La sfida culturale della destra di governo

È da pochi giorni passato il 23 di marzo un giorno molto particolare per il nostro Paese che, se ce ne fosse ancora bisogno, ci avrebbe dovuto portare a riflettere sull’enorme patrimonio culturale che permea l’Italia ed ogni italiano. Quel giorno ricorrevano due anniversari : i 700 anni dalla morte di Dante ed i 1600 anni dalla fondazione di Venezia. Pochi hanno messo in relazione le due cose. Eppure la straordinarietà di poter avere, nella stessa giornata, due ricorrenze così cariche di significato, con un valore culturale così grande per noi ma anche per tutto il mondo, non può lasciarci indifferenti e ci obbliga ad interrogarci sul nostro rapporto con la nostra storia e le nostre tradizioni. L’Italia è ancora giovane, ma si fonda su una molteplicità di culture unica nel suo genere e questo se da una parte ha rappresentato e rappresenta un’opportunità legata all’immenso valore, che si è stratificato nei secoli, dall’altra continua ad essere un problema anzi “il” problema perché non siamo riusciti a creare un patrimonio condiviso da tutti in cui ci si possa riconoscere. La nostra storia post-unitaria, da questo punto di vista, ha aggravato la situazione.

Il periodo tra la fine della prima guerra mondiale ed il termine della seconda, il referendum su Repubblica e Monarchia ed i successivi decenni hanno creato una voragine che ci ha risucchiati in divisioni ideologiche ancora oggi non sanate ed apparentemente non sanabili. È incredibile constatare nel 2021 che non si sia riusciti a creare una identità nazionale da tramandare alle nuove generazioni ma, anzi, che queste vengano nutrite di propaganda divisiva nelle famiglie come nelle scuole. Questa è, forse, la più grande sfida che la destra italiana è chiamata a raccogliere in questi anni. Se, come è giusto che sia, è arrivato il momento di una destra conservatrice che sia a pieno titolo forza di governo, la cultura deve essere al centro di ogni suo programma e progetto e non si può più prescindere dalla necessità di trovare un humus con cui nutrire le nuove generazioni per far sì che si possano sentire orgogliose di essere nate in Italia.

Sicuramente non sarà un’impresa facile ma è inevitabile. La strumentalizzazione ideologica rimane il più alto muro da superare che separa la destra dall’ambizione di poter rappresentare un’alternativa alla sinistra governativa, è diventata un’arma potente cui molti non vogliono rinunciare sacrificando, così, la cosa più preziosa, l’identità nazionale, sull’altare dell’opportunismo politico. Lo scorso anno, il 14 di marzo, è stato il duecentesimo anniversario della nascita di Vittorio Emanuele II, quello sulla cui tomba a Roma, che si trova nel Pantheon, è scritto “Padre della Patria”, ebbene non un articolo, non una ricorrenza, non una parola sono stati spesi su questo anniversario. Si dirà : eravamo in piena pandemia e si contavano centinaia di morti al giorno. Eppure in quale momento, se non nei più gravi, una nazione ha bisogno di stringersi attorno ai suoi simboli per superare le proprie difficoltà, per ritrovare il proprio orgoglio? Possibile che un referendum ed un periodo storico ancora controverso possano cancellare la figura di chi ha fondato la nostra Patria? Come possiamo pensare di poter far crescere i nostri figli con l’amor di patria se abbiamo paura, perché di paura si tratta, di rivendicarne le figure fondanti?

Abbiamo bisogno di storicizzare il nostro passato, di analizzarlo, una volte per tutte, e trovare un percorso condiviso e condivisibile che porti all’identificazione di “termini”, nel senso latino di pietre di confine, in cui perimetrare i valori comuni in cui possiamo riconoscerci. Questo non può che venire da destra perché difficilmente la sinistra potrà rinunciare alle armi che il divisismo novecentesco continua ad offrirle anche nel ventunesimo secolo. Ed allora ecco che la Costituente Culturale può diventare una delle bandiere dell’immediato futuro su cui potersi misurare e rivendicare un ruolo propositivo. Solo attraverso una pacificazione culturale di tutto quanto avvenuto nello scorso secolo potremmo edificare il tempio della cultura italiana. Altrimenti il fil Rouge che attraversa i secoli, partendo dalla cultura latina ed attraversando il medioevo, i fedeli d’amore e l’umanesimo, il rinascimento ed il risorgimento continuerà a spezzarsi impedendoci di riconoscerci in qualcosa che vada al di là dei nostri territori di origine, dell’ancoraggio agli stati preunitari. Ecco, questo è quello che la destra conservatrice deve all’Italia, la possibilità di essere finalmente una Nazione con un popolo e non quell’espressione geografica che Metternich ci accusava di essere.

 

*Sergio Meschi, professore, direttore marketing Libera Accademia Belle Arti Brescia 

 

IL PATRIOTTISMO NECESSARIO

Questo saggio di Paolo Peluffo,  segretario generale del CNEL, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

 

Che il patriottismo di Carlo Azeglio Ciampi – presidente della Repubblica dal 1999 al 2006 – sia stato una esperienza originale di pedagogia civile, lo ammettono anche i critici più aspri. Alcuni di essi lo perdonano, concedendone l’origine autobiografica; altri persistono a descriverlo come nazionalismo retrogrado. Nessuno tuttavia ne ha percepito la natura strategica, né il suo fondamento in un’analisi dello scontro geopolitico contemporaneo, e in particolare nell’impiego di strumenti quali la guerra economica e la guerra psicologica. Certo, il patriottismo di Ciampi va interpretato prima di tutto come l’espressione di un dovere civile delle istituzioni: dare fiducia alla comunità, rafforzare i comportamenti cooperativi tra gruppi e persone, la disponibilità a lavorare insieme. Ciampi era tuttavia consapevole, prima di altri, che la liberalizzazione dei movimenti di capitale, e quindi la globalizzazione finanziaria, esponevano gli Stati più fragili a fenomeni di decostruzione, potenzialmente distruttivi.

Quel rischio l’Italia lo aveva già corso alla fine degli anni Ottanta, con la crisi di fiducia sui mercati che culminò nel settembre 1992, quando con la traumatica uscita della lira dal Sistema monetario europeo, per cinque lunghe settimane il Tesoro non riuscì a collocare i suoi titoli di Stato. Il Paese rischiò l’insolvenza proprio mentre il bilancio pubblico aveva trovato per la prima volta un equilibrio sostanziale, giungendo nel 1991 all’avanzo primario. L’esplosione dei tassi d’interesse e del rischio sovrano fece lievitare il debito pubblico. L’ingresso nell’euro mise l’Italia al riparo, per qualche tempo, dal rischio di fallimento, ma non le garantì una prospettiva di crescita, una responsabilità che ricadeva sull’Italia e che avremmo dovuto costruire pazientemente, con una strategia che coinvolgesse governo, imprese, lavoratori, famiglie. L’insistere sulla Patria comune, sui valori, sulle memorie, era funzionale a quello sforzo di modernizzazione del Paese, con il suo inserimento a pieno titolo, a «testa alta», in una Unione europea con obiettivi ben più ambiziosi che in passato. La partecipazione dell’Italia alla moneta unica, secondo Ciampi, coincideva con l’interesse nazionale, in quanto ci costringeva a fare in tempi accelerati una serie di cose che avremmo dovuto fare comunque, per non andare a sbattere contro il muro del dissesto finanziario, del dissolvimento dei risparmi accumulati.

Già prima di diventare presidente della Repubblica, Ciampi usava una metafora molto semplice: «In che direzione dobbiamo andare? Le richieste di abbassare l’inflazione, di aumentare il risparmio pubblico, di ridurre il debito in che direzione mi portano? Nella stessa direzione che dovrei prendere comunque. E allora se devo andare verso Milano, magari mi fermerò a Bologna, ma sarà andato nella direzione giusta». Ma quella corsa era faticosa. Una volta entrati nella moneta unica, avremmo dovuto continuare per anni a produrre avanzi primari, a investire, a lavorare di più, in un contesto di moderazione salariale. Non certo una passeggiata. Per questo, serviva il consenso del Paese verso una difficile strategia di riforme e impegno costante. L’ingresso nell’Unione monetaria non faceva certo venir meno gli interessi nazionali dei partecipanti. Questo fu evidente fin da subito. Quando nel novembre 1996, l’Italia rientrò nel meccanismo di cambio e dovette negoziare il valore del cambio lira-marco, francesi e tedeschi puntarono il dito sull’avanzo commerciale italiano che si era accumulato con la svalutazione.

Il braccio di ferro fu proprio sulla conservazione di quel vantaggio competitivo conquIstato, contro la nostra stessa volontà, nel biennio 1993-1995 in cui avevamo navigato perigliosamente fuori dallo SME. I francesi ci aiutarono a entrare nel gruppo di testa nel 1997 perché capirono che per loro era meglio averci «dentro», piuttosto che «fuori», per tutelare le loro produzioni dalla concorrenza italiana. Muoversi tra gli interessi nazionali degli altri che talvolta prendevano le forme di norme comunitarie (per la nostra disattenzione, o per rapporti di forza) implica una vasta organizzazione, un metodo di lavoro, il coinvolgimento continuo di tutti i ministeri, non solo degli Esteri, implica giovani preparati e combattivi, con un riferimento saldo dietro le spalle.

Implica un meccanismo complesso da costruire, responsabilità, indirizzo, controllo, fiducia. Ciampi era convinto che l’ingresso accelerato nell’euro, facendo crollare i tassi d’interesse, eliminando il rischio di cambio, riducendo il rischio-Paese, avrebbe rappresentato una boccata di ossigeno talmente potente, che gli investimenti sarebbero facilmente ripartiti. A convincerlo di questo, oltre alle teorie di Franco Modigliani, c’era soprattutto l’accordo sul costo del lavoro del 1993, che esibiva orgoglioso ai suoi interlocutori, soprattutto tedeschi e olandesi, come l’àncora del sistema economico, garanzia per la sua stabilità futura. I tedeschi si interessarono a questo modello. Kohl gli chiese di spiegarlo alle commissioni del Bundestag. La Germania avviò così la preparazione della sua gigantesca azione competitiva di svalutazione interna attraverso l’accordo Hartz IV, anche prendendo spunto dall’accordo del luglio 1993. La fase di nuova accumulazione di capitale in Italia fu inferiore alle attese. Le imprese continuarono a chiedere maggiore flessibilità ai sindacati, riducendo i salari. Ridussero i costi, per aumentare i profitti. In molti vendettero, trasformandosi da imprenditori in investitori. Lo smantellamento dell’industria pubblica fece il resto.

Anche su questo terreno, Ciampi ministro del Tesoro fece qualche tentativo di rilancio, senza troppo successo. Per esempio, venne esplorato un accordo con la telefonia pubblica tedesca per costruire un colosso italo-tedesco pubblico, come alternativa alla privatizzazione totale. Immaginò più di una volta un accordo strategico franco-italiano per l’impresa pubblica (con Paolo Savona nel novembre 1993). Poi arrivarono due eventi imprevisti. Primo. L’ingresso della Cina nel WTO nel 2001. Secondo. Una lenta sindrome deflattiva, una spirale bassi salari-bassi consumi che si stava diffondendo in Europa, per precipitare poi nella Grande Recessione del 2008-2015, la peggiore da duecento anni. L’eliminazione dei concorrenti passa anche attraverso la demotivazione dell’avversario, la convinzione che non vale più la pena combattere, che è meglio chiudere la saracinesca del negozio. Ciampi al Quirinale cominciò a studiare le tendenze autodistruttive della demografia italiana, che gli sembravano il frutto di una crisi profonda di fiducia, nel futuro individuale e collettivo. Solo una strategia che continuasse a tener vivo un progetto collettivo poteva arginare quella tendenza al declino di cui i dati Istat del 2018 attestano l’aggravamento. È per questo che il patriottismo si declinò in discorsi complessi sulla crisi delle nascite, sul lavoro femminile, sulla necessità di attirare lavoratori stranieri con un «contratto non al ribasso», chiedendo loro integrazione, studio della lingua, conoscenza della Costituzione.

Il patriottismo dei primi anni Duemila, dunque, aveva origini nella fase precedente, ma cambiava di significato in un contesto che si andava aggravando, giorno dopo giorno. Ho spiegato in un intervento su Limes (10/2019) alcuni aspetti politici del patriottismo ciampiano: primo, il desiderio di sottrarre a un uso di parte l’infrastruttura simbolica nazionale; secondo, l’estrema preoccupazione per la predicazione secessionista della Lega di Bossi, che poteva aggrovigliarsi a precipizio con una possibile insolvenza, come era accaduto proprio nell’ottobre 1992; terzo, il costante riferimento francese, soprattutto al periodo mitterandiano. In questa sede, ne voglio aggiungere uno ulteriore: la nascita di soggetti privati di dimensione globale che possono avere interesse, nel lungo periodo, allo smantellamento dello stato sociale nei mercati ricchi, per fornire servizi che sostituiscano istruzione, sanità, previdenza pubbliche. Gli Stati nazionali, con costituzioni come quella della Repubblica Italiana, sono ancora oggi – nonostante tutte le azioni di erosione che hanno subito da normative europee e trattati internazionali– un baluardo insostituibile per i diritti di integrazione sociale.

L’Unione europea è una cintura esterna (che di fatto opera su delega degli Stati) che, in linea di principio, potrebbe rafforzare e rendere più duratura la difesa di questi organismi nazionali ad elevate tutele sociali, come quelli nati dopo la Seconda guerra mondiale. Ma perché il senso dell’integrazione continui ad essere questo, serve un’azione costante, persistente, per far valere quotidianamente gli interessi nazionali all’interno delle istituzioni comuni. Nei primi mesi del governo del «traghettatore» che si avviò in condizioni difficilissime negli ultimi giorni dell’aprile 1993, Ciampi volle a Palazzo Chigi un piccolo ufficio per gli affari europei che fosse autonomo dalla Farnesina e chiamò a dirigerlo un giovane e brillante funzionario della Commissione, Enzo Moavero Milanesi. L’incarico che gli diede, scritto sempre su foglietti autografi che teneva nel portafoglio, fu quello di «mappare» le posizioni dirigenziali ricoperte da italiani a Bruxelles, dar loro sostegno quotidiano, trarre spunti per meglio difendere la posizione italiana. Poi chiese una sinossi, su un foglio A3, di tutte le posizioni scoperte e dei candidati che vi aspiravano, sui dossier sensibili, per avanzare proposte e valutare cosa fare in caso di candidature «sgradite».

Nel luglio del 1997, eravamo nel pieno del negoziato sul raggiungimento dei parametri di Maastricht. Ciampi ministro del Tesoro aveva in tasca i risultati dell’autotassazione di giugno, che davano per certa la discesa del deficit sotto il fatidico 3%. Ma decise di non divulgare i dati. Chiamò a sé quattro funzionari pubblici di livello eccezionale (Vittorio Grilli, Roberto Nigido, Fabrizio Saccomanni e Umberto Vattani), li chiamò il «gruppo dei quattro» e li inviò riservatamente, nel giro di tre mesi, in tutte le capitali europee per spiegare i dati dell’economia italiana e le nostre ragioni. Sembrava una missione superflua, visti i risultati del bilancio. Tutt’altro. Ci si rese conto che persistevano pregiudizi profondi sia sui dati economici, sia sulla loro solidità, sulle prospettive di medio termine. Fu in questa peregrinazione da commessi viaggiatori dell’Italia che ci si rese conto come la questione del debito, che fino a quel momento non era mai stata avanzata ai tavoli comunitari, poteva diventare il nostro tallone di Achille. Venne messo nero su bianco un primo tentativo di piano di riduzione graduale in 10 e in 15 anni, che a un certo punto emerse sulla stampa internazionale.

Ma negli ultimi tornanti del negoziato venne calata dagli olandesi, e poi dai tedeschi, la carta di chiedere una riduzione in tempi e percentuali di riduzioni, contrattualmente definite. Ciampi rifiutò categoricamente questa ipotesi, considerandola contraria alla lettera e allo spirito del Trattato di Maastricht. Accettò invece di richiedere una sorta di mozione parlamentare condivisa tra maggioranza e opposizione per la riduzione del debito. E a quel tempo, bastò. Nei primi mesi del settennato presidenziale, e soprattutto dopo il 2 giugno 2000 (anzi quell’anno fu il 4 giugno, domenica), quando si ripristinò la sfilata militare per la Festa della Repubblica, si cominciò a riunire periodicamente al Palazzo del Quirinale un gruppo di studiosi e ricercatori al quale si era proposta una riflessione riservata sul «disagio comunitario» del Paese. L’idea era nata da una serie di spunti offerti dal filosofo di Harvard Robert Putnam e dai ricercatori dell’Istituto Cattaneo di Bologna che avevano studiato fenomeni sociali come il servizio civile e la disponibilità al volontariato, come indicatori della consistenza di «capitale sociale». Nel lavoro di quel gruppo cui parteciparono diversi studiosi delle più disparate provenienze disciplinari (tra cui Domenico De Masi, Alberto Abruzzese, Mario Morcellini, Nando Pagnoncelli, Nicola Piepoli, Renato Mannheimer, Ilvo Diamanti, e tanti altri) emerse la necessità di un discorso pubblico coerente, intelligibile, che riannodasse i fili di valori comunitari esistenti, ma spesso frustrati. Si avviò un esercizio di misurazione del capitale sociale, da cui nacque, per esempio, l’idea del viaggio presidenziale in tutte le province d’Italia con lo scopo di abbattere la sensazione della lontananza delle istituzioni.

L’idea venne declinata tuttavia con uno stile «operativo» congeniale al vecchio presidente, che voleva avere a disposizione mappe di opere pubbliche, analisi degli insediamenti industriali, punti di eccellenza culturali e sociali, città per città. E poi, perché no, il rito repubblicano: la fascia tricolore, le bandiere, l’inno, i saluti ufficiali. Si può forse pensare che un uomo come Ciampi – che aveva passato 47 anni dentro la Banca d’Italia – potesse anche solo lontanamente pensare che un lavoro simbolico, di comunicazione, risolvesse i problemi del Paese? Ciampi sapeva bene che solo la costruzione di politiche di lungo periodo (investimenti, istruzione, innovazione) potevano rimettere in carreggiata l’Italia. Pensava tuttavia che solo in un contesto di impegno nazionale, di «patriottismo», quello sforzo avrebbe potuto essere elaborato e perseguito. Un patriottismo necessario, dunque, ma non sufficiente. Un integratore del capitale sociale. Un elemento di tutela per gli strumenti di inclusione del benessere, fondati sulla Costituzione. In questo contesto può essere valutato lo sforzo del presidente Ciampi. Il relativo successo della sua predicazione laica non fa altro che avvalorare la tesi di Dario Fabbri di una omogeneità della società italiana proprio sotto il profilo nazionale, per certi aspetti superiore a quella dei paesi nostri soci-concorrenti. Una evidenza empirica – completamente dissonante con la vulgata mainstream – che emerse nell’esperienza di Ciampi in occasione delle approfondite ricerche per individuare le immagini sul lato nazionale delle monete metalliche dell’euro, con l’identificazione dell’uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci come icona-guida, e il televoto a Domenica In con Fabrizio Frizzi per scegliere le altre immagini, il 7 febbraio 1998.

 

*Paolo Peluffo, segretario generale CNEL

Lezione di amore per la Patria

Una stampa strana, quella italiana. Una stampa che preferisce lodare la delinquente “capitana” con cappelli rasta e faccia da fattona anziché chi difende l’Italia, i suoi confini, la legalità ed il rispetto delle regole. Una stampa che da sempre serve solo gli interessi della sinistra, tendenziosa e lontana dalla realtà, che ormai ha dimenticato l’informazione di qualità, l’etica giornalistica, ma soprattutto la verità. Una stampa che attacca i poliziotti, i carabinieri ed i finanzieri che ogni giorno rischiano la vita, perché nel nome della democrazia – così come interpretata dai radical-chic -, le forze dell’ordine non devono fare il proprio dovere se ledono gli interessi di anarchici, centri sociali, catto-comunisti e delinquenti vari.

Non si può reagire se uno con volto coperto e spranga alla mano picchia le forze dell’ordine, se un altro cerca di lanciare un estintore in una camionetta dei carabinieri, quando si insulta e si sputa in faccia a chi, lavorando, difende legalità e ordine. Anzi, a quello con l’estintore gli si dedica persino una sala al Senato della Repubblica. Vergogna!

Chi, in un paese, non sta accanto alle sue Forze dell’ordine, non le rispetta, le offende, le denigra e cerca di privarle dei poteri che gli sono stati attribuiti, non merita di stare in Parlamento, non merita la libertà di scrivere sui giornali, non merita di dichiararsi italiano. Come non lo merita chi approva e difende l’illegalità, il delinquere senza conseguenze, nascondendosi dietro l’ipocrisia dell’insulto di essere fascisti per chiunque vuole ordine, regole e rispetto della legge.

Chi, come politico e pertanto rappresentante del popolo italiano, sale su una nave che forza un blocco portuale per attraccare fregandosene della legge e delle autorità deve essere denunciato per vilipendio alle Istituzioni.

Chi, come italiano, non comprende (o fa finta di non comprendere) la macroscopica differenza tra democrazia e anarchia, tra diritti costituzionalmente garantiti ed impunite libertà oltraggiose alla cultura e alla storia di un popolo, non può definirsi tale.

I grandi popoli democratici dell’Occidentale, quelli che prendiamo sempre come esempio di civiltà, senso del dovere e patriottismo, per primi gli Stati Uniti, seguiti dall’Inghilterra ed i paesi dell’Nord Europa, insegnano alle nuove generazioni i valori per i quali tali nazioni sono ammirate ovunque.

Il primo è l’amore per la Patria, per quella famiglia allargata che è ogni nazione per i suoi cittadini, guardiana dei diritti, aiuto in caso di necessità, collettore della storia, della cultura e delle tradizioni. In Italia, però, dicendo così si passa per sadici fascisti e razzisti nei confronti dei poveri rifugiati africani e chi altro vuole venire nel Bel Paese per portare il suo prezioso contributo multiculturale (????) alla nazione che ha il 90% del patrimonio artistico culturale del pianeta e che durante la sua storia millenaria ha donato al mondo la maggior parte dei geni in ogni campo.

Il secondo è il rispetto. Rispetto per la legge, per lo Stato, per la polizia, per l’ordine sociale. In questi paesi su ogni balcone, davanti ad ogni casa, persino sui cruscotti delle auto sventolano le bandiere nazionali. Ma allora sono tutti fascisti? Americani, inglesi, irlandesi ed islandesi, svedesi e norvegesi, austriaci e canadesi.

Ho solo una speranza, quella che il popolo italiano, nonostante sia quotidianamente martoriato dalla propaganda di sinistra e dal falso buonismo dei radical chic che a distanza di 70 anni continua ad evocare l’ombra di Mussolini, è un popolo sveglio, intelligente e pensante.

E che anche se nelle chiacchiere tra amici sono tutti aperti alla multiculturalità, all’accoglienza incondizionata… alla fine, quando nessuno li vede, votano chi difende i veri valori, la legalità e la Patria.

Perché, mentre il PD sta con i trafficanti di clandestini, con le ONG che violando le leggi, con l’Unione europea anti-italiana e con chi ha concepito il grande disegno di islamizzare l’Europa, il popolo italiano sta con chi ama questo paese. Il risultato delle urne insegna. O almeno dovrebbe.