Rinaldi:Il ruolo dello Stato? Investire su chi produce in Italia

Lunedì 26, a Roma, si terrà la terza sessione di studi del master di Farefuturo “Sovranismo vs Populismo”. L’incontro sarà dedicato a un altro tema di stringente attualità: “Impresa, lavoro, formazione e nuove povertà: quale il ruolo dello Stato?”. Ne discutiamo con uno dei relatori dell’incontro, l’economista e professore Antonio Maria Rinaldi.

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Professor Rinaldi, viviamo giorni di concitazione e d’incertezza dovuti alla bocciatura della manovra economica da parte dell’Unione europea. A suo avviso, questa manovra va nella direzione giusta per rilanciare il nostro Paese (e se sì, quali punti ritiene meritevoli di attenzione), oppure ha ragione Bruxelles?


Lo “scontro” con Bruxelles deriva essenzialmente dal fatto che i precedenti governi hanno ottenuto “concessioni” grazie alla flessibilità delle regole previste con la conseguenza di poter posticipare le clausole di salvaguardia che prevedevano aumenti del gettito IVA e accise attualmente quantificabili in 12.4 Mld. Ebbene l’attuale manovra intrapresa dal nuovo governo secondo i “tecnici” della Commissione Europea non avrebbe i requisiti attesi per “compensare” le concessioni ottenute dall’Italia e che anzi aggraverebbe ulteriormente il percorso di convergenza verso le regole della UE. Perciò ha proceduto per la prima volta all’apertura di una procedura per deficit eccessivo basata sul debito. Quindi la tesi del governo italiano di puntare alla crescita del PIL per la diminuzione del rapporto debito/PIL non ha trovato ascolto e supporto sui tavoli europei. 

 

La quarta rivoluzione industriale, con il suo carico d’innovazione, sta cambiando il modo di fare business. Quale ruolo pensa debba avere lo Stato in questo processo, considerate le preoccupazioni in merito all’impatto dell’automazione sul mercato del lavoro?


Certamente la cosiddetta Industria 4.0 rappresenta un elemento positivo e innovativo ma per ora è stato concepito per le industrie di dimensioni più grandi tralasciando le piccole e micro aziende che rappresentano la vera colonna portante dell’economia italiana. Pertanto l’automazione per massimizzare le nuove tecnologie produttive e miglioramento delle condizioni di lavoro, con innegabili vantaggi di produttività, sono stati ad esclusivo appannaggio delle grandi industrie. Se si riuscirà ad attrarre in modo intelligente anche le più piccole in questa nuova rivoluzione industriale si riuscirà a salvaguardare, se non aumentare, posti di lavoro e aumentandone inoltre sensibilmente la qualità e sicurezza.

 

Il reddito di cittadinanza è uno dei provvedimenti più discussi negli ultimi mesi. Qual è il suo giudizio in merito? Ritiene che sia lo strumento più efficace per combattere la povertà, oppure sarebbero preferibili altri provvedimenti?


Vorrei personalmente che neanche un cittadino italiano avesse la necessità di dover accedere al RdC, perché vorrebbe dire che di lavoro ce n’è per tutti. Ma questo purtroppo non è negli orizzonti prossimi e pertanto in linea di principio sono favorevole a dei meccanismi che diano la possibilità, a determinate e temporanee effettive condizioni reali, di ottenere una forma di reddito, ovvero di integrazione del reddito, per ottenere un livello di vita “dignitoso”. Naturalmente dal punto di vista tecnico di erogazione si può discuterne, ma non disdegno il principio che lo Stato deve tener conto della situazione di estremo disagio economico a carico di fasce sempre più estese della popolazione. Pertanto solo in in ottica temporale e di raccordo in attesa di opportunità di lavoro effettivo.

 

L’Indice della Libertà Economica redatto da Heritage Foundation vede l’Italia fanalino di coda d’Europa e in una posizione poco lusinghiera a livello globale. Ritiene veritiero questo studio? Quali provvedimenti si dovrebbero mettere in cantiere per rendere l’Italia un Paese su cui investire a livello imprenditoriale?


Aldilà della validità o meno di tutti gli studi comparativi è innegabile che l’Italia abbia sempre sofferto di mancanza di “attrazione” nei confronti di investitori esteri. Le motivazioni sono infinite ad iniziare dalla complessità e dalla non certezza delle regole amministrative e fiscali oltre ad una cronica lentezza della giustizia. Pertanto il capitale estero trova difficoltà ad avere un terreno ad esso favorevole e pertanto decide di orientarsi verso sistemi Paese più “semplici”. Ma questo crea, inoltre, un ulteriore disagio per il Paese perché induce capitali esteri ad acquistare realtà ed eccellenze italiane che si fregiano di brand di successo per poi delocalizzare immediatamente le produzioni avvalendosi naturalmente poi del prestigioso marchio italiano. 

 

Recentemente Matteo Salvini ha proposto l’abolizione del valore legale della laurea. Cosa pensa di questa proposta? Ritiene che l’attuale sistema formativo risponda alle esigenze del mercato del lavoro?


Anche in questo caso sono d’accordo in linea di principio con l’abolizione del voto di laurea nei concorsi pubblici poiché le diverse valutazioni degli Atenei italiani potrebbe sfavorire/favorire i partecipanti non ponendoli sullo stesso piano. Pertanto l’abolizione del previsto requisito minimo di voto conseguito alla laurea rappresenta a mio avviso una opportunità da valutare con interesse. Sarà poi la serietà e difficoltà del concorso a determinare i vincitori con criteri di meritocrazia che il solo voto di laurea, per i motivi sopra esposti, non consente di attribuire. 

 

 In Italia il tasso di disoccupazione giovanile viaggia intorno al 30%, quasi il doppio della media europea. Quali contromisure dovrebbe adottare il nostro Paese per invertire questa tendenza?


La nostra Costituzione sancisce al primo articolo che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e che quindi dovrebbe essere l’obbiettivo principale dell’azione di qualsiasi governo. Sappiamo, purtroppo, che l’attuale architettura su cui si fonda l’unione monetaria europea di fonda si fonda sulla stabilità dei prezzi, inflazione, e il rigore dei conti pubblico fino al perseguimento del principio del pareggio di bilancio. Questo modello si avvale essenzialmente della cosiddetta svalutazione salariale per recuperare obiettivi competitivi unitamente al fenomeno delle delocalizzazioni dei siti produttivi sempre più “incentivato” dalla globalizzazione senza regole. Questo ha prodotto danni nel mercato del lavoro con conseguenze ancora più marcate nei confronti dei giovani. Abbiamo visto recentemente come la nuova amministrazione USA abbia iniziato una mirata azione nel contrastare gli effetti devastanti della delocalizzazione nei confronti dell’occupazione e del tessuto industriale nazionale intraprendendo politiche di sgravi e incentivi fiscali a favore delle aziende che riportano le produzioni in patria. Sarebbe opportuno seguire anche in Italia lo stesso percorso.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Reddito di cittadinanza? No, grazie. Aiutare il lavoro, non creare "fannulloni"

Questa campagna elettorale – il cui livello, spiace scriverlo, segna nuovi record negativi per ciò che concerne la qualità e la fattibilità di molti programmi – è caratterizzata dalla massiccia comparsa di proposte riguardanti redditi di cittadinanza et similia. Tralasciando gli aspetti più tecnici riguardanti le differenze sostanziali tra reddito di cittadinanza, reddito minimo garantito e reddito di inclusione – ben spiegate a questo link – si vuole qui compiere una riflessione sugli aspetti etici e morali sull’improvviso interesse per la politica per questo tipo di misure di sostegno economico.
Appare opportuno compiere una prima distinzione. In linea di principio, non è da scartare aprioristicamente una misura di sostegno al reddito per le fasce meno abbienti – e, in particolare, per i disabili –, circoscritta nel tempo e delimitata da precisi requisiti. Ciò che, però, lascia fortemente perplessi è l’idea, propagandistica e fallace, che lo Stato si trasformi in una sorta di cornucopia: e che ancora una volta, dunque, delle legittime misure di welfare degenerino in un assistenzialismo cronico, i cui cospicui costi o vengono taciuti, o vengono affidati a fantasiose elaborazioni di finanza creativa. In secondo luogo, sembra ormai andata in soffitta la speranza di vedere delle ricette economiche che tengano in debita considerazione le esigenze dei più giovani e il loro futuro: al contrario, la politica è sempre più preoccupata solo della propria sopravvivenza. Occorre domandarsi, pertanto, se queste promesse di denaro sotto forma di redditi di cittadinanza e dintorni siano provvedimenti che vadano davvero a beneficiare i meno abbienti e i più giovani.
Il rischio, molto concreto, è che attraverso tali elargizioni a fondo perduto si finisca solo col creare una classe di fannulloni che non hanno alcun interesse a migliorare la propria posizione sociale, perché già lautamente sussidiati dallo Stato. Luigi Di Maio afferma: «Daremo un sostegno che varia in base al numero di componenti familiari e che è di 780 euro per i single a reddito zero, ma che può arrivare a 1.950 euro per una famiglia senza reddito di 4 persone». Tale proposta rasenta la demenzialità, oltre che ad essere un concentrato di demagogia. Considerato che la cifra proposta, vicina agli 800 euro, corrisponde di fatto al primo stipendio – nei casi migliori – di molti giovani neolaureati, è evidente che in tal modo si crea un forte disincentivo alla ricerca di un’occupazione, provocando altresì una pericolosa distorsione del mercato. Per quale motivo un disoccupato dovrebbe cercare un lavoro, se lo Stato gli consente di sopravvivere con un lauto assegno mensile? Ma soprattutto, non è immorale e allo stesso tempo degradante, che lo Stato di fatto crei una schiera di mantenuti dalla collettività, e senza alcuna prospettiva di mobilità sociale? Anziché investire sui giovani e sul loro futuro – borse di studio, riqualificazione professionale – li si condanna ad un presente di apatia e di immobilismo. Vale la pena ricordare come nel giugno del 2016, in Svizzera, un referendum per l’introduzione di un reddito di base incondizionato pari a 2500 franchi svizzeri per gli adulti e 625 franchi svizzeri per i minori sia stato sonoramente bocciato con il 76,9% dei voti – e tutti i Cantoni contrari: a dimostrare una distanza abissale di cultura politica e di concezione dello Stato.
Quando si portano tali argomentazioni, si viene solitamente tacciati d’essere affamatori del popolo, privi di sensibilità e incapaci di pensare ai più deboli: accuse che sono il canto del cigno dell’ipocrisia. L’unico, vero modo d’aiutare chi è privo di un sostentamento e le nuove generazioni è uno solo, ed è il più solidale di tutti: creare lavoro, liberando le imprese dalle gabbie della burocrazia e della pressione fiscale. Anziché blaterare di irrealizzabili redditi di cittadinanza, si riporti al centro del dibattito politico l’individuo e la sua dignità, che non si trova di certo in una paghetta statale che puzza di ricatto generazionale.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta