“I paradossi dell’Italia in epoca Covid-19”

L’Italia ancora oggi danza tra Regioni in zona arancione ed altre in zona rossa come fosse vestita da arlecchino.
Fino a qui nulla di sorprendente.
Il virus viene monitorato per macro aree con indici che si differenziano da zona a zona.
Fino a qui niente di nuovo.
Scendendo nel dettaglio scopriremo invece molte incongruenze.
Il divieto di transito da un Comune all’altro e da una Regione all’altra vengono meno nel momento in cui ci si trasferisce per motivi di lavoro, studio, salute o altra necessità.
Fino a qui tutto apparentemente come previsto.
Ma attenzione, se abbiamo prenotato un soggiorno all’estero, per esempio in Portogallo, essendo questo Stato catalogato in zona C, non serve alcuna motivazione per spostarsi.
Si, proprio così, si può andare per turismo in Portogallo e in molti altri Stati dell’Unione Europea salvo adempiere alle restrizioni di quel Paese di destinazione.
Quindi se noi volessimo andare a fare un giro turistico non potremo andare da nessuna parte in Italia, ma al contrario all’estero sì.
E che dire se si volesse andare a pranzare a San Marino?
Se hai prenotato nessuna limitazione perché lo Stato di San Marino è inserito in fascia A!
Il comparto turistico italiano è già colpito duramente, se poi ci aggiungiamo questi distinguo non rimane nemmeno la forza per arrabbiarsi.
Solo per fare altri piccoli e brevi esempi veniamo alla ristorazione, comparto altrettanto bastonato che per riuscire a sopravvivere come attività si è costretti a gestirsi l’asporto, oppure se si è tra i più fortunati ad avere l’attività in una zona produttiva, di transito e con ampio parcheggio ci si può permettere il cosiddetto “servizio mensa” che non è altro che il servizio di ristorazione per le partite IVA ed i suoi dipendenti dopo aver sottoscritto una convenzione.
Ma se si è un semplice e “miserabile” proprietario di un locale di ristorazione che ha sempre aperto a cena, magari in zona ZTL, con l’offerta di un menù raffinato orientato ai palati fini, oppure ha orientato il proprio business agli eventi come le cerimonie, allora, in tutti questi casi ti fanno diventare miserabile a tutti gli effetti.
E cosa dire del settore dell’abbigliamento?
Qui invece ci vuole un genio per comprendere le motivazioni di una serie di incredibili distinguo. Se vendi intimo, pigiami e articoli per l’infanzia puoi tenere aperto il tuo negozio al dettaglio, ma se per tua sciagura vendi solo maglieria, confezione, capospalla per uomo e donna devi tenere chiuso. Se sei un ingrosso puoi invece tenere aperto.
Ma veniamo agli ambulanti, anche se avete intimo, pigiami e articoli per l’infanzia restate a casa perché all’aria aperta siete pericolosi.
E’ una battuta ironica, lasciatemela passare.
Questo è solo un piccolo spaccato dell’economia italiana, del commercio al minuto fatto di piccoli e medi imprenditori che lavorano sodo e che hanno una sola colpa: essere in proprio.
Il virus c’è ed è nascosto ovunque ed entra in azione a qualsiasi ora, ma è altrettanto accertato che il virus non possiede né il navigatore né tantomeno l’orologio.
La gente è disorientata, la gente non ne può più, la gente è stremata, la gente è confusa, queste limitazioni della libertà sono inaccettabili ancor più se palesano differenze senza senso.
Facciamo rispettare la distanza interpersonale, facciamo rispettare l’igienizzazione personale, facciamo rispettare l’uso della mascherina, è già più che sufficiente, altrimenti a brevissimo gli assembramenti si formeranno fuori delle mense della Caritas in tutta Italia, non solo a Milano, nelle sale d’aspetto dei psicologi e in coda nei tribunali a depositare i libri contabili.
Da emergenza sanitaria si è aggiunta da subito anche l’emergenza economica e siamo ad un passo dall’emergenza della sicurezza sociale.
Purtroppo l’Italia è ancora vestita da arlecchino per DPCM, ma il carnevale è finito da tempo e l’Italia è ancora in maschera, ops, in mascherina.

*Stefano Lecca, consulente in comunicazione social e web marketing

Draghi, Meloni e le generazioni future

L’incarico a Mario Draghi – da molti preconizzato – è maturato dopo le convulsioni della maggioranza del “Conte bis” e ha sparigliato il quadro politico, tagliando trasversalmente le alleanze tra i partiti.

La sciabolata improvvisa del Presidente Mattarella ha gettato nello scompiglio l’alleanza giallorossa.  PD e M5S avevano coltivano l’illusione di poter fare a meno di Italia Viva per andare avanti con la rinnovata formula politica di centro-sinistra saldata dalla figura di Giuseppe Conte, magari attraverso l’utilizzo dei miliardi del Recovery Fund. Sino alla conclusione dell’esplorazione di Roberto Fico i partiti della vecchia maggioranza si sono mostrati sin troppo sicuri che sarebbero riusciti a varare un “Conte ter” con l’aiuto dei soliti “responsabili”. Invece, come spesso accade in politica, si è imposta una realtà differente da quella immaginata ed è improvvisamente crollato il castello di carte di chi pensava di aver costruito – anche con l’uso mediatico dell’emergenza pandemica – il nuovo orizzonte strategico della sinistra di governo giallorossa.

Ma anche nel campo del centrodestra non sono tardate le divaricazioni. Alcune erano ampiamente previste, come quella che riguarda Forza Italia e la sua adesione ad ipotesi di governi tecnici o istituzionali, che potessero consentire il superamento della formula di governo giallorossa.

Altre, invece, erano sicuramente meno prevedibili, come quella derivante dalla disponibilità della Lega a partecipare ad un Governo di unità nazionale presieduto da Draghi.

L’unica eccezione alla grande alleanza per affrontare la crisi pandemica e provare a rilanciare l’Italia con l’utilizzo del prestito europeo del Recovery Plan è, dunque, quella di Fratelli d’Italia. Solo Giorgia Meloni ha volontariamente declinato l’invito del Presidente Mattarella, non chiudendo, tuttavia, la porta ad un concreto sostegno parlamentare su singoli provvedimenti nell’interesse della Nazione.

Anche questa scelta ha suscitato perplessità e un acceso, ma interessante dibattito nei circuiti politici, culturali ed editoriali della destra italiana. Da un lato, chi sostiene che in periodo di guerra (ormai consueta metafora dell’emergenza pandemica) nessuno dovrebbe sottrarsi alle istanze di una solidarietà politica nazionale, espressa con un corale appoggio al “Gabinetto bellico”.

Con il suo celebre “Whatever it takes” e con l’invenzione del Quantitative Easing l’ex Presidente della BCE ha salvato la moneta europea dalla speculazione internazionale e ha imposto, esponendosi agli anatemi dei rigoristi teutonici, un primo importante cambio di passo rispetto alle cieche politiche economiche depressive, fondate sull’ossessione tedesca per la stabilità monetaria.

Inoltre – last, but not least – il sostegno a Mario Draghi avrebbe potuto mettere in soffitta, definitivamente, i tentativi di riedizione, sotto mentite spoglie, del vecchio “arco costituzionale”. La conventio ad excludendum della destra, infatti, nella strategia del PD zingarettiano varrebbe ad imporre il ritorno ad una “democrazia bloccata” e il conseguente restringimento dell’area di governo al perimetro di un centro-sinistra con tonalità giallorosse.

Nell’interesse del Paese e non solo dei partiti che si collocano a destra dell’arco parlamentare, è fondamentale disinnescare questo grave rischio, la cui concretizzazione riporterebbe le lancette della democrazia italiana indietro di trent’anni. Si deve, tuttavia, riconoscere che l’ingresso in maggioranza della Lega di Salvini renderà spuntata quest’arma di delegittimazione rispetto a chi intendesse utilizzarla contro chicchessia e, a maggior ragione, nei confronti del partito nazionale che esprime il presidente dei Conservatori e riformisti europei.

D’altra parte, non mancano le ragioni a sostegno di quello che inizialmente è apparso come un “gran rifiuto” di Giorgia Meloni, ma che, con il passare delle ore, è stato messo a fuoco nei termini di una “opposizione patriottica”. La crescita progressiva di Fratelli d’Italia si spiega anche con una linea di rigorosa coerenza e con una visione dell’interesse nazionale (dalla economia agli assetti istituzionali, dal modello di sviluppo alla collocazione geo-politica del nostro Paese) non sempre espresse, con altrettanta organicità, da altre componenti del centro-destra. Probabilmente è vero che la visione “nazionale” di Fratelli d’Italia avrebbe faticato ad esprimersi con un governo di emergenza, magari sottoposto ai veti delle componenti grilline, democratiche e post-comuniste. La scelta, dunque, quella di convergere con la maggioranza che sosterrà il Governo Draghi, se e quando giungeranno in Parlamento indirizzi di politiche pubbliche coerenti con un disegno di riscossa dell’Italia e dell’Europa condivisibile per la destra identitaria e popolare.

Archiviato, dunque, il fisiologico, quanto utile dibattito interno su una scelta fondamentale per il destino del Paese (come si conviene ad un partito che possa dirsi veramente tale e non un mero coacervo di interessi elettorali), si tratta adesso di percorrere sino in fondo la via della “opposizione patriottica”.

Occorre, innanzi tutto, smascherare la falsa narrazione oppositiva tra europeisti e (presunti) antieuropeisti. Nessun europeo può e vuole oggi dire no all’Europa; ma ogni europeo può pretendere che il progetto di integrazione avanzi verso un modello di unione politica confederale. Una Unione che si regga sulle radici di una identità bimillenaria e sia capace di proiettarsi, non solo economicamente, nello scenario globale come potenza continentale. Una confederazione europea fondata sulla partecipazione politica dei suoi cittadini e sulla eguaglianza delle opportunità nell’intero suo territorio. Una comunità di Stati che sappia difendere i suoi ceti produttivi dall’economia finanziaria e dalla concorrenza sleale dei liberi battitori dei mercati internazionali. Un ordinamento sovrastale che, riavviando il processo di integrazione, restituisca le scelte monetarie e gli indirizzi di politica economica e fiscale alla sovranità di istituzioni politiche continentali, democratiche e rappresentative.

Del resto, proprio il “Whatever it takes” di Mario Draghi ha tutti i caratteri di una potente affermazione di sovranità rispetto alle dinamiche adespote dell’economia finanziaria globale. Una decisione politica anomala e in un certo senso paradossale, perché assunta da una autorità tecnica e “non politica”, che ha però dimostrato come, anche nel mondo globalizzato, non si possa fare a meno di istituzioni di governo dell’economia.

Un disegno, in definitiva, profondamente diverso dall’attuale Unione europea, troppo spesso concepita quale fonte di legittimazione tecnocratica e non, invece, come proiezione politica continentale di una concreta comunità democratica di cittadini e di Stati.

In questo senso, i conservatori possono essere, al contempo, europei e sovranisti. Nella tradizione del diritto pubblico europeo, infatti, al contrario rispetto a quanto sostenuto da alcune superficiali narrazioni, la sovranità è democrazia e partecipazione, universalismo inclusivo di cittadini, di comunità intermedie, di imprese e di lavoratori, nel quadro unificante di comuni principi di civiltà.

Una visione “patriottica europea”, dunque, può ben conciliarsi con la tutela degli interessi nazionali. Anche sul piano interno, quindi, l’opposizione costruttiva potrà esprimere il suo sostegno a tutte le iniziative di modernizzazione del Paese fondate sull’utilizzo razionale dell’enorme massa finanziaria del Recovery Plan. La risposta alla crisi indotta dalla pandemia ha, infatti, determinato un primo momento di rottura rispetto alle politiche rigoriste che rifiutavano l’idea di un debito comune per alimentare la solidarietà politica, sociale ed economica dell’Europa.

Un piano che dovrà sostenere, in Parlamento e nel Paese, il rilancio infrastrutturale dell’Italia e la ricucitura delle distanze fra il Nord e il Sud, con il potenziamento delle reti e con la valorizzazione delle identità territoriali. Un programma di supporto per assicurare nuova libertà di azione al genio nazionale sul piano della cultura, dell’impresa, dell’arte, della tecnica, della ricerca e dell’innovazione, da troppo tempo strozzato dalle rigidità burocratiche o dalle false rappresentazioni di una possibile “decrescita felice”. Un progetto di rilancio che sprigioni le energie individuali e collettive della nazione con il sostegno dello Stato e dell’Europa, garanti delle regole del gioco e delle infrastrutture strategiche. Una visione di competizione aperta al mondo nei termini della migliore tradizione dell’universalismo europeo, anziché sulla fiducia ingenua e incondizionata nel mercato globale.

In questo scenario dovrà misurarsi il contributo della maggioranza che sosterrà il Governo Draghi e il ruolo dell’opposizione costruttiva della destra italiana, con il pensiero rivolto alle generazioni future.

*Felice Giuffrè, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico, Università di Catania

LO SPAZIO

Questo saggio di Giuseppe Basini, atrofisico, dirigente di ricerca e deputato Lega, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.

L’inizio di un nuovo secolo è un naturale periodo di bilanci anche per le nazioni e oggi siamo all’inizio di un secolo che segna un millennio, un periodo che sembra enorme rispetto alla nostra vita, ma che non lo é per la nostra Nazione. Perché siamo, a riflettere storicamente, la più antica nazione d’Europa. Fin da ben prima che cominciassimo a contare gli anni secondo il calendario cristiano, l’Italia già esisteva come provincia, come realtà culturale e come coscienza di sé, la cultura latina era condivisa in tutta la penisola e anzi l’intera Italia, con Catullo che nasceva a Verona, Plinio a Como, Virgilio a Mantova, Tito Livio a Padova, era ormai tutta protagonista della cultura latina, tanto che Virgilio dedicava all’Italia un’ode nelle Georgiche e nell’Eneide chiamava Italia il luogo in cui i Troiani finalmente sbarcavano. E non a caso Dante a Virgilio si è richiamato. Nazione lo siamo insomma da sempre e da sempre, di fatto, ai primi posti della civilizzazione mondiale.

È difficile infatti trovare una civilizzazione che sia durata così continuativamente sulla scena mondiale come quella italiana, dal diritto e dalla poesia della Roma repubblicana all’urbanistica e all’architettura della Roma imperiale, dalle cattedrali del Medioevo alla nuova cultura del Rinascimento, dal metodo sperimentale di Galileo che segna la nascita della scienza moderna, alla scoperta dell’America che segna la nascita dell’era moderna e che fu consapevolmente ricordata nel messaggio del premio Nobel Arthur Holly Compton, quando, grazie a Fermi e alla sua pila atomica, si aprì l’epoca nucleare: «Il navigatore italiano è giunto nel Nuovo Mondo». Faccio questo orgoglioso bilancio del mio Paese, all’inizio del nuovo millennio, per un preciso motivo, per richiamarne le energie, scientifiche, culturali e morali al servizio di una situazione mondiale che appare dal futuro drammaticamente incerto. Noi italiani non sempre ce ne rendiamo conto, ma su scala storica stiamo vivendo un periodo di tranquillità, di benessere e anche di stabilità reale (sotto la grande instabilità politica) eccezionale in rapporto al resto del mondo ed anche in rapporto a quei non molti paesi che sono più ricchi di noi, per effetto del progresso economico, certo, ma anche di una antica tradizione, di una profonda solidarietà e soprattutto di una certa virtù di vivere, grazie alla quale pure la povertà è vissuta in maniera meno dura e più dignitosa da noi (da ricco potrei vivere bene, a parte gli affetti, in qualunque parte del mondo occidentale, ma da povero, anche col nostro pessimo e mal governato stato, senza dubbio sceglierei l’Italia).

Ma nel resto del mondo non è affatto così e, soprattutto, quello che preoccupa è la rapida tendenza al peggio che è dato vedere (e questo anche da noi). È come se la Terra si fosse ripiegata su se stessa, con l’intero terzo mondo che sembra solo preoccupato di ripetere – in peggio – 315 gli stessi errori da noi già fatti, mentre le grandi nazioni ricche di potenzialità hanno smesso di progettare il futuro. Come la Russia del ripiegamento economico e demografico, che, insieme alla tragica e sanguinosa prassi dittatoriale del comunismo, sembra aver perso però anche la religione laica del progresso, come gli Stati Uniti, che, a parte i due grandi sprazzi delle presidenze di Kennedy e Reagan, sono adagiati su di una mediocrità politically correct che sembra figlia della noluntas verde-radical chic.

Come l’Europa, che, per colpa del direttorio di Francia e Germania, continua a non essere tale e, perciò stesso, a non poter sostituire e neanche affiancare il motore americano. Certo, Trump, Putin e i federalisti europei sembrano voler arrestare questa tendenza, ma non mostrano realmente una visione del futuro sufficiente ad invertire la rotta e la Cina vuole solo diventare una grande potenza economica e militare e non mette certo libertà e democrazia tra i suoi primi valori. Complessivamente insomma si delinea lo scenario di un mondo bloccato, senza nessuna spinta nemmeno lontanamente paragonabile a quella sprigionatasi nel Rinascimento o nell’Ottocento, ma soprattutto nemmeno lontanamente paragonabile a quella che oggi sarebbe necessaria. Perché non ci sarebbe nulla di troppo negativo in questo periodo che, ribadisco, contrariamente a quello che molti credono è di ripiegamento, se non fosse che l’essere sul punto di raggiungere i limiti dello sviluppo sul nostro pianeta, introduce un rischio gravissimo di crollo esplosivo, definibile, a mio avviso, da un’equazione del tipo: mancato sviluppo = catastrofe = guerra e allora la vita ragionevolmente piacevole che in Italia riusciamo ancora a fare, potrebbe non durare a lungo, in un’epoca in cui non é più possibile ignorare i problemi mondiali, perché si finisce comunque per ritrovarseli addosso. E questo dal terrorismo alle guerre sante, dal «Grande Fratello» ai virus.

E allora é alla lunga tradizione di capacità storico-diplomatica di una nazione come la nostra, che bisogna attingere, per rimettere in moto, prima il processo di integrazione europea, poi quello di solidarietà atlantico-occidentale e infine quello di ricostruzione continentale comprendente anche la Russia, con l’obbiettivo di un gigantesco sforzo Euro-Americano per rimettere in moto ricerca scientifica e sviluppo tecnologico, rivolti finalmente di nuovo all’espansione reale e non solo alla gestione elettronica e inquisitrice di una mediocrità virtuale e illusoria. E questo a favore di tutto il mondo. L’Italia, che é stata tra i primi a raggiungere la consapevolezza dell’impossibilità di risolvere problemi globali sulla base di una spinta puramente nazionale e che proprio per questo è ancora e nonostante tutto, una nazione europeista, deve porre le risorse di un’antichissima scuola diplomatica (e il pensiero corre a Cavour) a cui non è estranea la tradizione del papato, al servizio di una nuova grande iniziativa, nel solco della tradizione e dello spirito occidentale. I problemi interni del nostro paese sono ben poca cosa rispetto a quelli del mondo (e lo dimostra il fatto che possiamo baloccarci, come facciamo, con mille astruserie barocche, dal localismo, alle strane authorities, fino alle formule 316 politiche a «geometria variabile», senza – finora – danni irreparabili) e non solo se riferiti al mondo in generale, ma proprio anche agli effetti diretti che producono sul nostro paese, visto che i cambiamenti che importiamo in Italia per i sommovimenti mondiali (dalla stagnazione all’effetto serra, dal ciclo economico all’immigrazione selvaggia, dalle ragioni di scambio alle tecnologie condizionanti) tendono a diventare sempre più importanti rispetto a quelli di origine interna. Insomma stiamo passando da un lunghissimo periodo storico in cui, molto spesso, la politica estera era un prolungamento di quella interna, ad un nuovo periodo in cui è quella interna ad essere determinata da quella estera. Se non riusciremo a risvegliare l’antico spirito pionieristico occidentale in una, massimo due, generazioni, la partita per il mondo sarà perduta e con essa anche quella per il nostro Paese. Ho in testa qualcosa di preciso dicendo questo, qualcosa che deriva dalla constatazione che é impossibile, senza perdere insieme benessere, libertà e pace, accettare i limiti dello sviluppo.

Intendendo con questo che è mia opinione che, senza la pianificazione urgente di una prima ondata di colonizzazione dello spazio vicino, l’umanità entro questo o il prossimo secolo, conoscerà una discontinuità (catastrofica) prima di riprendere il cammino, ma da un livello molto più basso. L’orgoglio che provo e che ho sempre provato (e che prima di me provava mio padre) di essere italiano, mi spinge a credere che un’Italia indipendente saprà e potrà risvegliare la scintilla di un nuovo Rinascimento scientifico ed umanistico che apra la strada alla conquista dello spazio vicino, allo stesso modo che fu nei nostri monasteri e nelle nostre accademie che si determinò il primo. Ad ogni modo che sia l’America a riprendere quello spirito di avventura che oggi sembra appannato, l’Europa o chiunque altro, noi dovremo dare il nostro contributo, meglio se tra i primi. E non ci tragga in inganno la sproporzione numerica, anche Firenze, anche Venezia, erano piccola cosa all’alba del Rinascimento, eppure, dalla letteratura, alla scienza, alla finanza, cambiarono il mondo. La possibilità di comprensione e di guida dei nuovi avvenimenti, se ci sarà, non nascerà da grandi masse o da moltitudini urlanti, ma dalle università e dai chiostri.

Oggi che l’Italia, pur possedendo le chiavi di lettura di ogni singolo progresso scientifico, non è percepita da nessuna parte del mondo come potenza aggressiva o egemone, la possibilità concreta di influenzare l’atteggiamento delle altre nazioni potrebbe essere notevole, purché si sappia cosa volere, dove andare e come. Potrebbe essere un altro millennio di fondamentale presenza della cultura e dello spirito italiano. La Spagna della regina Isabella sappiamo dov’è oggi, a Bruxelles, a Mosca, a Pechino e al di là dell’Atlantico, ci servono però altri «navigatori italiani» per noi e per tutti gli altri. Al nostro interno, il principio della libertà trova, nella realtà italiana di inizio secolo, uno dei luoghi che maggiormente necessitano di una rivoluzione liberale e di una politica che sia conseguente. La riscoperta di libertà e tradizione è necessaria quanto mai nel nostro Paese, per procedere verso 317 un futuro che sia umano, di progresso e iscritto in un progetto comune. Lo spirito illuminista e risorgimentale, la cultura liberale, l’assunzione consapevole di tutta la storia italiana (dalla tradizione monarchica, ai nazionalisti, al sentimento cattolico), l’ottimismo nel futuro, la visione occidentale, l’Europa, sono tutti tasselli che devono trovare armonico posto nella visione di insieme di uno sviluppo di società nazionale, coerente con la storia e compatibile con le necessità e l’ambiente, che proponiamo all’Italia. E allora in Italia tutte le forze tradizionaliste devono riconoscersi per quello che sono, nei fatti, nelle aspettative e nel solco della grande tradizione della Destra Storica: il movimento italiano per la libertà (politica ed economica) e la Nazione.

Libertà e Nazione, perché è tradizionale il riconoscimento del valore della libertà della persona e contemporaneamente del suo radicamento in una comunità che è quella nazionale. E questa la base di un modo di pensare chiaro, patriottico, democratico ed Europeo, su cui chiamare a raccolta i cittadini, spronarli ed indicar loro la strada del recupero della libertà e della tradizione nazionale. E dello stato di diritto, che, dall’abbandono del giusnaturalismo in poi, non ha fatto che regredire e oggi (e purtroppo soprattutto in Italia) sembra soccombere di fronte ad una magistratura tendenzialmente autoreferenziale che, associata al populismo antipolitico, al posto della democrazia sembra quasi volersi rifare a un potere sapienziale assoluto premoderno, come fondamento di uno stato di polizia dotato di modernissimi strumenti tecnici. È una linea occidentale, quella che proponiamo, ma tutta dentro la tradizione italiana, una linea di Destra Storica che, entrati nell’era moderna con l’illuminismo e gli empiristi inglesi, prende forza con Carlo Alberto e Re Vittorio, Cavour e Sella, continua con Mosca e Pareto, Salandra e Sonnino, passa per Einaudi e Croce, fino a toccare De Gasperi e Pio XII, Malagodi e Pella, Sogno e Tatarella, Maranini e Martino, una linea sottile, ma che, quando ha prevalso, ha fatto la fortuna d’Italia.

È una linea rigorosamente garantista, perché la democrazia non è una parola e una giustizia democratica non è tale, se i diritti del cittadino vengono calpestati in nome di un giustizialismo che faccia di giudici intoccabili dei poteri insindacabili. È una linea che considera libertà personale e democrazia beni essenziali da difendere e tutelare in ogni circostanza, anche in presenza di una pandemia, per evitare che possa realizzarsi, sotto mentite spoglie, una via sanitaria alla tirannia. È una linea che vede nella rigorosa difesa e diffusione della proprietà privata la prima base dell’essere davvero libero cittadino. È una linea che ci vuole in Europa da Italiani orgogliosi di esserlo, condizione necessaria per essere veramente europei. È una linea volta a costruire un futuro che non dimentichi la storia della nostra civilizzazione.

*Giuseppe Basini, fisico nucleare

 

Ripartire dalle città per superare la krìsis

Costantinopoli era definita la città per eccellenza perché era il luogo in cui si componevano le differenze e vi era la volontà di porsi continuamente una questione: “Si sta facendo bene?”. Oggi le città possono avere un ruolo determinante per governare il processo di crisi che affligge il Paese e, per farlo, chi amministra deve saper porsi le giuste domande e trovare risposte in quei giacimenti di pensiero che respirano e vivono la città… che sono le università, le scuole, gli ordini professionali, le associazioni di categoria, le associazioni di idee, le fondazioni, i partiti, i sindacati.

Le città hanno un ruolo fondamentale perché sono il luogo della cantierizzazione dell’economia, ma non solo; perché vi è la maggior consistenza demografica delle persone, la maggior consistenza economica delle ricchezze, la maggior consistenza di contraddizioni che generano conflitto. E su queste tre caratterizzazioni occorre ben riflettere e porsi la questione “si sta facendo bene?”, per approdare ad una nuova vita delle città. La dimensione che occorre alla città del terzo millennio non necessità della gonfiezza ma di prossimità dalla provincia, di prossimità al Paese e all’oltre confine nazionale. Perché la gonfiezza cittadina se da una parte crea lo spopolamento dei Comuni di provincia arrecando in taluni casi desertificazioni di luoghi geograficamente e strategicamente sfruttabili, dall’altra parte crea al proprio interno delle periferie di periferie in cui il disagio è la determinazione principale del determinante malessere che sempre più genera manifestazioni di drammi e degenera in disumanità.
Le dotazioni economiche che lo Stato concede alle città non possono non andare, in buona parte, nella direzione di rigenerazione delle periferie che sono divenute uno spazio di insostenibile sofferenza… non possono non andare, in buona parte, anche nelle infrastrutture di collegamento verso la provincia che è la cura dimagrante della città che non deve essere obesa per avere peso, dal momento che il peso lo determina la qualità dei servizi, la quantità dell’attenzione ecologica, la velocità di collegamento. Ma la progettualità realizzativa si colloca in un uno spazio che ha bisogno di tempo e troppo spesso lo Stato pone una clessidra che affanna e affossa. Lo Stato centrale per mettere le città nella condizione di essere proattive al superamento della krìsis che le affligge, deve concedere una qualità delle procedure che sia pari alla quantità delle risorse che eroga ad esse, perché occorre una velocità normativa ed una semplificazione delle procedure che consentano la realizzazione alla progettualità del pensiero che altrimenti resta affanno in una palude.
*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta

Nel 2018? Una destra forte al governo per scongiurare inciuci ed euroburocrazia

Prima di ogni altra cosa auguri di buone Feste, Buon Natale e Buon anno a tutti i nostri lettori. Il 2018 sarà un anno importante per la politica e per il futuro del nostro Paese. Si vota il 4 marzo, cioè tra poche settimane, e c’è già chi pronostica un secondo drammatico voto in autunno. Uno scenario tragico, che potrebbe scatenare le speculazioni internazionali, a fronte di un debito pubblico ormai al 140 per cento del Pil, in continua progressione.

La tenuta sociale del Paese è a rischio: l’Italia ha il più alto numero di poveri in Europa, dodici milioni di persone non riescono a pagarsi più le cure sanitarie, i migliori giovani cercano lavoro all’estero, cittadini e aziende soffocano stretti da burocrazia e tasse. Abbiamo perso il nostro ruolo nel Mediterraneo e le nostre imprese sono diventate preda delle multinazionali europee ed asiatiche. Una guerra per la supremazia tecnologica e industriale che si combatte sul nostro territorio.

Come dimostrano tutti i sondaggi, solo il rinnovato centrodestra può raggiungere la maggioranza parlamentare e dare un governo al Paese, scongiurando il ricorso a nuove immediate elezioni o, peggio, ad un altro esecutivo tecnico che di fatto consegnerebbe il governo alla euroburocrazia. In questo contesto, la destra con Fratelli d’Italia può finalmente svolgere un ruolo importante, decisivo, protagonista. È merito di Giorgia Meloni e di una nuova giovane classe dirigente, che ha saputo riaffermare valori e progetti nel momento più difficile. Ora, occorre fare il massimo sforzo, perché l’occasione non sia sprecata.

Farefuturo si è impegnata nell’anno che si sta chiudendo proprio per ricostruire una coalizione di centrodestra, con meeting, analisi e documenti che abbiamo più volte portato alla vostra attenzione anche con Charta Minuta, la nostra rivista online. Nel prossimo mese di gennaio, abbiano in programma due importanti iniziativevenerdì 26 gennaio, a Roma, Palazzo Rospigliosi, una serata dedicata a Fratelli d’Italia alla quale parteciperà Giorgia Meloni; pochi giorni dopo, lunedì 29 gennaio, con un meeting su “L’Italia nel vuoto, il vuoto dell’Italia”, nell’Aula dei gruppi parlamentari a Montecitorio, con la partecipazione dei leader di centrodestra, economisti, diplomatici, militari, esperti di geopolitica.

Farefuturo, insomma, svolgerà anche nel 2018 un ruolo propulsivo nel centrodestra, contribuendo alla realizzazione di proposte e programmi per una più incisiva azione di governo. La storia si rinnova, ma le idee restano il motore di ogni cosa. 

Ancora Auguri. Auguri alla nostra Italia.

*Adolfo Urso, senatore FdI