India e Pakistan, scontro all’ombra della Cina

Si infiamma per l’ennesima volta il Kashmir, ormai ridotto a mero simbolo di nazionalismo religioso: un vitello d’oro dell’irredentismo da immolare a turno tra India e Pakistan nell’attesa che ripassi il treno (perso) della storia. Una sfida che ha il sapore della polvere e dei ghiacciai in arretramento che sovrastano quel lembo di terra conteso da due Stati, che sanno di non potersi permettere agli occhi delle rispettive opinioni pubbliche una sconfitta definitiva, così da essere costretti volenti o nolenti a insistere in un conflitto dormiveglia per una vittoria che non sarà mai ascrivibile a nessuno.

Se l’India è una democrazia sufficientemente matura da aver compreso il ruolo più possibilmente defilato dell’esercito in una situazione così delicata, il Pakistan continua a dare segni di squilibrio interno: tra i generali in cerca di una più feconda stagione golpista e la presenza permeante dell’ortodossia islamica nella politica, salita agli onori delle cronache dopo l’assoluzione di Asia Bibi, è la Cina a stagliarsi all’orizzonte con l’iniziativa della Via della Seta in uno scenario che vede latitare Regno Unito e Stati Uniti. Pechino è pronta a piegare a proprio volere la debole economia pakistana, prona sino al punto di richiedere l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, per assicurarsi a distanza di due secoli un rapido sbocco sull’Oceano Indiano e risolvere vecchie ruggini che insistono dalla guerra fredda con l’India proprio su Kashmir e Tibet. Delhi dal canto suo è stretta tra due fuochi (Russia e Stati Uniti) e avverte la tensione.

La accusa soprattutto il premier nazionalista Modi che nel 2019 affronterà alle urne in una sfida più che mai incerta il Congresso Nazionale Indiano, capitanato ancora una volta da una discendente della nutrita stirpe di Sonia Maino, vedova Gandhi. Questa volta la scelta dovrebbe ricadere sulla figlia Priyanka, vincitrice del confronto tutto familiare con il fratello Raul, a cui toccherà la difficile impresa di ribaltare il tavolo alle consultazioni federali di Aprile, per le quali i tempi stringono e i venti di guerra potrebbero tirare la volata a Modi verso un secondo mandato. Lo sfondo è quello di un Paese che a distanza di un settant’anni non è ancora riuscito ad esprimere il suo potenziale, esploso solamente dal punto di vista demografico, con i classici interrogativi che si pongono quando il numero delle bocche da sfamare cresce quasi quanto il PIL.

Sino a che punto l’India potrà proseguire lungo il percorso di assimilazione ad una grande democrazia liberale occidentale che intrapreso dal giorno della sua indipendenza? La Costituzione, una delle più estese al mondo, reca la dicitura di un Paese socialista, secolarizzato e democratico ma la realtà appare tradita dalle divisioni ancora oggi presenti, che corrono lungo la frontiera delle 18 lingue regionali parlate in 29 stati e 7 territori federati sotto un’unica bandiera con capitale Delhi. Un’economia in grande espansione sorretta da un boom demografico fuori controllo, con il rischio che sia l’occupazione ad inseguire un miliardo e trecentomila abitanti con un’età media inferiore ai 30 anni, relegando ampie fasce di potenziali lavoratori alla povertà e sterilizzando la classe media, ancora alla forma embrionale.

E’ però il problema religioso a farla da padrone: il sistema delle caste ufficialmente abolito rimane un’eredità lungi dall’essere scrollata di dosso con un tratto di penna e gli elettori più tradizionalisti, che oggi gettano benzina sul fuoco, non permetteranno a Modi di accettare passi indietro dall’odiato vicino di casa di religione islamica. Se la Cina è riuscita a far convivere il socialismo con caratteristiche Cinesi di Deng Xiaoping con l’etica Confuciana, non si può dire lo stesso della dinastia Gandhi, costretta dalle poco elastiche consuetudini indù ad accettare con disarmante rassegnazione i progressi di Pechino, mentre Delhi prova ad inseguire come può. In questa eterna rincorsa il Pakistan non è mai stato in partita: il sesto Paese al mondo per popolazione rimane ancorato ad un modello economico ancora sbilanciato verso il settore primario con il 22% della popolazione sotto la soglia della povertà.

La legge Islamica condiziona quasi ogni aspetto delle attività produttive con effetti deleteri su una nazione in crescita che, a differenza degli Stati della penisola Arabica, non può contare su rendita di posizione garantite dal greggio ed è costretta ad accettare investimenti esteri, che ne fanno una facile preda per l’ingombrante vicino Cinese. Tutto ciò avviene come è lecito ritenere, al prezzo di pesanti compromessi riassumibili nella posizione geografica, vero asset strategico della Regione.

Il Pakistan sbarra fisicamente la strada alla Cina verso l’Oceano Indiano dal punto più vicino alle coste dell’Oman, così se la Belt and Road rischia un insuccesso perdendosi tra le incertezze di Iran, Iraq e Siria, Pechino può sempre emulare Nearco: l’ammiraglio Macedone che su ordine di Alessandro Magno partito dal delta dell’Indo esplorò il Mare Arabico risalendo tutto il Golfo Persico sino all’Eufrate. Dove ieri c’erano gli Ittiofagi, oggi però passato lo stretto di Hormuz troviamo le Monarchie del Golfo e più a Sud anche il Mar Rosso ha ulteriormente accresciuto la sua importanza con il raddoppio del canale di Suez. Il Pakistan rischia di passare da attore a partecipe, Islamabad lo sa bene ma non è chiaro sino a che livello venderà cara la sua pelle. Stretta tra Cina e Arabia Saudita, con il Fondo Monetario Internazionale alla finestra, per scrollarsi di dosso l’etichetta di Stato semifallito con gli equilibri interni che danno ad ogni occasione segni di cedimento, La Repubblica Islamica mostra i muscoli acquisiti sul campo: dispone della settima forza armata del mondo per effettivi e custodisce un numero imprecisato di armi nucleari, sufficienti ad assicurare la distruzione mutua assicurata con il vicino Indiano. E’ l’unica nazione nel mondo islamico e la seconda in Asia meridionale ad avere un tale status che condivide proprio con Delhi. Il 28 maggio 1998 il Pakistan annunciò al globo di aver finalizzato il primo test nucleare della sua storia: Chagai –I.

L’ordigno di 40 Kilotoni detonò sotto la collina di Ras Koh, una zona desertica del Belucistan. A testimonianza della fragilità intrinseca della “democrazia” pakistana, alla risoluzione 1172 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e alle relative sanzioni economiche che vennero applicate in conseguenza del test, fece seguito un golpe militare che spodestò il premier Nawaz Sharif sostituendolo con il generale Pervez Musharraf, in carica sino al 2008. L’india, reduce da due vittorie tattiche negli scontri in Kashmir del 1971 e del 1999, ha superato con maturità la propria età atomica ed è in grado di offrire alla comunità internazionale un’affidabilità indiscutibile nel poterne disporre come deterrente in condizioni di sicurezza. Tuttavia permangono le ambiguità nell’aggiornamento delle forze aeree: Delhi continua ad essere altalenante balzando dalla proposta del caccia di quinta generazione Sukhoi/HAL FGFA, versione biposto del più conosciuto T50 e frutto di una join venture Russo-Indiana, all’acquisto dei più “popolari” F35 con l’incognita della tecnologia NATO che difficilmente sarà trasferibile ad un paese la cui collocazione internazionale è piuttosto variabile. Aggiungiamo poi che l’India ha sottoscritto nel 2018 un accordo per finalizzare l’acquisto del sistema di difesa antimissile s400 che verrà consegnato a partire dall’Ottobre 2020. Le conseguenze di un simile combinato disposto sarebbero deleterie per la proprietà industriale occidentale e nessuno ha intenzione di correre il rischio di pericolosi travasi di informazioni anche se in funzione anti-cinese.

Rimane sullo sfondo una delle applicazioni letterali del principio di distruzione mutua assicurata che pende senza dubbio a favore dell’India, se non altro per questioni di estensione territoriale. A testimonianza dei rischi incalcolabili di un simile conflitto un gruppo di ricercatori degli atenei di Boulder in Colorado e della Rutgers university in New Jersey ha stilato quelle che potrebbero essere le conseguenze di un conflitto nucleare regionale, con l’utilizzo di 50 bombe atomiche di potenza pari a 15 Kilotoni per parte: oltre ai milioni di morti normalmente attesi in simile condizioni, si verificherebbe uno sconvolgimento del clima senza precedenti nella storia dell’uomo.

Le macerie generate dalla distruzione delle aree urbane densamente popolate verrebbero proiettate nella troposfera ed entrerebbero nella stratosfera. La nube di 5 milioni di tonnellate di carbone nero ridurrebbe dal 20 al 50% lo spessore della coltre d’ozono che sovrasta il pianeta e a ciò conseguirebbe da un lato un brusco raffreddamento della temperatura globale, con conseguente incremento delle superfici ghiacciate che perdurerebbe per più di 25 anni e dall’altro lato un incremento dal 30 all’80% delle radiazioni ultraviolette a latitudini medie, con una netta riduzione della produzione agricola che risulterebbe flagellata come in una nuova era glaciale.

Tutto ciò dovrebbe scoraggiare almeno momentaneamente India e Pakistan dall’iniziare le ostilità, ma nemmeno il più profondo raziocinio può ostacolare l’allarmante perdita di influenza del blocco occidentale su Islamabad. Con l’annunciato ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan e il possibile ritorno in auge del Regno Unito post-brexit si aprono nuovi scenari alla ricerca di una stabilità duratura che possa come minimo preludere ad un accordo (sempre rimandato) tra i due eterni rivali proprio sulle armi nucleari, in un’area geografica che rischia di diventare monopolio economico e diplomatico della Cina di Xi.

*Giovanni Chessa, collaboratore Charta minuta