Cominciamo a riformare l’ONU

Lo avevamo intuito già all’indomani del fatidico 24 febbraio, inizio dell’aggressione russa in Ucraina.Ed oggi dopo aver vissuto, anche soltanto attraverso i media, questi ultimi 43 giorni di guerra ce ne convinciamo sempre di più.
Siamo ad un punto di svolta nella storia, un passaggio epocale.
Il mondo che sognavamo non c’è più, e forse non c’era nemmeno prima!
A questa conclusione siamo giunti applicando la conseguenza logica degli orrori del fronte, di una riprovazione internazionale mai vista, di gravi sanzioni che fanno male a chi le applica prima che a chi le subisce, dell’uso degli epiteti e aggettivi personali più infamanti, delle minacce durissime paventate da ambo le parti.
Tutto ciò porta ahimè ad una pratica irreversibilità della situazione, la certezza, più che il timore, che nulla sarà più come prima.

E se è vero che questo “prima” ha contribuito a portare il mondo sull’orlo del baratro di missili nucleari ormai a “sicure disinserite”, è anche vero che bisognerà assolutamente cambiare il sistema che dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale ha condizionato  il mondo.
Oggi ho finalmente concordato in pieno-e non mi succede spesso-con Zelensky quando ha affermato che chi siede nel consiglio di sicurezza dell’ONU non può macchiarsi di crimini contro l’umanità e quando ha chiesto a gran voce una nuova Norimberga: due temi a me cari.
Il primo sull’ONU, che io considero  la madre di tutte le ingiustizie.

Nonostante occorra dare atto al coraggio della diplomazia italiana che provò a riformarlo nella metà degli anni 90, ad opera del compianto Ambasciatore Francesco Paolo Fulci, senza che gli ex “five winners” abbiano mollato l’odiosa e ormai  anacronistica rendita di posizione imposta come fece Brenno con la sua spada.
Il secondo tema proviene dal non poter dimenticare le atrocità dei bombardamenti a tappeto con cui i sedicenti alleati hanno ucciso migliaia di inermi civili nostri connazionali (anche lì c’erano donne e bambini)  e raso al suolo le nostre città, patrimonio dell’umanità. Per non parlare poi delle bombe atomiche americane sganciate per provarne l’efficacia su centinaia di migliaia di giapponesi, ormai distrutti e pronti ad una resa incondizionata.

Gli enormi errori geostrategici commessi dal sistema “post war two” sono molteplici,impressionanti nelle loro conseguenze e meriterebbero il contributo di tutto un mondo realmente libero e svincolato dagli interessi di questa o quella parte. È questa la sola utopia che può salvarci dall’ auto annientamento? Non so, intanto cominciamo a rimettere in discussione l’ONU.

*Carmelo Cosentino, ingegnere, presidente ASE spa

G20 E I NUOVI ASSETTI INTERNAZIONALI

Il G20 straordinario, voluto e presieduto dall’Italia, ha portato ad una decisione condivisa sul futuro dell’Afganistan.
Come risultato è stato conferito all’ONU uno specifico mandato operativo per implementare  “con tutti i mezzi necessari” le decisioni prese dai venti Paesi più importanti della terra.
Per la prima volta il Palazzo di Vetro non è più il luogo dove, anche se solo formalmente, si decide sui destini del mondo, ma diventa il braccio operativo delle decisioni dei Grandi della Terra, riuniti in un diverso ed evidentemente più autorevole consesso internazionale.

Vengono così “de facto” bypassati interminabili riti e procedure e con essi le complesse strutture ( Assemblea, Commissioni e Sottocommissioni, Consiglio di Sicurezza, Membri permanenti con diritto di veto,Segretariato Generale) che, dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale, avevano discusso dei destini del mondo. Riti consunti e strutture obsolete che da settant’anni erano oggetto di un perenne tentativo di revisione e aggiornamento, sempre impedito dai cosiddetti Grandi (4+1), fortemente determinati a non perdere rendite di posizione allora assegnatesi e diritti arrogatisi.
A nulla erano valse le considerazioni sulla crescente valenza di alcune economie, i cui pesi specifici venivano evidenziati dall’importanza dei vari G5, G7,G10, dove crescevano Germania, Giappone e Italia. A nulla avevano portato i morbidi e timidi tentativi  degli “esclusi”  di trovare nuovi schieramenti al passo coi tempi, come quello, pur pregevole, del “circolo del caffè”, ideato dall’ambasciatore Francesco Paolo  Fulci e perseguito negli anni novanta dalla diplomazia italiana.
Il mondo di oggi, che rinasce dopo la terribile pandemia, è partito al galoppo verso una direzione non precostituita ed ancora difficile da prevedere, dove stanno contando personalità e autorevolezza dei nuovi leader e in definitiva delle singole nazioni da essi guidate.

Non possiamo escludere colpi di coda di chi non intende perdere anacronistiche rendite di posizione, anzi aspettiamoceli, ma gli ultimi accadimenti macroeconomici e geopolitici, di cui questo G20 guidato dall’Italia, è solo l’ultimo e più eclatante episodio, sembrano indicarci che probabilmente siamo all’inizio di una trasformazione degli assetti mondiali.

*Carmelo Cosentino, ingegnere, presidente ASE spa

PROMUOVERE L’INTERESSE NAZIONALE IN UN MONDO COMPLESSO

Questo saggio di Giampiero Massolo, ambasciatore,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Nel nostro Paese, per motivi storici e culturali, ci si riferisce spesso con pudore e cautela al tema dell’interesse nazionale. Oggi, peraltro, esso è tornato di attualità in quanto fattore qualificante dello «stare al mondo», un requisito necessario per il bene della collettività.  L’impatto di una crisi grave e inattesa, come quella dovuta alla pandemia da Covid19, riassume in sé molti aspetti caratterizzanti: una minaccia nuova, immateriale e asimmetrica, che mette alla prova assetti e alleanze, così come la nostra coerenza nel farne parte; che comporta la necessità di conciliare l’emergenza sanitaria con quella economicosociale; l’opportunità di tutelare asset strategici potenzialmente in posizione di minore forza da appetiti stranieri. L’urgenza di definire e difendere l’interesse nazionale si ripropone, quindi, viepiù oggi con grande evidenza. Cresce coerentemente l’esigenza di formulare politiche improntate all’interesse nazionale, fra tutte il primato spetta alla politica estera. Sembra evidente che quest’ultima risponda all’interesse nazionale per sua stessa natura, ma in realtà, perché ciò accada, è necessaria una chiara definizione degli ambiti verso i quali prioritariamente ci si intende rivolgere, come necessaria appare una coscienza dei limiti, una disponibilità di strumenti e, soprattutto, l’attitudine a usarli per assumersi responsabilità in proprio.

Non sempre accade. È intuitivo constatare che l’interesse nazionale consiste in un esercizio di sintesi. Non vi è un interesse nazionale aprioristico, ma una sommatoria di fattori che spetta ai Governi sintetizzare. E di tale potere di sintesi essi sono responsabili, poiché nell’esercitarlo definiscono priorità e operano scelte. Queste scelte trovano la propria verifica politica nei parlamenti e, in definitiva la propria sanzione, nel voto dei cittadini. Torna qui il tema della difficoltà nel definire il proprio interesse nazionale, in qualche modo correlata alla poco assidua attenzione per le cose del mondo e alla spesso non profilata sensibilità dei cittadini. Anche da noi. È difficile quindi che i governi si sentano responsabili in via prioritaria su questi specifici temi. I governi si muovono comprensibilmente alla ricerca del consenso e sembrano dare spesso per scontato il peso relativo della politica estera e delle aspettative dell’opinione pubblica al riguardo. Oggi questo trend è in qualche inversione, anche a seguito della progressiva presa di coscienza dell’impatto che hanno sui nostri destini avvenimenti fuori dai confini nazionali (paradigmatici il conflitto libico, come i flussi migratori o il drastico passaggio della crisi finanziaria del 2008 e seguenti). E ancora, la pandemia che ha colpito il mondo ha accentuato drammaticamente la presa di coscienza.

D’altra parte il nostro Paese (e i suoi cittadini) deve tenere conto della realtà nella quale è chiamato a operare, inserito com’è in un sistema di relazioni internazionali, su un campo di gioco, ove competono e si confrontano diversi interessi nazionali. È difficile perseguire il proprio, senza essere vigili ai cambiamenti dello scenario globale. Perché questo accade in misura crescente? Conta sotto questo profilo, la rapida evoluzione del contesto internazionale in questi anni. Anzitutto, il contesto internazionale in cui si muovono gli Stati è ormai privo di «ombrelli protettivi». Il progressivo declino del multilateralismo, l’allentamento del carattere valoriale delle alleanze ha indotto una diluizione della differenza fra la nozione di partner e di alleato. Insomma, oggi il mondo è sempre più un mondo di competitors nel quale ancoraggi tradizionali come la Nato, la stessa Ue, l’Onu sembrano attenuarsi come mezzi di legittimazione dell’attività internazionale. In secondo luogo, sono mutati gli attori. Non è chiaro se si stia marciando a tappe forzate verso un nuovo «condominio bipolare» sino-statunitense. È ancora presto per dirlo. Ciò che è incontrovertibile, tuttavia, è che l’ordine mondiale liberale come l’abbiamo conosciuto, basato sulla primazia dell’Occidente, sul libero mercato e sui valori della democrazia rappresentativa è venuto meno e difficilmente potrà riproporsi almeno nella sua forma originaria. Siamo come «in mezzo al guado», perché se è vero che il condominio sino-americano sembra intravedersi, ci troviamo ancora in una fase fluida, di «recessione geopolitica», si potrebbe dire in uno stato di «G Zero». Senza un protagonista unico riconosciuto e senza regole universali. Al tempo stesso, si affollano nel mondo odierno molti nuovi attori essenzialmente non statali: grandi aziende, individui, Ong, terrorismo jihadista, le «piazze» (da non sottovalutarne l’impatto sul panorama internazionale).

A medio termine, dunque, non sembra alle viste un ritorno alla logica della cooperazione, una volta affermatasi quella di potenza che sempre più connota le relazioni internazionali. La logica «transazionale» promossa in primis – ma non solo – anche dall’amministrazione americana tende a prevalere al momento («pesi» e sei mio alleato non in nome di un valore fondante della nostra alleanza, ma per ciò che puoi darmi). Anche la risposta internazionale alla pandemia ne ha risentito: il mondo è apparso molto più diviso rispetto, ad esempio, alla reazione alla crisi finanziaria del 2008/2009.  Attenzione meritano poi le crescenti forme di influenza extra-statuali, la cui dirompente portata è esemplificata da quella della cibernetica.

È vero che non siamo nuovi all’esperienza di diverse forme di influenza, ma oggi questa è così pervasiva, penetrante da rappresentare una minaccia straordinaria. Se da un lato ciò non può far concludere  che ogni appuntamento elettorale in una democrazia rappresentativa sia falsato, dall’altro comporta una mutazione del sistema delle relazioni internazionali e implica la necessità di assumere opportune contromisure a propria difesa. Se questo è il mondo di oggi con le sue prospettive di medio termine, come può modellarsi una politica basata sull’interesse nazionale date le circostanze? Ogni governo, che voglia fare l’interesse dei propri cittadini deve intanto abituarsi a navigare in mare aperto senza dare per scontate più di tanto amicizie e inimicizie, identificando chiaramente il proprio interesse nazionale, dandosi un sistema decisionale efficiente, assumendo sempre più responsabilità in proprio senza pensare di poterle troppo delegare agli organismi multilaterali. E se l’autorevolezza e la solidità delle organizzazioni internazionali dipende dall’autorevolezza e solidità dei loro Stati membri, si può concludere che Stati forti e autorevoli rafforzerebbero il multilateralismo oggi in crisi. Rafforzare le capacità, all’occorrenza, di poter decidere in proprio è cruciale. Accrescere poi la partecipazione delle proprie opinioni pubbliche. L’opinione pubblica non può entrare in gioco solo come macchina di consenso (e di voti), ma deve contribuire, in modo informato, ai processi decisionali responsabilizzando i propri rappresentanti. Far crescere consapevolezza e responsabilità è essenziale. Ricercare i partner e alleati con i quali compiere percorsi comuni, distinguendo gli uni dagli altri. Con i primi entrano in gioco gli interessi, che a volte possono coincidere e indurre a compiere un tratto di strada insieme, con i secondi sono i valori (non sempre gli interessi contingenti) a fungere da collante. La capacità di discernere è decisiva. Rilanciare infine il multilateralismo è centrale, specie per un Paese come il nostro e più in generale per i Paesi Europei.

Per superarne la crisi oggi bisogna partire con un approccio bottom up, dagli interessi concreti, promossi da coalizioni di Paesi che intendano compiere lo stesso percorso, per dirigersi auspicabilmente nella medesima direzione. In un mondo «multi-concettuale» diventa allora prioritario ricercare temi unificanti e fra tutti quelli della sicurezza cibernetica e dei cambiamenti climatici sembrano i più adatti a lanciare un simile esperimento. Lavorare insieme tra Stati «willing», senza troppi distinguo, ricostruendo la dimensione multilaterale, è la prospettiva di speranza per il futuro. Ma se non accadesse, non potremmo evitare di assumerci le nostre responsabilità. Meglio prepararsi per tempo.

 

*Giampiero Massolo, presidente ISPI, ambasciatore

De Felice: rischiamo altra invasione dalla Libia

“L’arrivo della bella stagione incoraggia gli scafisti a riprendere il loro ignobile e lucroso traffico di esseri umani. Occorre attivare l’organizzazione nazionale per la crisi in Libia prima che si verifichi qualche altra tragedia in mare”.  Non è la dichiarazione da talk show di un esponente politico in cerca di  consenso, ma la tesi dell’ammiraglio di Divisione Nicola De Felice che fino a tre mesi, era,  dalla base di Augusta, il comandante di  Marisicilia.

L’alto ufficiale, romano di nascita,  vanta un curriculum di tutto rispetto. Studi approfonditi sul diritto marittimo e sulla strategia navale, ha partecipato a numerose missioni all’estero, dal Libano al Kossovo. E’ stato a Parigi, inviato come consulente operativo del programma missilistico Italo-Francese”Fsaf”. Già comandante di importanti unità della Marina Militare come le fregate “Orsa” e “Scirocco” e del cacciatorpediniere “Francesco Mimbelli”, De Felice conosce da vicino il problema dei flussi migratori che incalzano da Sud per essere stato addetto per la Difesa dell’ambasciata italiana a Tunisi e dal 2015 al 2018 il numero uno della Marina in Sicilia.

 

Ammiraglio, con la fine dell’inverno è prevedibile che riprenda con maggiore intensità il traffico  di migranti tra il Nordafrica e le coste siciliane?

“Certamente. E un dato che abbiamo sempre registrato. Il  verificarsi di un rinnovato flusso di migrazione illegale via mare dalla Libia e dalla Tunisia nei prossimi mesi è alquanto probabile. Il tempo buono ed il mare calmo – nonché la peggiorata instabilità della situazione in Libia – invoglieranno i trafficanti di esseri umani a rinnovare le loro intenzioni riavviando – di conseguenza – l’ignobile mercato degli schiavi, in versione XXI secolo”.

 

Con quali strumenti si può contrastare un fenomeno che sembra senza soluzione?

“Gli strumenti già ci sono, occorre la volontà politica di utilizzarli. L’Italia può organizzare una ‘strategia diretta’ di doppio blocco navale, responsabilizzando l’Onu  per una più efficace gestione della crisi umanitaria in Africa e gli Stati di bandiera delle navi che solcano il Mediterraneo per il rispetto di chi deve assicurare asilo politico secondo i dettami della Legge del Mare delle Nazioni Unite e del Trattato Ue di Dublino, art. 13. Questo consente di raggiungere l’obiettivo di stroncare sul nascere un fenomeno che tanti morti ha provocato in mare”.

E’ un problema politico e umanitario allo stesso tempo…

“Le condizioni politiche, sociali, economiche ed umanitarie in quell’area geografica risultano oramai inaccettabili. Non si può più fare finta di nulla.  Siamo di fronte ad una minaccia per gli interessi italiani ed anche internazionali. La Libia, in particolare, non è in grado di garantire in proprio le funzioni istituzionali di un’organizzazione statuale, prima fra tutte quella della sicurezza. Nel mese di maggio le condizioni politiche in Europa potrebbero essere più favorevoli e molti sono gli avvicendamenti che si attendono entro l’anno, a partire dall’Alto Rappresentante degli Affari Esteri e della Sicurezza dell’Ue, del Presidente della Commissione Europea, del semestre di Presidenza del Consiglio Europeo ed anche alla Bce. Inoltre, c’è un generale italiano chairman del Comitato Militare europeo”.

 

Finora l’Europa non sembra aver mostrato grande attenzione per un fenomeno che interessa, in particolare l’Italia e la Sicilia…

“E’ vero. Anche che la crisi in Libia non è avvertita in Europa nello stesso modo che in Italia, ma il protrarsi per un così lungo periodo potrebbe espandersi in altri domini. Non interpretata correttamente, la crisi libica  può causare delle prese di posizione imprevedibili  da parte dei numerosi attori coinvolti. Consideriamo il caos che caratterizza la Libia e i numerosi clan che si sono formati e si muovono dopo il vuoto di potere scaturito dall’intervento voluto dalla Francia nel 2011”.

 

Quali organismi dovrebbero attivarsi per affrontare in primavera l’emergenza immigrazione e gestire la crisi in Nord Africa?

“In ambito nazionale, la responsabilità della gestione della crisi risale all’Organizzazione nazionale per la gestione delle crisi, che definisce la composizione e le attribuzioni degli organi decisionali e del consesso interministeriale di supporto, per l’adozione delle misure di prevenzione, risposta e gestione delle situazione di crisi, ai sensi del DPCM del 5 maggio 2010. L’organizzazione posta in essere determina le misure necessarie da attuare, sia come Nazione che come Stato facente parte di organizzazioni quali l’Onu, la Nato, l’Ue, l’Osce o coalizioni che maturino analoga volontà di cooperare, da creare ad hoc ovvero permanenti. Il Comitato Politico Strategico (CoPS) di tale organizzazione valuta gli elementi di situazione e gli eventuali provvedimenti da sottoporre all’approvazione del Consiglio dei Ministri dando l’indirizzo strategico all’approccio della crisi. Il CoPS interagisce con gli attori esterni, in particolare con il Consiglio Europeo e con il Consiglio Atlantico, con le ambasciate dei Paesi dell’aerea. Se si fosse perseguita l’applicazione di tale organizzazione nel caso della nave “DICIOTTI”, non saremmo giunti al paradosso di vedere indagato un Ministro del governo”. Terenzio, nell’Adelphoe, diceva: “Saggezza non è vedere solo quello che ci sta tra i piedi, ma anche intuire le cose che ci stanno lontane nello spazio e nel tempo”.

*Intervista con Nicola De Felice, di Giampiero Cannella, giornalista

L’inchiesta. L’Onu è prigioniera del suo stesso anacronismo

Volgere, oggi, lo sguardo verso il Palazzo di Vetro di New York rischia di essere oltremodo impietoso. Troppe sono le contraddizioni e gli enigmi irrisolti che avvolgono le Nazioni Unite. La crisi di credibilità e di legittimità dell’ONU, che ha raggiunto il culmine nell’incapacità d’intervenire con successo nelle sanguinose guerre inter-etniche che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia, si ripercuote negativamente nell’intero sistema delle relazioni diplomatiche. Da un lato persiste, pragmaticamente, la volontà di mantenere una sorta di forum, di consesso mondiale che possa fungere da centro di contatto permanente fra gli attori internazionali. Dall’altro, montano le perplessità – e talvolta lo sconcerto – nel vedere l’ONU e le sue Agenzie Specializzate impaludarsi in una progressiva politicizzazione che ne mina l’imparzialità e ne favorisce l’impopolarità nell’opinione pubblica.

Permane, alla base, una criticità fondamentale: l’ONU, così come concepito nel secondo dopoguerra, non rappresenta l’odierno scenario internazionale. Esso è prigioniera della sua stessa natura di organizzazione intergovernativa che, al di là degli aulici scopi e dei principi elencati pedissequamente negli articoli 1 e 2 dello Statuto, nasceva con l’obiettivo primario di mantenere lo status quo geopolitico risultato dalla Seconda Guerra Mondiale. Questa mission risultava evidente nella ratio che sottintendeva l’organo esecutivo più importante per il funzionamento dell’organizzazione, il Consiglio di Sicurezza, composto dalle 5 nazioni vincitrici della Seconda Guerra Mondiale – Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina – dotate del potere di veto e dunque di bloccare qualsiasi decisione sostanziale, e da altri 6 Stati a rotazione. Si pensi che l’unica riforma di rilievo risale al lontano 1963, quando l’aumento da 51 a 117 degli Stati dell’ONU in seguito al processo di decolonizzazione portò da 6 a 10 il numero dei membri non permanenti – eletti dall’Assemblea Generale con mandato biennale – del Consiglio di Sicurezza. Paradossalmente, accanto al Consiglio troviamo un altro organo, l’Assemblea Generale, che al contrario risponde ad un discutibile principio di eguaglianza giuridica: a prescindere dal peso politico, economico o demografico, ogni Stato esprime un solo voto. A rendere ancor più surreale questa architettura istituzionale, è la possibilità da parte dell’Assemblea Generale di eleggere – su proposta del Consiglio di Sicurezza – il Segretario Generale, che di fatto non può imporre alcuna decisione che non sia in grado di superare il veto dei membri permanenti.

Da allora, poco è cambiato all’interno del Palazzo di Vetro e molto, invece, al di fuori. La fine della Guerra Fredda, l’emersione di nuovi attori regionali e internazionali, la globalizzazione e i suoi conflitti, le minacce del terrorismo islamico non hanno trovato nell’ONU la necessaria dinamicità e prontezza operativa. Si è assistito, piuttosto, ad inediti attivismi – con conseguenti imbarazzi – delle Agenzie Specializzate: si pensi alle risoluzioni dell’UNESCO palesemente provocatorie nei confronti di Israele, o alla nomina di un rappresentante dell’Arabia Saudita a capo del Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. In sostanza, l’immagine contemporanea dell’ONU è quella di una sorta di grande bazar della diplomazia internazionale, dove all’azione si preferiscono imbarazzanti do ut des di poltrone e scambi di pedoni, mentre le mosse più importanti sullo scacchiere geopolitico vengono decise in altri contesti e, spesso, in maniera unilaterale. Vi sono stati, dagli anni Novanta, dei tentativi di portare al centro del dibattito la necessità di riformare la governance delle Nazione Unite. Tre, in particolare, sono i blocchi che si confrontano. Il primo è il cosiddetto G4 che comprende Germania, Giappone, India e Brasile che si supportano nella reciproca ambizione di diventare membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Il secondo, di cui fa parte anche l’Italia, fa capo al gruppo denominato Uniting for Consensus, favorevole all’aumento del numero dei membri a rotazione del Consiglio, ma nettamente contrario alle richieste del G4. Il terzo, infine, è il blocco dei Paesi africani, che chiedono più riconoscimento nel Consiglio di Sicurezza in entrambe le categorie dei membri.

V’è, tuttavia, un problema strutturale e giuridico che pare insormontabile e rende molto difficile una possibile riforma. Gli articoli 108 e 109 dello Statuto dell’ONU, infatti, prevedono che eventuali emendamenti e modifiche allo Statuto siano ratificati da due terzi dei membri delle Nazioni Unite, compresi “tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza”. Ecco, dunque, che la vera domanda da porsi non è “qual è la riforma migliore?” bensì se una riforma sia effettivamente possibile. Forse sarebbe più saggio consegnare questo organismo alla Storia, e attivarsi per creare un’alternativa che non sia prigioniera del suo stesso anacronismo.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

L’Onu e Bachelet contro l’Italia? E’ l’insopportabile "razzismo" degli antirazzisti

Procedendo di assurdità in assurdità il rischio è quello di non capirci più nulla. Salta dalla sedia Matteo Salvini e con lui quanti sono ancora dotati di un briciolo di buon senso e visione d’insieme. Italia-paese-razzista? La pensa così l’alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, l’ex presidente socialista del Cile, che intende inviare addirittura gli ispettori per verificare chissà che cosa.
Cosa, appunto; ma anche come. Difficile capire come si dovrebbe verificare, infatti, se un Paese è o no razzista, soprattutto se il capo della polizia, nominato peraltro da governi di centrosinistra, Franco Gabrielli, avverte che non vi è «alcun allarme» in tale senso. Passeggiando al parco, andando in pizzeria o – peggio ancora – leggendo i giornali del gruppo De Benedetti? Si scherza, anche se da ridere c’è ben poco. Prima ancora della crisi Diciotti, la home page del sito di Repubblica era una collezione di notizie (vere o presunte tali) sull’allarme xenofobo che attraverserebbe il Paese.
Basta ricordare il caso dell’atleta azzurra di origini nigeriane Daisy Osakue. Bene, è lì che sta o cade ogni ipocrisia. Sarebbe bastato spulciare il primissimo lancio d’agenzia per scoprire che i carabinieri nell’immediato avevano escluso la matrice razzista di un gesto comunque criminale (e demenziale). Invece no, la campagna stampa è andata subito a braccetto con la mobilitazione indetta da Maurizio Martina, il reggente Pd. Salvo poi scoprire che prima di nascondersi, la mano che aveva lanciato quell’uovo infame aveva sventolato il tricolore dem. Mamma mia che vergogna!
Italia-paese-razzista? Torniamo quindi  al punto di partenza, alle preoccupazioni «inappropriate» della Bachelet – per dirla con il ministro degli Esteri Moavero. «Il governo italiano – dice lei – ha negato l’ingresso di navi di soccorso delle Ong» e «questo tipo di atteggiamento politico e di altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili». Ecco la «lezione». Che però è debole di contenuto, perché parte dall’assunto ideologico che la condizione migrante sia di per sé benedetta, al di là della sua regolarità e del rispetto delle norme che uno Stato sovrano detta in funzione di un bene che sia allineato sì alla universale dignità umana, ma anche – e simultaneamente – all’interesse particolare di una comunità nazionale.
Se l’acronimo Onu sta per organizzazione delle nazioni unite, e non nell’organizzazione dei popoli uniti, un motivo ci sarà. La forma nazionale è l’unica che ancora oggi individua e garantisce concretamente i diritti dei popoli in relazione agli altri popoli e alle sovrastrutture istituzionali. Passassero le inventive no-borderline di certa intellighenzia, salterebbe la funzione – già in affanno – del Palazzo di Vetro e delle sue protesi.
Ancora però non siamo arrivati al vero nodo della questione. Perché, se razzista è chi crede il proprio “ceppo” superiore agli altri, siamo davvero fuori strada. Gli Italiani non hanno di se stessi questa presunzione, semmai il contrario. Una volta si sarebbe parlato di santi-poeti-e-navigatori. Oggi, invece, resta l’ombra sbiadita di un popolo sfiduciato, stanco, questo sì. Arrabbiato con la propria classe dirigente, che sulla questione migranti (come in altre) non è riuscita a dire tutta la verità: che è un fenomeno quasi mai privo di complicazioni. Non esiste grande nazione, a partire dagli Usa, che non è stata scossa da profondi attriti di classe e razza connesse alle migrazioni.
L’Italia oggi è attraversata da profonde incertezze e se è sbagliato riversare sacche di frustrazione sui più deboli, è altrettanto grave dipingere una nazione razzista sol perché fa comodo al coro dei benpensanti e ai loro conati. La presunta superiorità morale di certe élite – stando allo schema già proposto sopra – crea discriminazioni ben più gravi: ma non in senso razziale, ma verticale. Si può essere violenti (cosa che si condanna a prescindere) e si può essere anche “aggressivi passivi”. Fare i buoni scatenando, per reazione, i pruriti più abietti di chi sta in basso, non può valere come alibi. Non per sempre, almeno. Se il razzismo è di per sé un male sine glossa, il razzismo antirazzista di matrice ideologica, è un virus assai più ambiguo e sospetto.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

L’Italia nel vuoto, il vuoto d’Italia. L’azione internazionale nella stagione del ritorno degli interessi nazionali: geopolitica, economia, sicurezza

L’evento è stato organizzato in collaborazione con il Center for Near Abroad Strategic Studies

Sono intervenuti: Paolo Quercia (direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies), Adolfo Urso (presidente della Fondazione Farefuturo), Alberto Negri (giornalista de Il Sole 24 Ore), Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Guido Crosetto (presidente dell’AIAD), Carlo Jean (professore), Gabriele Checchia (ambasciatore), Raffaele De Lutio (ministro plenipotenziario).

Israele, bene Trump. Italia non pervenuta

Il 29 novembre 2012 l’ONU, mediante la risoluzione 67/19 adottata dall’Assemblea generale con 138 sì, 9 no e 41 astenuti, ha cambiato lo status della Palestina da «entità non statuale» a «Paese osservatore permanente non membro», equivalente in sostanza a quello dello Stato della Città del Vaticano. Allora, sia gli Stati Uniti che Israele espressero un voto contrario, e il segretario di Stato Hillary Clinton usò parole particolarmente dure: «La risoluzione non sancisce la nascita dello Stato palestinese ed è controproducente per il principio di due popoli e due Stati». Il 17 dicembre 2014 il Parlamento europeo ha approvato a grande maggioranza – 498 favorevoli, 88 contrari, 111 astenuti – una risoluzione che «sostiene il riconoscimento in linea di principio dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati, e ritiene che ciò debba andare di pari passo con lo sviluppo dei colloqui di pace che occorre far avanzare». Il 2 maggio 2017 l’UNESCO ha approvato – 20 favorevoli, 10 contrari e 23 astenuti – una risoluzione che definisce Israele «potenza occupante» e che nega i legami fra l’ebraismo e la Città vecchia di Gerusalemme. Con un’ulteriore risoluzione del 7 luglio 2017 – approvata con 12 voti favorevoli, 3 contrari e 6 astenuti – l’UNESCO riconosce la Tomba dei Patriarchi ad Hebron, in Cisgiordania, come «sito palestinese» del Patrimonio Mondiale: la Città vecchia di Hebron e la Tomba dei Patriarchi diventano «siti palestinesi» e si evidenzia «il loro essere in pericolo».
Veniamo ai giorni nostri. Il 23 ottobre 1995, il Congresso degli Stati Uniti approva una legge che prevede lo spostamento dell’Ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. L’atto prevede una clausola in base alla quale il presidente può rinviare l’attuazione della legge ogni sei mesi per ragioni di sicurezza nazionale. Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama hanno firmato questa deroga ogni sei mesi. Donald Trump, il primo giugno scorso, ha seguito l’esempio dei suoi predecessori, ma ha recentemente annunciato – qui il discorso integrale in italiano – di voler prendere un’altra strada. «Ho stabilito che è tempo di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale d’Israele. […] Israele è una nazione sovrana con il diritto, come ogni altra nazione sovrana, di determinare la propria capitale. Riconoscere questo come un fatto è una condizione necessaria per raggiungere la pace. […] Voglio anche chiarire un punto: questa decisione non intende in alcun modo riflettere un allontanamento dal nostro forte impegno per facilitare un accordo di pace duraturo. Vogliamo un accordo che sia molto importante per gli israeliani e molto per i palestinesi. […] Gli Stati Uniti potrebbero sostenere una soluzione a due Stati se concordata da entrambe le parti».
Apriti cielo. Nell’epoca delle fake news, i fake media si sono messi subito al lavoro: e hanno mostrato, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che la politica dei due pesi e due misure verso Israele va ancora di moda, sia sulla carta stampata che in politica internazionale. E allora ecco che Trump viene dipinto come un pazzo che condurrà il mondo alla terza guerra mondiale, come un incendiario che vuole destabilizzare il Medio Oriente. Tuttavia quando l’ONU, l’UNESCO e altre organizzazioni internazionali prendevano metaforicamente a ceffoni Israele con le loro risoluzioni provocatorie, nessuno considerava tali atti destabilizzanti per il Medio Oriente: cento risoluzioni pro-Palestina meritano a priori scroscianti applausi, mentre un atto pro-Israele è un irreparabile danno alla pace e un’offesa da lavare con una nuova intifada. Trump, con la sua storica decisione, ha voluto cambiare marcia ad una politica estera americana ormai da tempo ammuffita nei confronti di Israele – senza tuttavia rinunciare all’impegno di lavorare per il dialogo – e ha stanato l’ipocrisia della comunità internazionale, preoccupata solo di non turbare la suscettibilità palestinese e dei Paesi arabi fingendo che vi sia un fantomatico “processo di pace” da salvaguardare. Il mantra “due popoli due Stati”, che ora viene rilanciato da tutte le cancellerie europee, in questi anni è stato solo una mera – e comoda – dichiarazione d’intenti, e di certo la decisione di Trump non mette in pericolo alcun accordo epocale dietro l’angolo.
E l’Italia? Non pervenuta. Il nostro ministro degli Esteri è troppo impegnato nell’annunciare urbi et orbi la sua volontà di non ricandidarsi – una notizia che senza dubbio lascerà sgomente le diplomazie europee – per occuparsi di Gerusalemme. Nella scacchiera medio-orientale così come a Bruxelles, l’Italia gioca ormai solo di rimessa, abituata alla mediocrità. Priva di ogni ruolo nel Mediterraneo, balbuziente con l’Unione Europea, guardiamo da spettatori Francia, Turchia, Germania, Russia tessere le fila dei propri interessi.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta