Giovani e lavoro

Uno studio svolto appena qualche mese fa dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro riguardo il tasso di occupazione dei giovani nel mondo del lavoro ha fatto emergere che l’ Italia risulta essere la nazione con la più bassa percentuale di occupati al disotto dei 40 anni (esattamente il 32% contro la media del 41% in Europa).

Questa generazione di giovani  chiamati pandemials sono coloro i quali  hanno vissuto due crisi sociali (la crisi finanziaria iniziata nel 2008 e la pandemia del Covid 19)  che hanno inciso profondamente nelle loro aspettative di vita, tutto ciò ha pregiudicato inevitabilmente

l’accesso nel mondo del lavoro. Inoltre l’Italia ha registrato nel 2016  con il suo 21,4 % il tasso più alto dei NEET, nella fascia di età compresa tra i15 e i 24 anni rispetto ai paesi appartenenti all’Unione Europea la cui incidenza media si aggira intorno al 12% e cioè quei giovani che non studiano, non lavorano e non svolgono alcun tipo di formazione professionale perchè sfiduciati da quelle che possano essere le prospettive di inserimento nel mercato del lavoro. I giovani NEET tra i 15 e 29 anni sono passati dal 22,1% del 2019 al 23,3% nel 2020 . Tutto ciò ha determinato inevitabilmente fenoeni di frustazione ed isoltamento sociale.

Altro dato negativo è rappresentato dalle statistiche demografiche, piuttosto ridotte negli ultimi due anni ad opera soprattutto della pandemia. La mancanza di prospettive concrete lavorative è uno degli aspetti fondamentali che limitano le nuove generazioni a formare una famiglia.

Nel 2021 nel  settore industriale e dei servizi il numero dei posti  di lavoro per cui non è stata trovata forza lavoro adeguatamente formata è stato di oltre 230.000 unità. Questo dato è piuttosto emblematico perchè ci fa compredere che l’offerta di lavoro è presente nel nostro Paese, ma la forza lavoro esistente spesso non è dotata della giusta formazione professionale per ricoprie i profili lavorativi richiesti.

In Italia c’e’  una scarsa offerta di formazione tecnica non adeguata con quelli che sono gli standar richiesti dalle aziende  rispetto al resto d’Europa.  Nel territorio nazionale il numero degli istituti tecnici superiori conta poco più di 18mila studenti ogni anno. Il PNRR dovrebbe contribuire a migliorare la qualità della formazione ed incrementare il numero degli iscritti migliorando l’offerta formativa degli istituti , dotando queste scuole ad indirizzo tecnico e le istituzioni universitare tecnico scientifiche di tutti quegli strumenti necessari atti a creare figure idonee a soddisfare le richiete  aziendali. I tecnici informatici , delle telecomunicazioni e gli  operai specializzati sono considerate ad oggi figure professionali difficili da reperire.

I principali strumenti  attraverso i quali i giovani entrano nel mondo del lavoro al termine di un percorso di studi sono i tirocini ed i contratti di apprendistato.

I contratti di apprendistato attivati nel 2021 in Italia sono stati 370 mila . Questo è un dato piuttosto basso rispetto al totale della tipologie contrattuali di avviamento al lavoro. Se consideriamo che a partire dalla metà degli anni 80 ad oggi gli interventi su questa disciplina contrattuale sono stati diversi e l’ultimo è stato attraverso il d.lgs 15 giugno 2015 n. 81 che ha ridisegnato la disciplina normativa del Testo Unico del 2011 (d.lgs. 14 settembre 2011, n.167) . Attraverso questa ultima riforma le competenze regionali in materia di conratto di apprendistato sono riemerse in maniera considerevole e se da un lato questo è un aspetto positivo perchè responsabilizza le regioni attraverso percorsi formativi adeguati in stretta sinergia con le realta industriali del territorio (questo è quanto si verifica nel nord est esempio in Lombardia, Trentino Alto Adige,Veneto Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia)  dall’altro crea una “regionalizzazione deleteria” nelle aree più depresse della penisola italiana, e cioè nel centro sud  in cui l’esiguità delle risorse a disposizione già in gran parte assorbite dalla spesa sanitaria, oltre che la quasi totale  assenza di uno spirito cooperativistico tra le principali istituzioni locali  non consentono adeguate misure di investimento formativo vanificando lo spirito normativo che il contratto di apprendistato si prefige di conseguire.

Per questo occorre “snellire” l’ampio dedalo di norme fatte di regolamenti regionali, richiami normativi, rinvii alla contrattazione collettiva che rischiano di rendere farragginosa l’applicazione delle diverse tipologie del contratto di apprendistato che non assolve più  alla sua funzione primaria di formazione e ingresso nel mondo del lavoro delle giovani generazioni.

Inoltre se consideriamo che molte risorse sono impiegate a garantire  il reddito di cittadinanza che al contrario potrebbero essere destinate attraverso “precise regole di ingaggio” alle aziende per investire nella formazione avremmo sicuramente più benefici  che piuttosto un improduttivo assistenzialismo.

Altra considerazione riguarda i tirocini, spesso poco considerati , che rappresentano forse il primissimo ingresso reale nel mondo del lavoro al termine di un percorso di studi, e che ancora oggi meritano  una migliore regolamentazione. La Direzione Centrale del Coordinamento Giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha emanato una nota a fine marzo u.s. in cui vengono enunciati dei chiarimenti in merito alle disposizioni introdotte dalla l. 234/2021 già vigenti, in riferimento all’erogazione delle indennità, al ricorso fraudolento del tirocinio con lo scopo di eludere reali rapporti contrattuali di lavoro ed infine agli obblighi della sicurezza del lavoratore.

Le aspettative per il futuro non sono delle migliori, gli effetti del conflitto russo ucraino, l’inflazione in continuo aumento e la contrazione della crescita rischiano di accentuare una profonda conflittualità sociale . Per questo le scelte programmatiche in materia di politiche attive del lavoro compiute attraverso i fondi del PNRR dovranno avere una visione prospettica d’insieme e riallacciare compiutamente il mondo dell’impresa alle  giovani generazioni.

*Roberto Aprile, dipendente P.A.

 

L’industria dei cavi sottomarini e gli interessi strategici del Paese

Intervento introduttivo del presidente Adolfo Urso al seminario  della Fondazione Astrid su “Industria dei cavi sottomarini: tendenze di mercato e geopolitica”

 

Colgo in apertura l’occasione per ringraziare Astrid e Franco Bassanini per la possibilità di continuare ad imparare in seminari come questo odierno, perché credo fortemente sia fondamentale per me, ed in generale per la classe dirigente di questo Paese, non smettere mai di apprendere su temi strategici e prioritari di cui è necessario avere approfondita conoscenza se si vuole agire, in tempi rapidi, in un mondo in cui assistiamo a continue accelerazioni nello sviluppo dei principali settori economici e tecnologici. Quindi, cercherò in particolare di ascoltare i vari interventi, che saranno molto utili, così come sono stati già molto utili incontri passati che ho avuto con alcuni di voi per continuare ad apprendere su questa materia.

Si tratta di questioni fondamentali nell’ambito del ruolo di Presidente che svolgo presso il “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” (Copasir), soprattutto per allargare anche la prospettiva con cui in quella sede affrontiamo le tematiche della sicurezza nazionale. Il Copasir, infatti, non si occupa soltanto di intelligence, come accadeva in passato, e la stessa denominazione “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” indica l’ampio perimetro della politica della sicurezza nazionale nei suoi vari aspetti, anche quelli riguardanti l’industria e la tecnologia del Paese.

Nell’ambito del mio lavoro di parlamentare, tra l’altro, ho presentato in Parlamento una mozione che riguarda proprio la politica italiana sui cavi sottomarini. Una mozione

parlamentare che non è stata né esaminata né discussa dal Parlamento, presentata oltre un anno fa, e che affrontava i temi complessi di cui discutiamo oggi.

È di assoluta importanza sottolineare che noi abbiamo un’industria ed una tecnologia da tutelare e da rafforzare nel campo dei cavi sottomarini. Non siamo infatti secondi a nessuna altra realtà internazionale, e possiamo svolgere un ruolo importante e significativo sotto i diversi aspetti che riguardano, ad esempio, le tendenze di mercato.

Ritengo su questo punto molto significativo il documento che avete presentato, in particolare per come riassume le modalità con cui si è sviluppato il mercato dei cavi sottomarini, come ha avuto un’accelerazione e quali sono i soggetti privati e pubblici, imprese e Stati, che intervengono e che comportano quindi considerazioni di natura geopolitica.

Per quanto riguarda il Copasir, la parte geopolitica di maggiore interesse è ovviamente la parte della sicurezza, tenendo però ben presente che le ricadute nel sistema industriale sono altrettanto significative: se infatti l’Italia perde eccessivo terreno nel campo della tecnologia e dello sviluppo industriale, utilizzare tecnologie altrui ci renderebbe sempre più dipendenti ed – in alcuni casi – soggetti a rischi che riguardano la nostra sicurezza nazionale. Questo vale nel settore di cui stiamo discutendo oggi, come sul terreno più ampio della transizione digitale e della transizione ecologica.

Se, lungo il percorso di queste due transizioni, l’Italia diventa Paese meramente utilizzatore di tecnologia altrui, aumenta in maniera esponenziale la dipendenza da altri paesi, con le conseguenze che tutti conosciamo. In particolare, si tratta della sicurezza nazionale, la quale ruota intorno all’informazione e ai dati che passano attraverso i cavi sottomarini, come è evidenziato sempre nella nota che avete condiviso in preparazione del seminario, ma anche della capacità di sviluppo dell’industria e dell’economia e quindi del lavoro italiano.

Il rischio che davvero corriamo, in riferimento anche all’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), e di tutto quello che ne deve conseguire in termini di investimenti, è che l’industria ed i prodotti italiani – alla fine – non siano protagonisti

nei settori tecnologici di punta, non siano quindi attori protagonisti delle due transizioni – digitale ed ecologica – verso un’era moderna, verso un nuovo modello di sviluppo.

Parlando più specificatamente dei cavi sottomarini, è importante l’esempio degli hub del gas. L’Italia, infatti, è un hub europeo di gas coi suoi gasdotti, e questo è un elemento di forza del sistema, poiché ad esempio alla luce dei recenti rincari dei prezzi, consente all’Italia di essere abbastanza garantita, se non altro sotto l’aspetto dell’approvvigionamento. Non ovviamente dal lato dei prezzi, poiché su questo aspetto incidono altri fattori legati al settore energetico. L’Italia può però diventare un hub importante anche per quanto riguarda il sistema dei cavi sottomarini e dei cavi terrestri.

In una interrogazione che presentai in Parlamento, prima di divenire Vice Presidente e poi Presidente del Copasir, posi la questione della necessità di una strategia italiana in materia di industria dei cavi, contemplando l’utilizzo dello strumento del golden power nel caso dell’azienda Interoute, una multinazionale europea che possedeva il più esteso backbone in fibra ottica presente sul continente europeo, frutto del lavoro delle imprese italiane, che avrebbe potuto essere recuperato al sistema Italia se il governo avesse attuato la stessa strategia che aveva attuato in passato. Lo strumento della golden power sarebbe infatti determinante per recuperare a sistema anche un’importante dorsale di telecomunicazione, di trasmissione di informazione europea.

Reputo pertanto che manchi all’Italia un “progetto Paese”, in cui lo Stato sappia difendere i propri interessi in settori strategici, in particolare in quelli innovativi dal punto di vista tecnologico. Recentemente, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato, molto correttamente, che lo Stato, nella frontiera tecnologica, deve essere presente. Le sue parole erano riferite alla frontiera tecnologica del digitale, nel campo della green economy e del settore energetico.

Nei settori di frontiera tecnologica, lo Stato deve svolgere un ruolo attivo, come viene svolto ad esempio dalla Repubblica Popolare Cinese o dagli Stati Uniti, secondo un modello di “capitalismo di Stato”. Un esempio è come gli Stati Uniti si stanno muovendo nel settore dello spazio, tema a cui ci stiamo interessando molto anche noi.

Sarebbe pertanto utile che il nostro Paese si dotasse finalmente di una strategia anche nella politica riguardante i cavi sottomarini. Una strategia necessaria perché, come è stato giustamente sottolineato nella nota introduttiva al seminario, ben il 99% delle informazioni e dei dati globali passano attraverso questa infrastruttura. Peraltro, diventa ancor più fondamentale svolgere un ruolo importante in questo settore, in un momento storico in cui connettere le varie aree geografiche è fattore determinante per il modello economico dominante.

In questo contesto, ci auguriamo inoltre che la strategia di cui si deve dotare l’Italia – ma anche l’Europa – consenta al Mediterraneo di svolgere un ruolo importante nel connettere l’area atlantica con l’area del Pacifico, il continente americano e quello europeo e, queste due ultime aree, con le zone in forte sviluppo dell’Africa e dell’Asia.

Il Mediterraneo rappresenta infatti il centro strategico che può connettere tutte queste realtà, uno snodo fondamentale che sarebbe auspicabile, tramite ad esempio gli hub di Palermo o Genova e non solo di Marsiglia, potesse svolgere un ruolo da protagonista nell’ambito dello scambio e della trasmissione di dati e informazioni a livello globale.

La competizione è molto forte anche sulla scelta delle aree dove i cavi sottomarini si ricollegano a quelli terrestri; per questo è importante avere una posizione dell’Italia decisa e in grado di favorire i propri hub e quindi di creare una dorsale italiana strategica a livello internazionale. È necessario quindi porre grande attenzione che le nuove infrastrutture di cavi sottomarini che stanno nascendo e nasceranno nel Mediterraneo non “saltino” i nostri hub, in favore di hub tedeschi (Francoforte) o francesi (Marsiglia), favorendo quindi le economie e gli interessi di altri paesi a discapito dei nostri.

In conclusione, l’Italia deve recuperare al più presto il terreno perso in questo settore strategico anche a causa, e lo dico senza intenti polemici, di alcune privatizzazioni di grandi imprese nazionali che hanno di fatto impedito all’Italia di avere un ruolo importante nella costruzione delle infrastrutture dei cavi sottomarini. Motivo per cui, ad esempio, per altre grandi imprese italiane come Enel ed Eni, fu scelto un modello

diverso, che ha oggettivamente funzionato, in cui il ruolo del pubblico rimaneva centrale. Per altre aziende, come ad esempio Telecom Italia, purtroppo furono fatte scelte diverse: meno di tre decenni fa Telecom Italia era una delle più grandi aziende di telecomunicazione globali ed oggi abbiamo quel che il mercato ci ha riservato.

Si tratta purtroppo di errori del passato che hanno conseguenze importanti sul presente. Nell’ambito del settore di cui discutiamo oggi, quello dell’informazione e dei dati, della loro trasmissione, circa trent’anni fa furono fatte scelte sbagliate, non considerandolo strategico al pari di quello dell’energia, del gas o del petrolio. Non si è avuta la capacità di comprendere che invece si trattava di settori probabilmente ancor più strategici di quelli citati, che – se affrontati con politiche economiche e industriali adeguate – oggi non ci avrebbero posto nella condizione di dover gestire e superare le enormi difficoltà con cui invece dobbiamo confrontarci.

È importante però recuperare il tempo perso e rimediare agli errori fatti in passato, poiché è ancora possibile ritagliarsi un ruolo importante a livello internazionale, applicando un’unica logica in quello che è lo sviluppo del sistema digitale in questo Paese. Lo Stato può avere una sua strategia che può poi declinarsi di volta in volta secondo strumenti diversi: ad esempio, tramite la golden power per difendere i propri interessi nazionali, o tramite la Cassa Depositi e Prestiti, per intervenire in maniera attiva in alcuni settori strategici, o infine attraverso la politica regolamentare.

A monte di tutto ciò, è però decisivo che lo Stato si doti di una strategia ben precisa ed organica, in grado di fare dell’Italia una piattaforma digitale e di connettività tra contenimenti nel Mediterraneo e in Europa. Per questo, è necessario che anche le aziende svolgano un ruolo attivo e centrale nel settore dei cavi sottomarini, ragionando e operando in una logica di sistema. Soltanto ragionando in questi termini, si può giungere ad accordi internazionali che tutelino gli interessi italiani ed europei. Il nostro Paese, ovviamente, non può aderire direttamente a consorzi internazionali, né è dotato di imprese in grado di fare da sole quello che sono in grado di fare le grandi Big Tech americane o cinesi, ma può mettere in campo una strategia di sistema Italia, in cui le

nostre imprese sono incentivate ad aderire a consorzi di imprese internazionali, delineando un piano nazionale che renda la nostra penisola una piattaforma strategica, interconnessa con cavi sottomarini al resto d’Europa e, attraverso l’Europa, all’Atlantico, interconnessa nel Mediterraneo con i paesi africani. In particolare, l’Italia deve mirare a rappresentare un hub centrale tra i paesi della sponda sud del Mediterraneo, che dovranno interconnettersi con la piattaforma europea, e quei paesi che vorranno connettersi con i paesi asiatici, dove nei prossimi anni, è prevista la maggiore produzione di informazione.

Non dobbiamo inoltre dimenticare che l’Europa resta il continente che produce la maggior quantità di dati ed informazioni, e di conseguenza non dobbiamo dimenticare quanto sia importante preservare questi dati e queste informazioni. Questi elementi, infatti, oggi rappresentano il campo da gioco dove si svolge la partita della geopolitica, ed è estremamente importante per l’Italia svolgere un ruolo centrale. Dotarsi di una gestione strategica dei dati oggi consente, da una parte, di garantirsi maggiore sicurezza nazionale, e, dall’altra parte, di sviluppare i settori dell’industria, della ricerca della tecnologia, incentivando e attraendo investimenti internazionali.

Credo quindi che il seminario che Astrid ha organizzato oggi sia molto importante anche per lanciare un messaggio alle istituzioni, che devono rendersi conto della grande velocità con cui certe dinamiche si stanno sviluppando, anche a seguito della recente pandemia e del lockdown a cui siamo stati costretti. Abbiamo infatti scoperto tutti quanto sia importante il lavoro a distanza, e quanto sia importante la rete Internet. L’uso della rete ha raggiunto livelli incredibili, rendendoci consapevoli sia degli aspetti positivi, sia di quelli negativi in termini di sicurezza e vulnerabilità (ad esempio in ambito sanitario).

Ci rendiamo quindi conto, e mi rivolgo in particolare all’amico Bassanini, quanto sia importante creare una rete in Italia che giunga all’ultimo miglio nel più breve tempo possibile. Se non abbiamo una rete italiana di banda ultra larga, se non abbiamo un Cloud nazionale della pubblica amministrazione che preservi i nostri dati, se non

abbiamo investimenti significativi, una connessione di cavi marittimi e cavi terrestri per farci diventare piattaforma digitale europea nel Mediterraneo e quindi nel mondo, anche le risorse, il PNRR, subiranno una dispersione e andranno a beneficio di altri, non certamente a noi.

*Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo

 

Tlc, non solo rete unica

L’impatto della pandemia di Covid 19 sul mercato delle telecomunicazioni globale ha accelerato il verificarsi dei grandi cambiamenti, frutto della rivoluzione tecnologica, che condizioneranno la transizione digitale nei prossimi anni. Anche in Italia gli operatori del settore hanno saputo far fronte al repentino aumento della domanda di connettività, continuando a fornire servizi considerati essenziali e destinati ad essere implementati in pianta stabile in numerose attività produttive e non più legati alla nicchia di una perenne sperimentazione.

Gli effetti della pandemia coincidono quindi, seppur parzialmente, con un periodo di grande trasformazione su vasta scala, che ha investito la filiera delle telco da alcuni anni e che si avvia ad una repentina accelerazione per venire incontro alle richieste dei consumatori. Sin dalla pubblicazione della Strategia Europea di connettività del 2015 è apparso chiaro che gli obiettivi di una connessione di almeno 100 Mbps potenziabili, la cui accessibilità dovrebbe essere garantita a tutti i cittadini indipendentemente dalle diverse aree geografiche, avrebbero fatto spazio al traguardo ben più ragguardevole della gigabit society da raggiungere secondo le previsioni della Commissione entro il 2030. L’Italia d’altro canto forte dei 12 miliardi di risorse pubbliche e private previste per la propria strategia nazionale punta ad anticipare di 4 anni gli obiettivi più ambiziosi includendoli nel crono programma dell’ormai arcinoto PNRR.

E’ evidente che un simile cambio di paradigma richiesto dalle mutate circostanze porti ad una accelerazione dal punto di vista tecnologico che non può che ripercuotersi sull’asseto degli operatori chiamati ad attuare in concreto le previsioni del programma. Non più quindi FTTC (fibra sino all’armadio) ormai un punto di partenza più che di arrivo ma, ove possibile, largo alla ben più performante FTTH che, nel rispetto del principio cardine di neutralità tecnologica, rappresenterà il mezzo più idoneo per raggiungere e cablare le unità abitative. Ad oggi se il passaggio alle connessioni FTTC risulta secondi i dati AgCom ormai in stato avanzato, con un numero di 9,6 milioni di attivazioni rispetto ai 5 milioni di Adsl, è assodato che una pluralità di fattori tra cui l’ indisponibilità materiale di una rete passiva in fibra ottica sino agli immobili e la mancanza di incentivi alla migrazione, ostacolano il passaggio ai collegamenti FTTH, concentrati principalmente nelle aree nere e fermi a 2.1 milioni.

Anche la cornice normativa comunitaria è stata aggiornata con l’emanazione del nuovo codice europeo delle comunicazioni elettroniche, non ancora recepito dall’Italia, che innovando il quadro di riferimento individua chiaramente nella promozione degli investimenti per le nuove reti a banda ultra-larga l’obiettivo da raggiungere con modalità di intervento complementari e quindi non necessariamente antitetiche. Gli accordi di co-investimento e la presenza di un operatore wholesale only, attivo quindi nel solo mercato all’ingrosso, possono solo apparentemente porsi in aperta contraddizione tra loro. Dopo un faticoso processo di armonizzazione e liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni, l’Unione Europea ha ampliato i suoi orizzonti facendo proprio il concetto di better regulation, che mira ad una transizione ordinata verso l’applicazione del solo diritto della concorrenza in quei mercati ritenuti ab initio impossibilitati a sfuggire alle maglie della regolazione di settore, per la loro natura intrinsecamente anticompetitiva, eredità irrisolta dei grandi monopolisti pubblici del novecento.

Oggi dopo trent’anni di dottrina Open network, incentrata sul significativo potere di mercato degli incumbent, soggetti a specifiche misure correttive per rimuovere gli ostacoli alla concorrenza e favorire l’attività degli operatori alternativi, la Commissione ha compreso i limiti di una rigida applicazione della service and access based competition, un modello che pur avendo limitato i comportamenti anticompetitivi degli ex monopolisti nel mercato dei servizi all’ingrosso e al dettaglio, ha per lo più ignorato lo sviluppo delle nuove reti a banda ultralarga, in nome di una lotta all’integrazione verticale che oggi appare più come il risultato di una soluzione compromissoria, che come un punto di arrivo per una policy di lungo periodo. Puntando sull’unica rete degli incumbent si è disincentivata la concorrenza infrastrutturale e di conseguenza le reti alternative a quella del monopolista, costretto dai regolatori ad offrire i suoi prodotti all’ingrosso a condizioni favorevoli alle imprese concorrenti.

In tal modo il modello scelto dall’Unione Europea è caduto in un limbo apparentemente senza via d’uscita: mentre il gestore della rete operava nei mercati a valle in competizione con gli OLO, a cui doveva comunque garantire l’accesso all’infrastruttura all’ingrosso, l’ex monopolista veniva investito anche dell’onere di sviluppare le nuove reti a banda ultra-larga con risorse proprie. In assenza di aiuti di stato, ritenuti impraticabili per la natura stessa dell’impresa verticalmente integrata e in mancanza di alternative come operatori common carrier, attivi nel solo mercato wholesale, il modello del ladder of investment ha riguardato solo quei segmenti di infrastruttura di rete facilmente duplicabili per gli operatori alternativi, mentre l’ultimo miglio in rame, più precisamente il tratto che dall’armadio arriva sino alle singole unità immobiliari, è rimasto nelle medesime condizioni con tutti i difetti che ne derivano in termini di efficienza, qualità del servizio e oneri di manutenzione.

Ad un possibile oligopolio tra più gestori di rete si è preferito il mantenimento di un monopolio naturale, che ha comportato un brusco calo degli investimenti, spesso esacerbato dalle difficoltà economiche degli incumbent, su cui grava un fardello del debito di notevole entità. Anche i rimedi proposti dalla Commissione Europea come la separazione funzionale e l’adozione di un modello di equivalence, parità di trattamento e la non discriminazione, non hanno sortito gli effetti sperati sul fronte dello sviluppo delle nuove reti pur in presenza di un impatto positivo sulla competitività dei mercati regolamentati. Preso atto dei ritardi che hanno contraddistinto la diffusione della banda larga e ultra-larga in Italia ed Europa, dal 2013, con un cambio di paradigma, la Commissione ha affinato gli strumenti giuridici per recuperare il gap rispetto ad altri competitor come gli Stati Uniti, nei quali la concorrenza infrastrutturale (facility based competition) è da sempre diffusa e da i suoi frutti. La nuova cornice normativa calata nel contesto Italiano mette in risalto l’ulteriore grande differenza che intercorre tra il nostro paese e gli altri Stati membri in termini di condizioni di partenza. È noto che in Italia lo sviluppo di infrastrutture alternative, come le reti via cavo, che in altri mercati nazionali consentono di assicurare servizi comparabili alla banda ultra-larga con la tecnologia Docsis, ha visto frapporsi numerosi ostacoli sin dall’inizio degli anni 90’. In principio fu una legge del 1992, in occasione del primo grande riassetto delle telecomunicazioni, che ne attribuì la costruzione in regime di monopolio allo Stato, ma il tutto divenne lettera morta in assenza del regolamento attuativo.

Ci proverà 4 anni più tardi Ernesto Pascale con il ben più celebre Progetto Socrate della STET, anch’esso tuttavia vittima di veti incrociati e destinato ad un drammatico fallimento, ragione per cui del suo ideatore oggi ci rimangono soltanto le brillanti intuizioni. Il muro del SIC recentemente scardinato e il drammatico livello di corporativismo che ha circondato il tema della convergenza tra internet e radiotelevisione in Italia ha fatto il resto, favorendo una visione già all’epoca obsoleta a compartimenti stagni. Il dilemma sul futuro della rete ha quindi riguardato in modo pressoché esclusivo Telecom Italia e la sua corposa infrastruttura in rame. Sarebbe pleonastico soffermarsi sui tentativi di separazione e scorporo che si sono susseguiti dal piano Rovati all’ultimo, non formalizzato, del 2018 che ha preceduto il progetto di Fibercop. Gli ostacoli legati in larga parte all’indebitamento dell’incumbent più regolamentato d’Europa, oggetto di due leveraged buyout che ne hanno per lunghi anni irrimediabilmente ipotecato le prospettive di crescita, sono apparsi insormontabili. Per colmare il divario accumulato rispetto agli altri paesi dell’Unione e raggiungere gli obiettivi dell’Agenda digitale Europea, anche in Italia si è quindi affermata la figura dell’operatore wholesale, attivo nei soli mercati all’ingrosso e incaricato dell’attuazione della strategia per la banda ultralarga con un sistema di bandi ad evidenza pubblica approvato dalla Commissione e in origine previsto per le sole zone c.d. bianche o a fallimento di mercato. In seguito, nel rispetto della normativa comunitaria sugli aiuti di Stato, il piano ha abbracciato anche le aree grigie con l’obiettivo di raggiungere una velocità di connessione pari ad almeno 100 Mbit/s innalzabili sino ad un Gigabit, impossibile da garantire in assenza di investimenti specifici dell’ex monopolista nell’arco di un triennio. In questo quadro frammentario ma in apparenza ordinato e destinato secondo le intenzioni di alcuni a ricomporsi con un trionfo di Open Fiber finanche nelle aree nere, in cui gli aiuti di stato sono ammessi solo in presenza di un operatore non verticalmente integrato, la decisione di Telecom Italia di finalizzare l’operazione di separazione della rete di accesso con un’iniziativa di co-investimento rappresenta l’occasione per riflettere sulle prospettive di un riassetto societario delle telecomunicazioni che potrebbe non culminare nel progetto di Rete Unica in perenne discussione e la cui attuazione rimane quanto mai incerta.

È opportuno precisare che l’iniziativa di separazione volontaria dell’ex monopolista, portata avanti con capitali di investitori istituzionali come il fondo KKR e con il contributo degli asset di un vero operatore alternativo con profili di integrazione verticale come Fastweb, trae origine da previsioni normative differenti rispetto a quelle che dovrebbero promuovere un’aggregazione dei due operatori. L’offerta di co-investimento di Fibercop si sovrappone in alcuni casi ai piani di Open Fiber e riguarderà circa il 75% delle unità immobiliari delle aree grigie e nere del Paese entro il 2025, con la fornitura di servizi di accesso all’ingrosso alla rete FTTC e FTTH nel pieno rispetto del modello di equivalence adottato da Tim e successivamente modificato per venire incontro ai rilievi dell’Autorità Antitrust. La natura “aperta” a tutti gli operatori pone l’accento sul giusto equilibrio tra parità di trattamento e incentivo agli investimenti dell’operatore verticalmente integrato. La compresenza di due reti diverse può in apparenza essere interpretata come la duplicazione di un monopolio naturale, da ricondurre ad un unico gestore con il modello della c.d. Rete unica, oppure come il giusto esplicarsi delle dinamiche competitive non più legate al mercato dei servizi al dettaglio, ma anche alle diverse tipologie di infrastrutture in capo a diversi proprietari. Il nuovo Codice delle Comunicazioni Elettroniche prevede inoltre un trattamento premiale per gli operatori verticalmente integrati che attuano il conferimento di una parte della propria rete di accesso ad una newco, con sostanziale riduzione degli oneri regolamentari applicati dalle autorità di settore.

Non è forse questo il fine a quale l’ordinamento Europeo aspira, ossia la progressiva transizione verso un mercato delle telco regolato dal solo diritto della concorrenza ? Il ritorno ad un unico operatore gestore dell’infrastruttura oltre ad azzerare le sinergie derivanti dallo sviluppo di più reti che, come negli Stati Uniti e in altri paesi a competizione infrastrutturale, si ripercuoterebbero nei mercati a valle a favore dei consumatori, rischia di portare con sé una nuova ondata regolatoria che non risparmierebbe neppure un successivo scrutinio di Commissione e Autorità Antitrust per scongiurare un possibile abuso di posizione dominante insito nei delicati equilibri proprietari e nella governance immaginata. L’incertezza e la ricerca di un compromesso che risulti accettabile da entrambe le parti frustrerebbe le ragioni che hanno portato alla nascita di Open Fiber e che ne hanno decretato l’indubbio successo come primo operatore wholesale in Europa. La presenza dell’ex monopolista nella compagine societaria non potrebbe mai collimare con una nazionalizzazione della rete sulla falsariga dell’energia elettrica. Quasi 60 anni ci separano dal 1963 e le condizioni di finanza pubblica suggeriscono prudenza anche ai sostenitori di un intervento radicale di Cassa Depositi e Prestiti. Via Goito in ogni caso manterrebbe un ruolo da protagonista in virtù della sua presenza nel capitale azionario di entrambi gli operatori coinvolti, lasciando in questo modo alle forze del mercato e alla competizione infrastrutturale il compito di coprire quei segmenti delle aree grigie e nere del paese ancora da cablare e concentrandosi sulle aree bianche, nelle quali si accumulano ritardi considerevoli nella tabella di marcia. Come ha più volte sottolineato l’Autorità Antitrust nelle proposte di riforma per la legge sulla concorrenza, il raggiungimento degli obiettivi di Agenda digitale e PNRR dipende più dalla rimozione di quegli ostacoli di natura tecnica e burocratica che rallentano le operazioni di cablaggio che dalla struttura societaria del futuribile nuovo gestore unico della rete. La necessità di sfruttare il patrimonio esistente di infrastrutture passive, specialmente nei tratti bottleneck difficilmente duplicabili in prossimità degli edifici, dovrebbe rafforzare l’imposizione di obblighi simmetrici diretti a tutti gli operatori, utility comprese.

Il modello a concessione inoltre, già sperimentato con successo da Open Fiber, potrebbe essere sostituito in base alle caratteristiche delle varie aree geografiche da un intervento “diretto” per l’assegnazione degli aiuti di Stato. Una modalità simile a quella che vede Infratel costruire reti di proprietà pubblica e basato sul riconoscimento ai co-investitori di diritti d’uso “strutturali” sulle reti di passive rispetto al semplice accesso all’ingrosso sulla singola linea. La scelta di una pluralità di modelli non pregiudicherebbe l’attività dell’operatore wholesale, che la Commissione dimostra di preferire nei bandi ad evidenza pubblica per le zone grigie o addirittura ad individuare come unico soggetto titolato a partecipare in quelli per le zone nere, a vantaggio del quale inoltre il nostro codice delle comunicazioni elettroniche prevede un ipotetico regime tariffario e di remunerazione del capitale di favore. I principi cardine della transizione digitale dovranno comunque uniformarsi alla neutralità tecnologica e al rispetto della concorrenza: valutare tra le diverse tecnologie quella più vantaggiosa a raggiungere i risultati prefissati, sia dal punto di vista economico che da quello delle aspettative degli operatori, indipendentemente dall’integrazione verticale o dal modello all’ingrosso (che non è la panacea per tutti i mali), con un uso combinato di fibra ottica e trasmissione dati wireless come il FWA, a cui favore pende un indubbio rapporto costi benefici nelle aree a fallimento di mercato che sarà ulteriormente confermato dalla diffusione di internet via satellite.

L’intervento pubblico spesso vede i suoi miglior risultati nella rimozione degli ostacoli burocratici che rendono asfittiche le operazioni di cablaggio, con la previsione di termini perentori di durata del procedimento autorizzativo, silenzio assenso, appositi poteri sostitutivi in caso di inerzia degli enti locali e misure di deflazione del contenzioso amministrativo. Infine occorre individuare quale forma dare agli incentivi alla migrazione dei consumatori verso la banda ultra-larga, che sarà il grande tema con il quale tutti gli operatori saranno chiamati a confrontarsi nei prossimi anni.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

Come rispondere al governo in formazione

Su invito del Presidente della Repubblica si sta formando un Governo «al di fuori di una predefinita formula politica». Ciò comporta un interrogativo di fondo ad un movimento che ha la promozione dell’interesse nazionale come obiettivo di fondo: lo si promuove meglio entrando in un Governo composto in buona misura da «avversari storici» anche e soprattutto sotto il profilo della cultura politica oppure restando una voce vigile e critica all’opposizione?

Ambedue le posizioni sono, ovviamente, legittime. Il Governo nasce, su iniziativa del Capo dello Stato, con linee già indicate anche se non articolate nei dettagli: combattere la pandemia e mettere in atto un «programma di riassetto strutturale» di riforme e di investimenti, finanziato in larga misura con fondi dell’Unione europea, per rimuove ostacoli alla crescita in sei aree già definite (giustizia, pubblica amministrazione, dotazione di infrastrutture, istruzione, sanità, ambiente).

I «programmi di riassetto strutturale», nati con il «Rapporto Brandt» del 1980, affinati in Banca Mondiale ed al Fondo monetario negli ultimi vent’anni del secolo scorsi, sono giunti alla Banca centrale europea ed alla Commissione europea dopo la crisi del 2008-2009 e sono stati adottati da Grecia, Irlanda e Portogallo. Sono, di norma, finalizzati all’aumento della produttività, della produzione, del valore aggiunte, dell’occupazione ed anche ad una migliore distribuzione del reddito. Loro caratteristiche sono a) rigore nelle politiche di bilancio per contenere disavanzo pubblico; b) ri-orientamento delle priorità della spesa pubblica verso comparti tali da offrire, al tempo stesso, rendimenti economici elevati ed il potenziale di migliorare la distribuzione dei redditi (quali l’infrastruttura, l’istruzione e la sanità); c) riforma tributaria (per ridurre le aliquote marginali ed ampliare, in parallelo, la base imponibile); d) riforma della giustizia per rendere procedimenti più veloci e dare a tutti maggiori certezze ; e) modernizzazione dell’istruzione; f) maggiore attenzione alle politiche ambientali ed alle implicazioni ambientali di politiche in tutti i settori.

Il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza (PNRR) di cui il Governo Conte 2 ha predisposto due bozze criticate severamente anche dal servizio studi di Camera e Senato deve essere in gran misura scritto di nuovo e presentato all’Unione europea entro il 30 aprile. Il «programma di riassetto strutturale» dura sei anni; quindi, le scelte prese adesso vincolano in gran misura anche la prossima legislatura.

Quindi, se la decisione è di sostenere il Governo, occorre essere rappresentati tramite o politici o tecnici di area in modo da incidere sulla definizione del PNRR e del relativo «programma di riassetto strutturale».

Se, invece, la decisione è quella di porsi all’opposizione, comunque un baluardo democratico in uno Stato di diritto, occorre chiedersi se si intende esercitare un’«opposizione reattiva» ad un’«opposizione proattiva e propositiva».

In ambedue i casi si tratta, in termini di «teoria dei giochi», di «giochi multipli» su almeno due tavoli. In uno la posta in gioco è «l’incisitività» sulle scelte pubbliche; nell’altro «la popolarità» nei confronti del proprio elettorato attuale e potenziale.

Un’«opposizione reattiva» può dare poco in termini di «incisività» ma molto in termini di «popolarità» da utilizzare nella prossima legislatura, pur se nei vincoli di manovra concessi da impegni pluriennali presi non solo con la Commissione europea ma soprattutto con gli altri 26 Stati dell’Unione europea.

Un’«opposizione proattiva» necessità di una strumentazione e di un supporto tecnico di alto profilo per «incidere» in questa legislatura e prepararsi alla prossima. Si tenga presente che sul sito di web di Forza Italia si può leggere da oltre un mese una bozza di PNRR alternativa a quanto presentato dal Governo Conte 2- le cui idee confluiranno in parte nel «programma di riassetto strutturale del Governo Draghi. Altro esempio, nella legislatura 2013-2014 ho presieduto il Board scientifico del Centro Studi Impresa/Lavoro sponsorizzato da un imprenditore del Nord. Il Board era costituito oltre che da me dal Presidente della Hayek Society, dall’ex Segretario Generale dell’OCSE e da un Professore Emerito della LUISS. Ovviamente non percepivamo compenso (ma ci veniva offerta una cassetta di vino l’anno a Natale ed un incontro conviviale ogni due mesi), ma disponevano di un ufficio a Via dei Prefetti, di due collaboratori fissi e di fondi per consulenti. Oltre ad un web magazine, abbiamo prodotto quattro libri (di cui uno è stato a lungo nella bacheca del Ministero dell’Economia e delle Finanze per mesi come «libro dell’anno») ed alcuni opuscoli distribuiti con il quotidiano «Il Giornale Nuovo»- In breve, per fare «opposizione proattiva» occorrono risorse. Quante ne può mettere in campo Fratelli d’Italia?

*Giuseppe Pennisi, economista