Questo saggio di Giampiero Massolo, ambasciatore, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo
Nel nostro Paese, per motivi storici e culturali, ci si riferisce spesso con pudore e cautela al tema dell’interesse nazionale. Oggi, peraltro, esso è tornato di attualità in quanto fattore qualificante dello «stare al mondo», un requisito necessario per il bene della collettività. L’impatto di una crisi grave e inattesa, come quella dovuta alla pandemia da Covid19, riassume in sé molti aspetti caratterizzanti: una minaccia nuova, immateriale e asimmetrica, che mette alla prova assetti e alleanze, così come la nostra coerenza nel farne parte; che comporta la necessità di conciliare l’emergenza sanitaria con quella economicosociale; l’opportunità di tutelare asset strategici potenzialmente in posizione di minore forza da appetiti stranieri. L’urgenza di definire e difendere l’interesse nazionale si ripropone, quindi, viepiù oggi con grande evidenza. Cresce coerentemente l’esigenza di formulare politiche improntate all’interesse nazionale, fra tutte il primato spetta alla politica estera. Sembra evidente che quest’ultima risponda all’interesse nazionale per sua stessa natura, ma in realtà, perché ciò accada, è necessaria una chiara definizione degli ambiti verso i quali prioritariamente ci si intende rivolgere, come necessaria appare una coscienza dei limiti, una disponibilità di strumenti e, soprattutto, l’attitudine a usarli per assumersi responsabilità in proprio.
Non sempre accade. È intuitivo constatare che l’interesse nazionale consiste in un esercizio di sintesi. Non vi è un interesse nazionale aprioristico, ma una sommatoria di fattori che spetta ai Governi sintetizzare. E di tale potere di sintesi essi sono responsabili, poiché nell’esercitarlo definiscono priorità e operano scelte. Queste scelte trovano la propria verifica politica nei parlamenti e, in definitiva la propria sanzione, nel voto dei cittadini. Torna qui il tema della difficoltà nel definire il proprio interesse nazionale, in qualche modo correlata alla poco assidua attenzione per le cose del mondo e alla spesso non profilata sensibilità dei cittadini. Anche da noi. È difficile quindi che i governi si sentano responsabili in via prioritaria su questi specifici temi. I governi si muovono comprensibilmente alla ricerca del consenso e sembrano dare spesso per scontato il peso relativo della politica estera e delle aspettative dell’opinione pubblica al riguardo. Oggi questo trend è in qualche inversione, anche a seguito della progressiva presa di coscienza dell’impatto che hanno sui nostri destini avvenimenti fuori dai confini nazionali (paradigmatici il conflitto libico, come i flussi migratori o il drastico passaggio della crisi finanziaria del 2008 e seguenti). E ancora, la pandemia che ha colpito il mondo ha accentuato drammaticamente la presa di coscienza.
D’altra parte il nostro Paese (e i suoi cittadini) deve tenere conto della realtà nella quale è chiamato a operare, inserito com’è in un sistema di relazioni internazionali, su un campo di gioco, ove competono e si confrontano diversi interessi nazionali. È difficile perseguire il proprio, senza essere vigili ai cambiamenti dello scenario globale. Perché questo accade in misura crescente? Conta sotto questo profilo, la rapida evoluzione del contesto internazionale in questi anni. Anzitutto, il contesto internazionale in cui si muovono gli Stati è ormai privo di «ombrelli protettivi». Il progressivo declino del multilateralismo, l’allentamento del carattere valoriale delle alleanze ha indotto una diluizione della differenza fra la nozione di partner e di alleato. Insomma, oggi il mondo è sempre più un mondo di competitors nel quale ancoraggi tradizionali come la Nato, la stessa Ue, l’Onu sembrano attenuarsi come mezzi di legittimazione dell’attività internazionale. In secondo luogo, sono mutati gli attori. Non è chiaro se si stia marciando a tappe forzate verso un nuovo «condominio bipolare» sino-statunitense. È ancora presto per dirlo. Ciò che è incontrovertibile, tuttavia, è che l’ordine mondiale liberale come l’abbiamo conosciuto, basato sulla primazia dell’Occidente, sul libero mercato e sui valori della democrazia rappresentativa è venuto meno e difficilmente potrà riproporsi almeno nella sua forma originaria. Siamo come «in mezzo al guado», perché se è vero che il condominio sino-americano sembra intravedersi, ci troviamo ancora in una fase fluida, di «recessione geopolitica», si potrebbe dire in uno stato di «G Zero». Senza un protagonista unico riconosciuto e senza regole universali. Al tempo stesso, si affollano nel mondo odierno molti nuovi attori essenzialmente non statali: grandi aziende, individui, Ong, terrorismo jihadista, le «piazze» (da non sottovalutarne l’impatto sul panorama internazionale).
A medio termine, dunque, non sembra alle viste un ritorno alla logica della cooperazione, una volta affermatasi quella di potenza che sempre più connota le relazioni internazionali. La logica «transazionale» promossa in primis – ma non solo – anche dall’amministrazione americana tende a prevalere al momento («pesi» e sei mio alleato non in nome di un valore fondante della nostra alleanza, ma per ciò che puoi darmi). Anche la risposta internazionale alla pandemia ne ha risentito: il mondo è apparso molto più diviso rispetto, ad esempio, alla reazione alla crisi finanziaria del 2008/2009. Attenzione meritano poi le crescenti forme di influenza extra-statuali, la cui dirompente portata è esemplificata da quella della cibernetica.
È vero che non siamo nuovi all’esperienza di diverse forme di influenza, ma oggi questa è così pervasiva, penetrante da rappresentare una minaccia straordinaria. Se da un lato ciò non può far concludere che ogni appuntamento elettorale in una democrazia rappresentativa sia falsato, dall’altro comporta una mutazione del sistema delle relazioni internazionali e implica la necessità di assumere opportune contromisure a propria difesa. Se questo è il mondo di oggi con le sue prospettive di medio termine, come può modellarsi una politica basata sull’interesse nazionale date le circostanze? Ogni governo, che voglia fare l’interesse dei propri cittadini deve intanto abituarsi a navigare in mare aperto senza dare per scontate più di tanto amicizie e inimicizie, identificando chiaramente il proprio interesse nazionale, dandosi un sistema decisionale efficiente, assumendo sempre più responsabilità in proprio senza pensare di poterle troppo delegare agli organismi multilaterali. E se l’autorevolezza e la solidità delle organizzazioni internazionali dipende dall’autorevolezza e solidità dei loro Stati membri, si può concludere che Stati forti e autorevoli rafforzerebbero il multilateralismo oggi in crisi. Rafforzare le capacità, all’occorrenza, di poter decidere in proprio è cruciale. Accrescere poi la partecipazione delle proprie opinioni pubbliche. L’opinione pubblica non può entrare in gioco solo come macchina di consenso (e di voti), ma deve contribuire, in modo informato, ai processi decisionali responsabilizzando i propri rappresentanti. Far crescere consapevolezza e responsabilità è essenziale. Ricercare i partner e alleati con i quali compiere percorsi comuni, distinguendo gli uni dagli altri. Con i primi entrano in gioco gli interessi, che a volte possono coincidere e indurre a compiere un tratto di strada insieme, con i secondi sono i valori (non sempre gli interessi contingenti) a fungere da collante. La capacità di discernere è decisiva. Rilanciare infine il multilateralismo è centrale, specie per un Paese come il nostro e più in generale per i Paesi Europei.
Per superarne la crisi oggi bisogna partire con un approccio bottom up, dagli interessi concreti, promossi da coalizioni di Paesi che intendano compiere lo stesso percorso, per dirigersi auspicabilmente nella medesima direzione. In un mondo «multi-concettuale» diventa allora prioritario ricercare temi unificanti e fra tutti quelli della sicurezza cibernetica e dei cambiamenti climatici sembrano i più adatti a lanciare un simile esperimento. Lavorare insieme tra Stati «willing», senza troppi distinguo, ricostruendo la dimensione multilaterale, è la prospettiva di speranza per il futuro. Ma se non accadesse, non potremmo evitare di assumerci le nostre responsabilità. Meglio prepararsi per tempo.
*Giampiero Massolo, presidente ISPI, ambasciatore