INVESTIRE SULLA DOMANDA INTERNA PER LA RIPRESA POST COVID-19

L’export è un fattore fondamentale per il successo di un Paese. Ma, da solo, non basta per crescere. Per quanto una economia possa essere competitiva nel commercio internazionale ed avere un importante surplus con l’estero, ciò non è sufficiente a spingere il Pil se la domanda interna diminuisce o aumenta troppo poco. Ciò è stato vero nel recente passato. E sarà ancor più vero adesso che la pandemia del Covid-19 si è abbattuta in modo drammatico sull’economia globale e provocherà nel 2020 e forse anche in parte del 2021 una recessione di portata storica e un crollo del commercio mondiale, come ormai prevedono tutte le maggiori istituzioni internazionali.

 

IL PASSATO

In Italia, ad esempio, la domanda estera netta (cioè la bilancia con l’estero per i beni e servizi), pur restando ampiamente positiva e quindi agendo positivamente, anno dopo anno, sul miglioramento della nostra posizione patrimoniale internazionale, ha contribuito negativamente alla crescita reale del Pil nel quinquennio 2014-18 rispetto al 2013. Il suo apporto cumulato nel periodo, infatti, è stato negativo per l’1,2% a fronte di un aumento del Pil del 4,6% sostenuto principalmente dalla domanda interna ed in particolare dall’apporto dei consumi privati (+3,4% il contributo specifico di questa voce alla variazione del Pil) e degli investimenti fissi lordi (+1,7%). In Francia, sempre nel quinquennio 2014-18, il Pil è aumentato cumulativamente del 7,4%, grazie soprattutto ai contributi dei consumi pubblici (+1,4%), dei consumi privati (+3,5%) e degli investimenti fissi lordi (+2,5%), mentre la domanda estera netta, oltre ad essere in deficit, ha anche tolto uno 0,7% circa alla crescita cumulata dell’economia transalpina nel periodo considerato. Perfino la Germania, Paese in grande attivo con l’estero, con il secondo più alto surplus commerciale manifatturiero del mondo dopo la Cina, negli ultimi anni non ha tratto particolare giovamento dal commercio estero per quanto riguarda la dinamica reale del Pil. Infatti, la differenza tra export e import in volume, cioè la domanda estera netta, pur continuando a restare in amplissimo surplus, non è più cresciuta con la stessa intensità e regolarità degli anni precedenti. E, quindi, in tutto il periodo 2014-18 la componente estera ha contribuito solo con uno striminzito +0,1% all’aumento cumulato del Pil tedesco, progredito nel frattempo del 10,6%. Nel quinquennio considerato è stata pressoché esclusivamente la domanda interna a spingere l’economia della Germania, in particolare con un contributo al Pil del 4,2% dei consumi privati, del 3,1% degli investimenti fissi lordi ed anche di un decisivo apporto del 2,5% dei consumi finali della Pubblica amministrazione. Questi numeri mettono in evidenza quanto la domanda interna di economie mature sia un asset strategico, un patrimonio di interesse nazionale da preservare e incrementare, essendo diventata con il passare degli anni sempre più il pilastro fondamentale su cui poggia la crescita stessa dei nostri Paesi. A questo proposito, il rilancio della domanda interna italiana negli anni recenti, è, e dovrebbe diventare, a nostro avviso, un caso di studio. Infatti, dopo la doppia recessione del 2008-09 e del 2011-14, si poneva il problema di far ripartire una economia profondamente prostrata a livello di consumi e investimenti. E le azioni che sono state adottate a tal fine nel triennio 2015-17, improntato dalle riforme e dalle manovre finanziarie del Governo Renzi, costituiscono un chiaro caso di successo, benché non esso abbia riscosso politicamente ed elettoralmente particolari consensi. Eppure, il periodo 2015-17 rappresenta un chiaro modello di come l’Italia abbia potuto raggiungere tassi di crescita mai sperimentati da quando è iniziata la circolazione monetaria dell’euro. Ciò proprio grazie all’utilizzo della flessibilità concessaci dall’Europa per l’adozione di mirati ed efficaci stimoli alla domanda interna privata, stante l’impossibilità, dovuta ai ben noti limiti di bilancio, di poter utilizzare i consumi finali pubblici come leva per la crescita. Gli «80 euro», l’eliminazione della tassa sulla prima casa e della componente lavoro dell’Irap, i contributi per le assunzioni a tempo indeterminato, il super e l’iper-ammoramento, il Patent box, l’ampliamento della platea delle imprese beneficiarie del credito d’imposta sulla ricerca hanno rappresentato un potente mix di azioni che ha spinto sia i consumi delle famiglie sia gli investimenti tecnici e in R&S delle imprese come non era mai accaduto prima negli anni Duemila. Basti pensare che dal 2015 in poi la crescita dei consumi pro capite delle famiglie in Italia è stata sempre superiore a quella di Germania e Francia. E lo stesso è accaduto per la crescita degli investimenti pro capite in macchinari e mezzi di trasporto. Dal lato della produzione ciò si è riflesso per la prima volta nell’era dell’euro in un sorpasso del Pil «privato» italiano rispetto a Germania e Francia. Infatti, nel triennio 2015-17, considerato sia nel suo insieme sia nei suoi singoli anni, il valore aggiunto dell’economia italiana al netto del contributo della pubblica amministrazione, difesa, sanità, istruzione è cresciuto in termini reali di più degli analoghi Pil «privati» tedesco e francese.

 

IL PRESENTE E IL FUTURO POST COVID-19

Siamo poi riprecipitati, nel biennio 2018-19 in un periodo di bassa crescita, che ora si trasformerà in una profonda recessione nel 2020-21 a causa della crisi globale del coronavirus. Dopo il lockdown serve quindi una via d’uscita da una crisi economica incombente che il Fondo Monetario Internazionale ha riassunto in alcune drammatiche cifre in termini di caduta del Pil nel 2020 (dietro le quali c’è anche lo spettro della perdita di decine di milioni di posti di lavoro a livello planetario): -3% il Pil del mondo (non era accaduto nemmeno con lo scoppio della bolla dei mutui subprime nel 2009); -5,9% gli Stati Uniti; +1,2% la Cina; -7,5% l’Eurozona; -9,1% l’Italia (che in tutte le previsioni è la nazione con l’arretramento dell’economia più forte). Altre istituzioni e banche (tra cui Deutsche Bank e Goldman Sachs) prevedono cali del prodotto anche superiori, che per l’Italia potrebbero essere addirittura a doppia cifra. E i debiti pubblici in rapporto al Pil schizzeranno verso l’alto: l’Italia al 155%, ma anche gli Stati Uniti al 131%, la Francia al 115%, la Spagna al 113%. Il nostro Paese deve darsi un programma urgente di rilancio delle attività produttive, razionale, ordinato, sistematico, tenendo conto ovviamente delle esigenze di sicurezza dei lavoratori. Limitandoci qui all’industria in senso ampio (costruzioni comprese), tre sono, a nostro avviso le priorità che il governo italiano deve affrontare. Primo: assicurare innanzitutto l’operatività delle attività manifatturiere che hanno da evadere ordini esteri pregressi. Infatti, prima del lockdown molte imprese della nostra industria manifatturiera avevano in pancia importanti ordini giunti dalle grandi catene internazionali e dai grossisti di tutto il mondo, specialmente in settori della componentistica e della meccanica. Tanti mercati e compratori stranieri, date le difficoltà produttive e logistiche della Cina, che negli ultimi mesi non consegnava praticamente più nulla ai clienti mondiali, avevano riversato le loro richieste di accaparramento sull’Italia. Perdere questi ordini esteri sarebbe, in questo contesto di crisi economica che pende sulle nostre teste, un autentico peccato mortale. Evitiamo di lasciare sul campo più export, più soldi e più posti di lavoro di quelli che, purtroppo, sicuramente perderemo quest’anno. Gli ordini esteri esistenti sono, in questa fase, più che mai un patrimonio nazionale. Vanno onorati e trasformati rapidamente in entrate per il nostro sistema produttivo. Dobbiamo abbeverarci da questa fonte residua fino all’ultimo cent di euro. Poi ci sarà, purtroppo, una grande siccità. Infatti, esauriti gli ordini stranieri pregressi, dobbiamo prevedere che i nostri primi sei mercati per l’export nella restante parte del 2020 rimarranno quasi completamente paralizzati. Germania, Francia, Stati Uniti, Svizzera, Regno Unito e Spagna nel 2019 hanno rappresentato quasi la metà dell’export italiano: 228 miliardi di euro su 476 miliardi totali. Sono, quelli citati, tutti Paesi che, come noi, alla fine conteranno decine di migliaia di morti per il coronavirus. Paesi sconvolti dal lockdown e dalla crisi economica, dove i consumi e gli investimenti sprofonderanno. Non potremo quindi sperare in alcun modo nell’export per evitare che le previsioni più fosche di caduta del nostro Pil nel 2020 si avverino.

Questo ci porta a concentrarci sulla domanda interna, che tuttavia ci concede ben poche speranze dal lato del settore privato. Infatti, non potremo fare alcun affidamento sui consumi delle famiglie italiane, perché la paura, la crescente disoccupazione e la perdita di potere d’acquisto, faranno crollare la spesa di beni e servizi. Né potremo confidare, come possibile elemento di sostegno del Pil nella domanda attivata dalle imprese, che hanno già fatto molti investimenti tecnici nel recente passato ed ora, in questo scenario drammaticamente negativo, non ne programmeranno di certo di nuovi. Pertanto, la seconda priorità che il governo italiano dovrebbe darsi senza indugio è quindi quella di un programma di rilancio su grande scala dell’edilizia privata, una risorsa dormiente che abbiamo a disposizione e che negli ultimi tempi già stava mostrando qualche positivo segnale di ripresa, la cui ripartenza, tra l’altro, potrebbe ricadere positivamente a pioggia con un effetto moltiplicatore anche su tanti settori manifatturieri vitali dell’industria italiana (piastrelle, cemento, vetro, metallurgia, componentistica, idraulica, riscaldamento-raffrescamento, ecc.). In questi giorni di lockdown gli italiani hanno riscoperto l’importanza della casa come risorsa primaria ed anche delle sue pertinenze, come cascinali, giardini, orti, parchi, ecc. Per controbilanciare il crollo del nostro Pil, occorre dunque puntare su un grande piano di spinta degli investimenti privati in costruzioni, anche con incentivi su ristrutturazioni, acquisti prima casa, giardinaggio, programmi per le giovani coppie, interventi nell’edilizia antisismica, miglioramenti delle strutture alberghiere e ricettive, ecc. Allo stesso modo, e perfino di più, è cruciale rilanciare gli investimenti in opere pubbliche, nelle infrastrutture stradali, ferroviarie, ospedaliere, nei porti, negli aeroporti, nelle reti telematiche, in ricerca, ecc. Secondo varie stime, vi sono decine di miliardi di investimenti in opere pubbliche fermi che potrebbero essere attivati e che potrebbero agire con un importante effetto positivo sul Pil. Come hanno dimostrato anche recenti analisi della Banca d’Italia, se realizzate in modo efficiente le opere pubbliche non generano una crescita del rapporto debito/Pil perché il denominatore può aumentare più del numeratore. Non è più tempo dei no (locali, populisti, ideologici) che già erano antistorici e contro l’interesse del Paese prima della pandemia. Servono sblocchi e autorizzazioni più veloci per le opere già cantierate e programmate, commissari con pieni poteri per la loro immediata realizzazione, assoluta priorità di avvio per tutti gli interventi già dotati di copertura finanziaria ma bloccati dai veti anacronistici di una burocrazia che, lei sì, sopravvive perfino al coronavirus.

*Marco Fortis, responsabile direzione Studi economici Edison SpA

L’ANNO CHE VERRÁ

“Caro Giuseppi ti scrivo/ così mi diverto un po’/e siccome sei in un pantano/più forte ti irriderò/ Da quando sei al governo c’è una triste verità/ l’anno vecchio è finito ormai/ ma tu stai ancora là”
      A due ore dalla mezzanotte, sulla falsariga dell’Anno che verrà di di Lucio Dalla, Enzo strimpellava alla chitarra una sorta di filastrocca che pretendeva di essere ironica  sul futuro di Conte e del suo governo.
       “C’è poco da ridere, qui non ci resta che piangere – lo interruppe la moglie Silvana, impiegata di banca- coi licenziamenti in vista che oggi chiamano esuberi l’anno che verrà ci riserva brutte sorprese”.  “Vabbè – ribattè Enzo – anche per me al negozio è sempre più difficile tirare avanti, ma provo ad esorcizzare. Come si diceva una volta: una risata li seppellirà”.
           Gli amici ospiti per la serata di capodanno da trascorrere insieme li guardarono increduli.” Oh, ma di che vi lamentate? Proprio voi che ci avete rotto per anni le scatole con Grillo e con i suoi slogan” osservò Giulio, cinquant’anni, convinto sostenitore del PD con una non celata nostalgia di quando la sinistra si chiamava PCI.
        ” Che vuoi fare – si giustificò Enzo – in buona fede ci avevamo creduto, pensa avevamo votato anche per la Raggi, che amarezza”.
            “Ragazzi smettetela, basta parlare di politica, prepariamo le lenticchie e lo spumante – intervenne Federica, cattolica adulta – cerchiamo almeno stasera si essere più buoni. E comunque vada dobbiamo ringraziare il Signore che ci ha evitato le elezioni con la sicura vittoria di Salvini”.
           ” Ah, si questo è certo. Possiamo avere idee diverse ma qui siamo tutti antifascisti. L’abbiamo scampata bella” assentirono quasi in coro Gianni, Giulio, Franco e le rispettive compagne.
              A meno di un’ora dalla mezzanotte s’era creato un clima dì affabilità e condivisione nonostante i problemi che ognuno di loro si sentiva sul groppone. Mancava poco che qualcuno proponesse di cantare in coro Bella Ciao per chiudere in bellezza la serata quando si permise di dire la sua Filippo, sessant’anni, imprenditore un po’ in difficoltà, tutto sommato un brav’uomo, ma di quelli che la pensano in modo ritenuto dai presenti non politicamente corretto. Avesse fatto silenzio non avrebbe guastato la festa all’allegra compagnia di anime belle. E soprattutto non avrebbe messo in imbarazzo la moglie Giovanna, preoccupata di fare brutta figura con la sua ex compagna di classe Silvana che aveva usato la gentilezza di invitarla.
     “Sentiamo mo che ha da dire questo” pensò tra se e se Filiberto, uno che da sempre era convinto di ciò che proprio di recente aveva confermato Corrado Augias, uno degli intellettuali più in vista a Rai3, e cioè che quelli che non sono di sinistra sono, per dirla in povere povere, un po’ stupidi.
        Non è che Filippo avesse una precisa collocazione politica. No, ma di sinistra non era mai stato. Ai tempi della DC votava per lo scudo crociato, gli dava tranquillità e un po’ di garanzia  contro lo sbandierato pericolo comunista. Dopo tangentopoli aveva provato simpatia per Berlusconi, anzi, di più per Gianfranco Fini. La politica è passione, ma anche delusione. E per il povero Filippo fu una grossa delusione Gianfranco. Morto un papa se ne fa un altro e Filippo vide nella nuova Lega di Salvini l’immagine del futuro dell’Italia. Simpatico Matteo, ma gli manca qualcosa, dice le cose che tu vorresti dire, ma quanto a coerenza… basti dire che aveva proposto a Di Maio la Presidenza del Consiglio. Non ti regala Matteo quell’ideale che ti fa vivere e sognare, che ti fa vibrare il cuore.
         Matteo no ma… c’è lei…Giorgia. Avrebbe voluto gridarlo in faccia  all’allegra comitiva Filippo, avrebbe voluto dire che c’ è ancora chi crede nella politica come sangue e passione, come qualcosa che viene da lontano e andrá lontano, scarpe piene di fango e mani pulite. Ma no, le speranze ognuno se le tiene nel cuore e non le sbandiera agli occasionali compagni in una notte di capodanno.
       Alle anime belle Filippo si limitò a ricordare quello che tutti sanno e che alcuni fingono di non sapere o di dimenticare. Che Giuseppi sta lì senza essere stato eletto da nessuno.  Che aveva promesso un anno bellissimo, sì, bellissimo solo per lui. Che Zingaretti e Renzi con una rocambolesca capriola avevano contraddetto le loro precedenti solenni affermazioni e si erano alleati con i grillini. Che i cinque stelle sono allo sfacelo totale. Che la maggioranza non trova accordo su niente, dalla giustizia alla questione autostrade. Che la maggioranza di fatto non esiste più. Che Mattarella fa fatica a prenderne atto anche quando un ministro saluta e se ne va e come per il  miracolo dei pani e dei pesci viene sostituito raddoppiandolo. Che dall’ Ilva all’Alitalia il governo non riesce a fare nulla per impedire che decine di miglia di famiglie finiscano sul  lastrico. Che i porti  si sono riaperti e che è ripresa l’invasione islamica. Che le tasse e il deficit aumentano nonostante le menzogne dei Tg che predicano il contrario. Che il reddito di cittadinanza non ha creato posti di lavoro ed è finito in gran parte a sfaccendati, truffatori, spacciatori, ex terroristi e delinquenti. Che la la Turchia sta occupando la Libia mentre la politica estera dell’Italia è affidata all’ex steward dello stadio San Paolo.
       “Smettila Filippo. Sempre a lamentarti pure a capodanno” l’intervento della signora Giovanna sul marito fu accolto con un sospiro di sollievo dall’allegra comitiva. Hai voglia di cantare Bella Ciao o di puntare sulle sardine quando lo spettacolo che sta dando la sinistra è da ultimi giorni di Pompei. Ormai la festa l’aveva guastata Filippo riportandoli alla realtà.
             Ma la compagnia fece finta di sorridere perché a capodanno è obbligatorio ostentare allegria e soprattutto per non darla vinta a quel guastafeste di Filippo. Ormai mancavano dieci minuti alla mezzanotte. Enzo riprese in mano la chitarra e continuò a cantare la canzone di Lucio Dalla stavolta senza stravolgerla.
           “Vedi caro amico cosa si deve inventare/ per poter riderci sopra e continuare a sperare/… L’anno che sta arrivando tra un anno passerà/ io mi sto preparando/ è questa la novità/”
             Anche Filippo stavolta si era unito al coro. Cantava assieme agli altri l’anno che verrà, ma in cuor suo confidava nella novità , al 26 gennaio che verrà…
                 “Sette, sei, cinque, quattro, tre…”. Dalla Tv accesa una splendida ragazza scandiva i secondi. Mezzanotte!  Si stappa lo spumante. In cielo i colori dei fuochi d’artificio. È il Duemilaventi. Il futuro è già qui. L’alba, mancano poche ore, è vicina.
*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

Vade retro Salvini? Il "peccato" (di convenienza) di Famiglia Cristiana

Se la tentazione era di dividere il palco della politica italiana tra buoni e cattivi, Famiglia cristiana c’è caduta in pieno. Ecco la prossima copertina: “Vade Retro Salvini”. Addirittura. Il settimanale del gruppo San Paolo scende in campo e raccoglie l’invito arcobaleno di Rolling Stone, “Da adesso chi tace e complice!”. Ma di che, di che cosa? Del fiume di livore, odio e banalità che sta ammorbando il Paese? Salvini uguale a Satana. Peggio di così, a questo punto, non resta che appendere il cartello wanted nelle edicole e nelle parrocchie e tirare a vista. Una chiesa così forse piace ad Antonio Padellaro che invoca «metodi bruschi» per far fuori il ministro dell’Interno dalla scena pubblica. Perché la critica (legittima) ha ormai varcato il Rubicone del buon senso assumendo toni apocalittici e febbrili. Intanto le chiese si svuotano e una parte del mondo cattolico vota per la Lega e per quei partiti che sulla questione migranti hanno almeno una visione pragmatica, aderente al reale.
Per carità, la crisi della Chiesa ha ragioni più vaste, più profonde, da studiare seriamente. Appunto per questo le sirene del politicamente corretto di scuola clintoniana andrebbero rifiutate di netto, dai vescovi e dagli intellettuali di una certa gauche ormai increspata. Invece no, paraocchi e non solo. Altrimenti la riflessione di un Orban che da iscritto al “pericolosissimo” Partito popolare europeo dice che è contro le migrazioni perché in difesa dell’identità cristiana ungherese andrebbero vagliate con maggior beneficio d’inventario. Siccome però anche lui rientra tra i satanassi del ventunesimo secolo, meglio non ascoltarlo. Peccato che il consenso sulla sua persona sia un fatto vero e misurabile a suon di voti e Pil. Metri di misura forse inefficaci, ma almeno da valutare.
Vade retro Salvini. Mai però dire vade retro barconi scricchiolanti. Vade retro scafisti. Vade retro trafficanti di uomini. Vade retro a tutti coloro che con la loro ipocrisia fanno sì che delle zattere siano messe in mare per poi affondare. Oppure, se proprio si vuole parlare del depauperamento dell’Africa, come ha fatto di recente il vescovo di Palermo Corrado Lorefice, sarebbe più opportuno stigmatizzare la violenza armata dell’intervento francese in Libia. Da lì partono molti degli attuali problemi del Mediterraneo. Quelli che l’Italia ha dovuto gestire in solitario.
Ammettere però che il no italiano all’attracco dell’Aquarius ha costretto le principali cancellerie europee a rivedere le proprie posizioni in tema d’immigrazione, significherebbe ammettere che forse il capo del Viminale non è poi così scellerato. Urlare “Vade retro Salvini” è molto facile, e porta molti meno problemi di relazione con certi poteri rispetto ai quali le Chiese giocano ormai di rimessa. Meglio le copertine dedicate a Matteo Renzi e Laura Boldrini. Soprattutto se c’è la convinzione che la crisi migranti, la crisi delle morti in mare, possano essere risolte con appelli al veleno. Quello è il fumo di Satana. A loro piace così.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

Altro che "governo del cambiamento", qui sta nascendo un nuovo Nazareno…

Il “contratto di governo” tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini? Dopo una lettura attenta, in tutta onestà, non possiamo dire che questo: sembra piu un programma pensato per essere approvato con i “like” dal referendum on-line della piattaforma Rousseau o nei gazebo leghisti piuttosto che un progetto organico di governo e di riforme necessarie per l’Italia.
La cosa che ci sorprende – dietro il velo mediatico di diverse misure “manifesto” – è che sono rimaste scoperte proprio le tematiche centrali dei pentastellati e della Lega: da quelle strutturali richieste dal Mezzogiorno (a parte l’assistenzialismo-tampone del reddito di cittadinanza) alle risposte da dare ai produttivi, tanto cari agli elettori del Nord. Il risultato? Emerge un’accettazione di fatto della decadenza dell’Italia sotto la veste edulcorata della cosiddetta “decrescita felice”.
Le domande senza risposta infatti – una volta finito di leggere il programma dei giallo-verdi – sono tante: chi e perché dovrebbe creare ricchezza a questo punto? Come si riducono le diseguaglianze crescenti? Come si tutela l’innovazione tecnologica? Dov’è la ricetta per dare un ruolo all’Italia in Europa e nel mondo? Dove è l’impresa, soggetto del Nord leghista? E dove sono i giovani che hanno votato 5 Stelle? Dico questo perché il contratto di programma non delinea un futuro per l’Italia ma rappresenta solo il maldestro tentativo di preservare il presente. Guarda alla distribuzione ma non alla produzione. E proprio in questo conferma di non avere una visione politica e una mission chiara su come far risorgere l’Italia.
Non solo. Nelle trentanove pagine del documento si contano pure soluzione assai discutibili. Quali? La messa in discussione della Tav, che potrebbe costarci due miliardi di penali; la ristatalizzazione di Alitalia e di Monte dei Paschi di Siena, che serviranno a far piacere ai soliti noti; mentre l’eventuale chiusura di Ilva, principale polo siderurgico europeo, può significare che l’Italia dopo la chimica perderà anche la siderugia, pilastro necessario di una politica industriale.
Tutto sbagliato dunque? No. Il contratto sembra condivisibile su aspetti come l’agricoltura, l’ambiente, la cultura, la sicurezza, le pensioni: aspetti importanti ma non decisivi. Queste buone proposte, poi, non solo sono inserite in un contesto non omogeneo ma spesso sono il frutto di un copia e incolla di ciò che il centrodestra ha proposto in campagna elettorale. Discorso diverso invece su debito, fisco, famiglia, natalità, lavoro ed immigrazione: su questi nodi l’approccio è decisamente debole perché non basta andare nella direzione giusta. Giudizio pessimo, invece, sul capitolo Esteri ed Europa, perché privo di visione; sulle riforme istituzionali (regionalismo senza presidenzialismo); sulla sanità (permane il disequilibrio con il Sud) e sulla scuola (solo nuove assunzioni). Del tutto inesistente, infine, la proposta sul fronte dello sviluppo, della crescita, degli investimenti, delle infrastrutture e della politica industriale.
In ogni caso siamo a un passo da un nuovo Nazareno. Ieri composto da chi ha fatto nascere prima il governo Letta e poi quello Renzi, oggi animato da Di Maio e Salvini: vedremo se quest’ultimo finirà come il precedente. Oggi come allora, da parte nostra, restiamo scettici su governi e composizioni che nascono senza l’indicazione del corpo elettorale. Perché non hanno quel respiro che nasce solo dalla legittimazione popolare.

*Adolfo Urso, senatore FdI

Gli elettori bocciano il “teatrino” di Di Maio. Ora governo di centrodestra

L’“esplorazione” più convincente l’hanno fatta gli elettori in Friuli Venezia-Giulia ponendo fine al “teatrino” di Luigi Di Maio, che ora non sa più che parte recitare. Gli elettori sono stati chiari e penso che almeno Casaleggio junior l’abbia capito. Qualcuno adesso lo spieghi al candidato premier che calca la scena con un copione che non esiste più, quando il pubblico se n’è già andato.
Il centrodestra unito ha chiuso la partita e fatto calare il sipario con due colpi, uno più forte dell’altro: prima nel Molise – regione del Sud, in cui il MoVimento 5 Stelle aveva vinto alle Politiche – dove la coalizione, guidata stavolta da un candidato civico ha superato il 45 per cento, staccando nettamente i Cinque Stelle e con il Pd in via di estinzione; ora in Friuli Venezia-Giulia dove Massimiliano Fedriga, da sempre versione Lega di governo, fa volare il centrodestra quasi al 60%, con il partito di Grillo che dimezza i voti delle Politiche e scende sotto il dieci.
Ora il Presidente Mattarella ha un motivo in più per dare l’incarico a Salvini. Solo il centrodestra infatti può formare un governo in sintonia con le aspettative del Paese. L’Italia non può aspettare, tra pochi giorni dovrà fare un vero Def, il documento di economia e finanza in cui deve assolutamente rimuovere la spada di Damocle delle clausole Iva per evitare il collasso dei consumi e nel contempo delineare una vera politica di riforme a cominciare dalla flat tax incrementale che può dare benefici concreti a breve sia per i contribuenti sia per lo Stato, rilanciando produzione e stimolando un Pil che langue.
Urge un governo che abbia salda coscienza nazionale e piena consapevolezza dei meccanismi della produzione anche per fronteggiare l’offensiva americana sui dazi che rischia di essere pagata soprattutto dal Made in Italy. Il fatto stesso che la Merkel abbia deciso di concordare la posizione europea con Macron e May senza ascoltare il governo Gentiloni la dice lunga sulla considerazione che l’Italia purtroppo non ha più nella Unione.
Basta con le “esplorazioni” quindi, basta con il “teatrino” di Di Maio, basta con la farsa del Pd di Martina in cui decide solo Renzi. Il Presidente dia incarico a chi ha più volte dimostrato e in modo sempre più chiaro di rappresentare la maggioranza degli italiani. O, altrimenti, faccia nuovamente decidere gli italiani!

*Adolfo Urso, senatore FdI

Stop all’Italia del "stai sereno". Ecco come disincentivare il trasformismo

Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo di seguito un estratto dalle conclusioni di “State sereni. L’Italia è una Repubblica fondata sul tradimento” (Iuppiter, pp. 160, € 14) , l’interessante libro-inchiesta del giornalista de Il Tempo Carlantonio Solimene sul fenomeno sempreverde del trasformismo in politica e su alcune “cure” individuate dall’attento cronista a colloquio con esperti e analisti. Un tema di stringente attualità questo del “tradimento” parlamentare – con proposte ad hoc di autoriforma indicate in campagna elettorale come il “patto anti-inciucio” – rispetto al quale la nacente Terza Repubblica non potrà prescindere se intende emanciparsi, non solo dal punto di vista generazionale, dalle storture bizantine della Prima e dai fenomeni degenerativi della Seconda. (A.R.)
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La riforma del regolamento approvata al Senato prevede una serie di misure destinate a snellire l’iter di approvazione delle leggi e a scoraggiare i cambi di gruppo. È l’ultimo aspetto che interessa in questa sede. Sostanzialmente, il senatore che decide di lasciare il gruppo d’origine, può solamente andare nel Misto oppure tra i banchi di una formazione uscita dalle elezioni. Non può, cioè, contribuire alla creazione di nuovi gruppi. Per fare un esempio, se il regolamento fosse stato in vigore in questa legislatura, non avremmo avuto né il Nuovo Centrodestra, né Gal, né Ala eccetera. Inoltre, il parlamentare che passa da un gruppo all’altro perde gli incarichi che aveva acquisito per conto della formazione d’origine, ad esempio quello di vicepresidente del Senato o di segretario d’Aula. La “penalizzazione” non vale invece per il Presidente, che rappresenta un organo monocratico eletto da tutti i senatori e non designato da un partito.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, costituisce certamente un disincentivo al trasformismo, seppur limitato ai senatori “graduati”. Ma anche il divieto di formare nuovi gruppi può in qualche modo arginare il fenomeno dei voltagabbana. Poter contare su un gruppo in Parlamento, infatti, consente di avere una serie di vantaggi: tempi di intervento nelle discussioni sulle leggi in Aula oltre a stanze ed uffici a Palazzo Madama. Anche per questo motivo, nel corso della legislatura, si è assistito al balletto di diversi senatori centristi che saltavano da un gruppo all’altro in base alle necessità per garantire che le formazioni createsi in corso di legislatura avessero sempre il minimo stabilito di componenti (dieci) per sopravvivere.
(…)
Il nodo dell’articolo 67 della Costituzione
La domanda da porsi è se “punire” i trasformisti, declassandoli eventualmente da vicepresidenti d’Aula a senatori semplici, violi in qualche modo il divieto del vincolo di mandato sancito dall’articolo 67 della Costituzione. La risposta – stando a quanto spiega Alfonso Celotto, professore di Diritto pubblico comparato all’Università Roma Tre – è piuttosto complessa.
«Quando c’è un onere, un peso riguardo la tua libertà di scelta, tu hai perso la tua libertà di scelta. Da questo punto di vista, quindi, questa parte del regolamento corre il rischio di essere dichiarata incostituzionale di fronte a un’interpretazione molto rigida dell’articolo 67. Le norme giuridiche, però, devono necessariamente essere lette a seconda del tempo in cui si vive. Il divieto del vincolo di mandato era rigoroso negli anni ’50 e ’60, perché i partiti erano molto forti e si doveva garantire una certa indipendenza all’eletto. Faccio un esempio: Democrazia Cristiana e Partito Comunista facevano firmare le dimissioni in bianco ai propri parlamentari per agitarle in caso di “disobbedienza”. Ed è il motivo per cui la giurisprudenza prevede che per lasciare lo scranno non basta presentare le dimissioni, ma queste devono essere anche accettate dalla Camera di appartenenza. Una tutela che, forse, oggi è un po’ fuori dal tempo. Allo stesso modo, anche l’interpretazione rigida del divieto del vincolo di mandato ai nostri giorni può essere attenuata. Anche perché in fondo chi cambia gruppo non decade da senatore: al limite perde i gradi di vicepresidente o segretario d’aula, ma il suo dissenso è comunque garantito».
I dubbi restano: l’articolo 67 della Costituzione, a seconda della sua interpretazione, potrebbe depotenziare il nuovo regolamento del Senato. Così come, ad oggi, rende totalmente inesigibile la multa che il MoVimento 5 Stelle ha previsto nel suo nuovo codice di condotta per gli aspiranti parlamentari, con l’impegno a versare 100mila euro nel momento in cui si cambi partito. Uno stratagemma già usato in passato (per gli europarlamentari la multa era addirittura di 250mila euro), ovviamente senza alcun risultato concreto.
Tuttavia a questo punto è lecito chiedersi: è possibile cambiare il principio costituzionale che vieta il vincolo di mandato? La domanda può apparire provocatoria: oggi qualche forma di mandato “condizionato” è prevista solo in Portogallo, Bangladesh, Panama e India. Nel resto del mondo, e in particolare in tutte le più autorevoli democrazie occidentali, i parlamentari esercitano le loro funzioni senza dover rendere conto né ai partiti né agli elettori. Eppure la richiesta di revisionare questo principio costituzionale nel corso di quest’ultima legislatura è stata avanzata da più parti. In vari momenti, si sono espressi a favore del vincolo di mandato il MoVimento 5 Stelle, Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia. Partiti che, tra qualche mese, presumibilmente avranno i numeri per varare questa modifica costituzionale. Superando le facili ironie su queste posizioni (Berlusconi ora è per il vincolo di mandato, ma lo era assai meno quando i “responsabili” salvavano il suo governo), è giusto interrogarsi asetticamente sul merito della questione. Anche in questo caso, è opportuno lasciare la parola ai giuristi. A partire da Stefano Ceccanti.

Carlantonio Solimene

«Io non credo sia giusto toccare l’articolo 67 della Costituzione. Inserire il mandato imperativo, infatti, significherebbe dare ai segretari di partito il potere di sostituire un eletto con un altro. Se un parlamentare non rispetta gli ordini del partito, viene fatto decadere e gli subentra il primo degli esclusi. Questo rafforzerebbe il rapporto tra eletti e segretari di partito, ma non quello tra elettori ed eletti, che è la relazione che oggi maggiormente andrebbe potenziata. Da questo punto di vista, l’inserimento in Costituzione del vincolo di mandato rappresenterebbe un non rimedio. Se noi, invece, vogliamo fortificare il nesso tra parlamentari e corpo elettorale, dobbiamo immaginare una serie di disincentivi al trasformismo di altro tipo. Come quelli previsti dal nuovo regolamento. Il divieto di creare un nuovo gruppo, ad esempio, impedisce a partiti mai passati dalle urne di accedere al finanziamento pubblico e di conquistare visibilità. Impedisce, cioè, che si parta dal Parlamento per arrivare nel Paese e non viceversa, come in realtà dovrebbe essere».
Più possibilista su un ritocco dell’articolo 67 è invece Alfonso Celotto.
«Tutte le disposizioni vanno iscritte nel tempo in cui sono pensate. Nel 1947 il divieto del vincolo di mandato era indispensabile, perché venivamo da un sistema a partito unico in cui era necessario garantire la libertà dell’eletto. Anche altre costituzioni scritte in quegli anni hanno articoli molto simili. Le costituzioni più recenti, invece, come quelle di Portogallo o Grecia, non hanno più principi di questo tipo perché i tempi sono cambiati. Anche in Italia, oggi, il divieto di mandato imperativo potrebbe essere leggermente revisionato, basterebbe usare un po’ di buonsenso. Il nuovo articolo 67 andrebbe legato al meccanismo odierno della rappresentanza. Oggi, con leggi elettorali che prevedono il listino bloccato, la rappresentanza passa inevitabilmente attraverso i partiti. Non si viene eletti per il proprio consenso personale, ma perché una formazione politica ha deciso di inserire nella propria lista una certo candidato. L’eletto, quindi, rappresenta sì la Nazione, come recita la Carta, ma rappresenta anche il partito che l’ha fatto eleggere. Basterebbe aggiungere una parolina all’articolo in questione, scrivere che “Ogni membro del Parlamento rappresenta anche la Nazione”, per cambiare sostanzialmente la disciplina. Le norme appena varate dal Senato, ad esempio, con una riformulazione di questo tipo non correrebbero più il rischio di incostituzionalità».
Il dibattito è aperto. Nella legislatura che sta per cominciare certamente se ne parlerà di nuovo.

*Carlantonio Solimene, giornalista, scrittore

Auto-rottamato e nel caos: autopsia del Partito Democratico

Dal 40,8% e più di 11 milioni di voti alle elezioni europee del 2014, al 18,7% e poco più di 6 milioni di voti alle elezioni politiche del 2018. Di quel 40,8% circa la metà ha confermato il voto al Partito Democratico; il 15% si è astenuto; un terzo ha assegnato la preferenza ad un altro soggetto politico. Questi sono i numeri – spietati – che certificano la débâcle del centrosinistra. Non è, solo, una sconfitta: perché, a voler essere cinici, il Partito Democratico a guida renziana è abituato a perdere. Quello toccato il 4 marzo è solo il punto più basso di una parabola discendente che l’ex sindaco di Firenze e il suo cerchio magico non hanno voluto vedere, come nelle peggiori tradizioni del leaderismo nostrano. Il 18,7% è una percentuale-incubo che nessun sondaggio era stato in grado di prevedere e condanna alla marginalità: spazza via le radici, le fondamenta e la stessa ragione d’essere d’un partito che Walter Veltroni guidava con ambizione maggioritaria e vocazione collegiale, nella consapevolezza della necessità di una moderna sintesi fra le anime del centrosinistra. Di quel progetto rimangono le macerie lasciate dall’ego di Matteo Renzi, gli immancabili stracci pronti a volare nelle sedi opportune ma anche davanti alla telecamere, le dimissioni post-datate del segretario. Il Partito Democratico è destinato all’implosione, ma la responsabilità non è, comunque, solo dell’ex presidente del Consiglio.
Lo psicodramma del day-after racconta di un centrosinistra smarrito, in crisi d’identità, che rispecchia la stessa sindrome di cui soffrono pressoché tutti i partiti socialdemocratici occidentali. Lo spauracchio del fascismo dietro l’angolo, la cronica supponenza nei confronti dei propri stessi elettori, l’altezzoso snobismo nei confronti delle problematiche sociali create dall’emergenza migratoria, la ridicola caccia alle fake news e agli hacker russi come a novelli mulini a vento, l’ostinata dicotomia tra una fantomatica “società aperta” e una “società chiusa”, la malsana voglia d’essere sempre e ad ogni costo cheerleader di Bruxelles e degli utopici “Stati Uniti d’Europa”, l’incapacità sostanziale di fornire qualsivoglia lettura realistica e non elitaria della complessità del mondo globale: questi sono i tratti distintivi di un fallimento che ha trasformato il Partito Democratico da possibile forza maggioritaria a terzo polo minoritario nell’inedito tripolarismo della politica italiana. Alle inquietudini degli operai delusi dalla globalizzazione, il centrosinistra ha risposto con l’anagrafe antifascista; alle preoccupazioni di cittadini che hanno visto le periferie trasformarsi in terre di nessuno, è stata consigliata la visione di una commedia italiana sull’integrazione e sul multiculturalismo. La mancanza di autocritica come irrinunciabile àncora per giustificare ogni sconfitta.
Magra e illusoria consolazione è credere, ora, d’essere un ago della bilancia, o addirittura quelli che danno le carte. Il terzo polo è pronto a dividersi in tre correnti. Una che già prima delle elezioni smaniava d’accasarsi presso quella che Eugenio Scalfari, su Repubblica, ha definito come “il nuovo grande partito della sinistra moderna” ovvero il Movimento 5 Stelle – ma non erano populisti? –, confermando che grande è la confusione nei salotti buoni dell’intellighenzia. Una seconda, che guarda con interesse ad un possibile sostegno – magari un appoggio esterno – alla coalizione di centrodestra. Una terza, infine, che vorrebbe rimanere immobile, che si culla nell’illusione di avvantaggiarsi dal fallimento di eventuali tentativi di governo da parte degli avversari. Ecco, però, che per i Democratici c’è almeno una lieta novella: Oliviero Toscani ha deciso di scendere in campo e di iscriversi al partito. Sicuramente una risorsa preziosa per recuperare voti al Nord, sopratutto in Veneto.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

“Più Europa” con Emma Bonino? Un falso idolo: è l’Ue. No grazie.

Il democristiano, ed ex alleato di Pisapia, Bruno Tabacci salva la lista di Emma Bonino, offrendole l’esenzione dall’obbligo di raccogliere delle firme, concedendole il suo simbolo di Centro Democratico, in cambio dell’apparentamento di questa con il PD. Messa così, quella del democristiano e della radicale sembra una barzelletta (e infatti ha dato luogo ad una messe di vignette) però è una cosa seria.
La premessa all’incredibile vicenda è che il ministro Minniti, dopo essere stato attaccato dalla Bonino perché non abbastanza genuflesso ai migranti, aveva cercato di escludere la lista “Più Europa” con una circolare capziosa e incostituzionale secondo cui, per raccogliere le firme in calce ai moduli per presentare una lista in una coalizione, sarebbe stato necessario avere, fin dall’inizio della raccolta, già stampato su questi i nomi dei candidati degli altri partiti della coalizione (pur se esentati dall’obbligo di raccoglierle).
Ovviamente, in un Parlamento nel quale quasi tutti i partiti maggiori, e comunque il PD, sono esentati dalla raccolta firme, i tempi tecnici della negoziazione delle candidature uninominali con l’alleato non avrebbero mai consentito alla Bonino di trovare le firme in tempo. Alla luce di ciò, la Bonino aveva elevato proteste in ogni sede, ottenendo un emendamento correttivo al Rosatellum, che era però stato bocciato dal centrodestra per mettere in difficoltà il PD, facendo emergere il pasticcio.
Qui finisce la storia vera di un abuso ed inizia, invece, la commedia dell’arte. La Bonino, cercando furbescamente visibilità, ha infatti sulle prime mostrato di rifiutare l’aiuto renziano. L’offerta di raccogliere le firme attraverso la capillare organizzazione del PD è stata quindi respinta dalla sedicente “Zia d’Italia” (per via dell’aborto, non della modestia) per poter presentare il proprio progetto come autonomo e distinto dal PD, riuscendo con la minaccia di andare da sola, ad ottenere paginate sui giornali.
La protesta legalitaria, del volere l’accesso come diritto e non privilegio, è però durata poco. Nella realtà, d’accordo con Matteo Renzi, per evitare la sconfitta totale nei collegi, dove anche lo zero virgola conta e dove il PD è accreditato di una misera quarantina di seggi su 231 totali, è presto emersa la soluzione: offrire un posto al fedele Tabacci, in cambio di un simboletto civetta. Più Europa sarà quindi sulle schede, a cercare voti radicali o montiani, per l’alleanza di Centrosinistra, puntando al 3% o – almeno – all’1%.
Dunque il PD avrà finalmente un alleato qualsiasi. Per tale servigio, Renzi porterà senz’altro in Parlamento, attraverso qualche collegio uninominale, anche due o tre rappresentanti degli ultras di Bruxelles, dei teorici laici dell’invasione di immigrati, degli alfieri dell’abortismo. Ci sarà magari in più qualche liberista, individualmente persona per bene, finito lì per caso, ma irrilevante dato il contesto al contorno.
Ma è davvero cosa loro l’Europa? Vale a dire: sono davvero con loro rappresentate le idee di Giulio Cesare, Costantino, Giustiniano, Carlo Magno, Churchill e De Gaulle? Non ci si crede davvero. Quella sarebbe l’Europa, ma loro sono solo la UE. E nemmeno. Loro sono la tecnocrazia. Sono per gli Juncker, i Van Rompuy, le Mogherini. Pacifinti, terzomondisti, sorosiani. La loro stessa leader distrugge i valori cristiani, parla la lingua dei nemici, e si sottomette ai loro costumi. Ma va fierissima contro tutti i nostri.
Torniamo ancora sul fatto che alcuni tra loro sono liberisti, per dire che è troppo poco il solo liberismo: non ci sentiamo solo consumatori e non aspiriamo solo al paradiso dei consumatori. Senza più nulla per cui valga la pena sentirsi italiani, con le strade invase da stranieri, non sapremmo accontentarci né della libertà di espatrio né del mercato unico in cui comprare tutto. E, tra le promesse impossibili degli uni e degli altri, la flat tax di Salvini e della Meloni è una promessa molto migliore dell’IMU alla Monti.
Di fronte a questo boninismo, e al PD dei sacchetti agli amici, Forza Italia purtroppo purtroppo prepara non una schiera di professori e professionisti (’94) ma un’infornata di nani, lacché e ballerine, che saranno tutti pronti all’alleanza con Renzi e Bonino un minuto dopo il voto – per fermare lo spauracchio M5S, ma anche per fare molto altro di male. Tutto quello che poteva venir fuori dalle quinte linee del vecchio pentapartito.
Contro costoro serve una Destra del Centrodestra forte – grazie ai parlamentari che saranno eletti in Fratelli d’Italia e nella Lega, nonché agli eletti di alcune componenti della quarta forza (Noi con l’Italia) tra quelli che non si sono compromessi con il Nazareno – per impedire che il patto tra Renzi e Berlusconi risorga alla prima occasione.
Occorre una maggioranza imprevista alla coalizione del centrodestra, che tolga ogni alibi, e ogni chance alla protesta grillina, che la marchi effettivamente come comunista, quale essa è, e che al contempo releghi il PD alla storia. Serve il 51% dei seggi con il 40% dei voti, e per questo è necessario quel landslide nei collegi uninominali che solo può correggere la natura proporzionalista del Rosatellum. Serve quindi proprio quello che Più Europa è nata per impedire, alleandosi al PD, per fornire voti in sostegno nei collegi al margine.
Chi vota Più Europa alleata col PD oggi non ha dunque alcun alibi: vota più Monti, più Letta, più Alfano, più Gentiloni. Vota per Renzi e Berlusconi di nuovo alleati. E per tutto quanto ha impedito al centrodestra e all’Italia di rinnovarsi. È una scelta di campo tra la cultura della vita e quella della morte, tra il mondialismo e la patria, tra la tregua e la sfida. Ma anche tra la Libertà e i suoi falsi idoli.

*Giovanni Basini, collaboratore Charta minuta

Renzi perde le "ali". La destra adesso ha l’occasione di segnare la storia

La doppia rinuncia di Angelino Alfano e Giuliano Pisapia segna la rotta della sinistra e nello specifico la disfatta di Matteo Renzi. Il passo indietro di Pisapia apre, infatti, la strada ad una sinistra alternativa al Partito Democratico che con Grasso, e forse con la Boldrini, potrà contare su un forte appeal su quello che era l’elettorato della “Ditta” di Bersani. D’Alema sta maturando la sua vendetta!
Con questa legge elettorale, che Renzi arrogante e spavaldo ha proposto, il suo partito rischia di perdere anche collegi tradizionalmente di sinistra. Di converso, il centrodestra potrebbe conquistare la maggioranza dei collegi uninominali rasentando la maggioranza parlamentare…La rinuncia di Alfano, peraltro, sancisce la fine del progetto di Alternativa Popolare. Molti dei suoi esponenti potrebbero direttamente transitare nelle fila del centrodestra, nella speranza di trovare ospitalità. Lo schema che Renzi aveva ideato, insomma, sfuma in un sol giorno. Il Pd non avrà più due ali, al centro a a sinistra, dovrà far praticamente da solo con alleati privi di qualunque forza e credibilità e senza leadership.
Diverso lo schema nel centrodestra dove Berlusconi, Salvini e Meloni hanno invece una sempre più nitida rappresentanza politica, ciascuno forte della propria leadership, come ha dimostrato da parte sua anche il congresso di Trieste di Fratelli d’Italia. Peraltro, anche le due liste che Berlusconi sta allevando, una più cattolica con Cesa, l’altra più laica, con Costa & company, per quanto variegate rappresentano comunque un valore aggiunto.
A questo punto, occorre fare il massimo sforzo per raggiungere pienamente l’obiettivo della maggioranza parlamentare, perché altrimenti il rischio serio è che di fronte ad una situazione di impasse nel nuovo Parlamento, Berlusconi sia “costretto” ad offrire proprio a Renzi, finalmente libero di Alfano e Pisapia, il nuovo patto istituzionale, non più al Nazareno ma direttamente ad Arcore, portando indietro la lancetta di una decina d’anni, quando ricevette l’allora sindaco di Firenze, rimanendone colpito.
Il centrodestra ora ha i numeri per vincere e governare ma deve raggiungere il risultato della maggioranza parlamentare e deve avere un chiaro organico programma di governo, condiviso e realizzabile. Altrimenti, la rinuncia di Alfano e di Pisapia paradossalmente potrebbe favorire il nuovo compromesso tra Berlusconi e Renzi (a parte invertite). Ora il centrodestra ha il dovere di vincere. La Destra può segnare la storia.

*Adolfo Urso, senatore FdI

Leopolda 8, ultima fermata di Renzi: il treno della "rottamazione" è deragliato

Mai stato così all’angolo Matteo Renzi, neanche all’indomani della sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Mai così privo di carte da giocare e idee, altro che “Leopolda 8”. Parola di Pierluigi Bersani: l’alleanza a sinistra non s’ha da fare. E c’era pure da spettarselo, a parte Giuliano Pisapia che pure, sul dossier della manovra, è pronto a vendere caro l’appoggio. È chiaro che gli uomini di Mdp non possono risalire in un carro dal quale sono già scesi all’alba dell’ultimo congresso del Partito democratico, se a guidarlo è sempre lo stesso cocchiere. Non sarebbe soltanto un atto incoerente ma difficile da digerire da coloro che dovrebbero recarsi alle urne e mettere una “x” sulla scheda che in un modo o nell’altro garantirebbe il segretario del Pd.
A quel punto la fuga di voti da sinistra verso il Movimento Cinque stelle, sarebbe un esito strategicamente poco appagante per una formazione ai primi vagiti elettorali. Lo sa benissimo anche Piero Fassino, impegnato in una difficile opera di mediazione destinata a far saltare il banco e a far finire la pistola fumante nelle mani di Massimo D’Alema. Furbamente, però, il Lìder Massimo, le mani, ha preferito tenerle in tasca.
Altro che ritorno all’Unione, se c’è una figura che divide gli animi è proprio quella di Renzi. Se n’è accorto di recente anche Giorgio Napolitano, l’uomo che aveva consegnato a Renzi le chiavi del governo del Paese in un momento storico – quello che precedeva le scorse Europee – dove la miglior risposta ai malumori del Paese era la sgangherata proposta declinabile quale populismo-di-sistema. La guerra ingaggiata, in ultimo, con il presidente delle Repubblica Sergio Mattarella e il premier Paolo Gentiloni sul rinnovo di Ignazio Visco al vertice della Banca d’Italia, ci dice che la dialettica renziana non lascia prigionieri, bensì macerie.
Così facendo, Renzi rischia di non andare da nessuna parte. Perché se la proposta dell’ex rottamatore ha perso appeal nell’area progressista, sulla scorta di provvedimenti assai indigesti quali Jobs Act e la Buona scuola, che hanno frustrato quei blocchi sociali tradizionalmente affini alla sinistra, anche la battaglia al centro rischia di perderla malamente. La vittoria del centrodestra unito in Sicilia, con la recente elezione del postmissino Nello Musumeci a presidente della Regione, stanno convincendo Silvio Berlusconi dell’inutilità di un piano B da siglare con lo stesso Renzi all’indomani delle Politiche.
Anche perché l’habitat naturale dei moderati, non può non essere contiguo alle aree identitarie e conservatrici, soprattutto oggi che con la reintroduzione dei collegi uninominali figli del Rosatellum, i poli tornano ad avere una ragion sufficiente. Un incrocio che non può non mettere all’angolo il leader fiorentino. In altri termini, se il “patto dell’arancino” produce effetti indigesti, questi rischiano di essere a danno esclusivo di chi al tavolo non poteva esserci. E questi, ovviamente, è il renzismo di ritorno.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta