Sicurezza e Mediterraneo, una questione cruciale

Le conclusioni del Forum di Roma

L’intensa due giorni di lavori (Roma, 11- 13 ottobre) con la partecipazione di autorevoli studiosi e parlamentari d’oltre oceano, europei , medio-orientali e africani ha fornito ulteriore conferma della proficua collaborazione in atto ormai da quasi due anni tra la nostra Fondazione, l’“International Repubblican Institute “( prestigiosa “think -tank“ statunitense vicina ma non organica al Partito Repubblicano) e il Comitato Atlantico italiano.

Si è trattato infatti del sesto Forum congiuntamente organizzato dalle tre fondazioni a poco più di un anno dal primo, su Europa e relazioni transatlantiche dopo la pandemia e il ritiro americano dall’Afghanistan, svoltosi lo scorso anno in non casuale coincidenza col ventesimo anniversario dell’11 settembre. L’evento, iniziato con una sessione aperta al pubblico nella mattinata del 12 ottobre per poi proseguire a porte chiuse, ha preso avvio con interventi del responsabile del Dipartimento per le Relazioni Transatlantiche dell’IRI, Ian Surotchak giunto espressamente da Washington, dell’Incaricato d’affari americano presso il polo onusiano romano Rodney M. Hunter e del Presidente della nostra Fondazione,  Adolfo Urso.

Al centro delle discussioni le ricadute sull’area EMEA (Europa, Mediterraneo e Africa) dell’aggressione russa all’Ucraina analizzate nelle loro diverse dimensioni: da quella della sicurezza alimentare, a quella energetica, fino a quella migratoria. Il tutto nel segno di una ribadita comune fedeltà ai valori dell’atlantismo che ha costituito il filo conduttore di tutti i Forum sinora realizzati in partenariato dai tre organismi.

Il forte apprezzamento americano per la salda e inequivoca collocazione di Farefuturo è stato manifestato a chiare lettere dal direttore Surotchak nel suo saluto a nome dei vertici dell’IRI.

Il senatore Urso si è soffermato su tre aspetti qualificanti: 1) la sfida lanciata alle nostre democrazie nei più diversi scacchieri dalle potenze autocratiche, come la Repubblica Popolare cinese e la Russia di Putin; 2) la necessità di una risposta ferma e congiunta da parte dell’Occidente, in uno spirito di forte solidarietà e coordinamento euro-atlantico; 3) il rilievo crescente che la regione mediterranea, così come quella centro/nord africana, sta rivestendo ( e appare destinata ancora a lungo a rivestire) in tale confronto di civiltà e per il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, a cominciare dalle terre rare cruciali per la competitività dei nostri sistemi industriali.

Urso ha sottolineato anche come il ricatto energetico e quello alimentare esercitato dalla Russia ai danni dell’Occidente (e dell’Europa e Africa in particolare) non rappresentino che altrettanti tasselli della guerra ibrida portata avanti nei nostri confronti da Mosca ( e Pechino) anche attraverso articolate campagne di disinformazione, sia in Europa sia nel continente africano; campagne alle quali è doveroso rispondere avvalendosi di ogni appropriato strumento, anche sul terreno della contro-narrativa.

Dobbiamo pertanto investire, ha proseguito il Presidente Urso, sia in Africa sia nella sponda sud del Mediterraneo in uno spirito di “autentico partenariato” con i paesi dell’area anche sul fondamentale versante della sicurezza alimentare. Se investiremo in questo senso, ha proseguito, sconfiggeremo anche l’altra minaccia: quella delle migrazioni incontrollate. Migrazioni, ha rilevato, che creano un serio problema anche nei paesi africani, che perdono così le loro intelligenze migliori. Per tale motivo è indispensabile, ha voluto sottolineare, sviluppare d’ora in poi una “grande politica Italiana, europea e occidentale nel Mediterraneo allargato e nel continente africano”. Perché quella parte del mondo potrà raggiungere un vero benessere, fondamentale anche ai fini del contrasto al terrorismo di matrice islamista, solo in stretto raccordo con l’Occidente ciò di cui anche da parte americana, ha concluso, si è sempre più consapevoli.

Spunti di interesse sono emersi anche dalle successive sessioni a porte chiuse. Con riferimento ad esempio, nel caso della sicurezza alimentare, alla necessità per l’Occidente di adottare ai fini dell’assistenza ai paesi più fragili del continente africano un approccio multisettoriale. Essendo chiaro che la sicurezza alimentare, l’accesso a condizioni sostenibili alle fonti di energia, la salute e la governance sono dimensioni strettamente interconnesse, cosicché quando anche solo una delle stesse viene a essere fragilizzata ne derivano onde di shock su tutte le altre.

In sostanza, e per concludere, il Forum ha offerto eloquente riprova del ruolo di primo piano che la nostra Fondazione si è ritagliata, per molti versi un “unicum”, nel corso dei due ultimi anni, in Italia e non solo: quale prioritario punto di riferimento per tutti gli ambienti e organismi che abbiano a cuore, da un lato, le sorti dell’ Occidente nel confronto con gli stati autocratici; e, dall’altro , la volontà di fornire risposte concrete e credibili alle criticità che in tante aree del mondo portano acqua al mulino dell’estremismo e dell’instabilità.

*Gabriele Checchia, responsabile per le Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

PROGRAMMA

The new frontline. Disegnare il futuro.

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Art. La Stampa

Art. Graziosi

Ottaviani: brigate russe in azione, oggi

Una guerra subdola, impalpabile, all’apparenza meno invasiva dell’orrore a cui stiamo assistendo in Ucraina, ma che sul lungo termine procura danni irreparabili. Un Paese, l’Italia, che per motivi storici ed economici viene percepito dai russi come particolarmente appetibile e malleabile e che adesso si trova davanti il rischio concreto di vedere il voto politico del 2023 influenzato indirettamente da Mosca. Marta Ottaviani nel suo libro Brigate Russe (edito da Ledizioni e pubblicato un mese prima lo scoppio della guerra in Ucraina) ha spiegato cosa sia la guerra non lineare e perché nessun Paese possa dirsi al sicuro.

Marta Ottaviani, come potremmo definire la guerra non lineare russa?

Riassumendo al massimo, si tratta di un insieme di misure volte a destabilizzare il nemico senza che questo se ne accorga, o lo faccia solo quando è troppo tardi. Le caratteristiche della guerra non lineare sono sostanzialmente due: la prima è che non si ferma mai, va avanti anche in apparente tempo di pace, la seconda è che è difficilissima da attribuire con esattezza in tempi rapidi, perché viene portata avanti soprattutto sulla rete, che è il campo dell’anonimato per eccellenza.

Quali sono queste misure?

Attacchi hacker, sciami di troll che hanno il compito di inquinare il dibattito pubblico, un sistema di soft power particolarmente aggressivo e, solo in alcuni casi, l’impiego di truppe non regolari. Sottolineo non regolari perché in Crimea nel 2014 sono riusciti a camuffare invasione proprio così. Ci sono voluti anni per capire quello che era successo veramente.

Perché dobbiamo interessarci alla guerra non lineare russa?

In questi mesi stiamo assistendo a una guerra di tipo convenzionale, novecentesca, scellerata, che sta trascinando in un gorgo l’Ucraina, la Russia e tutta la comunità internazionale. La guerra non lineare però è la guerra del futuro e dobbiamo davvero imparare a farci i conti perché sarà sempre più invasiva e sempre più difficile da individuare in tempi brevi.

Pensa che sia a rischio anche l’Italia?

L’Italia in questo momento è sotto un violento attacco di infowar, che non ha precedenti nel nostro Paese. Dall’analisi degli interventi degli ospiti nei talk show, l’attivismo sui social dell’Ambasciata russa e l’aumento degli account sulle varie piattaforme proprio in occasione di questa guerra mi fa pensare che ci sia una strategia precisa.

Quale?

Portare il nostro Paese dalla parte di Mosca e, se possibile, influenzare anche il voto politico del 2023, sul modello di quanto fatto negli Stati Uniti nel 2016 e in occasione del referendum sulla Brexit dello stesso anno. In Ucraina la Russia sta bombardando innocenti, con la guerra non lineare si bombardano le menti delle persone.

Come ci si difende?

In tanti modi, a partire da una corretta educazione digitale, che secondo me dovrebbe essere insegnata a scuola alle nuove generazioni per le quali i social e il metaverso diventeranno realtà con cui si confronteranno sempre di più. In secondo luogo, si parla giustamente del diritto all’informazione, ma troppo poco spesso del fatto che, nel momento un cui diffondiamo una notizia che abbiamo letto e che troviamo vera, diventiamo parte attiva. Quindi informarsi in modo corretto e approfondito, evitando fakew news, teorie complottiste o le uscite dell’opinionista improvvisato di turno, adesso è anche un dovere. E soprattutto tenere presente una cosa: per noi la libertà di informazione è un valore sacro e irrinunciabile, per la Russia di Putin un ventre molle in cui colpire. Va difesa con la censura, ma con la consapevolezza che qualcuno usa l’informazione per fare la guerra. Le parole d’ordine quindi sono approfondimento e selezione.

Perché in Italia attecchisce la disinformazione

Nelle ultime settimane anche l’Italia, come altri Paesi dell’Alleanza Atlantica, è stata bersaglio di diverse attività di disinformazione e più in generale di infodemia, riconducibili agli apparati del governo russo impegnati nella guerra all’Ucraina.

L’Italia in particolare sembra essere diventata uno degli obiettivi preferiti dalla Russia, che ha individuato ormai da anni il nostro Paese come una sorta di anello debole del fianco occidentale. In base ad una mai celata simpatia per Putin e in generale gli “uomini forti”, unita ad una particolare affinità con l’universo russofono, il mancato riposizionamento di ampi strati dell’opinione pubblica è apparso tangibile e ha fatto interrogare molti sulle ragioni alla base di una simile permeabilità infodemica.

Il tema andrebbe affrontato da due punti di vista differenti: il primo è inevitabilmente legato alla crisi del modello editoriale praticato in Italia, mentre il secondo alle tendenze anti-occidentali di una parte della classe dirigente. Il nostro Paese vive ormai da anni immerso in una lunghissima crisi della carta stampata e delle televisioni, in particolare quella pubblica, che oltre ad aver accusato enormi perdite dal punto di vista economico, soffrono anche una progressiva erosione del proprio bacino di lettori, che ne riduce enormemente l’autorevolezza e alimenta nicchie di polarizzazione. Questo fenomeno, le cui radici affondano a circa 30 anni fa con l’avvento di Mani Pulite, ha portato (unico caso nei paesi del G7) ad un’abdicazione de facto dal ruolo di guida dell’opinione pubblica dei quotidiani più importanti, a cui non è seguito un riposizionamento di nuovi editori che ne colmasse il vuoto. Il risultato è che oggi la mancanza di fiducia verso la stampa tradizionale, intesa anche come la riconosciuta veridicità delle notizie, pregiudica ogni tentativo di questa di orientare o promuovere una linea di pensiero che rappresenti in modo credibile agli occhi dei lettori il posizionamento dell’Italia nello scacchiere della crisi in Ucraina. Lo stesso problema si è verificato in passato con la sfiducia verso i vaccini e l’ascesa del populismo giustizialista di Beppe Grillo e del Movimento 5 stelle, dove addirittura alcuni editori, sia vicini alla destra che alla sinistra, sono scesi in campo consapevolmente come sostenitori di ogni tesi che si ponesse in modo contrario a tutti gli indirizzi scientifici consolidati.

Questa bizzarra declinazione del pluralismo è ancora più visibile nelle televisioni che hanno accolto e coccolato di buon grado i più disparati ospiti “anti sistema” contendendoseli per pochi punti di share in prima e seconda serata. Ci sono reti che hanno impostato la loro linea editoriale, unico caso in Occidente, addirittura all’equidistanza tra Russia e Ucraina, nonostante fosse inequivocabile sin dalle prime ore dell’invasione che Kiev fosse stata brutalmente aggredita. Questo format si è purtroppo ripetuto anche nel manifesto della recente marcia della pace, che è uno dei più chiari esempi dell’ambiguità che si vuole vedere tra vittima e carnefice. Anche questo rientra nella definizione surrettizia di libertà di espressione che è stata abilmente forgiata per poter permettere agli opinionisti di turno di propagandare senza contraddittorio tesi false, destinate ad essere ripetute e pubblicizzate spesso per la sola vendita di spazi pubblicitari. Non ci è dato sapere se gli “esperti” siano al libro paga di Mosca ma lo stesso copione è andato in scena durante la campagna vaccinale e oggi sappiamo con certezza che la Russia ha inteso screditare l’efficacia dei preparati occidentali a vantaggio di prodotti come Sputnik, che rimangono sensibilmente inferiori nonostante il generoso “contributo genomico” raccolto dai Russi in provincia di Bergamo.

La crisi del giornalismo e il suo asservimento alle logiche della raccolta pubblicitaria da parte degli editori si accompagna al fiume carsico del pensiero antioccidentale. Osserva bene Angelo Panebianco quando rileva la sua trasversalità: dall’estrema destra alla sinistra, passando per il cattolicesimo sociale, sia che venga declinato come irrazionale vicinanza a Putin, ostilità alla NATO o pacifismo di stampo religioso c’è sempre un motivo valido per esprimere tutta la propria contrarietà alle posizioni del blocco occidentale. Il “partito della resa altrui” si arricchisce di nuovi membri sia per l’opposizione all’invio di armi che per l’asserita inutilità delle sanzioni. Anche in questo caso l’Italia è un unicum nel panorama europeo. Se in Francia la classe politica in generale e lo stesso Presidente Macron hanno assunto toni più concilianti verso un negoziato con Mosca, senza arrivare mai a confondere il ruoli di aggredito e aggressore, in Italia i sostenitori di Putin hanno evitato di rimangiarsi il proprio giudizio positivo o cambiare posizione come nel caso di Melenchon e Marine Le Pen. Questo ha alimentato una paradossale commedia degli equivoci che ha visto protagonisti in particolare Salvini, Conte e una parte significativa della sinistra: falchi nel posizionare l’Italia fuori dalle alleanze tradizionali ma colombe nel riconoscere che Mosca è colpevole di una ingiustificata aggressione nei confronti dell’Ucraina, che ha invece tutto il diritto ad essere aiutata a resistere sul campo.

Questi pregiudizi giocano a vantaggio di qualsiasi potenza straniera che può insinuarsi agilmente in particolare tra le maglie dell’informazione televisiva, è facile in contesti di crisi belliche passare dal macchiettismo degli aspiranti Masaniello a vere e proprie minacce alla sicurezza nazionale. Interventi deliranti come quelli di Lavrov, avvenuti senza contraddittorio o format televisivi che rilanciano opinionisti alternativi dalla dubbia autorevolezza, condizionano fortemente l’opinione pubblica e un paese ostile potrebbe con facilità sfruttare l’indecisione e i timori legati alle conseguenze del conflitto, per esempio sul potere d’acquisto della classe media, per fare pressione sulla politica a vantaggio di un appeasement che quantomeno garantisca lo status quo delle relazioni.

L’Italia, impoverita culturalmente e politicamente dal crollo del sistema partitico è oggi più che mai in balia di messaggi fuorvianti diffusi con consapevole leggerezza dietro il paravento del pluralismo o della libera informazione. Quando la disinformazione diventa dezinformatsiya, assume i connotati di una strategia preordinata a destabilizzare, confondere il pensiero dei cittadini e orientarlo emotivamente a proprio vantaggio. L’avvento di internet e dei social network ha cambiato ulteriormente il fondamento delle tattiche russe e l’inserimento a febbraio della fabbrica dei troll di San Pietroburgo nella lista delle entità sanzionate non è di per sé sufficiente ad arrestare il flusso infodemico con cui Mosca cerca di mantenersi a galla.

Il paradosso più grande è che le enormi difficoltà che attraversa la Russia, sia nel campo bellico che in quello economico, non vengono né raccontate né percepite adeguatamente in Italia, così a farne le spese è in ultima analisi la posizione dell’Ucraina. Non c’è infatti altro paese in cui l’idea che Kiev sia un fantoccio americano provocatore abbia preso piede come in Italia, con alcuni opinionisti che non si sono limitati a descrivere una fantomatica equidistanza, ma ne hanno addirittura ribaltato i ruoli addebitando all’Ucraina le cause dell’aggressione. Purtroppo per Mosca il perdurare del conflitto, gli insuccessi militari e l’inaspettata forza della resistenza hanno obbligato a ripensare al ruolo della dezinformatsiya. Non più diretta a promuovere la narrazione di una rapida conquista indolore come nel caso della Crimea ma a cementificare in Russia e all’estero l’idea stessa di un conflitto che va evolvendosi verso una sanguinosa guerra d’attrito. L’Italia e l’Occidente hanno oggi l’opportunità di guardare in faccia la realtà e valutare con i propri occhi i costi del tragico fallimento criminale di Putin che trascinerà i suoi stessi connazionali in una spirale di povertà economica e sopraffazione politica che non ha eguali al mondo.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Mercato del lavoro tra sovranismo e fluidità

La spinta pro Ucraina sembra – forse già definitivamente – avere messo in crisi quella “guerra delle parole” per cui i concetti di Nazione, di sovranismo, di identità e di interesse nazionale erano il “male”, mentre tutto ciò che era globale, indistinto, unisex, transgender, senza differenza di età e di Stato era “il bene”. La crisi in atto dimostra che sovranismo significa difesa dell’Ucraina, come stato indipendente, per quanto “orbitante”, e che la globalizzazione come agente di pacificazione attraverso il profitto dei mercati sta fallendo.

Il mercato del lavoro sembra essere il figlio minore di questo assetto, essendo per sua natura sempre più fluido e per sua gestione sempre più vetusto, a cominciare dall’Italia (tranne alcune eccezioni regionali come il Veneto e la Lombardia), tanto che sembra legittimo chiedersi se esista un mercato del lavoro da gestire o se esso segua flussi e dinamiche spontanee.

Alla fluidità del mondo corrisponde la fluidità del lavoro. Il lavoro non identifica più. Il falegname, il ciabattino, il fruttivendolo, il panettiere, l’edicolante, il barista, il rappresentante…durante gli anni della piena occupazione di fine ‘900 valevano più del tuo nome e cognome, quello eri! Uscivi da scuola con un lavoro e con quel lavoro ci andavi in pensione. Quel lavoro era il sostegno della tua vita e ti identificava: eri quello che facevi. Nella fluidità del mondo non è più così. Non conta quello che sei, ma quello che fai. Il lavoratore, il disoccupato è quello sa fare (e deve rendersene conto per meglio competere). E’ più cose assieme e nello stesso tempo, siano essere referenziate, derivate dal lavoro sommerso o da semplici interessi e passioni.

Sono le competenze e non il profilo professionale che fanno il lavoratore. E’ un processo di destrutturazione del soggetto in tante cose, tante quante sono le sue competenze formali (titoli), non formali (esperienze) ed informali (interessi) che sa mettere in pratica.

Il lavoratore non può più (e non deve) passare per la cruna dell’ago con la sua identità, ma si deve frammentare nelle cose che sa fare, per poi ricomporsi nella dimensione che fa più “matching” con ciò che è richiesto dalle aziende. Il quid non è più chi sei. Ma cosa sai fare.

I servizi pubblici hanno pertanto una sfida in più, quella di intercettare la fluidità del mondo e la frammentazione dei profili professionali, in un modo mutato, tanto che i sistemi gestionali non possono di certo più, anche solo per un aspetto terminologico, incrociare domanda ed offerta di lavoro sul “battilamiere”, sull’ “ammondatore di pesce”, sullo “stampatore alla rotativa” e non farlo invece sull’ “esperto della reti on line”, “l’esperto di e-commerce”, il “free lance”, “l’operatore del delivery”, “l’europrogettista”, il “social media manager”. Inoltre la sfida è trovare uno standard terminologico di qualificazione almeno europeo, se non mondiale, per valutare titoli di studio, formazione, esperienze di lavoro, emersione di nuove lingue regionali…

Il mercato del lavoro deve mettere al centro le competenze del lavoratore nel corso della sua vita che a loro volta mutano nello spazio e nel tempo. C’è da chiedersi se lo stesso CV, per quanto europass, sia ancora uno strumento valido, dal momento che esso risponde più al “chi sei” che al “cosa sai”. Profili social, video curriculum potrebbero essere più adatti, comprendendo soft skills altrimenti impercettibili, oltre che dimostrando la messa in pratica con una presentazione video in inglese o alla guida di un muletto.

Tutta questa spinta in avanti, modernista, va poi bilanciata per non perdere chi potrebbe restare indietro da un punto di vista del gap tecnologico, linguistico, di genere, di età, di livello di studio, di disabilità.

La fluidità del mondo incontra la fluidità del mercato del lavoro non nel loro smanioso progredire per regredire, ma per evolversi in chiave neo conservatrice e pertanto reale, con senso di responsabilità per la gente che ci sta’ dentro. La sfida è quella delle competenze che con la loro leggerezza entrano meglio dalla finestre del treno in corsa, piuttosto che aspettando il lavoro in una remota stazione di periferia con un treno in ritardo.

La crisi russo/ucraina dimostra inoltre non solo la necessità di ritarare il mondo sulle persone, sulle competenze, ma fa emergere quello che del resto era già noto: la sfida delle competenze ci deve essere anche nel contesto di un Mediterraneo di cui l’Italia si è dimenticata, lasciandolo agli appetiti della Russia e della Cina. L’economia del mare: la pesca, la nautica, il turismo nautico, la logistica, la tutela ambientale e quindi le ZES (Zone economiche speciali), le ZEE (Zone economiche speciali) come luogo dell’interesse nazionale, come meta, tra le altre, del nuovo mercato del lavoro.

Il Sovranismo inclusivo e la fluidità estensiva del mercato del lavoro possono coesistere e rafforzarsi reciprocamente.

*Nicola Boscolo Pecchie, esperto mercato del lavoro

Cominciamo a riformare l’ONU

Lo avevamo intuito già all’indomani del fatidico 24 febbraio, inizio dell’aggressione russa in Ucraina.Ed oggi dopo aver vissuto, anche soltanto attraverso i media, questi ultimi 43 giorni di guerra ce ne convinciamo sempre di più.
Siamo ad un punto di svolta nella storia, un passaggio epocale.
Il mondo che sognavamo non c’è più, e forse non c’era nemmeno prima!
A questa conclusione siamo giunti applicando la conseguenza logica degli orrori del fronte, di una riprovazione internazionale mai vista, di gravi sanzioni che fanno male a chi le applica prima che a chi le subisce, dell’uso degli epiteti e aggettivi personali più infamanti, delle minacce durissime paventate da ambo le parti.
Tutto ciò porta ahimè ad una pratica irreversibilità della situazione, la certezza, più che il timore, che nulla sarà più come prima.

E se è vero che questo “prima” ha contribuito a portare il mondo sull’orlo del baratro di missili nucleari ormai a “sicure disinserite”, è anche vero che bisognerà assolutamente cambiare il sistema che dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale ha condizionato  il mondo.
Oggi ho finalmente concordato in pieno-e non mi succede spesso-con Zelensky quando ha affermato che chi siede nel consiglio di sicurezza dell’ONU non può macchiarsi di crimini contro l’umanità e quando ha chiesto a gran voce una nuova Norimberga: due temi a me cari.
Il primo sull’ONU, che io considero  la madre di tutte le ingiustizie.

Nonostante occorra dare atto al coraggio della diplomazia italiana che provò a riformarlo nella metà degli anni 90, ad opera del compianto Ambasciatore Francesco Paolo Fulci, senza che gli ex “five winners” abbiano mollato l’odiosa e ormai  anacronistica rendita di posizione imposta come fece Brenno con la sua spada.
Il secondo tema proviene dal non poter dimenticare le atrocità dei bombardamenti a tappeto con cui i sedicenti alleati hanno ucciso migliaia di inermi civili nostri connazionali (anche lì c’erano donne e bambini)  e raso al suolo le nostre città, patrimonio dell’umanità. Per non parlare poi delle bombe atomiche americane sganciate per provarne l’efficacia su centinaia di migliaia di giapponesi, ormai distrutti e pronti ad una resa incondizionata.

Gli enormi errori geostrategici commessi dal sistema “post war two” sono molteplici,impressionanti nelle loro conseguenze e meriterebbero il contributo di tutto un mondo realmente libero e svincolato dagli interessi di questa o quella parte. È questa la sola utopia che può salvarci dall’ auto annientamento? Non so, intanto cominciamo a rimettere in discussione l’ONU.

*Carmelo Cosentino, ingegnere, presidente ASE spa

L’Occidente e il valore delle libertà

La morte a 84 anni di Madeleine Albright giunge in un momento particolarmente complesso per l’Occidente. L’aggressione russa all’Ucraina riporta alla mente ferite mai del tutto rimarginate che hanno messo a dura prova l’apparato valoriale su cui si fondano le nostre democrazie liberali. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, quando l’appartenenza ad uno dei due blocchi si configurava come scelta obbligata e spesso oltremodo sofferta, perché indipendente dalla volontà dei popoli, la libertà di autodeterminarsi degli stati nazionali è stato il sentimento distintivo che più ha contribuito allo sgretolamento dell’Unione Sovietica. Questo concetto, apparentemente messo da parte, riemerge con tutte le sue contraddizioni e pone davanti ad un bivio l’Occidente, che mai nella sua storia è stato percorso da dubbi tali da rischiare di pregiudicarne il futuro.

Oggi sappiamo con certezza quanto la negazione delle legittime aspirazioni dell’uomo, come individuo e collettività, sia la più soffocante tra le forme di autoritarismo. Madeleine Albright, nei suoi anni da Segretario di Stato, ha dato prova di saper riconoscere quando la cappa opprimente dei regimi in crisi si trasforma nel pretesto per perpetrare i peggiori crimini, rivendicando il diritto all’impunità in nome di una particolare declinazione della legge del più forte. Oggi la Russia, vestiti i panni consunti della desueta eredità imperiale, mostra al mondo di non voler accettare il fallimento del proprio modello politico, erede mancato di uno altrettanto rovinoso e rivendica il diritto di decidere in nome e per conto di una nazione sovrana che non considera tale, un tempo persino sua “vassalla”, nella più totale indifferenza dei cambiamenti intercorsi dal crollo dell’Unione sovietica e delle aspirazioni del popolo ucraino.

Intendiamoci, spesso siamo noi occidentali a dare per scontata la natura stessa delle nostre istituzioni, delle quali mostriamo sempre più spesso di non apprezzarne la vetusta “normalità”, a cui però non abbiamo faticato ad abituarci. Non deve sfuggirci che quello stesso modello che viene criticato ingiustamente conserva una fortissima carica di attrattività, tanto più per chi non ha mai potuto beneficiare delle condizioni favorevoli in cui l’Europa è stata imbevuta, con la forza, dopo anni di conflitti.  Per qualcuno quindi, sarà sempre più facile ritenere che quella ucraina sia una pia illusione e che in ogni caso la collocazione geografica prevale su quella valoriale, dimenticando che quest’ultima, a differenza della prima, può pur cambiare. Anche per Croazia e Bosnia prima e Kosovo poi, si è dibattuto in Europa su una bizzarra forma di tacita accettazione delle aggressioni militari a danni di popolazioni inermi, un tempo facenti parte della ex Iugoslavia. Madeleine Albright ha dimostrato ai teorici della legge del più forte, che questa deve essere applicata sino in fondo, e non ipocritamente confinata alle dimensioni regionali di un’aggressione militare. Un concetto oggi più che mai valido, quando strani spiriti pacifisti manifestano la contrarietà all’invio di armi all’Ucraina, un modo vigliacco e pilatesco per consegnarla ipocritamente al proprio destino di vittima.

Oggi la Slovenia e la Croazia in poco più di vent’anni sono transitati a livelli di benessere mai sperimentati durante il lungo regime titino. Entrambe sono pienamente integrate nell’Unione Europea sia da un punto di vista valoriale che economico, se l’Occidente non avesse sostenuto a livello politico la volontà di affrancarsi da un regime ingombrante sulla via del tramonto, oggi non avremmo potuto dire lo stesso. In alcuni casi però, come quello del Kosovo, solo il supporto militare ha potuto scongiurare conseguenze simili a quelle della Bosnia, dove una sterile no fly zone non impedì all’ allora Repubblica Serba, capitanata da un personaggio tristemente noto come Radovan Karadzic, di portare avanti una lunga operazione di pulizia etnica. Senza l’intervento NATO in Kosovo avremmo potuto commemorare i morti della violenza prevaricatrice, a cui solo i bombardamenti hanno posto fine.

Sino a che punto è lecito rispondere con una forza soverchiante ad una che si pone in modo altrettanto schiacciante nei confronti della sua vittima designata ? Ben inteso, non è questo il caso dell’Ucraina, che ha dimostrato di resistere contro una potenza nucleare ben più di quanto noi Occidentali avessimo pronosticato, non solo grazie alle informazioni dei satelliti spia e alle armi leggere che giustamente affluiscono alle forze di Kiev. Il popolo ucraino appare ben più motivato e convinto delle proprie scelte e l’aggressione Russa, che è invece immotivata tanto quanto lo sono i suoi giovani coscritti sbandati, è destinata al fallimento anche sul piano tattico e non più solo su quello strategico.

L’occidente, che appare assalito dai sensi di colpa di un passato non troppo lontano, si percepisce come una civiltà in declino, ignorando però che sono gli imperi sulla via del tramonto che hanno bisogno di ricorrere alla violenza per riaffermare la propria primazia valoriale sui propri vicini. Se il modello del capitalismo democratico di ispirazione americana fosse un punto di arrivo di cui vergognarsi, non si comprende come mai la sua attrattività dopo un secolo sia intonsa e il complesso valoriale sotteso alla libertà economica e civile continui a rappresentare il faro per quei paesi che rivendicano il diritto di salire sul treno del progresso e delle libertà, come li intendiamo non senza le naturali contraddizioni negli Stati Uniti e in Europa.

È chiaro che queste aspirazioni utopistiche si scontrano con difficoltà spesso insormontabili: il Kosovo ancora oggi vive una condizione ibrida di tensione etnica e politica, molti paesi dell’ex Patto di Varsavia sono democrazie tutt’altro che mature come nel caso dell’Ungheria e della Polonia, Romania e Bulgaria d’altro canto rimangono ben lontane dagli standard di vita occidentali. La distanza che spesso intercorre tra le legittime aspirazioni e la capacità di realizzare gli obiettivi spesso è incolmabile, soprattutto quando si abbraccia un sistema politico ed economico radicalmente diverso da quello passato.

Calare un modello “di importazione” in una realtà con la propria identità nazionale senza rispettarne le singolarità, sconta diversi ostacoli che l’Occidente ha sperimentano rimediando concenti delusioni in Medio Oriente o creando inutili divisioni non rimarginate come in Nord Africa, dove semmai ci fossero vincitori non sono Europei. Le difficoltà però, se razionalmente ponderate, non devono essere addotte come ragioni che ostano ai grandi cambiamenti che ciclicamente la storia ripropone, tantopiù quando non sono indotte dall’esterno.

Se la volontà di autodeterminarsi nasce dalla rinata consapevolezza di un popolo sul suo collocamento storico, è giusto sostenerla sino in fondo. Non basta quindi neutralizzare le forze attaccanti come in Kosovo o fornire armi e supporto logistico come nell’Ucraina. Chi crede realmente nei valori dell’Occidente deve essere disposto a difenderli e promuoverli anche cessate le ostilità, con la stessa convinzione che porta i sostenitori del “capitalismo autoritario” alla Cinese a decantarne l’indubbio pregio di aver sottratto alla povertà un miliardo di contadini, ignorando però che questo ha avuto come prezzo il loro assoggettamento ad un regime leviatanico, a cui piace essere temuto più per la sua presunta efficienza che per le numerose crepe che l’Occidente in crisi di autostima finge di non vedere.

La competizione tra regimi che ha contraddistinto mezzo secolo di storia è destinata a tornare in auge, se gli Stati Uniti e l’Europa non riacquisteranno la necessaria consapevolezza sul proprio passato non sarà possibile difendere ad armi pari le vere istituzioni repubblicane, in patria e all’estero. Il Kosovo e l’Ucraina a suo modo rappresentano due esempi di affrancamento etnico e politico che il tempo ha potuto in parte attutire e che derivano da una nuova consapevolezza delle proprie capacità di autodeterminarsi. Sostenere un simile processo contro l’inevitabile reazione di paesi in declino permetterà di riacquisire fiducia anche nel nostro avvenire con una rinnovata unità di intenti.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

False le accuse di Putin alla Nato

A fronte delle immagini di morte e desolazione che quotidianamente ci giungono dall’Ucraina  ( “la dove fanno  il deserto la chiamano pace ”, scriveva Tacito circa duemila anni fa……)  numerosi commentatori  continuano a sforzarsi  di accreditare la tesi secondo la quale la brutale invasione russa della limitrofa Repubblica  altro non sarebbe che una dopo tutto comprensibile risposta da parte del Cremlino alla minaccia esistenziale che avrebbe potuto costituire per la Federazione Russa un ingresso di Kiev nella NATO, nonché l’installazione a poche centinaia di km dalle proprie frontiere di missili con testata nucleare ( sviluppi ambedue dati naturalmente  per prossimi e scontati … dalla propaganda di Mosca ). Si cerca in sostanza di far passare la narrativa ( una sorta di nuovo e pervasivo “senso comune” nell’accezione gramsciana del termine) in base alla quale non vi sarebbe un Paese aggressore ( la Russia di Putin) e uno aggredito ( l’Ucraina ) quanto , piuttosto, una Russia per così dire obbligata a difendersi da un’ Ucraina in mano a “nazisti” ( costante è il richiamo di Putin alla necessità di “denazificare “ il vicino Paese ) e , di fatto, base avanzata delle mire statunitensi e della Alleanza Atlantica su quello che la Russia ( grande, si badi, circa 28 volte l’Ucraina) rappresenta in termini di territorio, risorse e patrimonio spirituale.

Senza addentrarsi in riflessioni di più ampia natura – che pur meriterebbero di essere svolte, ma non è questa la sede- sul retroterra storico e culturale della narrativa putiniana ( nonché sui suoi evidenti obiettivi propagandistici e di ricerca di consenso interno, ma le coraggiose manifestazioni di protesta contro l’”operazione speciale” in Ucraina che continuano a registrarsi  in varie città della Russia mi portano a credere  e sperare… che tale scommessa del regime potrebbe rivelarsi sbagliata) vorrei qui limitarmi a illustrare perché le asserzioni del nuovo Zar nel senso che ho sopra descritto sono ben lontane dalla realtà e , in quanto tali,   fuorvianti. La prima considerazione che mi sento di svolgere – a smentita della affermazione secondo la quale, a partire dalla fine dell’URSS, le aspettative di Mosca di essere coinvolta in un dialogo serio con l’Occidente  sull’architettura di sicurezza europea sarebbero state sistematicamente disattese da parte nostra – è quella che ha tratto a quel documento fondamentale nella storia delle relazioni tra l’Alleanza e la Russia post- sovietica  ( frutto di lunghi e dettagliati negoziati tra la Federazione Russa e la NATO e, non casualmente, quasi mai menzionato da quanti desiderano alimentare invece la percezione di una Russia scientemente  marginalizzata dai vincitori della “guerra fredda”) che è il “NATO- Russia Founding Act”. Si tratta di documento di ampio respiro e di forte valenza politica firmato, in occasione del Vertice alleato di Parigi del maggio 1997, da Eltsin e dall’allora Segretario Generale dell’Alleanza, Javier Solana . La prima sezione  del testo precisa, non a caso, i principii stessi che dovranno, da quel momento in poi, improntare il divenire delle relazioni tra la NATO e la Russia.

Tali principii ( al lettore valutare se la parte russa li stia o meno rispettando….. ) includono tra l’altro  “ l’ impegno  a conformare la propria condotta alle norme del diritto internazionale come riflesse nella Carta delle Nazioni Unite e nei Documenti dell’OSCE “ così come altri ,più espliciti, quali quelli del “ rispetto della sovranità degli Stati e della loro indipendenza, oltre che del diritto di questi ultimi a scegliere le modalità più idonee a garantire la propria sicurezza”. A ciò si aggiunge l’impegno delle Parti “ a rafforzare l’OSCE al fine di creare uno spazio comune di sicurezza e stabilità in Europa”.

La mia seconda riflessione – a smentita della tesi sostenuta da Putin secondo la quale non esisterebbe e non sarebbero mai esistiti un’identità  e, tanto meno, un popolo ucraino distinto da quello russo – riguarda ( ma è solo uno tra i tanti Documenti internazionali di analoga valenza che si potrebbero citare)  il “Memorandum di Budapest “ del 5 dicembre 1994. L’accordo cioè con il quale Mosca –  in cambio della cessione alla Federazione Russa da parte di Kiev, ai fini del successivo smantellamento, dell’imponente arsenale nucleare ereditato dall’Unione Sovietica, e dell’adesione ucraina al Trattato di non-proliferazione (TNP) come poi puntualmente avvenuto – si impegna insieme con Stati Uniti e Regno Unito ( Stati ai quali si sono poi aggiunti , sempre come “potenze garanti”, Francia e Cina) : a) a “ rispettare l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina ; b)    “ astenersi da qualsiasi minaccia o uso della forza contro l’Ucraina”, c) “ astenersi dall’esercitare pressione economica sull’ Ucraina per influenzarne la politica”.  Inoltre – e vengo, come terzo punto,  alla “minaccia esistenziale” che rappresenterebbe per la Russia, sempre secondo Putin e quelle alte sfere militari , un ingresso dell’Ucraina nella NATO ( questione peraltro  che , a parte le generiche aperture di cui alle Conclusioni del Vertice di Bucarest dell’ormai lontano 2008, non è mai stata veramente sul tavolo del Consiglio Atlantico ) –  mi sembra doveroso  ricordare che la  NATO è sorta  come alleanza squisitamente difensiva e , come tale, si è comportata in ogni occasione nel corso della sua ormai più che settantennale storia.  Negli ultimi 30 anni poi l’Alleanza ha sempre cercato un dialogo costruttivo con Mosca.

Nel 2002, con lo storico vertice di Pratica di Mare , è stato ad esempio avviato un nuovo organismo di dialogo a tutto campo con Mosca : il Consiglio NATO- Russia che conferiva al  rappresentante russo, seduto allo stesso Tavolo degli Ambasciatori dei Paesi NATO ,  un livello paritetico con quello dei membri dell’Alleanza nella discussione dei più rilevanti temi securitari e geo-politici di interesse comune . Aggiungo che la collaborazione NATO- Russia è proseguita anche durante i più recenti periodi di allargamento verso est dell’Alleanza , senza particolari recriminazioni da parte russa. L’Alleanza ha correttamente ritenuto di dover sospendere tale interazione pratica con la Federazione Russa solo nel 2014, in risposta all’illegale annessione da parte di quel Paese della Crimea. Ma le riunioni, sempre su iniziativa della NATO, sono riprese a Bruxelles  nel 2016, proseguendo nei tre anni successivi e sino a poche settimane fa. L’ultima ha avuto luogo il 12 gennaio del corrente anno. E’ stato del resto solo in risposta alle azioni militari russe in Crimea e nel Donbass che, dal 2016, la NATO ha dispiegato in Polonia e nei tre Paesi baltici  – su richiesta, dunque,  di Alleati che comprensibilmente si sentivano  minacciati- 4 Batllegroup multi- nazionali (  su base peraltro non permanente ma- come convenuto nel “ Founding Act” –  di periodiche rotazioni ), mentre sino ad allora non vi erano  unità della NATO schierate sul confine orientale dell’Alleanza. Inoltre , anche dopo la crisi del 2014, la NATO ha sempre tenuto ad affiancare alle misure di difesa e deterrenza un’apertura al dialogo con Mosca , anche al di fuori del Consiglio NATO- Russia, come rilevabile del resto dalle Conclusioni dei più recenti vertici dell’Alleanza : dal 2016 ( Vertice di Varsavia ) a oggi. Il Segretario Generale Stoltenberg  ha invitato anche recentemente le controparti russe – ovviamente prima del brutale attacco all’Ucraina – a una seria  di incontri sulla sicurezza europea anche per discutere , in buona fede, delle preoccupazioni di Mosca in materia. Mi sembra dunque evidente che mentre l’Alleanza si confrontava in buona fede con Mosca , quella dirigenza già stava pianificando un’ingiustificata e ingiustificabile invasione dell’Ucraina. E’ dunque la Russia , e non la NATO, a essersi rivelata non interessata a un dialogo serio con l’Alleanza.

Da ultimo, a conferma della linearità del comportamento dell’Alleanza nei confronti di Mosca, va rilevato che il rispetto degli impegni dalla stessa assunti  ha riguardato anche la questione del dispiegamento di armi nucleari sul territorio dei nuovi membri. In sostanza – a smentita  questa volta delle ricorrenti  affermazioni di Putin circa i gravi pericoli che un ulteriore allargamento della NATO farebbe gravare sul suo Paese sotto tale profilo –  nessuno può contestare che gli Alleati hanno dato, e stanno continuando a dare piena attuazione , al relativo passaggio del “Founding Act” : “ Gli Alleati ribadiscono il loro statement del 10 dicembre 1996  in base al quale essi non hanno intenzione né vedono ragione di di dispiegare armi nucleari sul territorio dei nuovi Stati membri , né di modificare la postura o la politica nucleare dell’ Alleanza”. Tutto questo – merita sottolineare –   a fronte della presenza, invece, di missili “dual use….”  a medio e corto raggio nella exclave russa di Kaliningrad : nel cuore cioè del dispositivo NATO in Europa , a ridosso della Polonia e degli stati baltici . Paesi piccoli per dimensione, ma grandi per il coraggio  mostrato nel corso della loro travagliata storia e per il loro senso di identità, nei confronti dei quali Putin sta inviando segnali decisamente inquietanti :  a cominciare dall’esplicito sostegno da lui fornito lo scorso 4 marzo all’aspirazione “ dell’amica Bielorussia” di disporre di un accesso al Mar Baltico.

In conclusione  – e per riprendere la felice formulazione di un recente editoriale sul Corriere  della Sera del Professor Galli della Loggia –  “ La storia della NATO ( NdR: quale fattore alla base dell’aggressione russa all’Ucraina ) è un puro pretesto . L’Ucraina attuale va spenta perché da il cattivo esempio, perché Putin deve dimostrare alla sua opinione pubblica che l’unico destino possibile per la Russia è quello che lui incarna . Che dopo il comunismo la storia della Russia non prevede che possa esserci la libertà”.  Sono parole nelle quali pienamente mi riconosco pur senza rinunziare a sperare che possa trattarsi di previsione destinata a essere smentita dai fatti. Perché ciò avvenga è però indispensabile che la solidità del “vincolo transatlantico” emerso con tanta evidenza sin dai primi giorni della drammatica crisi in atto ai confini orientali del perimetro dell’Alleanza  si mantenga e , se possibile, ancor più si rafforzi a fronte della  sfida lanciata da parte russa non solo alla coraggiosa e libera Ucraina  ma anche all’insieme dei valori intorno ai quali si è costruita, nei secoli, l’identità del nostro continente cosi come quella dei nostri imprescindibili alleati d’oltre-oceano: Canada e Stati Uniti.

*Gabriele Checchia, ambasciatore, responsabile per le  Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

La guerra in Ucraina e la reazione di UE e NATO

Farefuturo, International Republican Institute e Comitato Atlantico Italiano, hanno organizzato un importante convegno il 14 e 15 marzo u.s. su “La crisi ucraina: il ruolo
dell’Alleanza Atlantica e dell’Europa”.Nell’intervenire a nome del Comitato Globale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella, ho svolto alcune considerazioni che ho ulteriormente sviluppato in questo breve articolo per Charta Minuta.

L’imminente tragedia che un potere criminale di matrice nazi-comunista ha scatenato sull’Europa, colpendo l’eroica nazione Ucraina, il suo popolo, la sua identità pluralista e democratica, libera e solidale, deve essere riconosciuta, sentita da ogni europeo: non con giravolte facili e assicurazioni stucchevoli, ma deve essere dimostrata – tale consapevolezza – nei fatti, nei comportamenti, nel riconoscimento delle responsabilità. Anche per discutere di ricostruzione della pace e della sicurezza nel Mediterraneo, specialmente nel Mediterraneo Orientale, dobbiamo riconoscere – prima di avanzare proposte o sottoscrivere impegni – le responsabilità che hanno contribuito a scatenare la bestialità sanguinaria dei carnefici, e a impedire alle vittime di proteggersi e di essere protette.

Dobbiamo riconoscere le responsabilità; e queste sono di tutto l’Occidente: per non aver fermato Putin, con la politica di una vera deterrenza militare, economica, di influenza sino dal primo manifestarsi delle sue ossessioni sanguinarie nella Seconda guerra in Cecenia; e di non averlo mai voluto fare in seguito, nelle tappe di un crescendo sistematico da parte della Russia di Putin di “terra bruciata” in Georgia nel 2008, in Siria nel 2013, in Ucraina (Donbass e Crimea) nel 2014, ed ora nella completa distruzione di un immenso paese, ricchissimo di civiltà di umanità e di risorse.

Siamo, noi europei ed americani, responsabili come e forse più che nel ’38 a Monaco – e dico “che a Monaco” perché ora incombe persino la minaccia di un Olocausto nucleare che Putin brandisce – di una radicata propensione all’”appeasement” a tutti i costi, motivato dagli affari,dalla convenienza, dalla corruzione o semplicemente dalla colpevole ignoranza su quanto avvenuto sugli ultimi vent’anni tra Nato, UE, Russia e Cina.

Ma non basta certo nascondersi dietro a un gesto facile di generico senso di autocommiserazione tipica dell’”intellettualismo” anti-Atlantico purtroppo diffuso in Occidente, per non aver fatto capire come non sia assolutamente vero e si debba cessare di insistere che tutti i mali del mondo, le rivoluzioni totalitarie, gli spaventosi conflitti degli
ultimi due Secoli sono monopolio esclusivo delle Democrazie liberali dell’Occidente, ma piuttosto il netto contrario.

Discutere di pace e stabilità nel Mediterraneo significa ragionare su strategie politiche, economiche e militari, per ottenere equilibri durevoli ricostruendo capacità di una deterrenza credibile dell’Occidente – nel rispetto di norme e principi condivisi – nei confronti della Russia e della Cina, e di altre potenze regionali che sono peraltro sostenute da una visione fondamentalista e messianica nel loro ruolo, come l’Iran.
Occorre liberarsi da pregiudizi, basarsi sulla conoscenza di dati e di uomini, in modo da individuare e condividere i sacrifici da fare e le opportunità per far valere i nostri interessi nazionali. La catastrofe umanitaria, e persino identitaria – e quindi una strategia di genocidio – che il nazi-comunismo di cui è intrisa l’esperienza umana, professionale e ideologica di Putin ha imposto all’Ucraina, esige anzitutto di riconoscere che il prioritario interesse nazionale dell’Italia è di garantire la libertà e la sicurezza in Europa, nella Comunità Atlantica, nell’Indo-Pacifico. A tal fine l’obiettivo politico da perseguire riguarda l’impegno che va oltre la stessa deterrenza militare e si deve trasformare in “deterrenza politica”: attraverso il più fermo contrasto e la coesa risposta all’immenso apparato di disinformazione, di censura esportata, di pesantissima influenza che Putin ha infiltrato ovunque in Occidente, e che continua a infiltrare per incrinare la nostra volontà di risposta. Si tratta di far reagire non pochi settori dell’opinione pubblica, dell’informazione e della politica, che la Russia ha da molto tempo “coltivato” per trovare alleati all’interno delle società liberali. E lo ha fatto per
proseguire impunemente e continuare a trovare risorse – essendo la Russia un gigante militare ma un nano economico sulla soglia del fallimento – per raggiungere i suoi obiettivi criminali,e ora persino genocidari di eliminazione del popolo e dell’identità ucraina.

Nel 2013 l’attuale Capo di Stato Maggiore della Federazione Russa, lanciava la cosiddetta “dottrina Gerasimov” che sosteneva la priorità da riservare ai conflitti con l’Occidente ancor più che allo strumento militare, alla disinformazione, alla propaganda, alla infiltrazione degli strati influenti delle società liberali, per destabilizzarle dall’interno e poterle quindi agevolmente sottomettere. L’anno dopo, nel 2014, la disinformazione di Mosca in Occidentee in Ucraina, su Crimea e Donbass è stata centrale nell’offensiva russa che ha portato all’annessione della prima e a un conflitto con almeno diecimila vittime e già durato otto anni
in Donbass. Non ci vorrebbe certo altro per dimostrare che il primo strumento di difesa di cui disponiamo deve essere inflessibile e dura denuncia di tutti coloro che Putin l’hanno da sempre sostenuto e di quanti ora sostengono di fatto, esplicitamente o implicitamente, il “Patto d’Acciaio del XXI Secolo” tra Mosca e Pechino. La denuncia non può ignorare tutti quelli che avendo giustificato e propagandato velenosamente le sue buone ragioni di Putin persino dopo che i 180.000 militari russi erano già al confine ucraino per invadere il Paese, appaiono disposti, o interessati, a continuare a farlo, continuando ad applicare la “dottrina Gerasimov” per minare
le società liberali dall’interno. Persone, enti di ricerca, media, ambienti di “intellettuali” che magari ora restano zitti o fingono di essersi improvvisamente svegliati dinanzi al genocidio ucraino, ma che sono sempre pronti e disponibili – come numerosi tedeschi nella Germania Orientale che collaboravano con la Stasi – a ridare fiato ai loro megafoni appena i primi segni di stanchezza o di insofferenza verso il perdurare del conflitto, dovesse acuirsi in seno alla Nato e all’UE.

A tale mondo appartengono purtroppo enti di ricerca che, come durante la Guerra Fredda sceglievano il campo sovietico sotto la bandiera del “pacifismo” e del “neutralismo”, hanno continuato a tirare la volata alla propaganda del Cremlino quando già da almeno quattro mesi era dimostrato un gigantesco schieramento di forze russe sui confini ucraini. E’ il caso emerso, ad esempio, con la pubblicazione il 27 gennaio scorso su Charta Minuta dell’appello indirizzato ai Presidenti delle Istituzioni europee, dal think tank francese Geopragma con le tesi ben note della propaganda di Putin, circa le condizioni di una “pacificazione duratura”
nei rapporti tra USA, Nato e Russia. In particolare, si insisteva per il pieno riconoscimento del referendum in Crimea (anche se condannato dall’Onu) e quindi della appartenenza della Crimea allo Stato russo; il “reciproco abbandono di tutte le sanzioni politiche ed economiche” – incluse quelle per l’illegale annessione russa della Crimea, e per il conflitto in Donbass alimentato da Mosca – spingendosi a commentare, come tipico della propaganda russa “L’Occidente si riduce agli Stati Uniti, a un’Europa mentalmente e strategicamente vassalla, a una visione del mondo che da più di 30 anni stenta a metabolizzare le fine della Guerra Fredda”. Come ha scritto il 12 marzo scorso Atlantico ha sottolineato come il pensiero «…“meglio russi che morti” sia il succo del discorso di gran parte dei commentatori in queste settimane
di guerra Ucraina. Man mano che la guerra si prolunga, l’appello per la resa incondizionata degli ucraini si fa più forte e sentito, condito con discorsi terroristici su possibili escalation e guerre nucleari. Per alcuni il problema di questo conflitto è solo uno e si chiama: Zelensky, il Presidente ucraino il cui Paese è stato aggredito. La sua colpa? Resistere ai russi. Più resiste, dicono costoro, più sarà il responsabile delle vittime militari e civili del conflitto. Un pacifismo peloso, mascherato da umanitarismo, ma con la stessa logica dei Borg, razza aliena inventata dagli sceneggiatori di Star Trek: “Assimilatevi, la resistenza è inutile”. Questo pacifismo lo avevamo già visto in azione durante la Guerra Fredda, quando la sinistra di piazza e di opposizione chiedeva il disarmo unilaterale della Nato. Se i sovietici avessero invaso la Germania Ovest, avremmo dovuto accoglierli con i sorrisi e i fiori, se avessimo invece opposto resistenza sovietici avrebbe potuto innervosirsi. E sai, se una potenza nucleare si innervosisce…. La logica è esattamente la stessa: se i russi invadono l’Ucraina, i difensori devono accoglierli con tutti gli onori e guai agli europei se provano a protestare. La Nato non sta intervenendo, l’UE è neutrale, ci limitiamo a mandare armi leggere ed anche la fornitura di vecchi caccia sovietici dalla Polonia viene negata. Al massimo la risposta consiste in sanzioni economiche e una protesta politica all’Onu. Ma per alcuni commentatori, questa reazione pressoché nulla è già da considerarsi un atto di belligeranza. A loro avviso,
dovremmo solo voltarci dall’altra parte. E sorridere. Perché se non sorridiamo, i russi si innervosiscono.

E sai, se i russi si innervosiscono… hai capito, no?”…»

L’aggressione criminale della Russia a un grande popolo libero, che aveva riacquistato la libertà, nel cuore dell’Europa, è un drammatico spartiacque, come era stata la fine della Seconda Guerra Mondiale e la calata della “cortina di ferro”. Ora la cortina non è solo tra libertà e oppressione: è anche tra Diritto, legalità, rispetto dei Diritti umani e Stato di Diritto da un lato; e aggressione, genocidario uso della forza, radicalizzazione ideologica e disprezzo per ogni Trattato o Accordo sottoscritto.

Con l’Ucraina è calata una “cortina di aggressione”, contro l’Europa, nel Mediterraneo in Medio Oriente, sino all’Asia e al Pacifico. La Russia di Putin ne è la protagonista da
quattordici anni. La Cina di Xi Jinping, sua alleata, da dieci anni. Ma ora l’Occidente c’è; è coeso; sta rispondendo. La coesione e risposta devono rafforzarsi.
Spetta a noi. Nato, UE, Indo-Pacifico, Mediterraneo sono le aree geopolitiche dove l’Occidente e i paesi like mindend devono rafforzare la loro strategia, difendere puntualmente i loro interessi nazionali e collettivi, e soprattutto – rendere inoppugnabilmente credibile, e temibile la loro deterrenza: per capacità di “resilience” e di “risposta” economica, tecnologica, militare. In una parola deve accrescersi e mantenersi a livelli sempre più elevati la deterrenza complessiva dei loro sistemi nazionali e delle loro organizzazioni e Alleanze. Per l’Italia, questo significa alimentare la piena consapevolezza dell’opinione pubblica interna e della classe politica, su provenienza, natura, intensità della minaccia: dalla Russia, dalla Cina, e dai loro alleati altrettanto messianici e fondamentalisti come l’Iran.
Il Mediterraneo è il playfield fondamentale per la sicurezza italiana e un playfield essenziale per quella Atlantica. La deterrenza nel Mediterraneo ha acquisito un valore esponenzialmente accresciuto dopo la tragedia Ucraina: la Russia a Tartus e le sue altre basi in Siria; la Cina da Gibuti al Pireo, a Trieste; la Turchia e la Russia in Libia sino al Sahel; l’Alleanza di Russia e Cina con l’Iran anti-israeliano e antisemita; la Turchia a Cipro, in fase di nuova aggressione. Sono tutti termini scomponibili e ricomponibili in pericolose equazioni. Sovrasta su tutto la distruzione del popolo, dello Stato, della identità ucraina da parte di un Presidente criminale, Putin. Sovrastano le minacce sulla nostra sicurezza che sono poste dalle Vie della Seta: veri cavalli di Troia acclamati in Italia perfino da ex Presidenti del Consiglio e Ministri di Governo; ed ora diventate vere e proprie autostrade per il dominio strategico da parte dell’Asse neo-imperialista tra Cina e Russia.

Non vi è infatti una sola “Via della Seta”, terrestre, marittima, scientifica, tecnologica e Cyber che non rappresenti nella sua reale declinazione una “Via della Sottomissione” per i Paesi o i mari da essa attraversati.

Il “Patto di Acciaio del XXI Secolo” tra Putin e Xi, santificato il 4 febbraio scorso, sugella la minaccia militare, oltre che di influenza politica ed economica, delle già osannate “Vie della Seta” che il Governo italiano dell’epoca ha, per primo in Europa, sottoscritto entusiasticamente in occasione della visita di Stato di Xi Jinping a Roma.

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore,  presidente Global Committee for the Rule of Law-Marco Pannella presidente Global Committee for the Rule of Law-Marco Pannella

 

La sicurezza della Repubblica per fronteggiare la “guerra ibrida”

Pubblichiamo il testo dell’intervento in Aula del 15 marzo del senatore Adolfo Urso in occasione del dibattito sulla relazione annuale del Copasir

Signor Presidente, cari colleghi, intervengo per la seconda volta in quest’Aula da quando sono stato eletto Presidente del Copasir nel giugno dell’anno scorso. L’ho fatto solo durante le comunicazioni del Governo sulla guerra in Ucraina, per dar conto proprio degli allarmi che il Comitato aveva espresso nelle sue relazioni sulla postura aggressiva della Russia in Ucraina e, più in generale, in Europa e nel Mediterraneo allargato, nei Balcani, in Libia e nel Sahel, in Africa; una minaccia accresciuta nel tempo, tesa ad accerchiare l’Europa, anche attraverso il controllo dell’energia e delle materie prime, pronta a utilizzare ogni mezzo in una moderna, terribile e pervasiva guerra ibrida.

Avevamo evidenziato il dispiegamento militare russo intorno all’Ucraina, così come le conseguenze del referendum costituzionale in Bielorussia, che avrebbe cancellato la neutralità di quel Paese, permettendo, quindi, alle truppe russe di agire, anche con dispositivo nucleare, dalla Bielorussia.

Avevamo evidenziato nel tempo, anche nelle precedenti relazioni, l’azione di spionaggio e di reclutamento russo nel nostro Paese; la pervasività della penetrazione russa in Europa, tesa a condizionare le istituzioni democratiche; l’azione aggressiva realizzata nei nuovi domini bellici, nello spazio e nel cyber e l’uso sistematico dei mercenari della Wagner, non soltanto in Africa.

Avevamo scritto, tra l’altro, e cito testualmente: «(…) un’escalation militare in Ucraina potrebbe comportare un ulteriore peggioramento della situazione, che risulterebbe rovinosa anche e soprattutto per l’Italia, che deve a Mosca oltre il 40 per cento delle importazioni» di gas. L’avevamo scritto.

Peraltro, proprio sulla sicurezza energetica il Copasir ha realizzato una specifica relazione al Parlamento il 13 gennaio di quest’anno, al termine di oltre sei mesi di indagine conoscitiva. In quella relazione abbiamo evidenziato la necessità di affrancarci dalla dipendenza estera, tanto più da Paesi come la Russia, che utilizzano l’energia quale fattore di potenza.

In quella relazione indicavamo alcune soluzioni, che sono poi quelle che ora il Governo si appresta a varare incalzato dall’emergenza. Già allora parlavamo della necessità di raddoppiare la produzione nazionale di gas, di diversificare le fonti, di utilizzare il potere sostitutivo dello Stato per gli impianti solari ed eolici che erano bloccati. Già allora parlavamo del nucleare di quarta generazione e dell’ipotesi di fusione nucleare, che il presidente Draghi ha citato pochi giorni fa alla Camera dei deputati. Erano tutte indicazioni già contenute nella nostra relazione sulla sicurezza energetica.

Così come, nella conclusione della relazione, abbiamo indicato con chiarezza l’assoluta necessità di realizzare un piano nazionale di sicurezza energetica al fine di raggiungere un’autonomia strategica, tecnologica e produttiva nel quadro europeo occidentale, di cui finalmente si parla a fronte dell’emergenza.

Cari colleghi, oggi finalmente discutiamo in modo compiuto di sicurezza nazionale sulla base della relazione annuale del Copasir del 9 febbraio. È una novità importante. Onorevoli colleghi – come abbiamo detto nell’incipit della relazione – in passato non è mai accaduto che una relazione annuale del Copasir o una relazione annuale della Presidenza del Consiglio fossero esaminate in Assemblea. La legge n. 124 del 2007, di quindici anni fa, prevede queste due relazioni che non sono state mai esaminate in Parlamento, né in Assemblea, né in Commissione. Per tale ragione, a nome del Comitato, ringrazio la Presidenza e i Gruppi parlamentari di averne condiviso la necessità – come spero accada ogni anno – con una specifica sessione parlamentare. Era questo ciò che chiedevamo nella premessa della nostra relazione annuale; una sessione parlamentare come quella che si svolge ogni anno sulla giustizia, con conseguenze poi legislative.

In questi anni in Assemblea si è svolto soltanto un dibattito su un argomento di competenza del Copasir, nel 2009, con l’allora presidente Rutelli. Si trattava del caso delle intercettazioni su cui peraltro – guarda caso – tanti anni dopo, il 21 ottobre dello scorso anno, siamo stati costretti a fare noi stessi una relazione al Parlamento. Nella nostra relazione sul sistema di intercettazioni abbiamo denunciato come perduri una situazione di assoluta discrezionalità sulle modalità e i criteri con cui vengono affidati i mandati a eseguire le intercettazioni giudiziarie anche in merito alla conservazione o alla distruzione delle stesse.

Ricordo a tutti che siamo sotto procedura di infrazione europea, perché le procure non intendono attuare quanto previsto in una precisa direttiva europea e quanto stabilito dalla legge italiana. Aspettiamo che il Ministro della giustizia mantenga quel che si era impegnato a fare nel corso dell’audizione.

In altri casi, invece, alle nostre relazioni sono seguite azioni concrete. Mi riferisco – per esempio – alla sicurezza cibernetica, che è stata oggetto della nostra prima relazione al Parlamento a inizio legislatura. Essa ha portato all’estensione del golden power al settore delle telecomunicazioni, alla realizzazione del perimetro nazionale sulla sicurezza cibernetica, alla nascita, seppure solo nel giugno scorso, con oltre dieci anni di ritardo, dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Non è stato dato seguito, invece, alla nostra richiesta di allora volta a individuare una fattispecie di reato che consentisse di perseguire gli autori degli attacchi in modo adeguato e di predisporre una difesa attiva; cosa di cui ovviamente si parlerà nei prossimi giorni.

In questa relazione evidenziamo a tal proposito anche la necessità di realizzare al più presto il cloud nazionale della pubblica amministrazione, la rete unica a controllo pubblico, una politica strategica per la connessione marittima, l’autonomia tecnologica e produttiva europea nell’economia digitale.

Purtroppo – cari colleghi – non vi è stata sufficiente attenzione nemmeno quando notavamo che la Russia è lo Stato più attrezzato nella guerra cibernetica e oggi dobbiamo pensare a come eliminare le criticità che possono emergere dal fatto che software antivirus russi siano utilizzati come cavalli di Troia. In queste ore il Governo – ovviamente anche dietro nostra sollecitazione – prenderà altre necessarie misure di cui siamo stati correttamente informati – come sempre accade – in un confronto pieno e leale tra gli organi istituzionali. Lo stesso vale – anzi di più – per la tecnologia cinese, di gran lunga più pervasiva, come abbiamo ampiamente dimostrato tre anni fa e ribadito in questa relazione, chiedendo, purtroppo senza successo, di inibire l’uso della tecnologia cinese nel sistema delle telecomunicazioni.

Altre indicazioni del Comitato sono state recepite e ne diamo conto in questa relazione, per esempio con l’estensione del golden power al settore finanziario e bancario e ad altri importanti asset strategici del Paese, anche alla filiera sanitaria; o con la norma penale che punisce la detenzione di materiale a fini terroristici. Penso altresì all’indicazione contenuta nella nostra relazione su come contrastare la radicalizzazione islamica e le nuove forme di terrorismo jihadista, che abbiamo presentato a seguito della caduta di Kabul nel regime talebano. Questa indicazione è stata di recente recepita dalla Commissione affari costituzionali della Camera e, quindi, abbiamo fatto un passo in avanti.

Sicuramente vi è molto altro da fare. Nella nostra relazione annuale abbiamo evidenziato quali siano alcuni asset strategici del Paese di cui ci siamo occupati nella nostra attività annuale: dalla ricerca all’università, alla tutela dei brevetti della tecnologia, dall’economia digitale alle infrastrutture portuali, dalla filiera siderurgica a quella automobilistica, dai semiconduttori alle batterie, dall’idrogeno al riciclo dei minerali preziosi, dalla nuova competizione duale sullo spazio all’industria della difesa. Sullo spazio come fattore geopolitico – oggi si parla di guerra interspaziale – e sulla difesa europea stiamo per concludere, dopo mesi di indagini, due apposite relazioni che vi presenteremo nei prossimi giorni; indagini che non a caso abbiamo attivato dopo la sciagurata ritirata dall’Afghanistan.

Nella relazione annuale, però, vi abbiamo già anticipato alcune osservazioni sulla difesa europea. Nello specifico, vi abbiamo anticipato come già a noi appariva insufficiente, ben prima dell’invasione russa in Ucraina, una previsione di appena 5.000 militari come forza rapida europea, a fronte del fatto che solo l’Italia impiega 9.200 militari in missioni internazionali. Anche in questa relazione vi abbiamo anticipato come ci sono apparse del tutto inadeguate le risorse previste nel quadro finanziario pluriennale dell’Unione europea; risorse che sono state dimezzate rispetto a quanto prevedeva il precedente bilancio. Ora ovviamente tutto cambierà sotto l’incalzare della guerra – come ha fatto la Germania – e, se lo ha fatto la Germania, capite che dobbiamo farlo anche noi.

Chiediamoci però se la minaccia russa non sia anche frutto della distrazione europea, del nostro non voler vedere quello che accadeva. Non possiamo più permettercelo. Anche per questo un ampio capitolo della relazione riguarda l’intelligence economica, tanto più importante a fronte della guerra ibrida che è in corso da anni, non da oggi, e di cui il principale terreno di contesa è proprio il nostro Mediterraneo allargato. Si tratta di una guerra ibrida in cui sistemi autoritari (Cina e Russia in testa, ma non solo) aspirano alla supremazia tecnologica ed economica anche attraverso il controllo delle risorse energetiche e alimentari del pianeta, dal gas all’acqua, di materie prime, minerali preziosi e terre rare, di tutto ciò che serve all’economia digitale ed ecologica – lo dobbiamo assolutamente realizzare – che però sta cadendo sotto il loro controllo.

Chi non ha notato (noi lo abbiamo notato) che negli ultimi mesi si sono svolti sei golpe militari, di cui cinque riusciti, in quattro Paesi del Sahel, in due dei quali ovviamente hanno chiamato i mercenari della Wagner?

Intelligence economica e intelligence cibernetica si legano l’una all’altra. Per sottoporlo alla vostra attenzione, abbiamo condotto un confronto con alcune democrazie occidentali, con le nostre democrazie occidentali, Stati Uniti, Francia, Giappone, Svezia, che da tempo hanno sviluppato una intelligence economica, per capire cosa si possa fare, di più e meglio, nei Paesi democratici, a tutela della nostra tecnologia e delle nostre imprese, della nostra scienza e creatività, della nostra società e, quindi, delle nostre libertà.

Qualcosa è stato fatto a normativa vigente, su nostra richiesta pienamente condivisa dal Governo, e ne diamo atto anche al sottosegretario Gabrielli, come abbiamo fatto nella nostra relazione. Ma è necessario fare ancora di più, con apposite modifiche legislative, perché quanto è stato fatto finora è a legislazione vigente. Cambiare la legge è compito del Parlamento.

In questo contesto, abbiamo evidenziato come lo strumento del golden power sia utile, necessario, ma non sufficiente. Serve anche una politica industriale che punti a preservare e, se possibile, rafforzare gli asset strategici del Paese. Lo stesso strumento del golden power, notevolmente rafforzato in questi anni, è ancora poco usato. Guardate le relazioni al Parlamento sul golden power. Lo diciamo perché, talvolta, il Parlamento è distratto. Lo stesso strumento del golden power, notevolmente rafforzato in questi anni proprio su impulso del Comitato, va ulteriormente adeguato alle evidenze emerse nella sua applicazione. Il caso di Alpi Aviation, una piccola impresa ad alto contenuto tecnologico, che abbiamo esaminato e di cui vi diamo conto nella nostra relazione, sulla quale il Governo è recentemente intervenuto, bloccando la vendita a una società cinese statale, ci ha determinato nel chiedere che lo strumento del golden power contempli anche un’azione preventiva di monitoraggio, a tutela proprio delle piccole e medie imprese ad alto contenuto tecnologico, come accade in altri Paesi, come ad esempio gli Stati Uniti. Questo è nella nostra relazione.

La nostra relazione ha sempre un preciso metodo di lavoro empirico: parte da un caso specifico, come quello sopracitato e dà conto delle nostre sollecitazioni al Governo ad agire nei limiti della legislazione vigente. Ciò avviene nel corso di audizioni (guardate il numero di audizioni fatte lo scorso anno, soprattutto nella seconda parte dell’anno) oppure attraverso note informative specifiche alle autorità competenti (leggete le note informative specifiche che abbiamo inviato e a chi le abbiamo inviate). Infine, attraverso le relazioni al Parlamento, sollecitiamo il legislatore a intervenire.

Ad esempio, nel campo del controllo sull’operato del comparto, cioè dell’Intelligence, sul quale c’è un intero capitolo e che è compito precipuo del Comitato, abbiamo riscontrato il caso Marco Polo Council. La nostra attività in proposito ha consentito all’autorità del comparto di predisporre un primo provvedimento sulla incompatibilità dei vertici dell’Intelligence dopo la cessazione del servizio. Provvedimento pubblicato in via straordinaria nella Gazzetta Ufficiale, affinché terzi ne fossero a conoscenza.

Ora occorre migliorare l’impianto legislativo, il che è compito del Parlamento. Così come, verosimilmente, mi auguro facciano anche altri organi dello Stato per quanto di loro competenza.

Nella parte conclusiva della relazione forniamo pertanto alcune indicazioni su ciò che riteniamo necessario modificare nella legge 124. Una legge ottima, ma approvata nel 2007, quindici anni fa, quando la guerra ibrida non era nemmeno immaginabile, quando la Russia sostanzialmente era ancora nello spirito di Pratica di Mare.

Nella relazione diciamo che è necessario fare già da subito una cosiddetta manutenzione ordinaria, ma assolutamente necessaria, e vi elenchiamo anche i punti in cui occorre intervenire.

Nel contempo, però, abbiamo evidenziato come la normativa abbia bisogno di una revisione più significativa anche per quanto riguarda l’architettura e le competenze delle agenzie di intelligence. Per tale motivo, abbiamo preannunciato che, nella prossima e conclusiva relazione di fine legislatura, al termine di ulteriori approfondimenti, forniremo le nostre relative informazioni in un confronto preventivo al Copasir con il Governo. Tra l’altro, abbiamo affrontato una tematica, emersa sia in questa legislatura che nella precedente, relativa alla composizione del Comitato nel momento in cui muta la collocazione parlamentare maggioranza-opposizione.

Nella precedente legislatura si era supplito con una leggina transitoria, incrementando il numero dei parlamentari componenti il Comitato: ce lo siamo dimenticato? Ebbene, noi non lo abbiamo dimenticato; ragion per cui abbiamo proposto in questa relazione una soluzione normativa che consenta ai Presidenti delle Camere di intervenire quando cambia la ripartizione maggioranza-opposizione per regolare l’attività del Comitato che di fatto, nei primi sei mesi dello scorso anno – si veda il numero di audizioni e di interventi – si era praticamente ridotto a un numero esiguo, quasi paralizzandosi rispetto a quello che abbiamo fatto nella seconda parte dell’anno. Non si può paralizzare l’attività del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica; non lo si può fare, ovviamente, tantomeno oggi.

Cari colleghi, leggendo il combinato disposto della relazione annuale e della relazione sulla sicurezza energetica, qualcuno ha scritto che il Copasir aveva previsto quel che sarebbe accaduto – alcuni giornalisti si sono sbizzarriti su questo – con l’aggressione militare in Ucraina. Qualcosa di significativo avevamo detto nei modi in cui potevamo dirlo, ovviamente, sulla base delle audizioni segretate che avevamo tenuto e, quindi, delle informazioni che noi stessi ricevevamo, perché la nostra fonte di informazione sono le audizioni: l’Intelligence, il Governo, le autorità che convochiamo, non altro, a scanso di equivoci.

Ora occorre reagire, consapevoli che siamo a un punto di svolta nella storia, a un passaggio epocale. Il mondo che sognavamo non c’è più e forse non c’era nemmeno ieri; vi è un prima e un dopo, e non serve a nulla recriminare o rinfacciare, o peggio ancora mettere in difficoltà l’avversario o l’alleato per quello che aveva dichiarato in altri tempi, in un’altra epoca storica, quando aveva altre informazioni. Questo è un gioco al massacro che non serve al Paese.

È il momento dell’unità e della responsabilità, come si sono realizzate (unità e responsabilità) nella risoluzione che definisce quale debba essere la posizione dell’Italia sulla guerra in Ucraina: una guerra che ci riguarda, perché è una parte della guerra ibrida che, con mezzi anche diversi, ma altrettanto devastanti, i sistemi autoritari hanno sviluppato nei confronti delle democrazie occidentali per sottometterci e, se volete, anche in qualche misura per toglierci le nostre libertà.

È un problema che riguarda anche l’Occidente. Vi pongo un esempio che deve essere chiaro a tutti, perché la tecnologia si sviluppa, e oggi la tecnologia consente agli algoritmi – attraverso il riconoscimento facciale e solo attraverso quello – di capire quali siano le opinioni politiche del cittadino che viene sottoposto al riconoscimento facciale, senza altre informazioni. Capite bene cosa ciò significhi rispetto a Paesi in cui è prevalente il controllo sociale del dissenso e in Paesi come il nostro in cui è fondamentale la privacy e le libertà degli individui, delle comunità e delle Nazioni.

Per questo mi auguro che la stessa unità e la medesima responsabilità si realizzino ogni qualvolta affrontiamo le tematiche della sicurezza della Repubblica, che non è soltanto il controllo sull’Intelligence; lo dico a scanso di equivoci.

Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, già nella sua denominazione, che il Parlamento ha scelto nel 2007, a differenza del Copaco precedente, non si limita al controllo dell’Intelligence – fa anche quello, ovviamente – e non si limita nemmeno agli apparati dello Stato, perché non parliamo di sicurezza dello Stato.

Nella denominazione si parla di sicurezza della Repubblica, che è qualcosa di più e di diverso – il legislatore è stato lungimirante – rispetto al controllo sull’intelligence o anche semplicemente al controllo sulla sicurezza dello Stato.

Per questo ci siamo occupati di relazioni tematiche: ne abbiamo fatte sei in questa legislatura, di cui tre negli ultimi sei mesi. Gli argomenti appaiono poco pertinenti a chi non guarda nell’ottica della sicurezza nazionale, ma oggi sappiamo quanto è importante la relazione che abbiamo fatto sulla sicurezza finanziaria e del sistema assicurativo del nostro Paese, a fronte delle decisioni che – per esempio – l’Europa e il mondo occidentale hanno dovuto assumere in materia di sanzioni finanziarie nei confronti della Russia. Allo stesso modo, ci rendiamo conto di quanto importante sia stata la relazione sulla sicurezza cibernetica di tre anni fa, rispetto alla possibilità che ci sia un attacco cibernetico nel nostro Paese e alle misure che devono essere prese per evitare che, attraverso il cavallo di Troia della tecnologia, si possano espropriare le nostre informazioni o, peggio ancora, scatenare una guerra cibernetica nel nostro Paese.

Mi auguro, quindi, che la stessa unità e la medesima responsabilità si realizzino ogniqualvolta parliamo di sicurezza alla Repubblica e che finalmente ogni anno si svolga una relazione, con una sessione con risoluzioni finali, in cui vengano esaminate e comparate la relazione della Presidenza del Consiglio che viene svolta ogni anno a febbraio e la relazione annuale del Copasir, in modo che il Parlamento e il Paese si possano rendere conto di come cambiano, rispetto ovviamente a quanto accade in ogni contesto internazionale, le necessità della sicurezza della Repubblica. Credo che questo sia utile al Parlamento per predisporre poi le misure necessarie.

Ritengo che in questo caso noi potremmo dire davvero di aver risposto alle necessità del Paese.

Concludo, cari colleghi, dicendo che dobbiamo renderci conto che non possiamo fuggire dalla storia, anche se forse lo vorremmo. Non possiamo fuggire dalla storia e la storia oggi ci impone di prendere da subito le misure necessarie per quanto riguarda la nostra difesa, la nostra sicurezza e gli asset strategici del nostro Paese per fronteggiare, insieme alle altre democrazie occidentali, nella nostra Unione europea e nella nostra Alleanza Atlantica quello che abbiamo di fronte.

Non possiamo fuggire dalla storia, possiamo però cambiare la storia.

*Adolfo Urso, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica

Le incertezze di una guerra alle porte dell’Europa

Il protrarsi delle ostilità in Ucraina da parte della Russia rappresenta oggi un evento singolare e di eccezionale gravità, quanto ad effetti sul piano economico e umanitario, destinato a mettere alla prova le previsioni formulate nei paesi occidentali sullo scoppio e l’andamento del conflitto. Ben prima che si materializzasse la decisione dell’uso della forza, una progressiva escalation politica e poi militare ha spinto i vari governi e le cancellerie, sino agli Stati Uniti, a concepire soluzioni in grado di sciogliere insieme alla Russia il nodo gordiano alla base del conflitto, che appare invece ancora più stretto dopo mesi di frustranti e infruttuose trattative. La crisi, che è ormai assurta alla dimensione di una guerra di aggressione condotta su più fronti ai danni dell’Ucraina, con l’esplicito obiettivo del suo annichilimento politico e territoriale, non figurava come una priorità nelle agende dei principali leader e ora sconta il vuoto di chi potrebbe quanto meno candidarsi a governarla. La decisione della Russia di raggiungere manu militari i propri obiettivi, con un impeto novecentesco, ha colto alla sprovvista chi prefigurava una sostanziale condizione pacifica dell’Europa, non più teatro di offensive su larga scala contro una nazione sovrana, ma anche chi all’opposto immaginava un’operazione tanto rapida quanto di successo per Mosca. Nessuna delle due previsioni si è avverata e oggi . È evidente che l’andamento del conflitto sin dalle prime ore ha tradito le aspettative di chi confidava in una facile vittoria, lasciano spazio ad una serie di valutazioni sulle conseguenze del protrarsi delle ostilità sul piano militare ed economico.

Se è vero che l’Ucraina ha scontato sin dalle prime ore una radicale asimmetria sul piano tattico, le forze armate Russe non sono state in grado di sfruttare la loro superiorità per una serie di fattori: in primis contrariamente alla narrazione diffusa l’esercito di Kiev non somiglia più ad una compagnia di sbandati, ricordo sbiadito del 2014. Dopo 8 anni di combattimenti nel Donbass e un piano di riarmo con il supporto dei paesi occidentali, l’Ucraina schiera delle truppe altamente motivate e ben equipaggiate, con una notevole esperienza bellica sostenuta in patria, sia in teatri urbani che in campo aperto, a cui si è aggiunto il prezioso contributo dell’addestramento americano in tecniche di combattimento in grado di ostacolare azioni offensive come quelle Russe. Gli ultimi mesi inoltre hanno visto un grande afflusso di aiuti militari, specialmente armi anticarro e antiaeree, che a fronte del costo relativamente esiguo sono in grado di infliggere perdite rilevanti e neutralizzare mezzi ben più dispendiosi e soprattutto difficilmente sostituibili ad un ritmo accettabile, se il conflitto dovesse perdurare per diverse settimane. L’esercito Russo al contrario oltre ad essere parso demotivato e smarrito, è sembrato incapace di sfruttare appieno le proprie dotazioni, finendo impantanato in clamorosi errori logistici ripetuti nel corso del tempo, che chiamano in causa l’intera catena di comando. Ci si potrebbe chiedere legittimamente come le decine di migliaia di coscritti inviati al fronte da Mosca dalla tundra siberiana possano prendere l’iniziativa, in una guerra che se è vero che è apparsa tanto insensata alle gerarchie Bielorusse da farle desistere dal partecipare alle operazioni, è altrettanto intuibile quanto possa interessare ai nativi dalle aree più remote del Paese. Meno inclini a fraternizzare con gli Ucraini con cui si scontrano per la prima volta, anche per differenze linguistiche ed etnoculturali, ma non per questo meno restii dei loro connazionali a combattere per conquistare Kiev, che dista pur sempre 5000 chilometri dalla Buriazia. Le débâcle dei primi giorni pongono la questione di quante siano effettivamente le truppe russe addestrate secondo i criteri dell’Alleanza Atlantica. Probabilmente meno di diecimila: un numero di gran lunga insufficiente per prevalere senza rinforzi, contro un nemico che padroneggia il terreno alla perfezione e che sembra disposto a resistere sino in fondo anche in contesti urbani.

L’impatto delle sanzioni economiche invece, è destinato a produrre i suoi effetti nel medio e lungo periodo, ma non è escluso che misure più radicali come una rimozione pressoché totale della Russia dal sistema di pagamenti SWIFT o l’embargo americano sugli idrocarburi, in particolare il petrolio, possano risultare insostenibili già nell’immediato. Decapitare un flusso di cassa di 800 milioni di dollari che giornalmente si riversano nell’erario di Mosca per garantire quel minimo livello di benessere accettabile dal popolo Russo, potrebbe avere contraccolpi altrettanto severi in Europa per la ormai arcinota dipendenza energetica, ma anche gli stessi Stati Uniti verrebbero investiti da una ulteriore fiammata inflazionistica “indotta” dalla crescita del prezzo dell’energia. Mosca potrebbe incorrere in una crisi del debito sovrano, come già accaduto in diverse circostanze ai tempi di Yeltsin, e potrebbe tentare di rimborsarlo in rubli anche in presenza di altri compratori dei suoi titoli di stato, come la Cina e in misura nettamente minore l’India. In assenza di altri paesi esportatori di greggio, l’Arabia Saudita (che sconta notevoli incomprensioni con la Casa Bianca) e l’OPEC rimangono maldisposte ad incrementare la produzione di petrolio e con il Venezuela e l’Iran ben lontani da un accordo politico maturo con gli USA, è facilmente intuibile le ripercussioni che una simile mossa avrebbe sulla ripresa post-covid e sulla tenuta sociale, che nelle democrazie occidentali è sicuramente più a rischio rispetto ad un paese autoritario come la Russia e di quest’ultimo particolare a Mosca sono ben consapevoli. È importante tenere a mente che il prezzo del petrolio si colloca intorno al 6% del PIL in Italia e la soglia della recessione si materializza al 7%, non è difficile intuire che ad Aprile la congiuntura diventerà negativa se il trend fosse confermato.

L’incognita rimane tuttavia comprendere come incideranno i due fattori, militare ed economico in rapporto all’arco di tempo di un conflitto che sembra voler durare abbastanza a lungo da dissanguare l’aggressore. Il supporto ancorché indiretto della NATO gioca un ruolo fondamentale nel contribuire ad infliggere notevoli perdite ai Russi, sia nelle divisioni corazzate che nelle forze aeree, così da distruggere le residue speranze di un blitzkrieg vittorioso. Una situazione di logoramento non potrà avvenire a queste condizioni, perché sarebbe per la Russia semplicemente insostenibile da un punto di vista economico sopportare intensità di un conflitto troppo alte per un paese che conta meno di un decimo della spesa militare degli Stati Uniti e poco più del Regno Unito, non potendo già adesso che impiega la quasi totalità degli effettivi nelle operazioni, rimpiazzare la totalità delle perdite senza sguarnire o depauperare le proprie forze armate al di fuori dell’Ucraina.

Uno stallo destinato a prolungarsi nei prossimi giorni che potrebbe aprire giocoforza lo spazio delle trattative, uno scenario ancora incerto con diversi attori che si affacciano con aspiranti ruoli di mediazione. In Europa Macron, Presidente di turno del Consiglio dell’UE, tiene i fili con il Cremlino forse per emulare il suo predecessore Sarkozy che dalla medesima posizione negoziò nel 2008 il cessate il fuoco in Georgia con Putin e Saakashvili. La Germania paga le consuete contraddizioni energetiche con la Russia, alimentate a vario titolo dagli ultimi cancellieri e si trova a dover prendere frettolosamente le distanze da un passato recentissimo. Se alcune voci autorevoli rimpiangono la leadership di Angela Merkel, ne dimenticano le sue responsabilità nel comportamento ambivalente che Berlino ha in un certo senso imposto all’Europa sulle forniture di gas naturale e nei tentennamenti mostrati davanti ad una crisi che dura ormai da 8 anni e che è parsa per tutto questo tempo una sorta di commedia degli equivoci, oscillante tra proclami internazionalisti e arrocchi mercantilisti. La Turchia gioca una sua partita autonoma dalla NATO, non applicando le sanzioni alla Russia con cui mantiene buoni rapporti, ma vendendo droni all’esercito Ucraino e ribadendo la propria primazia sugli stretti. Erdogan prova ad apparire come l’unico leader abbastanza equidistante da entrambi i contendenti sia da un punto di vista geografico che politico, così da poter promuovere una svolta, quantomeno apparente, nelle trattative in corso ed alimentare una presunta fama di risolutore di conflitti. I legami economici con la Russia poi pendono a suo favore e le recenti intese con Mosca in Siria trovano la diplomazia turca preparata a raggiungere un accordo. Anche Israele sembra apparentemente in grado di inserirsi e sfruttare i legami etnici e culturali che la legano ad ambedue le parti, ma l’eventualità di un successo sconta i limiti di una mediazione forse ancora non matura dal punto di vista temporale, che appare ancora oggi incerta e difficile da concretizzare. Chi si staglierà nei prossimi giorni come possibile paciere è la Cina: maggiore sarà la durata le conflitto, maggiori saranno le difficoltà Russe che potrebbero facilitare una soluzione orientale dalla quale Mosca uscirebbe doppiamente sconfitta. Sul piano militare perché costretta ad invocare l’intervento salvifico di Pechino da una guerra che non sembrerebbe più in grado di controllare autonomamente e su quello economico dove si troverebbe a brandelli, a fronte di conquiste territoriali dal discutibile valore strategico, con la certezza di finire nell’orbita cinese su interni settori produttivi: banche, energia e semiconduttori.

La reazione di Putin dinanzi ad un insuccesso militare, ancorché momentaneo, che si presenterebbe come l’anticamera di quella che fu la guerra in Afghanistan per l’Unione Sovietica, potrebbe spingere la Russia ad innalzare l’intensità dello scontro con uno scenario diametralmente opposto ad una trattativa lampo. Una vittoria di Pirro non è da escludere se l’impegno di Mosca fosse tale da rendere le forze Russe così soverchianti rispetto a quelle Ucraine, da portarle ad una sconfitta sicuramente dolorosa per entrambi o quantomeno da imporre una trattativa a senso unico che ha come precondizione la conquista delle grandi città, a cominciare dalla capitale. Se le perdite fossero eccessive persino in questo scenario, il modello che Putin potrebbe adottare è quello di Grozny, il che presupporrebbe rinunciare al combattimento urbano classico per radere al suolo con l’artiglieria le principali città ucraine in una sorta di riedizione della guerra in Cecenia, nella misura ritenuta sufficiente ad imporre un cessate il fuoco a Kiev, che si ritroverebbe a patire numerosissime vittime civili senza l’evacuazione con i corridoi umanitari. Facile intuire le finalità dal lato Russo di una misura apparentemente rivolta a mettere al riparo i civili, che darebbe il via libera al fuoco indiscriminato dell’artiglieria sui centri abitati, per altro già in corso in sprezzante contrasto con le convenzioni internazionali. Le perdite economiche sarebbero in quest’ultimo caso enormi, Mosca non risulterebbe in grado di colmarle ricostruendo i centri abitati e le infrastrutture. Ciò che rimarrebbe dell’Ucraina somiglierebbe ad una striscia di terra di nessuno devastata che ben si presta alla teoria dello stato cuscinetto più orientato verso l’annichilimento che l’equidistanza.

Un’escalation con il clima arroventato diventerebbe così più probabile, Le tensioni latenti, unite a quelle che un’ulteriore crescita del livello dello scontro sul piano economico e militare possono innescare, formano un mix esplosivo in grado di ipotecare sostanzialmente ogni residua aspettativa di pace nel breve periodo. Le modalità di escalation e di de-escalation sono speculari e spesso non dipendono fino in fondo dalla volontà dei contendenti: la NATO per esempio potrebbe anche istituire una no fly-zone nell’ovest del paese per assicurare il deflusso dei profughi ma al di là dell’aspetto provocatorio, le difficoltà dell’aviazione Russa, martoriata dagli stinger e spinta al volo notturno, renderebbero una  simile misura inutile contro gli attacchi portati avanti con artiglieria e missili cruise, che i caccia sarebbero difficilmente in grado di intercettare. Si aprono allora interessanti prospettive rispetto alla dichiarazione Russa di cobelligeranza, è qui che potrebbero nascere i presupposti per un’improvvisa accelerazione del conflitto: in assenza di un’invasione dal confine Bielorusso, che finora non ha avuto seguito, una Russia esausta con caccia e tank braccati da Kiev con le armi NATO, potrebbe pensare di colpire i trasferimenti degli aiuti militari al confine qualora risultassero così decisivi per le sorti del conflitto da portarla alla sconfitta. Questo in che misura possa interessare i membri dell’alleanza atlantica ancora non è chiaro e ovviamente dipenderebbe dall’area geografica interessata da un potenziale attacco. L’articolo 5 del trattato non contribuisce a sciogliere i dubbi e la stessa definizione di “attacco armato” si presta a diverse interpretazioni in assenza di una prassi applicativa. Lo stesso accadrebbe con la messa a disposizione dell’Ucraina delle infrastrutture aeroportuali in Polonia, avendo la Russia distrutto la quasi totalità degli aeroporti di Kiev, e di alcuni vecchi caccia MIG da trasferire, la cui utilità però appare dubbia in considerazione della scarsa importanza che l’aviazione ha avuto in questo conflitto. Contrariamente a quanto si crede, i bombardamenti aerei hanno avuto un impatto relativamente ridotto rispetto al loro potenziale e anche per i diversi errori di Mosca nelle prime fasi del conflitto l’Ucraina sembra conservare ancora una piccola parte delle proprie difese aeree che non ha esitato ad impiegare con successo.

Anche le sanzioni infine potrebbero influire su scenari inaspettati: non sarebbe difficile immaginare le conseguenze che una rimozione totale della Russia dallo SWIFT unita all’embargo dagli idrocarburi produrrebbero sulla leadership Russa, che appare sotto pressione in tutti i casi e che per questo potrebbe essere portata a compiere scelte avventate. La debolezza è spesso una caratteristica connaturata agli Stati autoritari e il paradosso di un Putin sempre più debole potrebbe essere il rafforzamento interno delle forze armate, non più semplice strumento di proiezione di una flebile potenza imperiale ma ormai le vere indiziate di questo conflitto, che le ha viste finora prevalere sul blocco di potere dei servizi di sicurezza che in Russia è da sempre dominante. La vera incognita potrebbe presto riguardare il ruolo nascosto dei generali, pronti a tessere la trama di uno scontro interno al Cremlino dove a prevalere sarebbero i falchi più che le colombe.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo