O SI (RI)FA’ IL CENTRODESTRA O SI MUORE

“Dall’Alpi a Sicilia”, prima delle fatidiche politiche del ’23 ci saranno svariate competizioni elettorali: Genova, Palermo, Messina, Verona, Padova, Parma ect; ci saranno anche appuntamenti importanti come le regionali della Sicilia.

Il titolo di questo articolo che rievoca un momento storico fondamentale per il nostro Paese non è stato scelto a caso per incutere scalpore ma dovrebbe essere, sperando di riuscirci, il punto di sintesi di un ragionamento articolato.

Prima la pandemia e ora la guerra in Ucraina ci hanno messo di fronte al fatto che l’Italia ha necessità di un nuovo risorgimento – volendo usare lo stesso termine usato qualche giorno fa in una bellissima conferenza – non più procrastinabile. Ciò che doveva animare lo spirito delle alleanze in questi “appuntamenti minori” – che dovrebbero essere il banco di prova delle politiche (e si è ancora in tempo per redimersi) – doveva essere l’esigenza di rivedere il concetto di coalizione di centrodestra. Si imponeva una maggiore responsabilità anche nel risparmiare al proprio elettorato i teatrini che non onorano una classe dirigente che dovrebbe occuparsi dei veri problemi del Paese; sia quelli attuali sia quelli che devono essere risolti nel futuro da una programmazione oculata per ridare dignità al popolo Italiano. Vi è la necessità di sentir parlare di programmi, programmi autorevoli supportati da cifre e non sentire slogan e libri dei sogni. C’è chi lo ha capito e ha orientato le proprie vele in quella direzione, ma ancora non è sufficiente. Rifare (o fare) il centrodestra non è questione di incollare fazioni per vincere elezioni, ma è questione vitale trovare il collante in un programma scritto a monte. Per fare tutto ciò è necessario individuare la  cometa politica da seguire. Può mai esserci interesse a perpetuare l’assistenzialismo in Italia? Lo statalismo mascherato da buonismo? Possibile ancora saziare la ingordigia famelica dei burocrati? I dati sono chiari: escludendo le pensioni, le voci più corpose del bilancio dello Stato riguardano il mantenimento della macchina pubblica inefficiente ed inefficace e un welfare improduttivo spezzettato in mille rivoli che hanno l’odore di mance elettorali. E’ palese che gli investimenti per la scuola, l’università e i lavori pubblici per le opere utili al Paese sono insufficienti. Altro tema importante: quanti enti inutili e dispendiosi supporta il contribuente italiano? Quante società partecipate fatte solo da consiglieri di amministrazioni deve supportare il contribuente italiano? Occorrerebbe (salvando le aziende che trattano la sicurezza Nazionale) privatizzare tutte quelle aziende – e nel contempo liberalizzare – che oggi sono macigni per l’Italia e che invece potrebbero divenire realtà per una maggiore produzione italiana; è chiaro che bisogna aggiustare anche il tiro sulle privatizzazioni perché in Italia vi è lo strano “vizio” di privatizzare gli utili e socializzare le perdite – una sorta di capital comunismo – e questo, come direbbe un esimio professore e Senatore della Repubblica che risponde al nome di Basini, è peggio del comunismo stesso.

Inoltre, la CGIA di Mestre ha stimato che in Italia la burocrazia costa al sistema circa 100 miliardi di euro l’anno – metà PNRR – e questo non può più essere tollerabile né per le imprese italiane né per le imprese straniere che potrebbero avere interesse ad investire nel nostro Paese. Oggi sorvoliamo sulla giustizia.

I punti focali ( e tanti altri ve ne sarebbero) che dovrebbero essere motivo di confronto tra le forze politiche della coalizione di centrodestra dovrebbero essere questi perché si deve assolutamente scongiurare un futuro con governi di sinistra o governi di responsabilità nazionale come quello che ci sta governando adesso. Non oso immaginare i danni sociali ed economici che possono derivare ( in un momento di “ripresa sotrica”) se dovessero vincere le elezioni politiche i sinistri insieme a quel che rimane dei cinque stelle. Ovviamente i punti di partenza si dovranno limare in base alle varie peculiarità dei partiti, trovando la sintesi migliore.

È fondamentale che questa grande lungimiranza abbia continuità territoriale e che lo schema strategico sia unico su tutto il suolo Italiano; ed è fondamentale perché l’elettorato di centrodestra ( liberali, imprenditori, commercianti, giovani sognatori) non ha la stessa caratteristica dell’elettorato di sinistra che è più un apparato di sistema. Capita spesso, infatti la storia ne è testimone, che per la scelleratezza politica del centrodestra l’elettore non va a votare perché non percepisce una reale e pragmatica soluzione ai suoi problemi quotidiani. I “sinistri” vanno sempre invece, anche se piove.

Quindi, concludendo, ci deve essere una cometa politica a destra ed essa deve essere seguita e per vincere e per risultare incisivi nella risoluzione dei problemi; a tal proposito non posso non pensare ad un  intervento del professor Carlo Pelanda che potrebbe, anzi dovrebbe, essere di ispirazione. I suoi insegnamenti e le sue ricerche soddisfano anche i liberisti più accaniti perché danno prova di un equilibrio razionale risolutore. È chiaro che bisogna sburocratizzare, dare spazio al mercato e accrescere il capitalismo di massa come è chiaro che non si può abbandonare il bisognoso e l’infermo; ma non si può pensare di continuare a dare sussistenza a giovani solo per lasciarli fuori dal mercato del lavoro. Il reddito di cittadinanza sta producendo innumerevoli problemi sia economici che sociali perché è percepito in larga parte da potenziale “forza lavoro” che si è rassegnata e abituata al divano e si tolgono pure risorse economiche non indifferente da capitolo più produttivi. Se proprio deve esserci sussistenza che sia almeno proficua, attivando dei seri percorsi extra scolastici (e non la formazione che siamo abituati a vedere) anche all’interno delle aziende  che consentano alla fine di questi percorsi di immettere nel mercato del lavoro tutti questi giovani (e meno giovani).

Quanto ciò scritto è il reale bisogno di un Paese che ha smarrito se stesso e nel medio-lungo periodo ha bisogno di ritrovarsi.

*Antonio Moscato, imprenditore

Lockdown, la falsa efficienza dell’autoritarismo Cinese

Il recente focolaio che ha coinvolto l’area urbana di Shangai in Cina, dovuto al diffondersi della nuova variante omicron 2 del coronavirus, ha riacceso ancora una volta i riflettori sulle modalità scelte da Pechino per contrastare la pandemia.

Le tradizionali misure di contenimento basate sul trittico: lockdown, test e tracciamento vengono impiegate in modo ortodosso dalle autorità cinesi e sin dalla loro prima applicazione a Wuhan si confermano come l’unico meccanismo di contrasto alle infezioni ritenuto in concreto praticabile. La strategia “Covid zero”, la cui efficacia con le varianti meno contagiose era fuori discussione, ha iniziato a mostrare delle criticità evidenti al crescere dell’indice di trasmissibilità del virus. Le conseguenze sul piano economico inoltre, hanno interessato sul piano geografico tutto il mondo con le frequenti interruzioni della supply chain, soprattutto per il blocco delle città portuali, più colpite dai focolai rispetto all’entroterra. È la Cina tuttavia a pagare da un punto di vista economico il prezzo più alto per una strategia che in occidente appare fuori discussione. Se l’ultimo trimestre del 2021 ha visto un rallentamento della crescita di Pechino, pari solo al 4%, è nel 2022 che Xi Jinping rischia di mancare gli obiettivi di crescita prefissati, che diversi analisti stimano inferiori al 5% su base annua complici anche la crisi energetica e il calo degli investimenti esteri innescato dalla recente stretta autoritaria figlia della “Teoria del benessere comune”.

L’iniziale inasprimento delle misure restrittive deciso sin dagli esordi della pandemia nel gennaio di due anni fa, aveva trovato in Europa e negli Stati Uniti uno stuolo di sostenitori, pronti a sottolineare l’apparente efficienza del governo cinese nel contrasto al Covid. Misure draconiane imposte sfruttando un’indole altrettanto decantata della popolazione ad obbedire alle Autorità. Per tutto il 2020 e buona parte dell’anno successivo non sono mancati nemmeno coloro che ne chiedevano l’adozione speculare in Occidente per bloccare sul nascere i focolai più insidiosi, soprattutto nelle grandi conurbazioni che si confermano il serbatoio perfetto per i contagi.

Oggi, dopo aver testimoniato la straordinaria efficacia dei vaccini ad mRNA, frutto di una indiscussa superiorità tecnologica nel settore farmaceutico e biomedicale, la pandemia appare sotto controllo sul piano sanitario ed economico. Inoltre l’arrivo in quantità sempre più consistenti dei farmaci antivirali e degli anticorpi monoclonali di nuova generazione, anch’essi sviluppati tra Stati Uniti ed Europa, consentono di programmare concretamente un ritorno alla normalità, che culminerà con l’abbattimento della mortalità da Covid19 a valori simili all’influenza (0,1%).

La Cina sembra non possa contare su nessuna delle armi disponibili nell’arsenale occidentale. I vaccini a virus attenuato prodotti da Pechino con la tecnologia “tradizionale”, non solo risultavano di gran lunga meno efficaci contro il ceppo originario, ma già con la variante delta offrivano una protezione inferiore a quella di Pfizer e Moderna contro la malattia grave e il ricovero. Il divario si è ulteriormente ampliato con omicron, contro la quale ci sono dubbi che persino la terza dose dei vaccini cinesi possa riportare la protezione a livello comparabili a quelli occidentali. Non è un caso che Pechino abbia avviato da tempo la sperimentazione di vaccini a mRNA sviluppati in casa, pur non disponendo degli impianti e del know-how della nostra industria farmaceutica. Non è un caso infatti che per la produzione su larga scala delle dosi necessarie siano stati sondati stabilimenti in Europa e Asia a cui la Cina dovrà rivolgersi per disporre, con un ritardo di due anni, di un farmaco comparabile ai prodotti di Pfizer e Moderna.

Anche sul fronte degli antivirali Pechino si trova a dipendere completamente dalle forniture occidentali, a cui si aggiungono ostacoli regolatori, che hanno ostacolato l’approvazione del paxlovid, giunta condizionata e solo a febbraio e di approvvigionamento. Questi ultimi sono destinati a diventare insormontabili qualora la Cina pensasse di usare i nuovi farmaci come leva per mitigare il decorso clinico e temperare il confinamento. L’arco temporale richiesto per soddisfare tutti gli ordini sarebbe senz’altro superiore ad un anno ed è difficile pensare che senza una produzione in loco, le importazioni possano soddisfare le richieste anche nell’ipotesi assai remota in cui fossero concessi alla Cina canali preferenziali per le forniture. A differenza dei vaccini, l’industria farmaceutica di Pechino non ha ancora sviluppato alternative credibili e di efficacia sovrapponibile a quelle di Pfizer e Merck e non sembra che questo accadrà nel breve e medio periodo.

Tuttavia è la fragilità intrinseca del sistema sanitario cinese a costituire il fattore rende i lockdown l’unica soluzione praticabile per contrastare la circolazione del virus. In un recente studio del Journal of critical care medicine i letti di terapia intensiva disponibili in Cina risultavano essere 3,6 ogni mille abitanti, un decimo di quelli Americani che hanno superato ormai i 30 e meno della metà di quelli di Singapore (11,4) e Hong Kong (7,1). Se il problema riguardasse le sole strutture sanitarie si potrebbe porre rimedio costruendo nuovi ospedali sul modello di Wuhan nel 2020, purtroppo però il deficit peggiore di Pechino riguarda il personale, assolutamente insufficiente per contenere un focolaio di medie dimensioni in una grande città. Il sistema sanitario è ormai da anni alle prese con il sovrappopolamento e con una popolazione di età avanzata a cui diventa difficile assicurare cure con uno standard occidentale in tempi ordinari, impossibile durante una pandemia. Le scene caotiche del gennaio 2020, con i medici e gli infermieri inviati in massa nell’Hubei dalle altre province per lo screening di tutta la popolazione si sono ripetute questi giorni a Shanghai e la propaganda non ha perso l’occasione di enfatizzare la durissima lotta contro un virus ormai contagioso quanto la varicella. Qualora il contenimento fallisse e le autorità dovessero far fronte ai ricoveri con la creazione di nuovi posti letto, la Cina rischia di assistere inerme a casi come il focolaio di Jilin, dove gli ospedali improvvisati, costruiti come a Wuhan in pochissimi giorni, contavano su appena 5 medici e 20 infermieri ogni 100 pazienti ricoverati in gravi condizioni.

Simili previsioni sono confermate dalla mortalità per Covid che ad Hong Kong si è assestata ben sopra i 25 decessi ogni 100mila abitanti, con numeri che in alcuni giorni hanno superato i 300 morti al giorno. È naturale che le autorità cinesi abbiano valutato con grande attenzione le conseguenze di una diffusione incontrollata del virus come nella ex colonia britannica, sulla carta dotata di strutture sanitarie all’avanguardia e sicuramente più organizzate di quelle della confinante Shenzen o di Shanghai. A novembre il CDC di Pechino aveva stimato in almeno 260 milioni i casi e in 3 milioni i morti di covid, qualora la Cina avesse adottato restrizioni di intensità simile a quella di Regno unito e Stati Uniti. Oggi con Omicron è facile dedurre che il bilancio sarebbe da ritoccare al rialzo, anche in considerazione della bassissima efficacia dei vaccini a tecnologia “tradizionale” che non proteggono dalla malattia grave senza terza dose.

La Cina si trova dunque ad un bivio, la stretta autoritaria e illiberale che ha trovato in occidente le lodi sincere di una nutrita pattuglia di cultori dell’efficienza è ormai inattuabile per contenere omicron. Da metà marzo, più di 70 città che rappresentano il 40% della produzione industriale cinese hanno dovuto implementare misure restrittive per controllare i focolai di Covid, destinati ad essere sempre più aggressivi e diffusi. Se Pechino non dovesse riuscire nella missione di coniugare salute e libertà economica, accettando di convivere con il virus, l’obiettivo di crescita del 5,5% sarà un miraggio almeno per i prossimi due anni. In caso contrario, Xi Jinping dovrà prepararsi ad un numero di morti considerevole, non solo di Covid ma anche di tutte le altre patologie che gli ospedali hanno difficoltà a curare durante le campagne di screening. Il bilanciamento tra stabilità interna e benessere economico sarà ancora una volta la chiave di volta per comprendere il margine di rischio del governo cinese che, in ogni caso, non potrà rinunciare ai prodotti dell’industria farmaceutica americana ed europea per vincere la sfida finale al virus. Toccherà all’occidente decidere se e a quali condizioni fornirli a Pechino.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

Dal virus biologico al virus digitale, il passo è breve

Oggi il virus che destabilizza interi popoli del globo si chiama covid-19 e colpisce, sotto il profilo sanitario, il “fisico” delle persone. La sua origine – secondo quanto è stato diffuso da informazione e controinformazione – è principalmente di natura “biologica” e che già nel 2015 si studiava in laboratorio. Manipolazione, incoscienza, premeditazione, predeterminazione e tanto altro ancora. Il discorso diventerebbe troppo lungo ed articolato e addentrarsi nell’analisi che ne seguirebbe distoglierebbe l’attenzione da alcuni aspetti altrettanto importanti.

Quello che dobbiamo rilevare è che tutto ciò che è accaduto fino ad oggi deve servire di lezione e di monito a tutti. Potrebbe essere una prova generale? Forse si o forse no. Non ci sono certezze e comunque non serve essere dei complottisti per comprendere quanto sia in pericolo non solo la sicurezza fisica e psichica dell’uomo quanto quella digitale e virtuale dell’intera società mondiale. Infatti oggi è il covid-19 a seminare paura, incertezza, terrore, scontri sociali, crisi economica, morte, instabilità, proteste, oscurando tutti quei mali che fino a ieri hanno messo in apprensione il mondo intero quali il terrorismo, l’inquinamento e le tempeste finanziarie.

Fenomeni questi che esistono ancora ma non sono più enfatizzati dalla comunicazione e dalle luci della ribalta mediatica. Ora quanti stanno ponendo l’attenzione su un ipotetico virus non biologico, ovvero su un virus digitale, informatico? Solo qualche addetto ai lavori, operatori di intelligence, visionari o semplicemente qualche lungimirante. Proviamo ad immaginare un mondo ancora più schiacciato dalle restrizioni e dagli obblighi determinati dalla lotta alla “pandemia da virus biologico” e presto ne ricaveremo uno scenario raccapricciante, degno di una trama da film horror e fantascienza in chiave apocalittica.

È di questi giorni l’ennesimo grido di allarme lanciato a ragion veduta dalle istituzioni. Vediamo il perché. Oggi il lavoro da casa grazie al cosiddetto smartworking ha preso forte consistenza e milioni di lavoratori si connettono via WIFI al server della rete aziendale. Il lavoro da casa permette a molti lavoratori di non assembrarsi in azienda ma, se da un lato contrastiamo il virus “biologico”, dall’altro ci apriamo al mondo digitale abbassando la guardia sulla sicurezza informatica. È provato, infatti, che quasi il 99% delle connessioni internet presenti nelle case sono vulnerabili per inesistenza di password o password deboli facilmente attaccabili e, nella peggiore delle ipotesi, anche i software antivirus di molti terminali non sono aggiornati o addirittura non sono nemmeno installati.

La condivisione di dati da un ID all’altro con questo livello di vulnerabilità comporta un rischio enorme per la sicurezza digitale, direi inimmaginabile, infatti ogni qualvolta che ci si connette alla rete si apre una autostrada verso il server dell’azienda che ha in archivio dati commerciali, dati sensibili del personale, dati finanziari, dati fiscali, dati sui prodotti e sui servizi, dati strategici e segreti. In un batter d’occhio sono a rischio milioni di dati aziendali in favore dello spionaggio industriale. Una filiera produttiva violata che, sia questa dell’auto motive o della moda poco importa, tale violazione potrebbe mettere in ginocchio un’intera economia nazionale. La “pandemia biologica” in questi 18 mesi ha prodotto un altro fenomeno di dimensioni globali che potrebbe mettere a forte rischio la sicurezza digitale. È facilmente intuibile che mi riferisco alla sempre più massiccia pratica dell’acquisto online.

Un fenomeno questo che provoca una spaccatura tra il mercato fatto di negozi di vicinato, di aree mercato all’aperto, di piccoli centri commerciali e outlet che vedono ridursi drasticamente la domanda e il mondo dell’e-commerce fatto piccoli, medi e soprattutto da giganti marketplace che ne traggono vantaggi milionari. Fino a qui è stato analizzato l’impatto economico e sociale, ma dietro a questo si nasconde la vulnerabilità della rete che porta direttamente alle movimentazioni bancarie fatte di pagamenti ed incassi. Ogni giorno scopriamo che da un codice di accesso si passa all’inserimento della seconda password, da questa al token auto generatore di codici, poi si giunge alla conferma telefonica e chissà cos’altro nel tempo dovranno aggiungere per migliorare la difesa informatica. Tutto ciò accade perché le banche scoprono continui bug informatici e cercano di adeguarsi, le norme seguono a ruota per evitare il peggio, ma una cosa è certa: tutte queste transazioni in un sistema colabrodo come sopra descritto sono a forte rischio. Bastano solo questi due scenari per comprendere quanto sia ghiotto alla “malavita internazionale” il furto dei dati. Altra attività che ha goduto di un autentico boom grazie alla “pandemia da virus biologico” è quella delle riunioni online in video conferenza su piattaforme che inizialmente sono state attaccate con interferenze da malintenzionati di basso livello.

Inutile sottolineare quanto anche questa pratica della comunicazione online fatta di video e condivisione di documenti sia appetibile agli attacchi hacker ma ciò che più importa è che questi nuovi canali di comunicazione costituiscono una nuova ed ulteriore serie di porte di accesso all’immenso mondo della transazione dei dati. Questa “pandemia da virus biologico” è micidiale, ci fa stare a casa ed abbiamo imparato a divertirci da casa senza andare più al cinema, a teatro, allo stadio, quasi assuefatti tra tamponi, contagi e green pass, preferiamo stare a casa a guardare la TV e fare zapping sulle piattaforme a pagamento. Adesso tutti utilizzano rigorosamente il WIFI dalla telefonia alle TV e con un click si rinnova l’abbonamento o lo si modifica.

Dati che vanno e che vengono col WIFI nell’insicurezza più totale. E che dire della Pubblica Amministrazione? E di pochi giorni fa l’attacco informatico al sistema dei server della Regione Lazio. Un recente rapporto citato nel dibattito parlamentare afferma che il 95% degli Enti pubblici è a rischio attacco, è vulnerabile, le piattaforme informatiche spesso sono inadeguate e presentano dei limiti strutturali che si sommano alle vulnerabilità del cittadino – rete WIFI, password, ecc.. – che invia online il 730, la dichiarazione dei redditi, si iscrive ai concorsi, richiede il rinnovo dei documenti, chiede l’appuntamento con il medico di base o semplicemente si scarica il referto medico.

Tutto ciò ci deve portare a fare un nuovo serio ragionamento. Ma se ad essere attaccate in modo massiccio fossero le istituzioni più strategiche dello Stato come quelle nell’ambito militare, del commercio internazionale, delle strutture sovranazionali? Ma se tutto questo fosse finalizzato a fossilizzarci a casa? Se tutto fosse mosso per farci assuefare dallo stare forzatamente a casa e non per il semplice bisogno di stare all’interno delle mura domestiche? E se tutto ciò fosse una guerra? E se le armi fossero solo digitali e non più armi da sparo? Siamo pronti a difenderci o siamo impreparati? Le domande sono lecite. I dubbi altrettanto. E allora chi sta muovendo i fili di tutto ciò?

A questo punto proviamo a pensare ed immaginare che dopo una serie di prove di attacchi informatici venga lanciato un attacco cibernetico su scala nazionale o addirittura internazionale. Proviamo ad immaginare un blackout informatico su larga scala. La interconnessione delle reti è a un punto tale che qualsiasi attacco importante e mirato alle banche dati creerebbe un’apocalisse nazionale o internazionale. Sembra fantascienza ma purtroppo non lo è perché una così ampia vulnerabilità potrebbe far fermare la produzione nelle aziende, potrebbe fermare le torri di controllo, le ferrovie, potrebbe fermare l’approvvigionamento alimentare, potrebbe fermare l’erogazione di servizi come acqua, gas, luce o fermare tutti i semafori come i telepass delle autostrade migliaia di servizi dai quali dipendiamo quotidianamente. Potrebbe interferire pericolosamente nelle basi militari, nella erogazione dei carburanti, negli ospedali. È evidente che occorre prendere in mano la situazione e creare una task force digitale per anticipare eventuali attacchi di simile portata, creare un ambiente di filtri e di contrasto che quanto meno evitino il peggio.

Il nemico arriva dalla rete e non sappiamo cosa abbia in mente, quale sia il suo vero obiettivo e quale sarà il prossimo, il fenomeno del ramsonware è solo che l’inizio e noi tutti saremo sempre più vulnerabili quanto maggiore sarà la nostra dipendenza dal digitale causata da un lato dalla “pandemia da virus biologico” e dall’altro dall’uso quasi ipnotico dei social. Quest’ultimo, ma non per importanza, altro punto debole della società interconnessa poiché basterebbe un cavallo di troia ben congegnato per metterci tutti a terra. Ben venga quindi in Italia l’Agenzia per la cyber sicurezza nazionale per prevenire e arginare eventuali attacchi.

*Stefano Lecca, consulente in comunicazione social e webmarketing

 

Le nuove rotte sono sul Pacifico

Questa pandemia sta portando e ha portato con sé innumerevoli cambiamenti all’interno del contesto mondiale. Oltre ad aver stravolto radicalmente rapporti sociali e lavorativi, ha fatto venir meno un dogma: l’Occidente come centro del mondo. Un mondo, appunto, che ruotasse intorno all’Europa, ai suoi retaggi, alle sue tradizioni e molto spesso intorno anche ai suoi capricci.

Questa pandemia ha acceso riflettori su aree geografiche ben lontane da questo Occidente. Questa luce, sta illuminando aree rimaste prive di attenzione, isolate da molto tempo.

Tutto ciò sta facendo intravedere scenari geopolitici ben differenti rispetto a quelli solitamente visibili.

L’attenzione si sta spostando inevitabilmente sull’area Indo-pacifica ed in particolare modo sull’Oceano Pacifico. Ne è testimone il Quadrilateral Securityy Dialogue, in breve Quad, che dimostra come quattro paesi, Giappone, Australia, India e Stati Uniti, stiano collaborando per opporsi con decisione ai tentacoli della Belt and Road initiative dell’Impero Celeste.

Gli equilibri si stanno spostando e mutando, diversamente dalla prima guerra fredda, con estrema velocità.

Ne è esempio, il pubblico sberleffo che il Presidente indiano, Narendra Modi, manifestò alla Cina, dopo che bloccò con l’esercito la costruzione di infrastrutture promosse dai cinesi in Bhutan. Il tutto si risolse in modo pacifico, ma la contrapposizione non finì li. Sulle coste del Mar d’Arabia, infatti, si presentò Shizo Abe, presidente giapponese, con il quale Modi stipulò un accordo sugli Shinkansen, i treni ad alta velocità, l’agreement oltre ad essere un progetto ferroviario era un chiaro manifesto attraverso il quale la seconda e la terza potenza economica asiatica cercano un legame sempre più stretto, per contenere l’avanzata della prima e programmi – “imperialisti” agli occhi di Tokyo e Nuova Delhi – come la Nuova Via della Seta, promossa dalla Cina.

Tale intesa si sarebbe tradotta successivamente nel Quad. Nel quale entrarono, in un secondo momento, anche Usa e Australia. Quest’ultimo si staglia fortemente contro l’ultimo accordo internazionale promosso dalla Cina, al quale l’india si è prontamente sfilata all’ultimo.

Tale accordo, il RCEP, Regional Comprehensive Economic Partnership, è l’accordo commerciale più grande della storia, contando oltre un terzo della PIL mondiale e ben quindici stati (Cina, Indonesia, Cambogia, Brunei, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Sud Corea, Tailandia, Vietnam, Giappone, Australia e Nuova Zelanda.

Entrambi gli accordi dimostrano come l’attenzione della geopolitica internazionale si stia spostando in questa area strategica e direttrice commerciale fondamentale. E anche se Wang Yi, ministro degli esteri cinese, definì il Quad “schiuma di mare”, Tokyo ha incrementato la politica di aiuti allo sviluppo, oltre 15,5 miliardi di dollari nel 2019, e ancora, Abe si è fatto garante di promuovere la Transpacific Partnership (TPP), accordo commerciale con 11 paesi del bacino del Pacifico. Ribadendo come il Quad sia ‘’il diamante della sicurezza democratica in Asia” e dimostrando la vocazione imperiale concorrenziale a quella della Cina.

Ciò denota come gli Stati Uniti rafforzeranno l’alleanza con l’India e ancor di più con il Giappone. Dando così, una priorità all’Asia, abbassando il valore strategico dell’Unione Europea.

Alla luce di ciò merita riflettere sul ruolo geopolitico e strategico europeo; se effettivamente questo spostamento dell’asse commerciale e strategico si concretizzasse all’interno del Quad, che destino attenderà l’Europa?

L’Europa sarà pronta a rispondere in modo compatto a questo cambiamento e a dimostrare all’America che solo un’intesa euroamericana ha la forza di bilanciare il potere cinese?

Solo un’Europa unità potrà veramente contare qualcosa nel prossimo futuro, ahimè attualmente questo sembra solamente un sogno o quanto meno un’idea ancora, purtroppo, molto lontana.

Ma se l’Europa non vuole essere schiacciata dai due iceberg che si stanno stagliando sull’orizzonte europeo, sarà bene che si sbrighi a cambiare rotta, sempre che non voglia far la fine del Comandante Edward John Smith.

*Riccardo Maria Vitali Casanuova, collaboratore Charta minuta

Strategia della Tensione o Tensione Strategica?

Oggi il Governo Conte fa un uso della comunicazione spietatamente strumentale alla necessità di nascondere la pochezza organizzativa e la mancanza di programmazione del Governo stesso. Infatti sin dall’inizio della pandemia, il capo del Governo ha adottato la tecnica del discorso alla Nazione, azione che fino a qualche tempo fa era ad appannaggio solo del Capo dello Stato in occasione degli auguri di fine anno agli italiani.

Ora più che mai questi discorsi ad orologeria, accompagnati dall’emanazione dei vari D.P.C.M., non solo hanno cambiato autore, ma hanno cominciato a generare qualche perplessità e un minimo di confusione, in particolare in coloro che per anni attribuivano all’intervento a reti unificate un valore positivo e soprattutto di ottimismo verso l’immediato futuro grazie all’auspicio augurale del Presidente della Repubblica. Ecco che con tattica disperata il Premier Conte si affanna a fare prima l’annuncio del discorso, poi il discorso alla Nazione. Azione che all’inizio ha creato curiosità, poi col proseguo ha generato incertezza, poi preoccupazione, oggi ansia, sconcerto e rabbia. Ebbene sì, molti non se ne sono accorti, ma i discorsi prima annunciati, poi rinviati, poi trasmessi da tutte le reti televisive, radiofoniche e della carta stampata, hanno ottenuto il risultato sperato dal Governo PD-5S: nascondere il pressapochismo e la inesistenza di un serio progetto politico a medio e lungo termine.

A tutto ciò hanno giocato un ruolo di importante rilievo strategico tutte le testate giornalistiche del mainstream che giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, ci hanno tempestato di bollettini di covid-19 molto simili ai bollettini di guerra. Questi bollettini sanitari insieme agli annunci delle ore 20:00 si sono trasformati in un mix micidiale con serie ripercussioni sociali e psicologiche. Strategia della tensione? Forse sì, ma questa volta in forma diversa e ad opera del Governo. Ricordo che dalla fine degli anni ’60 fino agli inizi degli anni ’80 la strategia della tensione aveva un carattere eversivo e si basava su una serie preordinata e ben congegnata di atti terroristici con la finalità di spaventare il popolo e la Nazione. Per paura molti rinunciavano a muoversi nelle zone ad alta frequentazione e venivano colpiti gli snodi ferroviari e le vie di comunicazione con l’obiettivo di indebolire il potere politico-economico.

Oggi, sembra che sia invece il Governo in primis ad attuare la strategia della tensione incutendo paura alle persone, paura di un virus del quale ancora oggi non si dice tutto. Ma allora perché questo atteggiamento da parte del Governo? Con questo tipo di comunicazione a colpi di annunci e spot, da un lato, riescono a coprire e mascherare una serie di problematiche che questo Governo fa molta fatica a gestire e risolvere. Se solo pensiamo al problema dell’immigrazione, mai diminuita e foriera di ulteriori problemi, vedi i recenti accadimenti in Austria e Francia, al MES quasi dimenticato dai media, alla disoccupazione e alle centinaia di aziende per le quali è aperto (per ognuna) un tavolo di crisi, (tutti ancora irrisolti), dei quali quasi non se ne parla più. Dall’altro lato, gli annunci servono a confondere e convincere le persone che ciò che stanno facendo è tutto ciò che deve e può essere fatto, ma la realtà è che stanno procedendo confusi e a tentoni. Qui sta l’inganno, una nuova forma di strategia del terrore attuata per mezzo degli strumenti di comunicazione che nasconde l’inerzia di mesi nei quali avrebbero dovuto pensare, programmare ed attuare strategie di contenimento dell’epidemia e della pandemia. Nulla di tutto ciò, al contrario, hanno gestito l’informazione gridando al lupo al lupo, generando panico e tensione, quel panico e tensione che hanno portato molta gente alle porte degli ospedali per fare i controlli e i tamponi.

Ecco il mix micidiale, panico e tensione, paura e rassegnazione, al punto tale che l’italiano medio accetti passivamente ogni decisione governativa. Qui viene in mente la storia della rana bollita, che inizialmente apprezza il tepore, poi sopporta il caldo, ma quando l’acqua comincia a bollire non ha più la forza di saltare fuori dalla pentola e viene cotta. E’ quello che sta succedendo al popolo italiano grazie al Governo che a colpi di D.P.C.M., lockdown, chiusure si chiusure no, prima zone verdi poi gialle, arancioni o rosse porta l’economia allo sfacelo e milioni di italiani in difficoltà e senza lavoro.

Ma questa strategia della tensione che terrorizza e mette a dura prova la psiche di giovani e meno giovani presto presenterà un conto molto salato in termini di altre patologie e di strascichi irreparabili nell’economia della Nazione. Questa è una subdola guerra mediatica dove la comunicazione gioca un ruolo determinante come arma di distrazione di massa, una comunicazione così voluta ed attuata può portare l’economia italiana nel baratro, proprio il contrario di quella che deve essere fatta: propositiva, incentivante ed ottimistica per risollevare le sorti di tutti. Serve assolutamente un cambio al timone, serve capacità e competenza e soprattutto un Governo credibile che dia fiducia, perché questa è la miglior comunicazione da fare ai cittadini. Solo così si uscirà vincenti dalla pandemia per rilanciare l’economia.

*Stefano Lecca, dirigente A.I.A.