Da anni – o forse da sempre – la democrazia liberale è considerata un regime in crisi. Il suo essere plurale e aperta la rende facilmente bersaglio di interpretazioni critiche e di profezie nefaste circa la sua prossima fine. Abbiamo letto di “tramonti dell’Occidente” e di democrazie decadenti lungo tutto il Novecento, almeno fino al crinale storico del 1989. Proprio la caduta del muro di Berlino sembrava aver segnato la fine delle alternative, la “fine della storia” per dirla con Fukuyama.
I regimi liberaldemocratici avevano vinto, non c’erano più reali competitor tra i sistemi politici. Eppure, proprio aver creduto che quel prodotto tipicamente occidentale e moderno, quella democrazia liberale e fondata sul libero mercato e sul capitalismo, fosse ormai un regime invincibile e destinato a essere esportato come benchmark per ogni comunità politica si è rivelato un grave errore. Un errore prima di tutto concettuale: quello cioè di aver considerato la politica come un terreno ormai neutro, regno della razionalità strumentale, della governance intesa come better regulation, dei governi come amministrazioni di condominio. Il regno dell’ordinaria amministrazione e delle scelte di policy basate su criteri scientifici. La fine delle polarizzazioni ideologiche e il trionfo del New Public Management. Oggi possiamo dire che non è andata proprio così, non tanto per la comparsa di nemici esterni, quanto per la riproposizione di problemi interni, tutti nostri, occidentali. Esiste un malessere attuale, contemporaneo, delle democrazie occidentali che non era stato previsto in quegli anni. Il malessere di oggi è prima di tutto una crisi di accountability: il gap tra le aspettative del popolo (il demos) e le risposte dei governi (il kratos) tende ad aumentare da diversi decenni. I sintomi di questo malessere sono numerosi.
Recentemente ho provato a isolarne alcuni:1 calo tendenziale della fiducia nei partiti, nei politici di professione e nelle istituzioni rappresentative; riduzione della partecipazione elettorale; aumento della volatilità elettorale; incremento del numero dei partiti; nascita e morte (politica) repentina di innumerevoli nuovi partiti; intensificazione dell’uso dei referendum ad hoc; riduzione della durata media in carica dei governi; diffusione di stile e atteggiamento populisti. Alcuni di questi sintomi sono ambivalenti nell’interpretazione. Ad esempio, una maggiore volatilità elettorale può essere letta come una più ampia libertà di scelta per l’elettore. Allo stesso modo l’incremento dell’uso dei referendum – e delle consultazioni popolari, anche online – sembrerebbe un buon sintomo democratico, non un sintomo di crisi. Tuttavia, anche questi due fenomeni, se letti guardando al big picture, ossia incrociando i dati con quelli degli altri sintomi, ci dicono altro: l’elettore più che libero sembra totalmente disorientato nelle sue scelte, spesso improvvisate, di impulso e “disperate”; i referendum risultano sempre più spesso un modo per ridare “lo scettro al popolo”, da parte di una classe politica progressivamente delegittimata e timorosa di compiere scelte impopolari.
Tutti questi sintomi descrivono una democrazia indebolita (specie sul suo versante liberale), con un demos partecipe a intermittenza, apatico e perennemente insoddisfatto, sempre più spesso mosso da quelle che possono essere definite le tre “i”: istinti, istanti e immaginario. E che sostituisce frequentemente il cosiddetto “voto di opinione” con il “voto di impulso”, una quarta “i”. Nella letteratura politologica recente si possono ritrovare numerosissimi “colpevoli”, gli agenti patogeni del malessere: la crisi dei partiti e della rappresentanza, la mediatizzazione della politica, la personalizzazione/leaderizzazione, la fine delle ideologie, l’arrivo della postverità e dei populismi e tanti altri fenomeni, ognuno dei quali ha ovviamente il suo peso e costituisce un problema reale. Tuttavia, se tutti questi agenti sono reali e sono diffusi praticamente in ogni regime democratico, deve esserci qualcosa di più profondo. E, andando in profondità, si arriva alla base, ossia al popolo. I nostri mutamenti come cittadini sono alla base dei mutamenti del sistema politico. Se la democrazia è malata, lo è perché si è ammalato il demos. In questo senso è una “demopatìa”.
Nello specifico, si tratta di una sorta di patologia autoimmune e degenerativa, nel senso che si è prodotta a seguito di mutamenti fortemente voluti in tutto l’Occidente e che proseguono e si intensificano nella contemporaneità. Il malessere democratico deriva, cioè, dalla lunga transizione alla postmodernità (o, per alcuni, all’ipermodernità): individualizzazione, fine delle grandi narrazioni, perdita del senso sociale, crisi del sapere, delle istituzioni e delle autorità cognitive, nuove percezioni e concezioni del tempo e dello spazio, sindrome consumistica e logica dell’“usa e getta”, crisi delle identità e fine delle comunità solide, narcisismo, incremento dei non luoghi e delle gratificazioni istantanee, ritorno a logiche di “folla” più che di massa. Se la società diventa prima di tutto psicologica, egocentrata e individualizzata, ogni settore della nostra esistenza ne risente: dall’economia, alla cultura, alla politica. Ciò non vuol dire che la politica non sia esente da colpe.
Tuttavia, le sue responsabilità vanno lette all’interno di una riflessione ampia, di una serie di mutamenti sistemici che per certi versi la “obbligano” a essere colpevole. Lo stesso ragionamento può essere fatto per i mass media. Le innovazioni tecnologiche sono i grandi motori di questi cambiamenti antropologici. Ogni innovazione è un medium e ci cambia, a prescindere dall’utilizzo che se ne fa: questa era la tesi di McLuhan, racchiusa nella celebre formula “il mezzo è il messaggio”. Concentrandoci sui mass media, il passaggio dall’era tipografica a quella televisiva ha comportato determinate conseguenze. Quello dall’era televisiva a quella digitale ne comporta altre. Tutte però vanno nella stessa direzione: incrementano la velocità e l’accumulazione di informazioni premiando la sintesi, e riducono conseguentemente la concentrazione e l’approfondimento; valorizzano “istinti e istanti” e allontanano la logica e il ragionamento; esaltano l’immagine e penalizzano il testo scritto; ricercano il sensazionalismo “a frammenti” per catturare l’attenzione e alimentano l’incoerenza nel discorso pubblico; ipersemplificano e banalizzano ogni argomento; elevano a notizia fenomeni irrilevanti (ma pop) e tengono fuori dall’agenda mediatica reali priorità (non pop perché complesse) e così via. In questo senso, la demopatìa ha luogo sia per ragioni storico-culturali (la modernità che produce “inevitabilmente” la postmodernità) che per ragioni tecnologiche (la transizione dall’era tipografica a quella digitale), entrambe legate a doppio filo: tutte le innovazioni tecnologiche recenti e vincenti sono strumentali e funzionali alla filosofia moderna. La accompagnano e ne costituiscono un derivato.
Questo mutamento è totale perché cambia il nostro modo di percepire le cose, di pensare e di comportarci. Quella che oggi definiamo digital transformation è a tutti gli effetti una transizione antropologica, fondata sulle innovazioni tecnologiche e sorretta dalla società dei consumi. In sintesi, potremmo dire che oggi il consumatore ha sostituito il cittadino, anche in politica. Il pubblico è sempre più individualizzato; è composto da elettori-consumatori via via più insoddisfatti e alla ricerca di nuovi stimoli forti e spiazzanti (che è esattamente la logica di base della società dei consumi), di istanti pieni di dopamina, di gratificazioni immediate e di acquisti d’impulso. Ciò che noi chiediamo alla politica di oggi non è più un modello di riforma sociale (tipico dell’era del voto ideologico, del Novecento pieno, del “secolo breve”) o un insieme di soluzioni di policy che riteniamo praticabili e vincenti (come era previsto invece subito dopo il 1989, nell’era del presunto voto di opinione). Noi cerchiamo fondamentalmente emozioni forti e conferme delle nostre convinzioni, peraltro sempre più instabili. Cerchiamo sintonia emotiva, pillole psicoterapeutiche per le nostre insicurezze, storie da comprare che siano il più possibile tarate sulla nostra. Eroi individuali come appigli salvifici, come nuove scorciatoie cognitive che hanno sostituito i simboli, le ideologie e la rappresentanza “solida” del Novecento. Ciò fa sì che la politica performante, in un’ottica di cattura del consenso, sia sempre più quella che plasma la propria offerta in base ai desiderata della domanda, cioè del pubblico. Ecco perché si può definire la leadership contemporanea come followship: i leader vincenti di oggi sono quelli che meglio degli altri si sintonizzano sulle oscillazioni continue dell’opinione pubblica. Non ci guidano verso idee loro, convincendoci che siano le migliori.
Ci vendono idee nostre come fossero loro. Questo facilita l’ottenimento del consenso, ovviamente. Specie nel brevissimo periodo, che è ormai l’unico che conta, in un diluvio di stimoli quotidiano che finisce per favorire l’oblio immediato e l’incoerenza come virtù. Tuttavia, nonostante questi accorgimenti tattici e funzionali, i governi durano mediamente meno di prima e l’insoddisfazione del demos continua a crescere perché entra in gioco quella che Christian Salmon ha definito la “cerimonia cannibale”. Per catturare la nostra attenzione e il nostro consenso, i leader-follower sono costretti a seguire la logica dei media: devono fare sensazione, altrimenti non li percepiamo neanche, all’interno dell’oceano di informazioni nel quale siamo immersi. Per fare sensazione devono promettere “mari e monti” e farlo con un piglio fortemente volontaristico (voglio dunque posso, volere è potere) e con un taglio personale (quasi biopolitico, di intimate politics). Quando però si è chiamati a mettere in pratica le promesse (ossia una volta al governo), subentrano tutte le difficoltà: la complessità del reale e dei fenomeni che si affrontano; le risorse limitate; le opposizioni che hanno carta bianca per riposizionarsi su ogni tema, mentre chi governa deve decidere e dunque essere più coerente e lineare, per definizione; le cose buone che non fanno notizia, mentre quelle negative sì e dunque l’opinione pubblica fatica a percepire cambiamenti positivi e spesso li considera come “atti dovuti” e magari tardivi; la personalizzazione che rende i governanti di turno più precari di un tempo, perché l’immagine di una persona è più vulnerabile di quella di un’ideologia o di un partito (basti pensare a quanto oggi sia un attore politico decisivo la magistratura inquirente); la neofilia, la voglia di novità del consumatore che semplicemente si stanca e ha bisogno di nuovi stimoli. E dunque cestina in tempi sempre più rapidi l’ultimo leader di turno che gli ha fatto battere il cuore. L’eroe diventa presto capro espiatorio, prima di sparire nell’oblio totale. E il volontarismo (impotente) si trasforma in velleitarismo e continua ad alimentare l’insoddisfazione verso la politica in generale perché questa “cerimonia” si situa in un inevitabile vortice, in un trend necessariamente crescente di stimoli, promesse, sensazioni, emozioni.
Quello che si configura, in termini di rendimento democratico, è indubbiamente un vicolo cieco. Perché tutti i settori e le variabili coinvolte spingono verso la stessa direzione: società (dei consumi), mass media, opinione pubblica e politica sono avviluppate entro logiche tra loro coerenti, ma che conducono esattamente nel punto in cui siamo. Ecco perché a oggi nessuno possiede una terapia valida. Ogni ipotesi che provi a cambiare singoli pezzi del puzzle, per quanto ambiziosa, non può funzionare. Perché la malattia è più profonda, riguarda ognuno di noi nel suo quotidiano, nel suo essere cittadini, consumatori, elettori, persone. Tuttavia, prendere coscienza della profondità del malessere, per quanto a suo modo deprimente, può già costituire un punto di partenza “terapeutico”. Per dirla con Giorgio Agamben, «contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio». Chi vede solo le luci – invertendo per certi versi il mito platonico della caverna – è solo accecato da una quotidianità febbrile e satura di stimoli, da cui di fatto è agito. Per salvare la democrazia, dobbiamo fare i conti con noi stessi. A partire dal nostro buio, individuale e collettivo.
*Luigi Di Gregorio, docente di Comunicazione politica, pubblica e sfera digitale all’Università della Tuscia, Viterbo