Perché in Italia attecchisce la disinformazione

Nelle ultime settimane anche l’Italia, come altri Paesi dell’Alleanza Atlantica, è stata bersaglio di diverse attività di disinformazione e più in generale di infodemia, riconducibili agli apparati del governo russo impegnati nella guerra all’Ucraina.

L’Italia in particolare sembra essere diventata uno degli obiettivi preferiti dalla Russia, che ha individuato ormai da anni il nostro Paese come una sorta di anello debole del fianco occidentale. In base ad una mai celata simpatia per Putin e in generale gli “uomini forti”, unita ad una particolare affinità con l’universo russofono, il mancato riposizionamento di ampi strati dell’opinione pubblica è apparso tangibile e ha fatto interrogare molti sulle ragioni alla base di una simile permeabilità infodemica.

Il tema andrebbe affrontato da due punti di vista differenti: il primo è inevitabilmente legato alla crisi del modello editoriale praticato in Italia, mentre il secondo alle tendenze anti-occidentali di una parte della classe dirigente. Il nostro Paese vive ormai da anni immerso in una lunghissima crisi della carta stampata e delle televisioni, in particolare quella pubblica, che oltre ad aver accusato enormi perdite dal punto di vista economico, soffrono anche una progressiva erosione del proprio bacino di lettori, che ne riduce enormemente l’autorevolezza e alimenta nicchie di polarizzazione. Questo fenomeno, le cui radici affondano a circa 30 anni fa con l’avvento di Mani Pulite, ha portato (unico caso nei paesi del G7) ad un’abdicazione de facto dal ruolo di guida dell’opinione pubblica dei quotidiani più importanti, a cui non è seguito un riposizionamento di nuovi editori che ne colmasse il vuoto. Il risultato è che oggi la mancanza di fiducia verso la stampa tradizionale, intesa anche come la riconosciuta veridicità delle notizie, pregiudica ogni tentativo di questa di orientare o promuovere una linea di pensiero che rappresenti in modo credibile agli occhi dei lettori il posizionamento dell’Italia nello scacchiere della crisi in Ucraina. Lo stesso problema si è verificato in passato con la sfiducia verso i vaccini e l’ascesa del populismo giustizialista di Beppe Grillo e del Movimento 5 stelle, dove addirittura alcuni editori, sia vicini alla destra che alla sinistra, sono scesi in campo consapevolmente come sostenitori di ogni tesi che si ponesse in modo contrario a tutti gli indirizzi scientifici consolidati.

Questa bizzarra declinazione del pluralismo è ancora più visibile nelle televisioni che hanno accolto e coccolato di buon grado i più disparati ospiti “anti sistema” contendendoseli per pochi punti di share in prima e seconda serata. Ci sono reti che hanno impostato la loro linea editoriale, unico caso in Occidente, addirittura all’equidistanza tra Russia e Ucraina, nonostante fosse inequivocabile sin dalle prime ore dell’invasione che Kiev fosse stata brutalmente aggredita. Questo format si è purtroppo ripetuto anche nel manifesto della recente marcia della pace, che è uno dei più chiari esempi dell’ambiguità che si vuole vedere tra vittima e carnefice. Anche questo rientra nella definizione surrettizia di libertà di espressione che è stata abilmente forgiata per poter permettere agli opinionisti di turno di propagandare senza contraddittorio tesi false, destinate ad essere ripetute e pubblicizzate spesso per la sola vendita di spazi pubblicitari. Non ci è dato sapere se gli “esperti” siano al libro paga di Mosca ma lo stesso copione è andato in scena durante la campagna vaccinale e oggi sappiamo con certezza che la Russia ha inteso screditare l’efficacia dei preparati occidentali a vantaggio di prodotti come Sputnik, che rimangono sensibilmente inferiori nonostante il generoso “contributo genomico” raccolto dai Russi in provincia di Bergamo.

La crisi del giornalismo e il suo asservimento alle logiche della raccolta pubblicitaria da parte degli editori si accompagna al fiume carsico del pensiero antioccidentale. Osserva bene Angelo Panebianco quando rileva la sua trasversalità: dall’estrema destra alla sinistra, passando per il cattolicesimo sociale, sia che venga declinato come irrazionale vicinanza a Putin, ostilità alla NATO o pacifismo di stampo religioso c’è sempre un motivo valido per esprimere tutta la propria contrarietà alle posizioni del blocco occidentale. Il “partito della resa altrui” si arricchisce di nuovi membri sia per l’opposizione all’invio di armi che per l’asserita inutilità delle sanzioni. Anche in questo caso l’Italia è un unicum nel panorama europeo. Se in Francia la classe politica in generale e lo stesso Presidente Macron hanno assunto toni più concilianti verso un negoziato con Mosca, senza arrivare mai a confondere il ruoli di aggredito e aggressore, in Italia i sostenitori di Putin hanno evitato di rimangiarsi il proprio giudizio positivo o cambiare posizione come nel caso di Melenchon e Marine Le Pen. Questo ha alimentato una paradossale commedia degli equivoci che ha visto protagonisti in particolare Salvini, Conte e una parte significativa della sinistra: falchi nel posizionare l’Italia fuori dalle alleanze tradizionali ma colombe nel riconoscere che Mosca è colpevole di una ingiustificata aggressione nei confronti dell’Ucraina, che ha invece tutto il diritto ad essere aiutata a resistere sul campo.

Questi pregiudizi giocano a vantaggio di qualsiasi potenza straniera che può insinuarsi agilmente in particolare tra le maglie dell’informazione televisiva, è facile in contesti di crisi belliche passare dal macchiettismo degli aspiranti Masaniello a vere e proprie minacce alla sicurezza nazionale. Interventi deliranti come quelli di Lavrov, avvenuti senza contraddittorio o format televisivi che rilanciano opinionisti alternativi dalla dubbia autorevolezza, condizionano fortemente l’opinione pubblica e un paese ostile potrebbe con facilità sfruttare l’indecisione e i timori legati alle conseguenze del conflitto, per esempio sul potere d’acquisto della classe media, per fare pressione sulla politica a vantaggio di un appeasement che quantomeno garantisca lo status quo delle relazioni.

L’Italia, impoverita culturalmente e politicamente dal crollo del sistema partitico è oggi più che mai in balia di messaggi fuorvianti diffusi con consapevole leggerezza dietro il paravento del pluralismo o della libera informazione. Quando la disinformazione diventa dezinformatsiya, assume i connotati di una strategia preordinata a destabilizzare, confondere il pensiero dei cittadini e orientarlo emotivamente a proprio vantaggio. L’avvento di internet e dei social network ha cambiato ulteriormente il fondamento delle tattiche russe e l’inserimento a febbraio della fabbrica dei troll di San Pietroburgo nella lista delle entità sanzionate non è di per sé sufficiente ad arrestare il flusso infodemico con cui Mosca cerca di mantenersi a galla.

Il paradosso più grande è che le enormi difficoltà che attraversa la Russia, sia nel campo bellico che in quello economico, non vengono né raccontate né percepite adeguatamente in Italia, così a farne le spese è in ultima analisi la posizione dell’Ucraina. Non c’è infatti altro paese in cui l’idea che Kiev sia un fantoccio americano provocatore abbia preso piede come in Italia, con alcuni opinionisti che non si sono limitati a descrivere una fantomatica equidistanza, ma ne hanno addirittura ribaltato i ruoli addebitando all’Ucraina le cause dell’aggressione. Purtroppo per Mosca il perdurare del conflitto, gli insuccessi militari e l’inaspettata forza della resistenza hanno obbligato a ripensare al ruolo della dezinformatsiya. Non più diretta a promuovere la narrazione di una rapida conquista indolore come nel caso della Crimea ma a cementificare in Russia e all’estero l’idea stessa di un conflitto che va evolvendosi verso una sanguinosa guerra d’attrito. L’Italia e l’Occidente hanno oggi l’opportunità di guardare in faccia la realtà e valutare con i propri occhi i costi del tragico fallimento criminale di Putin che trascinerà i suoi stessi connazionali in una spirale di povertà economica e sopraffazione politica che non ha eguali al mondo.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

SANZIONI E GUERRE COMMERCIALI IN UN MONDO POST-COVID

Questo saggio di Paolo Quercia, analista,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

La pandemia che sta colpendo tutti gli Stati ci ha tutto ad un tratto precipitato nella realtà di un mondo fatto di risorse scarsissime, di ampissime e interconnesse minacce alla sicurezza, di scarsa affidabilità delle alleanze e di logiche predatorie. Alla prova suprema della sicurezza nazionale ogni Paese ricostruisce la sua visione del mondo sulla base del principio dell’interesse nazionale. Un concetto che non esclude le relazioni internazionali, la cooperazione tra Stati ed il multilateralismo, ma si avvale di essi per meglio tutelare gli obiettivi primari nazionali, racchiusi in strategie di lungo periodo. Gli Stati deboli, quelli troppo esposti ad influenze esterne, quelli politicamente e culturalmente immaturi si trovano ora catapultati in una dimensione scomoda.

Costretti ora a portare il fardello della sovranità da soli, si trovano di fronte a sfide culturali enormi, forse più grandi di essi. Specialmente nel campo economico, dove negli scorsi decenni è prevalsa una logica di globalizzazione estrema che ha scaricato le dimensioni della sicurezza e dell’interesse nazionale come inutili ostacoli al perseguimento di margini di guadagno, in verità sempre più ridotti. Superata la fase biologica della pandemia ci troveremo in un mondo dove la competizione economica sarà ancora più spietata e la ricostruzione degli Stati deboli sarà la nuova partita geopolitica. Guerre commerciali, sanzioni e screening selettivo dei flussi di investimenti saranno la nuova dimensione in cui dovranno competere gli Stati, chiamati ancora una volta a decidere come tutelare i propri interessi nazionali in un mondo troppo diverso da quello che molti avevano immaginato.

In Italia pochi termini sono incompresi, e dunque sia maltrattati che abusati, come il concetto di interesse nazionale. Il lungo inverno della guerra fredda, la presenza di forti ingerenze esterne nella politica interna italiana ed una lunga egemonia culturale che possiamo definire anti-nazionale, hanno spinto fuori dal pensiero main-stream questo concetto che ora riemerge nelle tante crisi che circondano il nostro Paese, ultima delle quali, quella pandemica. Dal dopoguerra fino ai primi anni duemila il termine era stato espulso dalla vita politica e dall’informazione di massa e non rappresentava – come avveniva in tutti i Paesi – il filo rosso che lega il funzionamento 165 dei poteri dello Stato e gli interessi privati; non aveva diritto di cittadinanza nella lingua scritta e parlata della pubblica amministrazione che lo sostituiva con altre espressione criptiche e non equivalenti. In alcuni ministeri si è addirittura insegnato ai giovani funzionari di non metterlo per iscritto nelle comunicazioni ufficiali, in quanto termine scomodo, pericoloso, nostalgico, da collegarsi con il nazionalismo se non addirittura con il fascismo stesso. Nelle scuole e nelle università veniva trattato come un concetto negativo e le discipline ad esso connesse – come la politica estera, gli studi strategici, la geopolitica, la sicurezza, l’intelligence – venivano marginalizzate nei percorsi formativi o totalmente cancellate. Oggi per fortuna non è più così, ma i danni di questa stagione sono evidenti nel cattivo uso che tutt’oggi si fa di questo concetto, ritornato, almeno semanticamente, nel vocabolario della politica. Con tutti i rischi connessi di quando un Paese chiacchiera a sproposito di interessi nazionali senza esserne preparato.

Ovviamente il non nominare le cose, il non dare forma ai concetti, il non addestrare i funzionari pubblici a concepire l’interesse nazionale come base della loro azione, il non preparare la pubblica opinione a padroneggiare quello che è il motore delle relazioni internazionali non ha affatto modificato la grammatica della politica internazionale né ha portato alla sostituzione del concetto; ha invece spesso comportato per l’Italia una lunga e continua serie di errori di policy, cronicizzando l’immaturità strategica del nostro Paese. Ciò è evidente nell’assenza di meccanismi istituzionalizzati chiari e trasparenti ove l’interesse nazionale prende forme e viene calato nei problemi concreti della vita del Paese. L’interesse nazionale non è, difatti solo un concetto, generico ed indefinito, ma un cantiere reale, sempre aperto, che si costruisce giorno per giorno, fatto (o disfatto) da decisioni prese (o non prese). A causa delle risorse scarse e della velocità dei processi decisionali, esso obbliga spesso a ragionare in negativo, ossia a compiere la difficile prioritarizzazione di quali interessi sono più rilevanti degli altri, quali sono gli obiettivi vitali e quali quelli subordinati; quali che devono essere raggiunti con l’azione costante dello Stato e quali possono essere lasciati al libero gioco dei mercati e degli interessi privati; quali – e sono i più – necessitano invece di una complicatissima sinergia pubblico-privato e Stato-cittadini. Molto più complicate da raggiungere quando il concetto di interesse nazionale non è stato condiviso nella società e soprattutto nella cultura dello Stato e della classe imprenditoriale. In questo l’interesse nazionale è anche un metodo di allocazione di risorse scarse per il conseguimento di obiettivi vitali, ma va distinto dalle teorie della public choice, per la presenza non solo di interessi contrastanti, sia interni che internazionali, ma anche di una pluralità di minacce che non escludono la 166 possibilità del conflitto. Dove per conflitto oggi fortunatamente non si intendono quelli militari – che restano pur sempre possibili – ma quelli per il controllo dei centri fondamentali della sovranità degli Stati senza formalmente violarne i confini: alti processi decisionali, politiche monetarie e finanziarie, processi legislativi, flussi commerciali.

L’Italia arriva alla crisi del Covid e alle guerre economiche che lo seguiranno con un precario e solo abbozzato concetto di interesse nazionale, specialmente in campo economico. La mancanza di una solida cultura pubblica ed istituzionale dell’interesse nazionale ha portato l’Italia ad essere un Paese in ritardo strategico sugli avvenimenti, bloccato in una visione statica delle relazioni internazionali, spesso in difficoltà a farsi valere sia con gli amici che con gli avversari, sia nel bilaterale che nel multilaterale. Tra i tanti cambiamenti che sono avvenuti nell’ultimo decennio una modifica importante è avvenuta nel sistema internazionale per quanto riguarda le regole di funzionamento della cosiddetta globalizzazione, un tema che tocca da vicino gli interessi economici e politici dell’Italia. La globalizzazione ha fatto esplodere le contraddizioni di un mondo unito dai grandi interessi economici e finanziari ma profondamente differente in quanto a fabbriche sociali, identità culturali, trend demografici, diritti umani, sistemi di valori, spazi di libertà, ruolo dell’individuo nei sistemi politici ed altro ancora.

Esaurita l’ingenua speranza che la globalizzazione economica potesse produrre una occidentalizzazione del sistema mondo e sperimentato che i gap della globalizzazione non potevano essere colmati neanche attraverso la proiezione della forza militare, né con avventurose iniziative di esportazione della democrazia (regime change, state building e nationbuilding), l’Occidente si è iniziato a porre il problema di come evitare che la redistribuzione della potenza su scala globale potesse mettere in pericolo i suoi interessi ed i suoi valori. È dunque iniziata, da almeno un decennio, una corsa al riposizionamento degli interessi nazionali dei principali Stati occidentali, in cui i vecchi paradigmi dell’euro-atlantismo e della globalizzazione, pur utili, non erano più sufficienti a garantire gli interessi di lungo periodo in un mondo in profonda trasformazione e parziale de-globalizzazione. Viviamo ormai, piuttosto inconsapevolmente, in una finestra di riposizionamenti geopolitici fatti di trasformazioni sconvolgenti, radicali cambi di paradigma e nuove posture degli Stati. Inutile citare i tanti esempi, ma doveroso sottolineare il ritardo con cui l’Italia ha cercato di adeguarsi a questi cambiamenti. È importante considerare che molti di questi cambiamenti hanno luogo sul terreno della ridefinizione degli interessi nazionali in un mondo globalizzato in cui cioè i conflitti tra gli Stati avvengono senza confini e prevalentemente all’interno della dimensione economica. È qui che si sta svolgendo un enorme braccio di 167 ferro geopolitico per la ri-definizione del sistema dei sistemi che, non potendo essere governato, finirà per fratturarsi in più globalizzazioni competitive, con l’emersione di nuovi confini economici e finanziari che regoleranno le interconnessioni tra aree regionali a differente influenza geopolitica.

Negli Usa, il Paese che è stato e tuttora è il motore della globalizzazione occidentale i decisori strategici hanno iniziato, già negli anni post 11 settembre 2001 a sviluppare con sempre maggiore frequenza tipologie sofisticate di sanzioni economiche da impiegare come strumenti di politica estera al posto (o assieme) agli strumenti militari. Le sanzioni e le restrizioni economiche sono divenute sempre più ricorrenti, sempre più efficaci e, soprattutto, sempre più mirate ed individuali. L’impiego di queste sanzioni di nuova generazione sono contenute già nella Strategia di Sicurezza nazionale americana del 2005 di Obama, anche se sono ancora presentate come strumento di un intervento compatibile con l’economia globale. I cambiamenti che sono avvenuti negli anni seguenti, in particolare a partire dal 2008 in avanti, hanno progressivamente prodotto un ampliamento e una trasformazione della potenza economica intesa sempre più come dimensione della sicurezza e come strumento per il raggiungimento di obiettivi politici. Gli Usa hanno iniziato a fare sempre più leva sul ruolo ricoperto dal dollaro nel sistema degli scambi finanziari internazionali e sul fatto che l’America detiene molte delle principali tecnologie chiave necessarie per garantire gli sviluppi industriali del futuro. Questa strategia è stata elevata ad uno dei principali strumenti di politica estera da parte del presidente americano Trump, che ha enormemente ampliato la portata delle sanzioni economiche, le ha affiancate con una politica dei dazi legata alla sicurezza nazionale avviando numerosi conflitti commerciali, anche con l’Europa. Inoltre, Trump ha profondamente ampliato l’uso delle cosiddette sanzioni secondarie (rivolte a non-US persons) che colpiscono non le aziende Usa o dei Paesi colpiti dalle sanzioni ma quelle di Paesi terzi, se esse non si conformano alle restrizioni previste dalla normativa americana. Inoltre, ha esteso ad altri campi la coercizione economica come strumento di pressione politica, come ad esempio quello dell’export control, basato sulle autorizzazioni per le esportazioni e sul maggiore screening dell’impatto degli investimenti esteri.

Una cosa molto importante per la ridefinizione dell’interesse nazionale italiano: è bene comprendere come si amplierà per l’effetto congiunto de-globalizzazione/Covid il sistema delle sanzioni/export-control/FDIcontrol e come esso impatterà sulla sicurezza economica nazionale, europea ed internazionale. L’efficacia delle sanzioni e dell’export control in futuro non sarà solo misurata nei termini degli effetti politici o economici prodotti verso il Paese target ma anche – e forse soprattutto – sul loro effetto di «creazione» di nuovi confini 168 economici-commerciali ottimali. Saranno cioè i tool-of-choice per la riconfigurazione del sistema transatlantico lungo nuovi confini economici volti a ridurre le capacità di crescita economiche e tecnologiche dei principali sfidanti. Ciò si basa ovviamente sulla capacità degli Usa di persuadere (o costringere) Paesi amici, alleati o terzi ad uniformarsi alle restrizioni imposte dalle loro mutevoli logiche geopolitiche; ma anche sulle residue capacità degli alleati di resistervi o di negoziare alternative che includono i propri interessi. Lo scenario che ci sembra incombente è quello di una sempre maggiore fratturazione della globalizzazione in regioni e aree economicamente integrate perché politicamente omogenee con nuovi confini commerciali. L’Europa, attraversata da una crisi senza precedenti politica, finanziaria e medicale, sarà chiamata a concettualizzare un suo interesse complessivo in questa partita. E non è detto che ciò risulterà possibile. L’emergenza Covid si inserisce in questi scenari, accelerandone lo sviluppo ed aumentando la posta della partita strategica apertasi per l’egemonia nel mondo post-globale. Una partita che a questo punto si giocherà lungo due dimensioni chiave: quella della sicurezza biologica e quella della sicurezza economica. Ciò era già esplicitamente riconosciuto nella Strategia di Sicurezza Nazionale del 2017 di Trump, dove la sicurezza economica viene definita come una forma di sicurezza nazionale in un mondo in cui la competizione ormai non è più di carattere militare ma tecnologico e commerciale.

L’effetto Covid amplierà ulteriormente questa tendenza, aumentando il consenso su queste politiche anche al fronte democratico. Per quello che attiene all’Italia, è fondamentale ricordare che da qualche anno si è aperta una nuova partita per l’interesse nazionale. La capacità di un Paese di tutelare i propri interessi economici è divenuta una responsabilità a 360° che impone una nuova collaborazione tra Stato ed imprese e amplia le responsabilità dello Statecraft economico. Il tipo di internazionalizzazione del Sistema Paese sarà sempre più una questione legata alla sicurezza nazionale e alle grandi scelte politico-strategiche. Quali che siano stati i ritardi passati nel costruire in Italia una visione dell’interesse nazionale, oggi è chiaro che nella nuova stagione post-Covid devono essere rimossi e deve essere perseguita una adeguata consapevolezza del ruolo strettissimo che esiste tra interesse nazionali e rapporti economici internazionali. E del significato crescente che restrizioni commerciali e sanzioni economiche hanno acquisito e acquisiranno nel campo delle relazioni internazionali.

Oggi è sempre più importante avere una capacità di influire sui processi di creazione di queste nuove frontiere del commercio internazionale che si stanno creando sotto i nostri occhi. Ci sono alte probabilità che la geopolitica post-Covid si svolgerà in un mondo di protezionismi, restrizioni commerciali e sanzioni. Una delle frontiere più avanzate della tutela degli interessi nazionali 169 in questo mondo sarà proprio quella di costruire la capacità per un Paese esportatore come l’Italia di mantenere aperti i mercati esteri anche in un contesto di destrutturazione della globalizzazione e di elevata concorrenza economica.

*Paolo Quercia, docente di Studi Strategici, direttore scientifico del progetto A World of Sanctions