LA VARIANTE DI SINISTRA (contro la Meloni)

Un urlo nella notte, il volto della disperazione, lascia un’angoscia nell’animo il dipinto di Munch. Mi rattrista e mi riporta alla memoria un’immagine di anni fa. Una mattina di sole in Costiera Amalfitana. Su un muretto che costeggia un precipizio sul mare un uomo gridava il suo tormento. Inveiva contro la vita o una donna. Minacciava di buttarsi giù. Era disperato, era l’immagine non dipinta ma vivente della disperazione. Quel giorno lo salvarono l’aspirante suicida.

Chissà quale fu poi il suo destino. In lui rimase forse per sempre la disperazione, che è morte, morte dentro. Da allora ho sempre avvertito un senso di cristiana pietà di fronte a chi ha nel volto o nei comportamenti il dramma della disperazione. Così quando ho ha appreso da un post di Lettera22 la sortita di uno storico dell’Università di Siena, pupillo del Pd, già assessore di una giunta rossa. Ebbene questo fine intellettuale si è esibito in una trasmissione radiofonica, assieme ad altri complici consenzienti, con volgari insulti nei confronti di Giorgia Meloni ” Vacca, scrofa, rana dalla bocca larga… ecc.ecc.” Uno dei tanti esempi di odio viscerale da parte di esponenti di sinistra. Odio che genera reazioni. “Ė un pezzo di m….” il mio primo commento nel post. Più tardi l’ho cancellato. No non merita neppure commenti quel povero professore. È in preda alla disperazione, lui come tutta la sinistra. Sono disperati, meritano un cristiana compartecipazione.

Me lo immagino, misero professore, lui che fin da ragazzo aveva creduto magari in buona fede nella sinistra e ora la vede annegare nella melma. E allora urla, si dispera, odia quella donna che contribuisce a mettere in ginocchio quei votati al fallimento. Squallido professore che preso poi dalla paura chiede scusa. Compassionevole professore, che tuttavia ha ha avuto il merito di svegliare Mattarella, il Presidente sempre così attento nei confronti del Pd, questa volta neppure lui ha potuto fare l’indifferente ed ha espresso con una telefonata la sua solidarietà a Giorgia Meloni. La disperazione, appunto, brutta bestia. Quella del professore, del Pd dei CinqueStelle. Pensate che dolore per il buon Zingaretti, per il suo consigliere Bettini, per gli stellati orfani di Conte e per tutti quelli dell’arco incostituzionale contrario alle elezioni. Con un colpo d’ingegno si erano inventato l’Intergruppo della vecchia maggioranza parlamentare senza accorgersi che un eventuale Intergruppo della nuova e vera maggioranza del Paese, quella di centrodestra, avrebbe fatto loro mangiare la polvere. E che dire di Leu? Tre parlamentari, una scissione e un ministro in premio. Un’alchimia che la scissione dell’atomo a confronto sembrerebbe un gioco da ragazzi. La disperazione dei vili trova sfogo sempre in una donna.

Nella vita come in politica. Cosi un altro storico di sinistra, un negazionista delle foibe, anch’egli raffinato uomo di cultura democratica e antifascista ha licenza di definire “zocc…” la Meloni. A proposito, ma la Boldrini non si indigna? Ma no, povera Boldrini, non si è accorta questa volta delle offese a una donna, solo perché stavolta la donna è di destra. Povera Boldrini, forse anche lei è in preda alla disperazione almeno quanto la Gruber come appare ogni sera in tv. Anche la stampa democratica e liberista si unisce al coro facendo ironia becera su una bambina che ha la colpa di essere la figlia di GIorgia Meloni.

Poveracci, sono seminatori di odio a loro insaputa, perché l’odio lo hanno dentro e ora gli si rivolta contro. Non basta nemmeno il Covid a tenerli ancora a galla. Ormai sono in coma colpiti da una variante, la variante di sinistra.

*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

Draghi, Meloni e le generazioni future

L’incarico a Mario Draghi – da molti preconizzato – è maturato dopo le convulsioni della maggioranza del “Conte bis” e ha sparigliato il quadro politico, tagliando trasversalmente le alleanze tra i partiti.

La sciabolata improvvisa del Presidente Mattarella ha gettato nello scompiglio l’alleanza giallorossa.  PD e M5S avevano coltivano l’illusione di poter fare a meno di Italia Viva per andare avanti con la rinnovata formula politica di centro-sinistra saldata dalla figura di Giuseppe Conte, magari attraverso l’utilizzo dei miliardi del Recovery Fund. Sino alla conclusione dell’esplorazione di Roberto Fico i partiti della vecchia maggioranza si sono mostrati sin troppo sicuri che sarebbero riusciti a varare un “Conte ter” con l’aiuto dei soliti “responsabili”. Invece, come spesso accade in politica, si è imposta una realtà differente da quella immaginata ed è improvvisamente crollato il castello di carte di chi pensava di aver costruito – anche con l’uso mediatico dell’emergenza pandemica – il nuovo orizzonte strategico della sinistra di governo giallorossa.

Ma anche nel campo del centrodestra non sono tardate le divaricazioni. Alcune erano ampiamente previste, come quella che riguarda Forza Italia e la sua adesione ad ipotesi di governi tecnici o istituzionali, che potessero consentire il superamento della formula di governo giallorossa.

Altre, invece, erano sicuramente meno prevedibili, come quella derivante dalla disponibilità della Lega a partecipare ad un Governo di unità nazionale presieduto da Draghi.

L’unica eccezione alla grande alleanza per affrontare la crisi pandemica e provare a rilanciare l’Italia con l’utilizzo del prestito europeo del Recovery Plan è, dunque, quella di Fratelli d’Italia. Solo Giorgia Meloni ha volontariamente declinato l’invito del Presidente Mattarella, non chiudendo, tuttavia, la porta ad un concreto sostegno parlamentare su singoli provvedimenti nell’interesse della Nazione.

Anche questa scelta ha suscitato perplessità e un acceso, ma interessante dibattito nei circuiti politici, culturali ed editoriali della destra italiana. Da un lato, chi sostiene che in periodo di guerra (ormai consueta metafora dell’emergenza pandemica) nessuno dovrebbe sottrarsi alle istanze di una solidarietà politica nazionale, espressa con un corale appoggio al “Gabinetto bellico”.

Con il suo celebre “Whatever it takes” e con l’invenzione del Quantitative Easing l’ex Presidente della BCE ha salvato la moneta europea dalla speculazione internazionale e ha imposto, esponendosi agli anatemi dei rigoristi teutonici, un primo importante cambio di passo rispetto alle cieche politiche economiche depressive, fondate sull’ossessione tedesca per la stabilità monetaria.

Inoltre – last, but not least – il sostegno a Mario Draghi avrebbe potuto mettere in soffitta, definitivamente, i tentativi di riedizione, sotto mentite spoglie, del vecchio “arco costituzionale”. La conventio ad excludendum della destra, infatti, nella strategia del PD zingarettiano varrebbe ad imporre il ritorno ad una “democrazia bloccata” e il conseguente restringimento dell’area di governo al perimetro di un centro-sinistra con tonalità giallorosse.

Nell’interesse del Paese e non solo dei partiti che si collocano a destra dell’arco parlamentare, è fondamentale disinnescare questo grave rischio, la cui concretizzazione riporterebbe le lancette della democrazia italiana indietro di trent’anni. Si deve, tuttavia, riconoscere che l’ingresso in maggioranza della Lega di Salvini renderà spuntata quest’arma di delegittimazione rispetto a chi intendesse utilizzarla contro chicchessia e, a maggior ragione, nei confronti del partito nazionale che esprime il presidente dei Conservatori e riformisti europei.

D’altra parte, non mancano le ragioni a sostegno di quello che inizialmente è apparso come un “gran rifiuto” di Giorgia Meloni, ma che, con il passare delle ore, è stato messo a fuoco nei termini di una “opposizione patriottica”. La crescita progressiva di Fratelli d’Italia si spiega anche con una linea di rigorosa coerenza e con una visione dell’interesse nazionale (dalla economia agli assetti istituzionali, dal modello di sviluppo alla collocazione geo-politica del nostro Paese) non sempre espresse, con altrettanta organicità, da altre componenti del centro-destra. Probabilmente è vero che la visione “nazionale” di Fratelli d’Italia avrebbe faticato ad esprimersi con un governo di emergenza, magari sottoposto ai veti delle componenti grilline, democratiche e post-comuniste. La scelta, dunque, quella di convergere con la maggioranza che sosterrà il Governo Draghi, se e quando giungeranno in Parlamento indirizzi di politiche pubbliche coerenti con un disegno di riscossa dell’Italia e dell’Europa condivisibile per la destra identitaria e popolare.

Archiviato, dunque, il fisiologico, quanto utile dibattito interno su una scelta fondamentale per il destino del Paese (come si conviene ad un partito che possa dirsi veramente tale e non un mero coacervo di interessi elettorali), si tratta adesso di percorrere sino in fondo la via della “opposizione patriottica”.

Occorre, innanzi tutto, smascherare la falsa narrazione oppositiva tra europeisti e (presunti) antieuropeisti. Nessun europeo può e vuole oggi dire no all’Europa; ma ogni europeo può pretendere che il progetto di integrazione avanzi verso un modello di unione politica confederale. Una Unione che si regga sulle radici di una identità bimillenaria e sia capace di proiettarsi, non solo economicamente, nello scenario globale come potenza continentale. Una confederazione europea fondata sulla partecipazione politica dei suoi cittadini e sulla eguaglianza delle opportunità nell’intero suo territorio. Una comunità di Stati che sappia difendere i suoi ceti produttivi dall’economia finanziaria e dalla concorrenza sleale dei liberi battitori dei mercati internazionali. Un ordinamento sovrastale che, riavviando il processo di integrazione, restituisca le scelte monetarie e gli indirizzi di politica economica e fiscale alla sovranità di istituzioni politiche continentali, democratiche e rappresentative.

Del resto, proprio il “Whatever it takes” di Mario Draghi ha tutti i caratteri di una potente affermazione di sovranità rispetto alle dinamiche adespote dell’economia finanziaria globale. Una decisione politica anomala e in un certo senso paradossale, perché assunta da una autorità tecnica e “non politica”, che ha però dimostrato come, anche nel mondo globalizzato, non si possa fare a meno di istituzioni di governo dell’economia.

Un disegno, in definitiva, profondamente diverso dall’attuale Unione europea, troppo spesso concepita quale fonte di legittimazione tecnocratica e non, invece, come proiezione politica continentale di una concreta comunità democratica di cittadini e di Stati.

In questo senso, i conservatori possono essere, al contempo, europei e sovranisti. Nella tradizione del diritto pubblico europeo, infatti, al contrario rispetto a quanto sostenuto da alcune superficiali narrazioni, la sovranità è democrazia e partecipazione, universalismo inclusivo di cittadini, di comunità intermedie, di imprese e di lavoratori, nel quadro unificante di comuni principi di civiltà.

Una visione “patriottica europea”, dunque, può ben conciliarsi con la tutela degli interessi nazionali. Anche sul piano interno, quindi, l’opposizione costruttiva potrà esprimere il suo sostegno a tutte le iniziative di modernizzazione del Paese fondate sull’utilizzo razionale dell’enorme massa finanziaria del Recovery Plan. La risposta alla crisi indotta dalla pandemia ha, infatti, determinato un primo momento di rottura rispetto alle politiche rigoriste che rifiutavano l’idea di un debito comune per alimentare la solidarietà politica, sociale ed economica dell’Europa.

Un piano che dovrà sostenere, in Parlamento e nel Paese, il rilancio infrastrutturale dell’Italia e la ricucitura delle distanze fra il Nord e il Sud, con il potenziamento delle reti e con la valorizzazione delle identità territoriali. Un programma di supporto per assicurare nuova libertà di azione al genio nazionale sul piano della cultura, dell’impresa, dell’arte, della tecnica, della ricerca e dell’innovazione, da troppo tempo strozzato dalle rigidità burocratiche o dalle false rappresentazioni di una possibile “decrescita felice”. Un progetto di rilancio che sprigioni le energie individuali e collettive della nazione con il sostegno dello Stato e dell’Europa, garanti delle regole del gioco e delle infrastrutture strategiche. Una visione di competizione aperta al mondo nei termini della migliore tradizione dell’universalismo europeo, anziché sulla fiducia ingenua e incondizionata nel mercato globale.

In questo scenario dovrà misurarsi il contributo della maggioranza che sosterrà il Governo Draghi e il ruolo dell’opposizione costruttiva della destra italiana, con il pensiero rivolto alle generazioni future.

*Felice Giuffrè, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico, Università di Catania

La cura alla "febbre gialla" al Sud? Proposte centrate sull’asse destra-centro

Partiamo dalla geografia, dalla cartina politica dell’Italia nata all’indomani del 4 marzo: un Paese spaccato in due, con al Nord il centrodestra che fa da asso pigliatutto e il Sud consegnato mani e piedi legati alla marea a Cinque stelle. Mai come stavolta lo stacco cromatico è evidente, neanche fossero tornati gli anni della guerra campale tra Democrazia cristiana e Pci. D’immediato c’è anzi che il Paese si è riscoperto unito contro gli eredi naturali di quelle due grandi tradizioni politiche confluite alla meno peggio nel renzismo. Le urne hanno certificato lo scollamento tra l’Italia reale e la classe dirigente di una nazione rimasta impantanata in una crisi senza fine e in dispute linguistiche da peggior Novecento.
Se al Nord le richieste di sicurezza e di sostegno concreto al ceto produttivo hanno premiato una certa idea ben riconoscibile – nonché collaudata – di gestione del territorio, al Sud la questione è ben diversa. Le analisi di chi vuole ricondurre “la febbre gialla” targata Di Maio alla proposta del reddito di cittadinanza, non solo sono false quanto le fake sulle code ai Caf a Bari e Palermo, ma mortificano ulteriormente una larga fetta di popolazione che non ci sta proprio a essere derubricata come sfaticata o sorniona. Il malessere diffuso esiste e il solo fatto che esso sia stato intercettato quasi a scatola chiusa dai Cinque stelle dovrebbe essere già un segnale da consegnare ai luminari della scienza politica (e ospedaliera). Perché doveva essere proprio l’elettorato meridionale a essere meglio consapevole dei limiti, talvolta imbarazzanti, manifestati dai sindaci allevati nella “cantera” grillina.
Si fa presto a parlare di Chiara Appendino e delle lacerazioni interne sulla candidatura olimpica di Torino – va da sé, un dibattito da snob per tutto il resto dello Stivale. L’esperienza di Virginia Raggi alla guida del Campidoglio è sotto gli occhi di tutti, tant’è che le chiare flessioni in termini percentuali del Movimento nella Capitale si leggono a caratteri cubitali. E se il caso Roma è pessimo, nel profondo Sud la faccenda è da mani nei capelli. I cinque anni a Ragusa di Federico Piccitto si chiudono senza registrare alcuna rivoluzione sostanziale, ma con le polemiche finali per l’appalto di un parcheggio sotterraneo a Ibla (uno dei set Rai preferiti dal commissario Montalbano) a soli due mesi dal voto. A Gela, invece, patria di Rosario Crocetta, il sindaco Domenico Messinese è stato addirittura espulso dal M5s perché non avrebbe tagliato – a sé e ai colleghi di giunta – lo stipendio e per aver adottato una linea politica fin troppo filo-Eni. Lo scorso gennaio – in ultimo – Messinese si è visto recapitare un avviso di garanzia circa le presunte irregolarità nella realizzazione di un complesso edilizio.
Insomma, incendiari prima del voto, uguali a gli altri una volta eletti.
Il caso di Bagheria è totalmente differente, ma in peggio. Patrizio Cinque è stato addirittura rinviato a giudizio con l’accusa multipla di turbativa d’asta, falso, abuso d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio e omissione di atti. Al centro della tempesta giudiziaria i rifiuti, ma anche  l’affidamento della gestione del palazzetto dello sport e una serie di presunti abusi edilizi che vedrebbero coinvolto addirittura il cognato del sindaco. Per la cronaca, al momento il primo cittadino è autosospeso dal Movimento.
Detto ciò, di una differenza antropologica dei Cinque stelle, manco a parlarne. Lo si è visto finora alla prova dei fatti. Fatti che evidentemente agli elettori meridionali non sono bastati per allinearsi ancora una volta sulle cosiddette opzioni tradizionali. Buona parte della responsabilità stanno  ancora in Renzi, che ha soffiato sullo spauracchio grillino per esorcizzare soprattutto gli ultimi anni di errori clamorosi. Un errore di comunicazione evidente, che ha consolidato l’orientamento di quel flusso elettorale transitato dal Pd al grillismo sulla scorta pure di un’azione di governo percepita dai più come inefficace e fumosa.
Anche il centrodestra ha delle chiare responsabilità. L’eccesso di fiducia nei sondaggi, ha disimpegnato di fatto buona parte dei colonnelli al Sud. La presenza, poi, di troppi candidati agli uninominali reclutati al centro (persino centrosinistra) hanno inibito una parte del corpo elettorale in cerca di rinnovamento. Le avanzate di Lega e FdI segnalano, invece, come le campagne elettorali si vincono sulla scorta di progetti culturalmente chiari e capaci di parlare sia al ventre sia al cuore degli italiani. Sono state premiate le forze che hanno intercettato la crescente divaricazione in atto tra la base e l’altezza del tessuto occidentale e il risentimento verso un’Europa che non è riuscita a dar risposte sul versante della crescita economica e dell’immigrazione. In fondo, passare nel giro di pochi mesi, dalla conquista storica della Regione Sicilia con Nello Musumeci presidente, sulla scorta di un asse destra-centro di nuovo conio, ai zero collegi conquistati, qualcosa vorrà pur dire. E cioè: dove il profilo dei candidati è autorevole, la proposta politica consapevole dello zeitgeist attuale, non c’è spazio per i minestroni in salsa pentastellata.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

 

 

“Più Europa” con Emma Bonino? Un falso idolo: è l’Ue. No grazie.

Il democristiano, ed ex alleato di Pisapia, Bruno Tabacci salva la lista di Emma Bonino, offrendole l’esenzione dall’obbligo di raccogliere delle firme, concedendole il suo simbolo di Centro Democratico, in cambio dell’apparentamento di questa con il PD. Messa così, quella del democristiano e della radicale sembra una barzelletta (e infatti ha dato luogo ad una messe di vignette) però è una cosa seria.
La premessa all’incredibile vicenda è che il ministro Minniti, dopo essere stato attaccato dalla Bonino perché non abbastanza genuflesso ai migranti, aveva cercato di escludere la lista “Più Europa” con una circolare capziosa e incostituzionale secondo cui, per raccogliere le firme in calce ai moduli per presentare una lista in una coalizione, sarebbe stato necessario avere, fin dall’inizio della raccolta, già stampato su questi i nomi dei candidati degli altri partiti della coalizione (pur se esentati dall’obbligo di raccoglierle).
Ovviamente, in un Parlamento nel quale quasi tutti i partiti maggiori, e comunque il PD, sono esentati dalla raccolta firme, i tempi tecnici della negoziazione delle candidature uninominali con l’alleato non avrebbero mai consentito alla Bonino di trovare le firme in tempo. Alla luce di ciò, la Bonino aveva elevato proteste in ogni sede, ottenendo un emendamento correttivo al Rosatellum, che era però stato bocciato dal centrodestra per mettere in difficoltà il PD, facendo emergere il pasticcio.
Qui finisce la storia vera di un abuso ed inizia, invece, la commedia dell’arte. La Bonino, cercando furbescamente visibilità, ha infatti sulle prime mostrato di rifiutare l’aiuto renziano. L’offerta di raccogliere le firme attraverso la capillare organizzazione del PD è stata quindi respinta dalla sedicente “Zia d’Italia” (per via dell’aborto, non della modestia) per poter presentare il proprio progetto come autonomo e distinto dal PD, riuscendo con la minaccia di andare da sola, ad ottenere paginate sui giornali.
La protesta legalitaria, del volere l’accesso come diritto e non privilegio, è però durata poco. Nella realtà, d’accordo con Matteo Renzi, per evitare la sconfitta totale nei collegi, dove anche lo zero virgola conta e dove il PD è accreditato di una misera quarantina di seggi su 231 totali, è presto emersa la soluzione: offrire un posto al fedele Tabacci, in cambio di un simboletto civetta. Più Europa sarà quindi sulle schede, a cercare voti radicali o montiani, per l’alleanza di Centrosinistra, puntando al 3% o – almeno – all’1%.
Dunque il PD avrà finalmente un alleato qualsiasi. Per tale servigio, Renzi porterà senz’altro in Parlamento, attraverso qualche collegio uninominale, anche due o tre rappresentanti degli ultras di Bruxelles, dei teorici laici dell’invasione di immigrati, degli alfieri dell’abortismo. Ci sarà magari in più qualche liberista, individualmente persona per bene, finito lì per caso, ma irrilevante dato il contesto al contorno.
Ma è davvero cosa loro l’Europa? Vale a dire: sono davvero con loro rappresentate le idee di Giulio Cesare, Costantino, Giustiniano, Carlo Magno, Churchill e De Gaulle? Non ci si crede davvero. Quella sarebbe l’Europa, ma loro sono solo la UE. E nemmeno. Loro sono la tecnocrazia. Sono per gli Juncker, i Van Rompuy, le Mogherini. Pacifinti, terzomondisti, sorosiani. La loro stessa leader distrugge i valori cristiani, parla la lingua dei nemici, e si sottomette ai loro costumi. Ma va fierissima contro tutti i nostri.
Torniamo ancora sul fatto che alcuni tra loro sono liberisti, per dire che è troppo poco il solo liberismo: non ci sentiamo solo consumatori e non aspiriamo solo al paradiso dei consumatori. Senza più nulla per cui valga la pena sentirsi italiani, con le strade invase da stranieri, non sapremmo accontentarci né della libertà di espatrio né del mercato unico in cui comprare tutto. E, tra le promesse impossibili degli uni e degli altri, la flat tax di Salvini e della Meloni è una promessa molto migliore dell’IMU alla Monti.
Di fronte a questo boninismo, e al PD dei sacchetti agli amici, Forza Italia purtroppo purtroppo prepara non una schiera di professori e professionisti (’94) ma un’infornata di nani, lacché e ballerine, che saranno tutti pronti all’alleanza con Renzi e Bonino un minuto dopo il voto – per fermare lo spauracchio M5S, ma anche per fare molto altro di male. Tutto quello che poteva venir fuori dalle quinte linee del vecchio pentapartito.
Contro costoro serve una Destra del Centrodestra forte – grazie ai parlamentari che saranno eletti in Fratelli d’Italia e nella Lega, nonché agli eletti di alcune componenti della quarta forza (Noi con l’Italia) tra quelli che non si sono compromessi con il Nazareno – per impedire che il patto tra Renzi e Berlusconi risorga alla prima occasione.
Occorre una maggioranza imprevista alla coalizione del centrodestra, che tolga ogni alibi, e ogni chance alla protesta grillina, che la marchi effettivamente come comunista, quale essa è, e che al contempo releghi il PD alla storia. Serve il 51% dei seggi con il 40% dei voti, e per questo è necessario quel landslide nei collegi uninominali che solo può correggere la natura proporzionalista del Rosatellum. Serve quindi proprio quello che Più Europa è nata per impedire, alleandosi al PD, per fornire voti in sostegno nei collegi al margine.
Chi vota Più Europa alleata col PD oggi non ha dunque alcun alibi: vota più Monti, più Letta, più Alfano, più Gentiloni. Vota per Renzi e Berlusconi di nuovo alleati. E per tutto quanto ha impedito al centrodestra e all’Italia di rinnovarsi. È una scelta di campo tra la cultura della vita e quella della morte, tra il mondialismo e la patria, tra la tregua e la sfida. Ma anche tra la Libertà e i suoi falsi idoli.

*Giovanni Basini, collaboratore Charta minuta

Leopolda 8, ultima fermata di Renzi: il treno della "rottamazione" è deragliato

Mai stato così all’angolo Matteo Renzi, neanche all’indomani della sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Mai così privo di carte da giocare e idee, altro che “Leopolda 8”. Parola di Pierluigi Bersani: l’alleanza a sinistra non s’ha da fare. E c’era pure da spettarselo, a parte Giuliano Pisapia che pure, sul dossier della manovra, è pronto a vendere caro l’appoggio. È chiaro che gli uomini di Mdp non possono risalire in un carro dal quale sono già scesi all’alba dell’ultimo congresso del Partito democratico, se a guidarlo è sempre lo stesso cocchiere. Non sarebbe soltanto un atto incoerente ma difficile da digerire da coloro che dovrebbero recarsi alle urne e mettere una “x” sulla scheda che in un modo o nell’altro garantirebbe il segretario del Pd.
A quel punto la fuga di voti da sinistra verso il Movimento Cinque stelle, sarebbe un esito strategicamente poco appagante per una formazione ai primi vagiti elettorali. Lo sa benissimo anche Piero Fassino, impegnato in una difficile opera di mediazione destinata a far saltare il banco e a far finire la pistola fumante nelle mani di Massimo D’Alema. Furbamente, però, il Lìder Massimo, le mani, ha preferito tenerle in tasca.
Altro che ritorno all’Unione, se c’è una figura che divide gli animi è proprio quella di Renzi. Se n’è accorto di recente anche Giorgio Napolitano, l’uomo che aveva consegnato a Renzi le chiavi del governo del Paese in un momento storico – quello che precedeva le scorse Europee – dove la miglior risposta ai malumori del Paese era la sgangherata proposta declinabile quale populismo-di-sistema. La guerra ingaggiata, in ultimo, con il presidente delle Repubblica Sergio Mattarella e il premier Paolo Gentiloni sul rinnovo di Ignazio Visco al vertice della Banca d’Italia, ci dice che la dialettica renziana non lascia prigionieri, bensì macerie.
Così facendo, Renzi rischia di non andare da nessuna parte. Perché se la proposta dell’ex rottamatore ha perso appeal nell’area progressista, sulla scorta di provvedimenti assai indigesti quali Jobs Act e la Buona scuola, che hanno frustrato quei blocchi sociali tradizionalmente affini alla sinistra, anche la battaglia al centro rischia di perderla malamente. La vittoria del centrodestra unito in Sicilia, con la recente elezione del postmissino Nello Musumeci a presidente della Regione, stanno convincendo Silvio Berlusconi dell’inutilità di un piano B da siglare con lo stesso Renzi all’indomani delle Politiche.
Anche perché l’habitat naturale dei moderati, non può non essere contiguo alle aree identitarie e conservatrici, soprattutto oggi che con la reintroduzione dei collegi uninominali figli del Rosatellum, i poli tornano ad avere una ragion sufficiente. Un incrocio che non può non mettere all’angolo il leader fiorentino. In altri termini, se il “patto dell’arancino” produce effetti indigesti, questi rischiano di essere a danno esclusivo di chi al tavolo non poteva esserci. E questi, ovviamente, è il renzismo di ritorno.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta