«Mi chiamo Agostino Carrino. È Giuseppe Prezzolini?».
«Il carlino?».
«Agostino Carrino. La chiamo da Salerno. Mi piacerebbe incontrarla. Ho appena finito di leggere il suo libro, L’italiano inutile».
Soltanto la giovanile incoscienza o forse arroganza di un ragazzino di 14 anni poteva giustificare quella telefonata a un frammento di storia italica, non solo letteraria, ma anche politica e di costume, scrittore appunto per Il resto del carlino di Bologna.
Prezzolini era tornato da poco da New York in Italia e dopo Ravello si era stabilito, per ragioni di salute (soffriva di artrite), a Vietri sul Mare, in un comprensorio chiamato “La Crestarella”, con vista sul golfo di Salerno. L’anno prima, per i tipi di Vallecchi, era uscita la nuova edizione di quella sua raccolta di ricordi alla quale aveva dato il titolo L’italiano inutile, considerandosi uno che aveva sempre predicato al vento, anche se proprio al vento non era stato, perché il suo nome resta tra i protagonisti del renouveau letterario italiano dei primi del Novecento, l’epoca delle riviste (Il Regno Il Leonardo, Lacerba La Voce) e delle contaminazioni filosofiche, con la Francia in particolare: Bergson, Sorel, le avanguardie. Di quel libro, che conservo ancora da qualche parte, ricordo un capitolo, intitolato “Il tempo del birroccio”, parola desueta e ignota ai più oggi ma anche a me allora: era un attrezzo agricolo, usato nei campi della toscana. Sul risvolto di copertina avevo scoperto che l’Autore abitava a pochi chilometri.
Ad essere sinceri, a me, giovane in politica, interessava un’altra storia: leggevo Prezzolini su una rivista di destra, Il borghese, al quale collaborava, e sapevo che aveva scoperto il Mussolini giornalista, con le sue “Cronache dal Trentino” per La Voce. Sospetto per le sue frequentazioni fasciste dopo la guerra, in realtà Prezzolini si vantava, a ragione, di due cose: non aveva mai avuto nessuna prebenda dal regime, lui che a Mussolini era uno dei pochissimi che si rivolgeva col “tu”, anche negli anni di Palazzo Venezia, e negli anni de La Voce aveva creato sia il fascismo sia l’antifascismo (ci scriveva per esempio Giovanni Amendola). Ma credo che la cosa di cui sotto sotto s’inorgogliva di più fosse la prima.
Fissammo così un appuntamento nel suo appartamento di Vietri, colmo di carte e di libri; doveva essere il maggio o giugno 1964. Rispose al citofono e mi disse come raggiungerlo; ci sedemmo in un salottino dove troneggiava una grande radio. «Stavo ascoltando Gluck: lo conosce?». Chiariamoci: avevo 14 anni e ne dimostravo di più, diciamo 18-19, ma anche un ragazzo di 18 anni non è detto che conosca Gluck, quello di Orfeo e Euridice. E io in effetti Gluck non sapevo chi fosse, ma sorvoliamo.
«Dove sta seduto lei c’era poco fa Piero Buscaroli». Buscaroli era un altro giornalista del Borghese, che conoscevo tra l’altro per un libro illustrato in maniera un po’ audace per quei tempi: Le seduttrici, una storia della cocotte prima che perdesse le piume e diventasse più volgarmente “escort”. «Sta finendo una storia della seconda guerra mondiale, ma gli ci vuole tempo». Per la verità Buscaroli quella storia non la scrisse mai, anche se ogni tanto raccontava qualche cosa sulla rivista. Scrisse invece una ponderosa biografia di Bach, essendo in effetti un fine musicologo.
Quello fu il primo di altri incontri, specie sul lungomare di Salerno, dove scendeva per le sue lunghe passeggiate, nelle quali il giovane arrancava dietro il passo veloce del vecchio col bastone. Tra un ricordo e l’altro, Mussolini, William F. Buckley e la National Review, ma anche Alberto Moravia, di cui aveva grande stima (lo aveva conosciuto a New York nel 1938, ospite della Casa Italiana, che diresse fino al 1940), mi insegnò a consumare il succo di pomodoro condito (pepe, limone e angostura), un rito al termine di ogni passeggiata, prima che la moglie americana, la famosa Pigia dei Diari, venisse a prenderlo con la sua 600 rossa (più giovane di lui, gli premorì nel 1980).
Si parlava un po’ di tutto, domande non molto intelligenti, le mie, ma risposte sempre bonarie e pazienti. Mi regalava molti libri, anche in inglese (ricordo ancora il libro di Eugene Weber appena uscito sull’Action française), che gli arrivavano d’ogni dove e non sapeva dove stipare nel piccolo appartamento di Vietri. Così mi capita di tenere ancora dei libri con la dedica di scrittori o giornalisti, per esempio Gervasio, non a me, ovviamente, ma al monumento col quale mi accompagnavo. Mi capitò qualche volta che mia madre si trovasse di fronte sul pianerottolo di casa la signora Prezzolini, con una sporta di libri per il figlio, senza sapere chi lei fosse e perché.
Dopo un paio di anni mi disse che aveva deciso di lasciare l’Italia. Si trasferì a Lugano perché da noi, si lamentava, pagava troppe tasse (in effetti, donne e soldi, insieme coi libri, erano una sua preoccupazione costante: «scrivo per soldi, ma quello che voglio io»). Mi resta il ricordo di un gran vecchio, molto gentile, occhio lucido e penetrante, gran conversatore, uomo dotato di un fine ma anche pungente senso dell’umorismo. In fondo è stato il mio primo maestro, assai prima che facessi l’università e poi la carriera accademica. Prezzolini è oggi un nome che nell’ignoranza generale che impera è dimenticato e semmai solo talvolta usato per qualche citazione fuori luogo perché scrisse un Manifesto dei conservatori pubblicato nel 1971 da Rusconi. Ma Prezzolini conservatore lo fu solo in vecchiaia e in maniera anche lì tutta sua. Fu piuttosto un rivoluzionario, un anticonformista, un uomo fuori delle convenzioni, che a forza di essere un “fesso” (di contro ai “furbi”) si era rassegnato, cosa un po’ diversa dall’essere un conservatore (“dalla cintola in su”, avrebbe forse detto col Marlowe di Chandler in tempi meno banali dei nostri).
I libri che scrisse – tranne quello sulla vita di Machiavelli – non rendono l’idea di un personaggio che era sì un uomo di libri, ma di libri che dovevano poi animarsi in rapporti personali, conversazioni, incontri e scontri. Non amava gli Italiani (Soffici «scopre ora che l’Italia è un merdaio»: qui e di séguito cito dai Diari pubblicati da Rusconi: 23.11.1946) e da questo punto di vista era tipicamente italiano, anche se non ne aveva i difetti caratteristici, «la retorica, la teatralità, la vanità» (15.5.1946). Riteneva che la sua disgrazia fosse nell’essere «matto sul serio e non un matto buffone» (17.9.1954). Disprezzava in particolare quelli che lo avevano accusato di aver profittato dell’amicizia con Mussolini per dirigere la Casa Italiana di New York, specialmente Gaetano Salvemini, antifascista dalla «camicia merdosa» (6.9.46): un’accusa del tutto priva di fondamenti (un esempio per tutti: l’accoglienza riservata a professori ebrei dopo le leggi razziali). Ciò nonostante per lui il Fascismo «fu una delle più italiane creazioni politiche che ci sian state», col Papato, i Comuni e le Signorie. Riteneva che i letterati italiani fossero da criticare per aver «spinto il fascismo sulla via dei sussidi e dei premi letterari. Lo spirito di mendicità del letterato italiano dura dal Rinascimento e non si spegnerà mai» (1934). Stimava gli Americani che lo avevano accolto ma anche lì ne vedeva i difetti con giudizi acuti, dal «sinistro Roosevelt» che trascinava gli Americani alla guerra senza che questi lo sapessero, al cancro del legalismo: «gli Stati Uniti un giorno moriranno di una indigestione di legalità» (29.4.1952)
Amava l’Italia, anche quando la criticava e ne dava un giudizio che andrebbe sviluppato: «L’Italia fu grande al tempo in cui non era unita; la sua unificazione è stata la sua distruzione» (1962). Esperto di Machiavelli, a lui si deve il giudizio su Guicciardini come il vero Machiavelli italico, non proprio nel significato migliore del termine, perché espressione di un paese, l’Italia, dove «l’ingiustizia rotativa tiene luogo della giustizia permanente», nel senso che i politici si alternano solo per avvantaggiare se stessi e i loro amici. Non a caso per lui la giustizia non esisteva, fosse «parca aut magna, umana o divina» (28.12.1956) e la democrazia, come i diritti dell’uomo, erano qualcosa di irrazionale. Uomo di virtù e di vizi, stupide le prime, poco significativi gli altri: «Quelle mi han chiuso strade, e questi non me ne hanno aperta nessuna» (30.10.1939).
Fu uomo acuto e pungente, tutto però del suo tempo, «fatto di speranze, non di attese» (8.12.1962) e oggi probabilmente darebbe di matto a vedere a cosa s’è ridotta l’Italia, lui che pure in anticipo sui tempi scrisse un libro intitolato L’Italia è finita. «Non posso scrivere per due giornali, sarebbe come avere due mogli», mi disse in una delle nostre passeggiate. Chissà cosa direbbe oggi che viviamo in un’epoca di prostituzione generale, dove un Presidente del Consiglio resta lo stesso pur con maggioranze politiche contrarie. Probabilmente ripeterebbe la sua litania sin dai tempi de La Voce: il popolo italiano soffre di «mancanza di carattere». In una nota del 1941 dai Diari si legge: «manca agli Italiani la classe che dirige, e non sanno nemmeno crearsela. Hanno provato il voto e la dittatura, i preti e i laici, gli stranieri e gl’indigeni e non hanno quasi mai trovato chi stesse alla testa pagando di persona ed avesse senso sociale» (1.1.1941). Del resto, diceva di non credere al Fascismo non perché fosse fascismo, «ma perché fatto da italiani».
Fu uomo di altri tempi e capisco che sia stato dimenticato. Tuttavia, andrebbe ricordato ancora oggi per essere stato l’ideatore di una società immaginaria che non nacque mai, la “società degli apòti”, di “quelli che non la bevono”. Di questi tempi, ora che basta un buffone per radunare masse di imbecilli elettori, un uomo come Prezzolini sarebbe veramente perso, ma forse, almeno, servirebbe a dare forza a quei pochi italiani rimasti che, appunto, ancora “non la bevono”.
*Agostino Carrino, professore ordinario di Diritto pubblico, Università Federico II Napoli