del “mercato libero e non falsato” (citazione dal fallito Trattato per una costituzione europea) è l’ideologia funzionale ai padroni attuali. Ma questa politica non è solo né tanto il liberalismo di destra cui accenna Galli della Loggia, quanto il liberalismo della sinistra, che è diventata il luogo eletto degli interessi padronali, come si sarebbe detto un tempo, ovvero della finanza globale. Non è certo un caso che molti capitalisti prosperino nel cosiddetto Partito democratico o che certi ex-comunisti pratichino il profitto sulla via della seta divertendosi a fare gli ‘industriali’.

La verità è che le vecchie opposizioni non reggono più: la difesa del libero mercato era una volta di destra, oggi è appannaggio della sinistra in nome dell’umanitarismo mondialista. Certo, il libero mercato, se regolato, resta una pratica della “destra”, ma anche di una certa sinistra che oggi appare utopista, sicché non è facile, partendo dalla ‘struttura’, avere una ‘sovrastruttura’ omogenea ai fondamenti materiali. Il mondo si è girato e occorre prenderne atto, pur considerando prioritariamente che restano comunque in piedi alcune dimensioni ontiche dell’esistere, a partire dalla dimensione conflittuale del criterio del Politico.

La mia difesa dello Stato si è sempre accompagnata con la consapevolezza che se la morte dello Stato era una ipocrita scusa per fare gli interessi della finanza mondiale, al tempo stesso va detto che lo Stato-nazione dell’Ottocento e della prima metà del Novecento è oggettivamente in crisi, da intendere però più nel senso di una trasformazione che di una dissoluzione. Da questo punto di vista non ho mai accolto la previsione di Carl Schmitt sulla fine dello Stato quale espressione storicamente determinata del Politico. Sarebbe tuttavia dimostrazione di miopia non cogliere il dato oggettivo della crescente dipendenza degli Stati da una contingenza mondiale che determina una riduzione degli spazi di autonomia dei singoli Stati-nazione. È un errore assolutizzare una fase storica determinata e non cogliere l’elemento ultra-nazionale che ha caratterizzato gli Stati in passato e caratterizza oggi gli Stati più rilevanti dal punto di vista geopolitico: non è un semplice Stato-nazione la Russia, né lo sono gli Stati Uniti d’America o la Cina. La stessa Turchia, con la quale fino a non molto tempo fa noi europei avevamo rapporti oscillanti tra guerra e pace, in fondo è una potenza del genere. Voglio dire che un partito di destra che pratichi l’interesse nazionale come sostanza del Politico deve guardare sì allo Stato, ma al tempo stesso al grande spazio (Großraum) che consente una effettiva vitalità sovrana o sovranità vitale a livello mondiale, sia economico sia politico. Un certo scetticismo e relativismo è a mio avviso un modo intelligente di fare politica in questi tempi schiodati, come direbbe Shakespeare, oggi che lo stesso clivage destra/sinistra si è per l’appunto relativizzato (ma lo era già per esempio nella Germania di Weimar) e che paesi deboli come l’Italia si trovano sempre più preda degli interessi altrui[6].

Anche per questo è centrale il rapporto con il progetto di ‘integrazione’ europeo. Contro l’europeismo astratto la destra politica è fautrice di un europeismo concreto, che saldi i legami vitali tra i popoli europei (non esiste un popolo europeo, né al momento una ‘nazione europea’) entro una forte struttura confederale, che salvaguardi un interesse comune e non consideri, come invece fa l’Unione europea, il proprio ordinamento al servizio della pace universale e dei diritti dell’uomo. Una destra all’altezza del nostro tempo storico deve avere l’ardire di contrastare, con piena consapevolezza culturale, l’ideologismo dei diritti dell’uomo le cui carte sono state poste alla base del processo di integrazione, una retorica di stampo teologico che serve solo a nascondere interessi ben più concreti. Non a caso la sinistra più accorta – penso ad un vecchio intellettuale ex-comunista-‘gentiliano’ come Biagio de Giovanni – si rende conto del pericolo di abbandonare il concreto – i ceti medi e più poveri, il lavoro manuale e intellettuale – al dominio dell’astratto: i diritti, l’umanità (“chi dice umanità vuole ingannare”: Proudhon), la pace universale. Così Massimo Cacciari, nel suo recente libro su Weber[7], sottolinea l’esigenza del lavoro intellettuale come premessa per la ricostituzione del Politico nell’epoca dell’impero del capitalismo finanziario: una sorta di nuovo ‘cervello sociale’ alternativo.

Non che i diritti dei singoli non debbano essere difesi, ma nella misura in cui essi, tutelati da uno Stato autorevole e forte, siano il corrispettivo di obblighi. Ecco un altro lemma fondamentale per un partito di destra politicamente responsabile: il dovere, l’obbligo, come fondamento dei diritti, donde il primato del sociale rispetto all’atomismo individualistico. Da questo punto di vista la destra politica di oggi è ancora la migliore ‘destra’ quale già fu in passato, la destra che nel ‘liberalismo’ (quello nato a sinistra, non quello di Minghetti) vedeva la frantumazione dell’organico, ma anche dello stesso individuo, come appare con evidenza nel ribollente laboratorio della modernità rappresentato dalla cultura viennese tra Otto e Novecento. Ovviamente non si tratta di trovare la verità in questo o quel filosofo e tanto meno in qualche cosiddetto ‘scienziato della politica’. La verità sta nell’occasione, nel saper afferrare la domanda che il tempo storico pone al politico. Il Politico sta prima, assai prima, del clivage destra/sinistra, “conservatore”/“progressista”.

[1] Cfr. A. Carrino, Michael Oakeshott filosofo dello scetticismo: liberale o conservatore?, in corso di stampa in Nuova storia contemporanea, 2021.

[2] M. Oakeshott, Sull’essere conservatori, (1956), in Id., Razionalismo in politica e altri saggi, trad. it. a cura di G. Giorgini, Milano, IBLLibri, 2021.

[3] Cfr. M. Oakeshott, La politica moderna tra scetticismo e fede, trad. it. a cura di A. Carrino, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013.

[4] È quanto ho scritto anche nel Rapporto sull’interesse nazionale della Fondazione Farefuturo.

[5] Cfr. A. Carrino, Il problema della sovranità nell’età della globalizzazione. Da Kelsen allo Stato-mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012.

[6] Cfr. gli articoli in Limes 2/2021: L’Italia di fronte al caos.

[7] M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Milano, Adelphi, 2020, su cui cfr. A. Carrino, L’altro impero. Max Weber e il lavoro intellettuale come professione, in Lo Stato, 15/2020, pp. 479-492.

I rischi della extraterritorialità del diritto

14 miliardi è la somma che le imprese francese hanno dovuto pagare tra il 2010 e il 2020 come condanne e multe agli USA, anche delle imprese norvegese, tedesche, britanniche, svizzere e seppur oggi solo marginalmente italiane hanno subito sanzioni e condanne: il fenomeno rischia di crescere.

Dal “Patriot Act” alla SEC (Securities and Exchange Commission), dal ruolo dell’OFAC Office Foreign Assets Control a quello del FCPA Foreign Corrupt Practices Act, tutti in coordinamento con il DOJ (Dipartimento della Giustizia), non mancano istituzioni che attuano unilateralmente l’extra territorialità del diritto americano. Sono mezzi a supporto di una politica estera mirata a servire ambizioni industriali e geopolitiche anche a discapito dello sviluppo di concorrenti alleati.

Tra le imprese condannate a pagare più di cento milioni di multa, 14 sono europee e solo cinque americane…Ma oltre alla multa ci sono anche arresti come nel passato (2018): ad esempio questo dirigente di Alstom condannato a più di due anni di galera, il tempo per General Electric di mettere mano su un ramo strategico dell’elettricità nucleare francese posseduto allora dalla stessa Alstom o più recentemente un’alta dirigente di Huawei fu arrestata in Canada su mandato americano.

In Italia, le banche sono state le rime ad essere colpite, seguite dalle medie e grandi imprese. Il primo caso di impresa in Italia fu contro la Dettin nel vicentino. Più recentemente è stata l’ENI ad essere denunciata dalla SEC per violazioni FCPA (3/19751). Storia finita con il patteggiamento al fine di evitare delle probabili condanne più serie.

Ma la spada di Damocle è ormai sopra la testa di tutte le nostre imprese, ad esempio imprese che si muovono dinamicamente nei mercati internazionali come sul mercato russo, paese sempre più sottoposto a sanzioni (*). Decine di Miliardi sono in ballo!

Si impone quindi una reazione articolata. Ci sono vari modi di reagire, uno a livello istituzionale – in ambito europeo -, un altro a livello delle imprese facendo una distinzione tra le imprese di importante dimensioni – le multinazionali – che hanno a disposizione uffici legali e di “compliance” oltre agli uffici di comune amministrazione legale e tutte le imprese che non possono permettersi questa veglia preventiva, nonché sostenere i costi di strutture aggiuntive dedicate alla gestione delle minacce o delle sanzioni. Oltre ad una reazione articolata, si impone un sostegno esterno nella governance e nelle strategie.

Ma certo, oltre la “difesa in casa”, ci serve un’Europa in grado di contrastare legalmente e istituzionalmente queste sfide epocali.

Un passo indietro: sono gli inglesi che per primo hanno reagito, essendo direttamente la loro industria della difesa – BAE Systems – ad essere stata condannata a pagare a  seguito di un contratto di vendita di armi all’Arabia Saudita…un colmo, potremmo dire,  venendo dagli Stati Uniti!

Gli inglesi hanno reagito creando successivamente nel 2010  la UK Bribery Act, legge che ricopre anche una dimensione extraterritoriale. In Italia ci fu la legge 190/2012 a tracciare le regole di compliance e trasparenza mentre in Francia  si è dovuto aspettare il 2016 con la legge Sapin 2. Un secondo colmo, le imprese francese potevano dichiarare al fisco gli ammontare versati per “favorire” contratti internazionali fino a settembre 2000, data dell’entrata in vigore della convenzione dell’OCDE!

Ma la lotta a livello nazionale rimane molto debole davanti alle sfide legali dell’extraterritorialità, qualsiasi sia il paese di origine. E’ sicuramente a livello europeo che devono essere presi dei provvedimenti per contrattaccare e proteggere la libertà del commercio internazionale delle nostre imprese. Ad esempio, le difficoltà ad intraprendere un condizionamento fiscale dei GAFA dimostra la nostra impotenza nonostante le multe assegnate.

Nel passato, per rispondere alla guerra delle concentrazioni “cartelli”, l’Europa era riuscita con la simmetria a rispondere ad ogni denuncia. Oggi la costituzione in Europa di un equivalente al dipartimento di giustizia americano, probabilmente la risposta più adatta, risulta più che mai complicata. Ci rimane una direttiva, la 2271 del 1996 che dovrebbe potere annullare tutte le decisioni di giustizia straniere ma senza una struttura per attuare la lotta alle violazioni, tale direttive rimane lettera morta!

Pesano minacce sempre più gravose  sul commercio con la Russia, terra di predilezione italiana e le sue imprese, grandi, medie e piccole, pesano anche sul commercio con alcuni paesi del Medio Oriente e domani sul commercio in Asia, visto che la Cina sta anche lei, per contrattaccare gli americani, attuando un diritto extraterritoriale accompagnato da sanzioni e multe, come lo illustrano le conclusioni dell’ultimo congresso del partito – 22 maggio 2020  – : l’entrata in vigore della legge sull’extraterritorialità il 1 .12.2020 a vigilanza del State Council e della Central Military Commission è stata seguita da una Personal Information Protection Law vicina al General Data Protection Regulation Europeo.In fine la Cina si è dotata il 9 gennaio di una legge di protezione contro le legge extraterritoriale straniere. Un altra guerra legale mondiale si sta quindi imponendo all’Europa e alle sue imprese, senza contare il significato dei blocchi Facebook o Twitter che avvengono sempre più spesso, una extraterritorialità privata in grado di superare una extraterritorialità statale.

Per aiutare le nostre imprese serve anche una azione “locale”, un supporto a livello aziendale, sensibilizzando gli imprenditori e i dirigenti, offrendo una formazione ai più esposti ai mercati internazionali fornendo una cartografia dei rischi e un mapping della viabilità dei contatti in loco, visto. Oggi è sotto osservazione qualsiasi mossa in Africa, in Asia, in Medio oriente, in Russia…e che basta una sola mail su un server americano per renderci potenzialmente imputabile!

Si moltiplicano i fronti che andranno a condizionare il nostro sviluppo internazionale. Le guerre industriale e geopolitiche non mancheranno di demoltiplicare l’uso abusivo dell’extraterritorialità del diritto. La dimensione nazionale sembra ormai fuori tempo, l’Europa è in ritardo, occorre urgentemente dotarsi di strumenti utili a livello locale dell’impresa stessa come a livello europeo. Solo così torneremo a potere guardare la Cina e gli Stati Uniti direttamente negli occhi.

*Emmanuel Goût, comitato scientifico Farefuturo