L’Occidente e il valore delle libertà

La morte a 84 anni di Madeleine Albright giunge in un momento particolarmente complesso per l’Occidente. L’aggressione russa all’Ucraina riporta alla mente ferite mai del tutto rimarginate che hanno messo a dura prova l’apparato valoriale su cui si fondano le nostre democrazie liberali. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, quando l’appartenenza ad uno dei due blocchi si configurava come scelta obbligata e spesso oltremodo sofferta, perché indipendente dalla volontà dei popoli, la libertà di autodeterminarsi degli stati nazionali è stato il sentimento distintivo che più ha contribuito allo sgretolamento dell’Unione Sovietica. Questo concetto, apparentemente messo da parte, riemerge con tutte le sue contraddizioni e pone davanti ad un bivio l’Occidente, che mai nella sua storia è stato percorso da dubbi tali da rischiare di pregiudicarne il futuro.

Oggi sappiamo con certezza quanto la negazione delle legittime aspirazioni dell’uomo, come individuo e collettività, sia la più soffocante tra le forme di autoritarismo. Madeleine Albright, nei suoi anni da Segretario di Stato, ha dato prova di saper riconoscere quando la cappa opprimente dei regimi in crisi si trasforma nel pretesto per perpetrare i peggiori crimini, rivendicando il diritto all’impunità in nome di una particolare declinazione della legge del più forte. Oggi la Russia, vestiti i panni consunti della desueta eredità imperiale, mostra al mondo di non voler accettare il fallimento del proprio modello politico, erede mancato di uno altrettanto rovinoso e rivendica il diritto di decidere in nome e per conto di una nazione sovrana che non considera tale, un tempo persino sua “vassalla”, nella più totale indifferenza dei cambiamenti intercorsi dal crollo dell’Unione sovietica e delle aspirazioni del popolo ucraino.

Intendiamoci, spesso siamo noi occidentali a dare per scontata la natura stessa delle nostre istituzioni, delle quali mostriamo sempre più spesso di non apprezzarne la vetusta “normalità”, a cui però non abbiamo faticato ad abituarci. Non deve sfuggirci che quello stesso modello che viene criticato ingiustamente conserva una fortissima carica di attrattività, tanto più per chi non ha mai potuto beneficiare delle condizioni favorevoli in cui l’Europa è stata imbevuta, con la forza, dopo anni di conflitti.  Per qualcuno quindi, sarà sempre più facile ritenere che quella ucraina sia una pia illusione e che in ogni caso la collocazione geografica prevale su quella valoriale, dimenticando che quest’ultima, a differenza della prima, può pur cambiare. Anche per Croazia e Bosnia prima e Kosovo poi, si è dibattuto in Europa su una bizzarra forma di tacita accettazione delle aggressioni militari a danni di popolazioni inermi, un tempo facenti parte della ex Iugoslavia. Madeleine Albright ha dimostrato ai teorici della legge del più forte, che questa deve essere applicata sino in fondo, e non ipocritamente confinata alle dimensioni regionali di un’aggressione militare. Un concetto oggi più che mai valido, quando strani spiriti pacifisti manifestano la contrarietà all’invio di armi all’Ucraina, un modo vigliacco e pilatesco per consegnarla ipocritamente al proprio destino di vittima.

Oggi la Slovenia e la Croazia in poco più di vent’anni sono transitati a livelli di benessere mai sperimentati durante il lungo regime titino. Entrambe sono pienamente integrate nell’Unione Europea sia da un punto di vista valoriale che economico, se l’Occidente non avesse sostenuto a livello politico la volontà di affrancarsi da un regime ingombrante sulla via del tramonto, oggi non avremmo potuto dire lo stesso. In alcuni casi però, come quello del Kosovo, solo il supporto militare ha potuto scongiurare conseguenze simili a quelle della Bosnia, dove una sterile no fly zone non impedì all’ allora Repubblica Serba, capitanata da un personaggio tristemente noto come Radovan Karadzic, di portare avanti una lunga operazione di pulizia etnica. Senza l’intervento NATO in Kosovo avremmo potuto commemorare i morti della violenza prevaricatrice, a cui solo i bombardamenti hanno posto fine.

Sino a che punto è lecito rispondere con una forza soverchiante ad una che si pone in modo altrettanto schiacciante nei confronti della sua vittima designata ? Ben inteso, non è questo il caso dell’Ucraina, che ha dimostrato di resistere contro una potenza nucleare ben più di quanto noi Occidentali avessimo pronosticato, non solo grazie alle informazioni dei satelliti spia e alle armi leggere che giustamente affluiscono alle forze di Kiev. Il popolo ucraino appare ben più motivato e convinto delle proprie scelte e l’aggressione Russa, che è invece immotivata tanto quanto lo sono i suoi giovani coscritti sbandati, è destinata al fallimento anche sul piano tattico e non più solo su quello strategico.

L’occidente, che appare assalito dai sensi di colpa di un passato non troppo lontano, si percepisce come una civiltà in declino, ignorando però che sono gli imperi sulla via del tramonto che hanno bisogno di ricorrere alla violenza per riaffermare la propria primazia valoriale sui propri vicini. Se il modello del capitalismo democratico di ispirazione americana fosse un punto di arrivo di cui vergognarsi, non si comprende come mai la sua attrattività dopo un secolo sia intonsa e il complesso valoriale sotteso alla libertà economica e civile continui a rappresentare il faro per quei paesi che rivendicano il diritto di salire sul treno del progresso e delle libertà, come li intendiamo non senza le naturali contraddizioni negli Stati Uniti e in Europa.

È chiaro che queste aspirazioni utopistiche si scontrano con difficoltà spesso insormontabili: il Kosovo ancora oggi vive una condizione ibrida di tensione etnica e politica, molti paesi dell’ex Patto di Varsavia sono democrazie tutt’altro che mature come nel caso dell’Ungheria e della Polonia, Romania e Bulgaria d’altro canto rimangono ben lontane dagli standard di vita occidentali. La distanza che spesso intercorre tra le legittime aspirazioni e la capacità di realizzare gli obiettivi spesso è incolmabile, soprattutto quando si abbraccia un sistema politico ed economico radicalmente diverso da quello passato.

Calare un modello “di importazione” in una realtà con la propria identità nazionale senza rispettarne le singolarità, sconta diversi ostacoli che l’Occidente ha sperimentano rimediando concenti delusioni in Medio Oriente o creando inutili divisioni non rimarginate come in Nord Africa, dove semmai ci fossero vincitori non sono Europei. Le difficoltà però, se razionalmente ponderate, non devono essere addotte come ragioni che ostano ai grandi cambiamenti che ciclicamente la storia ripropone, tantopiù quando non sono indotte dall’esterno.

Se la volontà di autodeterminarsi nasce dalla rinata consapevolezza di un popolo sul suo collocamento storico, è giusto sostenerla sino in fondo. Non basta quindi neutralizzare le forze attaccanti come in Kosovo o fornire armi e supporto logistico come nell’Ucraina. Chi crede realmente nei valori dell’Occidente deve essere disposto a difenderli e promuoverli anche cessate le ostilità, con la stessa convinzione che porta i sostenitori del “capitalismo autoritario” alla Cinese a decantarne l’indubbio pregio di aver sottratto alla povertà un miliardo di contadini, ignorando però che questo ha avuto come prezzo il loro assoggettamento ad un regime leviatanico, a cui piace essere temuto più per la sua presunta efficienza che per le numerose crepe che l’Occidente in crisi di autostima finge di non vedere.

La competizione tra regimi che ha contraddistinto mezzo secolo di storia è destinata a tornare in auge, se gli Stati Uniti e l’Europa non riacquisteranno la necessaria consapevolezza sul proprio passato non sarà possibile difendere ad armi pari le vere istituzioni repubblicane, in patria e all’estero. Il Kosovo e l’Ucraina a suo modo rappresentano due esempi di affrancamento etnico e politico che il tempo ha potuto in parte attutire e che derivano da una nuova consapevolezza delle proprie capacità di autodeterminarsi. Sostenere un simile processo contro l’inevitabile reazione di paesi in declino permetterà di riacquisire fiducia anche nel nostro avvenire con una rinnovata unità di intenti.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

False le accuse di Putin alla Nato

A fronte delle immagini di morte e desolazione che quotidianamente ci giungono dall’Ucraina  ( “la dove fanno  il deserto la chiamano pace ”, scriveva Tacito circa duemila anni fa……)  numerosi commentatori  continuano a sforzarsi  di accreditare la tesi secondo la quale la brutale invasione russa della limitrofa Repubblica  altro non sarebbe che una dopo tutto comprensibile risposta da parte del Cremlino alla minaccia esistenziale che avrebbe potuto costituire per la Federazione Russa un ingresso di Kiev nella NATO, nonché l’installazione a poche centinaia di km dalle proprie frontiere di missili con testata nucleare ( sviluppi ambedue dati naturalmente  per prossimi e scontati … dalla propaganda di Mosca ). Si cerca in sostanza di far passare la narrativa ( una sorta di nuovo e pervasivo “senso comune” nell’accezione gramsciana del termine) in base alla quale non vi sarebbe un Paese aggressore ( la Russia di Putin) e uno aggredito ( l’Ucraina ) quanto , piuttosto, una Russia per così dire obbligata a difendersi da un’ Ucraina in mano a “nazisti” ( costante è il richiamo di Putin alla necessità di “denazificare “ il vicino Paese ) e , di fatto, base avanzata delle mire statunitensi e della Alleanza Atlantica su quello che la Russia ( grande, si badi, circa 28 volte l’Ucraina) rappresenta in termini di territorio, risorse e patrimonio spirituale.

Senza addentrarsi in riflessioni di più ampia natura – che pur meriterebbero di essere svolte, ma non è questa la sede- sul retroterra storico e culturale della narrativa putiniana ( nonché sui suoi evidenti obiettivi propagandistici e di ricerca di consenso interno, ma le coraggiose manifestazioni di protesta contro l’”operazione speciale” in Ucraina che continuano a registrarsi  in varie città della Russia mi portano a credere  e sperare… che tale scommessa del regime potrebbe rivelarsi sbagliata) vorrei qui limitarmi a illustrare perché le asserzioni del nuovo Zar nel senso che ho sopra descritto sono ben lontane dalla realtà e , in quanto tali,   fuorvianti. La prima considerazione che mi sento di svolgere – a smentita della affermazione secondo la quale, a partire dalla fine dell’URSS, le aspettative di Mosca di essere coinvolta in un dialogo serio con l’Occidente  sull’architettura di sicurezza europea sarebbero state sistematicamente disattese da parte nostra – è quella che ha tratto a quel documento fondamentale nella storia delle relazioni tra l’Alleanza e la Russia post- sovietica  ( frutto di lunghi e dettagliati negoziati tra la Federazione Russa e la NATO e, non casualmente, quasi mai menzionato da quanti desiderano alimentare invece la percezione di una Russia scientemente  marginalizzata dai vincitori della “guerra fredda”) che è il “NATO- Russia Founding Act”. Si tratta di documento di ampio respiro e di forte valenza politica firmato, in occasione del Vertice alleato di Parigi del maggio 1997, da Eltsin e dall’allora Segretario Generale dell’Alleanza, Javier Solana . La prima sezione  del testo precisa, non a caso, i principii stessi che dovranno, da quel momento in poi, improntare il divenire delle relazioni tra la NATO e la Russia.

Tali principii ( al lettore valutare se la parte russa li stia o meno rispettando….. ) includono tra l’altro  “ l’ impegno  a conformare la propria condotta alle norme del diritto internazionale come riflesse nella Carta delle Nazioni Unite e nei Documenti dell’OSCE “ così come altri ,più espliciti, quali quelli del “ rispetto della sovranità degli Stati e della loro indipendenza, oltre che del diritto di questi ultimi a scegliere le modalità più idonee a garantire la propria sicurezza”. A ciò si aggiunge l’impegno delle Parti “ a rafforzare l’OSCE al fine di creare uno spazio comune di sicurezza e stabilità in Europa”.

La mia seconda riflessione – a smentita della tesi sostenuta da Putin secondo la quale non esisterebbe e non sarebbero mai esistiti un’identità  e, tanto meno, un popolo ucraino distinto da quello russo – riguarda ( ma è solo uno tra i tanti Documenti internazionali di analoga valenza che si potrebbero citare)  il “Memorandum di Budapest “ del 5 dicembre 1994. L’accordo cioè con il quale Mosca –  in cambio della cessione alla Federazione Russa da parte di Kiev, ai fini del successivo smantellamento, dell’imponente arsenale nucleare ereditato dall’Unione Sovietica, e dell’adesione ucraina al Trattato di non-proliferazione (TNP) come poi puntualmente avvenuto – si impegna insieme con Stati Uniti e Regno Unito ( Stati ai quali si sono poi aggiunti , sempre come “potenze garanti”, Francia e Cina) : a) a “ rispettare l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina ; b)    “ astenersi da qualsiasi minaccia o uso della forza contro l’Ucraina”, c) “ astenersi dall’esercitare pressione economica sull’ Ucraina per influenzarne la politica”.  Inoltre – e vengo, come terzo punto,  alla “minaccia esistenziale” che rappresenterebbe per la Russia, sempre secondo Putin e quelle alte sfere militari , un ingresso dell’Ucraina nella NATO ( questione peraltro  che , a parte le generiche aperture di cui alle Conclusioni del Vertice di Bucarest dell’ormai lontano 2008, non è mai stata veramente sul tavolo del Consiglio Atlantico ) –  mi sembra doveroso  ricordare che la  NATO è sorta  come alleanza squisitamente difensiva e , come tale, si è comportata in ogni occasione nel corso della sua ormai più che settantennale storia.  Negli ultimi 30 anni poi l’Alleanza ha sempre cercato un dialogo costruttivo con Mosca.

Nel 2002, con lo storico vertice di Pratica di Mare , è stato ad esempio avviato un nuovo organismo di dialogo a tutto campo con Mosca : il Consiglio NATO- Russia che conferiva al  rappresentante russo, seduto allo stesso Tavolo degli Ambasciatori dei Paesi NATO ,  un livello paritetico con quello dei membri dell’Alleanza nella discussione dei più rilevanti temi securitari e geo-politici di interesse comune . Aggiungo che la collaborazione NATO- Russia è proseguita anche durante i più recenti periodi di allargamento verso est dell’Alleanza , senza particolari recriminazioni da parte russa. L’Alleanza ha correttamente ritenuto di dover sospendere tale interazione pratica con la Federazione Russa solo nel 2014, in risposta all’illegale annessione da parte di quel Paese della Crimea. Ma le riunioni, sempre su iniziativa della NATO, sono riprese a Bruxelles  nel 2016, proseguendo nei tre anni successivi e sino a poche settimane fa. L’ultima ha avuto luogo il 12 gennaio del corrente anno. E’ stato del resto solo in risposta alle azioni militari russe in Crimea e nel Donbass che, dal 2016, la NATO ha dispiegato in Polonia e nei tre Paesi baltici  – su richiesta, dunque,  di Alleati che comprensibilmente si sentivano  minacciati- 4 Batllegroup multi- nazionali (  su base peraltro non permanente ma- come convenuto nel “ Founding Act” –  di periodiche rotazioni ), mentre sino ad allora non vi erano  unità della NATO schierate sul confine orientale dell’Alleanza. Inoltre , anche dopo la crisi del 2014, la NATO ha sempre tenuto ad affiancare alle misure di difesa e deterrenza un’apertura al dialogo con Mosca , anche al di fuori del Consiglio NATO- Russia, come rilevabile del resto dalle Conclusioni dei più recenti vertici dell’Alleanza : dal 2016 ( Vertice di Varsavia ) a oggi. Il Segretario Generale Stoltenberg  ha invitato anche recentemente le controparti russe – ovviamente prima del brutale attacco all’Ucraina – a una seria  di incontri sulla sicurezza europea anche per discutere , in buona fede, delle preoccupazioni di Mosca in materia. Mi sembra dunque evidente che mentre l’Alleanza si confrontava in buona fede con Mosca , quella dirigenza già stava pianificando un’ingiustificata e ingiustificabile invasione dell’Ucraina. E’ dunque la Russia , e non la NATO, a essersi rivelata non interessata a un dialogo serio con l’Alleanza.

Da ultimo, a conferma della linearità del comportamento dell’Alleanza nei confronti di Mosca, va rilevato che il rispetto degli impegni dalla stessa assunti  ha riguardato anche la questione del dispiegamento di armi nucleari sul territorio dei nuovi membri. In sostanza – a smentita  questa volta delle ricorrenti  affermazioni di Putin circa i gravi pericoli che un ulteriore allargamento della NATO farebbe gravare sul suo Paese sotto tale profilo –  nessuno può contestare che gli Alleati hanno dato, e stanno continuando a dare piena attuazione , al relativo passaggio del “Founding Act” : “ Gli Alleati ribadiscono il loro statement del 10 dicembre 1996  in base al quale essi non hanno intenzione né vedono ragione di di dispiegare armi nucleari sul territorio dei nuovi Stati membri , né di modificare la postura o la politica nucleare dell’ Alleanza”. Tutto questo – merita sottolineare –   a fronte della presenza, invece, di missili “dual use….”  a medio e corto raggio nella exclave russa di Kaliningrad : nel cuore cioè del dispositivo NATO in Europa , a ridosso della Polonia e degli stati baltici . Paesi piccoli per dimensione, ma grandi per il coraggio  mostrato nel corso della loro travagliata storia e per il loro senso di identità, nei confronti dei quali Putin sta inviando segnali decisamente inquietanti :  a cominciare dall’esplicito sostegno da lui fornito lo scorso 4 marzo all’aspirazione “ dell’amica Bielorussia” di disporre di un accesso al Mar Baltico.

In conclusione  – e per riprendere la felice formulazione di un recente editoriale sul Corriere  della Sera del Professor Galli della Loggia –  “ La storia della NATO ( NdR: quale fattore alla base dell’aggressione russa all’Ucraina ) è un puro pretesto . L’Ucraina attuale va spenta perché da il cattivo esempio, perché Putin deve dimostrare alla sua opinione pubblica che l’unico destino possibile per la Russia è quello che lui incarna . Che dopo il comunismo la storia della Russia non prevede che possa esserci la libertà”.  Sono parole nelle quali pienamente mi riconosco pur senza rinunziare a sperare che possa trattarsi di previsione destinata a essere smentita dai fatti. Perché ciò avvenga è però indispensabile che la solidità del “vincolo transatlantico” emerso con tanta evidenza sin dai primi giorni della drammatica crisi in atto ai confini orientali del perimetro dell’Alleanza  si mantenga e , se possibile, ancor più si rafforzi a fronte della  sfida lanciata da parte russa non solo alla coraggiosa e libera Ucraina  ma anche all’insieme dei valori intorno ai quali si è costruita, nei secoli, l’identità del nostro continente cosi come quella dei nostri imprescindibili alleati d’oltre-oceano: Canada e Stati Uniti.

*Gabriele Checchia, ambasciatore, responsabile per le  Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

La guerra in Ucraina e la reazione di UE e NATO

Farefuturo, International Republican Institute e Comitato Atlantico Italiano, hanno organizzato un importante convegno il 14 e 15 marzo u.s. su “La crisi ucraina: il ruolo
dell’Alleanza Atlantica e dell’Europa”.Nell’intervenire a nome del Comitato Globale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella, ho svolto alcune considerazioni che ho ulteriormente sviluppato in questo breve articolo per Charta Minuta.

L’imminente tragedia che un potere criminale di matrice nazi-comunista ha scatenato sull’Europa, colpendo l’eroica nazione Ucraina, il suo popolo, la sua identità pluralista e democratica, libera e solidale, deve essere riconosciuta, sentita da ogni europeo: non con giravolte facili e assicurazioni stucchevoli, ma deve essere dimostrata – tale consapevolezza – nei fatti, nei comportamenti, nel riconoscimento delle responsabilità. Anche per discutere di ricostruzione della pace e della sicurezza nel Mediterraneo, specialmente nel Mediterraneo Orientale, dobbiamo riconoscere – prima di avanzare proposte o sottoscrivere impegni – le responsabilità che hanno contribuito a scatenare la bestialità sanguinaria dei carnefici, e a impedire alle vittime di proteggersi e di essere protette.

Dobbiamo riconoscere le responsabilità; e queste sono di tutto l’Occidente: per non aver fermato Putin, con la politica di una vera deterrenza militare, economica, di influenza sino dal primo manifestarsi delle sue ossessioni sanguinarie nella Seconda guerra in Cecenia; e di non averlo mai voluto fare in seguito, nelle tappe di un crescendo sistematico da parte della Russia di Putin di “terra bruciata” in Georgia nel 2008, in Siria nel 2013, in Ucraina (Donbass e Crimea) nel 2014, ed ora nella completa distruzione di un immenso paese, ricchissimo di civiltà di umanità e di risorse.

Siamo, noi europei ed americani, responsabili come e forse più che nel ’38 a Monaco – e dico “che a Monaco” perché ora incombe persino la minaccia di un Olocausto nucleare che Putin brandisce – di una radicata propensione all’”appeasement” a tutti i costi, motivato dagli affari,dalla convenienza, dalla corruzione o semplicemente dalla colpevole ignoranza su quanto avvenuto sugli ultimi vent’anni tra Nato, UE, Russia e Cina.

Ma non basta certo nascondersi dietro a un gesto facile di generico senso di autocommiserazione tipica dell’”intellettualismo” anti-Atlantico purtroppo diffuso in Occidente, per non aver fatto capire come non sia assolutamente vero e si debba cessare di insistere che tutti i mali del mondo, le rivoluzioni totalitarie, gli spaventosi conflitti degli
ultimi due Secoli sono monopolio esclusivo delle Democrazie liberali dell’Occidente, ma piuttosto il netto contrario.

Discutere di pace e stabilità nel Mediterraneo significa ragionare su strategie politiche, economiche e militari, per ottenere equilibri durevoli ricostruendo capacità di una deterrenza credibile dell’Occidente – nel rispetto di norme e principi condivisi – nei confronti della Russia e della Cina, e di altre potenze regionali che sono peraltro sostenute da una visione fondamentalista e messianica nel loro ruolo, come l’Iran.
Occorre liberarsi da pregiudizi, basarsi sulla conoscenza di dati e di uomini, in modo da individuare e condividere i sacrifici da fare e le opportunità per far valere i nostri interessi nazionali. La catastrofe umanitaria, e persino identitaria – e quindi una strategia di genocidio – che il nazi-comunismo di cui è intrisa l’esperienza umana, professionale e ideologica di Putin ha imposto all’Ucraina, esige anzitutto di riconoscere che il prioritario interesse nazionale dell’Italia è di garantire la libertà e la sicurezza in Europa, nella Comunità Atlantica, nell’Indo-Pacifico. A tal fine l’obiettivo politico da perseguire riguarda l’impegno che va oltre la stessa deterrenza militare e si deve trasformare in “deterrenza politica”: attraverso il più fermo contrasto e la coesa risposta all’immenso apparato di disinformazione, di censura esportata, di pesantissima influenza che Putin ha infiltrato ovunque in Occidente, e che continua a infiltrare per incrinare la nostra volontà di risposta. Si tratta di far reagire non pochi settori dell’opinione pubblica, dell’informazione e della politica, che la Russia ha da molto tempo “coltivato” per trovare alleati all’interno delle società liberali. E lo ha fatto per
proseguire impunemente e continuare a trovare risorse – essendo la Russia un gigante militare ma un nano economico sulla soglia del fallimento – per raggiungere i suoi obiettivi criminali,e ora persino genocidari di eliminazione del popolo e dell’identità ucraina.

Nel 2013 l’attuale Capo di Stato Maggiore della Federazione Russa, lanciava la cosiddetta “dottrina Gerasimov” che sosteneva la priorità da riservare ai conflitti con l’Occidente ancor più che allo strumento militare, alla disinformazione, alla propaganda, alla infiltrazione degli strati influenti delle società liberali, per destabilizzarle dall’interno e poterle quindi agevolmente sottomettere. L’anno dopo, nel 2014, la disinformazione di Mosca in Occidentee in Ucraina, su Crimea e Donbass è stata centrale nell’offensiva russa che ha portato all’annessione della prima e a un conflitto con almeno diecimila vittime e già durato otto anni
in Donbass. Non ci vorrebbe certo altro per dimostrare che il primo strumento di difesa di cui disponiamo deve essere inflessibile e dura denuncia di tutti coloro che Putin l’hanno da sempre sostenuto e di quanti ora sostengono di fatto, esplicitamente o implicitamente, il “Patto d’Acciaio del XXI Secolo” tra Mosca e Pechino. La denuncia non può ignorare tutti quelli che avendo giustificato e propagandato velenosamente le sue buone ragioni di Putin persino dopo che i 180.000 militari russi erano già al confine ucraino per invadere il Paese, appaiono disposti, o interessati, a continuare a farlo, continuando ad applicare la “dottrina Gerasimov” per minare
le società liberali dall’interno. Persone, enti di ricerca, media, ambienti di “intellettuali” che magari ora restano zitti o fingono di essersi improvvisamente svegliati dinanzi al genocidio ucraino, ma che sono sempre pronti e disponibili – come numerosi tedeschi nella Germania Orientale che collaboravano con la Stasi – a ridare fiato ai loro megafoni appena i primi segni di stanchezza o di insofferenza verso il perdurare del conflitto, dovesse acuirsi in seno alla Nato e all’UE.

A tale mondo appartengono purtroppo enti di ricerca che, come durante la Guerra Fredda sceglievano il campo sovietico sotto la bandiera del “pacifismo” e del “neutralismo”, hanno continuato a tirare la volata alla propaganda del Cremlino quando già da almeno quattro mesi era dimostrato un gigantesco schieramento di forze russe sui confini ucraini. E’ il caso emerso, ad esempio, con la pubblicazione il 27 gennaio scorso su Charta Minuta dell’appello indirizzato ai Presidenti delle Istituzioni europee, dal think tank francese Geopragma con le tesi ben note della propaganda di Putin, circa le condizioni di una “pacificazione duratura”
nei rapporti tra USA, Nato e Russia. In particolare, si insisteva per il pieno riconoscimento del referendum in Crimea (anche se condannato dall’Onu) e quindi della appartenenza della Crimea allo Stato russo; il “reciproco abbandono di tutte le sanzioni politiche ed economiche” – incluse quelle per l’illegale annessione russa della Crimea, e per il conflitto in Donbass alimentato da Mosca – spingendosi a commentare, come tipico della propaganda russa “L’Occidente si riduce agli Stati Uniti, a un’Europa mentalmente e strategicamente vassalla, a una visione del mondo che da più di 30 anni stenta a metabolizzare le fine della Guerra Fredda”. Come ha scritto il 12 marzo scorso Atlantico ha sottolineato come il pensiero «…“meglio russi che morti” sia il succo del discorso di gran parte dei commentatori in queste settimane
di guerra Ucraina. Man mano che la guerra si prolunga, l’appello per la resa incondizionata degli ucraini si fa più forte e sentito, condito con discorsi terroristici su possibili escalation e guerre nucleari. Per alcuni il problema di questo conflitto è solo uno e si chiama: Zelensky, il Presidente ucraino il cui Paese è stato aggredito. La sua colpa? Resistere ai russi. Più resiste, dicono costoro, più sarà il responsabile delle vittime militari e civili del conflitto. Un pacifismo peloso, mascherato da umanitarismo, ma con la stessa logica dei Borg, razza aliena inventata dagli sceneggiatori di Star Trek: “Assimilatevi, la resistenza è inutile”. Questo pacifismo lo avevamo già visto in azione durante la Guerra Fredda, quando la sinistra di piazza e di opposizione chiedeva il disarmo unilaterale della Nato. Se i sovietici avessero invaso la Germania Ovest, avremmo dovuto accoglierli con i sorrisi e i fiori, se avessimo invece opposto resistenza sovietici avrebbe potuto innervosirsi. E sai, se una potenza nucleare si innervosisce…. La logica è esattamente la stessa: se i russi invadono l’Ucraina, i difensori devono accoglierli con tutti gli onori e guai agli europei se provano a protestare. La Nato non sta intervenendo, l’UE è neutrale, ci limitiamo a mandare armi leggere ed anche la fornitura di vecchi caccia sovietici dalla Polonia viene negata. Al massimo la risposta consiste in sanzioni economiche e una protesta politica all’Onu. Ma per alcuni commentatori, questa reazione pressoché nulla è già da considerarsi un atto di belligeranza. A loro avviso,
dovremmo solo voltarci dall’altra parte. E sorridere. Perché se non sorridiamo, i russi si innervosiscono.

E sai, se i russi si innervosiscono… hai capito, no?”…»

L’aggressione criminale della Russia a un grande popolo libero, che aveva riacquistato la libertà, nel cuore dell’Europa, è un drammatico spartiacque, come era stata la fine della Seconda Guerra Mondiale e la calata della “cortina di ferro”. Ora la cortina non è solo tra libertà e oppressione: è anche tra Diritto, legalità, rispetto dei Diritti umani e Stato di Diritto da un lato; e aggressione, genocidario uso della forza, radicalizzazione ideologica e disprezzo per ogni Trattato o Accordo sottoscritto.

Con l’Ucraina è calata una “cortina di aggressione”, contro l’Europa, nel Mediterraneo in Medio Oriente, sino all’Asia e al Pacifico. La Russia di Putin ne è la protagonista da
quattordici anni. La Cina di Xi Jinping, sua alleata, da dieci anni. Ma ora l’Occidente c’è; è coeso; sta rispondendo. La coesione e risposta devono rafforzarsi.
Spetta a noi. Nato, UE, Indo-Pacifico, Mediterraneo sono le aree geopolitiche dove l’Occidente e i paesi like mindend devono rafforzare la loro strategia, difendere puntualmente i loro interessi nazionali e collettivi, e soprattutto – rendere inoppugnabilmente credibile, e temibile la loro deterrenza: per capacità di “resilience” e di “risposta” economica, tecnologica, militare. In una parola deve accrescersi e mantenersi a livelli sempre più elevati la deterrenza complessiva dei loro sistemi nazionali e delle loro organizzazioni e Alleanze. Per l’Italia, questo significa alimentare la piena consapevolezza dell’opinione pubblica interna e della classe politica, su provenienza, natura, intensità della minaccia: dalla Russia, dalla Cina, e dai loro alleati altrettanto messianici e fondamentalisti come l’Iran.
Il Mediterraneo è il playfield fondamentale per la sicurezza italiana e un playfield essenziale per quella Atlantica. La deterrenza nel Mediterraneo ha acquisito un valore esponenzialmente accresciuto dopo la tragedia Ucraina: la Russia a Tartus e le sue altre basi in Siria; la Cina da Gibuti al Pireo, a Trieste; la Turchia e la Russia in Libia sino al Sahel; l’Alleanza di Russia e Cina con l’Iran anti-israeliano e antisemita; la Turchia a Cipro, in fase di nuova aggressione. Sono tutti termini scomponibili e ricomponibili in pericolose equazioni. Sovrasta su tutto la distruzione del popolo, dello Stato, della identità ucraina da parte di un Presidente criminale, Putin. Sovrastano le minacce sulla nostra sicurezza che sono poste dalle Vie della Seta: veri cavalli di Troia acclamati in Italia perfino da ex Presidenti del Consiglio e Ministri di Governo; ed ora diventate vere e proprie autostrade per il dominio strategico da parte dell’Asse neo-imperialista tra Cina e Russia.

Non vi è infatti una sola “Via della Seta”, terrestre, marittima, scientifica, tecnologica e Cyber che non rappresenti nella sua reale declinazione una “Via della Sottomissione” per i Paesi o i mari da essa attraversati.

Il “Patto di Acciaio del XXI Secolo” tra Putin e Xi, santificato il 4 febbraio scorso, sugella la minaccia militare, oltre che di influenza politica ed economica, delle già osannate “Vie della Seta” che il Governo italiano dell’epoca ha, per primo in Europa, sottoscritto entusiasticamente in occasione della visita di Stato di Xi Jinping a Roma.

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore,  presidente Global Committee for the Rule of Law-Marco Pannella presidente Global Committee for the Rule of Law-Marco Pannella

 

Il Copasir aveva denunciato l’aggressività della Russia

Pubblichiamo il testo dell’intervento del 1° marzo  del senatore Adolfo Urso in occasione del dibattito in Aula sulla posizione dell’Italia sulla guerra in Ucraina

Signor Presidente, intervengo per la prima volta in quest’Aula da quando sono stato eletto Presidente del Copasir, utilizzando il tempo che mi è stato concesso dal mio Gruppo per evidenziare innanzitutto proprio quanto il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica abbia fatto in questi mesi proprio sulle questioni che ora dovremo necessariamente affrontare, in un clima di emergenza sull’onda della guerra nella nostra Europa. Sarà poi il senatore La Russa, in sede dichiarazione di voto, a esporre la posizione del Gruppo.

In questi mesi, con gli altri colleghi del Copasir abbiamo svolto un’intensa attività, come prescrive la legge, in vincolo di segretezza, con indagini, audizioni e analisi di cui abbiamo dato conto in relazioni specifiche al Parlamento – queste sì – pubbliche. In esse abbiamo evidenziato, tra l’altro, con estrema chiarezza proprio la postura aggressiva della Russia, non solo in Ucraina e nell’Europa orientale, ma in ogni area di interesse strategico italiano ed europeo: dai Balcani al Caucaso, dal Mediterraneo al Sahel, secondo una strategia volta al mantenimento della supremazia energetica, al controllo delle materie prime, anche al fine di accerchiare la nostra Europa.

Avevamo segnalato anche cosa stava accadendo in Bielorussia con il referendum costituzionale; le nuove minacce che si alzano in Bosnia e in Kosovo; il rafforzamento del dispositivo militare russo in Siria; la presenza dei mercenari della Wagner in Libia e i golpe militari – sei – nel Sahel, alla frontiera del nostro Mediterraneo allargato, che spianano la strada proprio alla Wagner. Significative peraltro le manovre navali militari congiunte di Russia, Cina e Iran svoltesi in gennaio nel Golfo dell’Oman.

Avevamo anche indicato con chiarezza la necessità di predisporre una vera difesa europea, come ha indicato il Presidente del Consiglio oggi, complementare alla NATO, per aumentare la difesa dell’Alleanza atlantica nel nostro continente e nel Mediterraneo allargato. Tra breve consegneremo la relazione sullo spazio, come fattore geopolitico su cui proprio Italia, sesta potenza spaziale civile al mondo, può giocare un importante ruolo. Difesa e spazio saranno peraltro oggetto delle decisioni che l’Europa dovrà assumere in marzo con lo Strategic compass e il progetto di autonomia strategica spaziale, oggi più che mai necessario. Abbiamo però già evidenziato nella recente relazione annuale come appariva già del tutto inadeguato il progetto di difesa europea, che allo stato prevede una forza di intervento rapido di appena 5.000 militari, quando la sola Italia ha un dispositivo di 9.200 militari in missioni internazionali. Agli asseriti impegni declamati in conseguenza della sciagurata ritirata dall’Afghanistan non è infatti corrisposto un maggiore impiego di risorse; anzi, nel nuovo bilancio europeo le risorse destinate ai diversi progetti di difesa europea sono state di fatto dimezzate.

Ora appare chiaro a tutti che occorre cambiare, perché l’Europa è sotto minaccia e noi sapremo come fare. Proprio per questo il nostro primo pensiero oggi va alla resistenza ucraina, alle famiglie nei rifugi che sui social chiedono aiuto; alle ragazze che confezionano le bottiglie molotov; agli operai che scavano le trincee per rallentare l’avanzata dei carri armati.

Il nostro pensiero va ai giovani che imbracciano un fucile pur non avendo mai fatto il servizio militare, a chi rientra in patria per difendere le proprie famiglie e la propria terra, a un popolo eroico che ha scoperto di essere finalmente una vera Nazione senza distinzione di lingue e di religione, come mai nella propria martoriata storia.  Loro ci ricordano oggi, con il sacrificio della lotta, quali siano i nostri valori, risvegliando loro le nostre coscienze intorpidite. Putin ha fatto un azzardo che ha ottenuto l’effetto di sollevare l’opinione pubblica mondiale, unita come mai si era vista prima. Persino all’interno della stessa Russia c’è chi protesta rischiando il carcere e la repressione. Questa è la prima importante lezione, un monito per chiunque nel mondo pensi che anche la libertà abbia un prezzo, che sia misurabile in rubli, in dollari o in renminbi; un monito a chiunque nel mondo pensi che si possa togliere la libertà senza sollevare la reazione unanime di chi, come noi, crede e vive nella libertà.

La resistenza eroica degli ucraini segna una prima e un dopo nel conflitto globale tra le democrazie occidentali e i sistemi autoritari, un punto di svolta che sarà segnato nel calendario della storia. Quanto accaduto ci deve essere finalmente da lezione per affrontare tematiche che abbiamo da decenni accantonato, come se riguardassero altri, mentre riguardano noi e soprattutto i nostri figli che ne pagheranno il prezzo se non interveniamo subito.

Gli investimenti per la difesa sono certamente necessari, come ha appena fatto la Germania, ma lo sono anche gli investimenti in ricerca, tecnologia, formazione, nell’economia digitale e nell’intelligenza artificiale, nello spazio e nel cyber, per la sovranità energetica e la tutela degli asset strategici, senza cui nessuna autonomia e indipendenza si può più preservare.

Il Copasir ha presentato in questa legislatura sei relazioni tematiche e una relazione annuale in cui ha appunto affrontato ciò di cui oggi si discute. Cari colleghi, nessuna di queste relazioni è stata però ancora esaminata in modo compiuto dal Parlamento, anche se alcuni interventi importanti da noi indicati sono stati poi realizzati, dal sistema della golden power all’Agenzia per la cybersicurezza nazionale che colma un ritardo decennale. Lo stesso destino nel vuoto hanno avuto le altre relazioni presentate nelle precedenti legislature, così come le relazioni annuali della Presidenza del Consiglio. Siamo stati troppo distratti sui temi della sicurezza nazionale, ora occorre prenderne atto. È necessario che si svolga presto una sessione del Parlamento, come abbiamo espressamente chiesto nel nostro documento inviato alle Camere prima che la situazione precipitasse.

Quanto sta accadendo ci fa capire infatti quanto importante sia la sicurezza della Repubblica e quanto ciò debba essere considerato in ogni decisione che prendiamo, anche quando affrontiamo i temi dell’energia o dell’economia digitale, della tecnologia, dell’intelligenza artificiale, dello spazio come dell’acciaio, degli asset infrastrutturali come delle filiere industriali, ben sapendo che i nostri avversari sistemici, cioè i sistemi autoritari, li utilizzano appieno nel loro confronto con le democrazie occidentali. Tutto questo fa parte di quello che viene chiamato guerra ibrida. A tal proposito, abbiamo evidenziato la necessità di disporre di un’intelligence economica al servizio del sistema Italia, che sia proattiva a tutela della scienza e della tecnologia e degli asset produttivi del Paese.

Sì, è vero, le sanzioni stanno producendo i loro effetti devastanti, ma occorre anche fermare le armi, rispondendo alle accorate richieste di aiuto di chi è minacciato nella vita e negli affetti, come stanno facendo persino Paesi che sono stati sempre storicamente neutrali come la Svizzera e la Svezia. Ora è il momento delle scelte di campo per tutti. Certo, anche noi pagheremo i costi delle sanzioni, soprattutto come conseguenza del prezzo dell’energia o – se permettete, cari colleghi – come conseguenza delle nostre scelte energetiche errate che ci hanno resi più vulnerabili di altri partner europei.

Proprio sulla sicurezza energetica abbiamo presentato in gennaio una relazione al Parlamento, in cui abbiamo evidenziato le criticità del sistema e le sue pericolose vulnerabilità, sia a fronte della necessaria transizione ecologica, sia a fronte dell’azione egemonica degli attori statuali. In quella relazione individuavamo già alcune soluzioni che in queste ore sono state oggetto della decretazione d’urgenza e concludevamo come fosse necessario realizzare un piano di sicurezza energetico che riducesse la dipendenza dall’estero e soprattutto dalla Russia, con l’obiettivo dell’indipendenza energetica e dell’autonomia produttiva e tecnologica, in collaborazione con i partner europei occidentali, anche in considerazione dei fattori e dei rischi geopolitici sempre più evidenti già allora.

Nella relazione annuale per la messa in sicurezza della rete cyber. Ieri peraltro l’Agenzia ha lanciato un allarme particolarmente significativo, anche perché la Russia è lo Stato meglio attrezzato al mondo per la guerra cibernetica. Per completare questa linea difensiva abbiamo richiamato la necessità di realizzare al più presto il cloud nazionale della pubblica amministrazione e la rete unica a controllo pubblico.

Cari colleghi, la Russia si è preparata da tempo al confronto con l’Occidente. Sono dieci anni che investe sulle due armi che possiede: le risorse energetiche e le forze armate. Punta al controllo delle materie prime e delle frontiere d’Europa, a sottomettere l’Ucraina oggi, per sottomettere domani le Repubbliche baltiche, la Georgia e la Moldova. Ora tutti sappiamo perché e dobbiamo elevare il livello di difesa, anche a fronte di un mondo in cui emergono altri attori altrettanto aggressivi, innanzitutto la Cina, primaria potenza tecnologica e produttiva, capace, essa sì davvero, di aspirare alla supremazia globale. Non possiamo fuggire dalla storia, però possiamo cambiarla. Con la risoluzione unitaria che voteremo oggi cominci davvero una nuova fase nella vita politica del Paese, che ci veda sempre uniti quando è in gioco la sicurezza della Repubblica e, con essa, i valori fondamentali della nostra civiltà.

*Adolfo Urso, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica

L’ARMA NECESSARIA DELLE SANZIONI E LE SUE CONSEGUENZE

La guerra in terra ucraina continua nonostante gli incontri tenutosi a Brest per negoziare la pace, o per lo meno una duratura tregua dei combattimenti, e siamo ormai tutti a conoscenza della scelta dell’Unione Europea innanzi all’invasione russa, ossia l’imposizione di una serie di sanzioni economiche a partire dal 22 febbraio, giorno in cui Putin comunicò al mondo intero la scelta di riconoscere l’indipendenza delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk. A tanti, anzi tantissimi, compreso il sottoscritto, le sanzioni sembravano l’unico modus operandi che avrebbe evitato un’entrata in guerra di alcuni paesi europei in difesa dell’Ucraina, o peggio la Terza Guerra mondiale con la partecipazione degli Stati Uniti e la NATO tutta. Si tratta di un ampio pacchetto di sanzioni imposte a livello individuale, come quelle rivolte ai membri della Duma russa che hanno votato a favore del riconoscimento suddetto e agli oligarchi vicini a Putin, colpito lui stesso insieme al Ministro degli Esteri Lavrov, ma anche a livello economico, bancario, tecnologico, mediatico e altro. E’ facilmente intuibile dalle parole che emergono in questi ultimissimi giorni da parte dei leader europei, compreso il premier italiano, che il primo pacchetto di sanzioni non rimarrà solo: l’unica arma del mondo occidentale è quella di bloccare i mezzi attraverso i quali la Russia, forse meglio dire la cricca di oligarchi vicina a Putin, aumenta la propria competitività internazionale, quindi in primis tutto l’export degli idrocarburi, che nel 2019 hanno rappresentato il 59% delle esportazioni russe per un totale di 240 miliardi di dollari.

Non possiamo qui elencare tutte le sanzioni, ma alcune meritano una precisa e concreta menzione perché influiscono pesantemente sulla nostra Italia, che, nonostante meritatamente si sia schierata insieme a tutti i paesi europei in difesa dell’indipendenza e della libertà ucraina, è stata una delle più restie a imporre determinate sanzioni, prevalentemente quelle che riguardano il settore energetico. È qui che sorge il vulnus di queste sanzioni per il quale dobbiamo chiederci: l’urgenza delle sanzioni che danno crea all’economia italiana? Le sanzioni europee impongono il divieto di esportazione di beni e tecnologie relativi alla raffinazione del petrolio e hanno introdotto delle restrizioni alla prestazione dei servizi connessi. È inevitabile che l’imposizione del divieto di export di tali materie, uno dei vari fattori dal quale sta conseguendo un aumento del tasso di riferimento della politica monetaria russa dal 9,5% al 20%, ha determinato un aumento dei tassi di interesse imposto dalla Banca Centrale russa. Ciò conduce la Federazione Russa in una grave recessione economica per la quale, secondo Alessandro Terzulli, chief economist di Sace (durante il talk “Ucraina, prove di resistenza” organizzato da ISPI), inevitabilmente il prezzo del gas schizzerà alle stelle, determinando nell’area euro circa -0,25 punti percentuali del PIL.

Guardando esclusivamente a casa nostra, forse siamo il Paese che soffrirà maggiormente dei rincari del costo del gas dato che circa il 45% del nostro fabbisogno energetico è colmato dalle esportazioni russe. Ma se noi importiamo gas, allo stesso tempo esportiamo beni strumentali in Russia, che è il 14esimo mercato di destinazione per il Made in Italy. Contiamo circa 660 imprese italiane in Russia, che si dislocano prevalentemente nei settori agroalimentari, automobilistici e dell’energia. Già la guerra in Crimea causò un declassamento molto grave dell’export italiano perché, come ricordiamo bene, le sanzioni europee non nascono “ieri” e nemmeno “oggi”, bensì si tratta ormai di svariati anni, durante i quali i rapporti economici son caratterizzati da pesanti sanzioni. Tra il 2013 e il 2021 le nostre vendite sul mercato russo hanno accumulato perdite per 24.712 milioni di euro, pari a 3.089 milioni di euro medi all’anno.

Non dimentichiamo tutto l’apporto economico derivante dal turismo russo nelle nostre coste italiane e nelle nostre città: Banca d’Italia sostiene che nel 2019 la spesa dei viaggiatori provenienti dalla terra di Vladimir Putin si aggira attorno ai 984 milioni di euro, vale a dire circa il 2,2% dei circa 44 miliardi spesi dai turisti in Italia. Si vedranno ridotti il proprio lavoro, di conseguenza gli ingressi economici soprattutto nella stagione estiva, i lavoratori italiani impiegati nei porti che ospitavano i lussuosi yacht dei magnati russi, anch’essi destinatari delle sanzioni europee perché vicinissimi a Putin.

Saremmo stolti se dimenticassimo che perdiamo anche gran parte degli effetti positivi derivanti dall’interscambio con l’Ucraina, dove l’export italiano era cresciuto del 20% rispetto al 2019, toccando il valore di poco più di 2 milioni di euro (dati ConfArtigianato 2021). Come abbiamo visto in questi giorni, tanti italiani si sono spostati nelle città ucraine, dove lì hanno ricostruito la propria vita. Chiaramente, i settori dove siam più apprezzati sono quelli che ruotano intorno al comparto alimentare, alla moda, ai mobili, al legno e ai metalli.

Conseguenze positive dalla guerre non ne vedremo, soprattutto data la globalizzazione moderna e del mercato (appunto) globale che viviamo nella nostra epoca. Allo stesso tempo le sanzioni sembrano ai più, e al sottoscritto pure, l’unico mezzo per frenare l’avanzata russa su Kiev a danno dell’indipendenza del popolo ucraino. Putin sa bene che sia i suoi fedelissimi sia il popolo non vivranno effetti positivi degli eventi odierni scaturiti dallo stesso Presidente russo, ma è necessario un distinguo perché a Putin interessa esclusivamente la solidità della sua base politica ed economica, mentre al popolo russo non credo proprio dia importanza. Si, gli oligarchi non potranno utilizzare le loro ville nelle nostre colline toscane o le loro imbarcazioni nei mari cristallini italiani, d’altra parte gran parte dei loro fondi sono depositate su banche non europee, lontane dagli occhi inviperiti che abbiamo in queste settimane noi occidentali. L’unica strada da percorrere si chiama diplomazia: concedere qualcosa per garantire la pace e la stabilità, facendo accordi, il mezzo col quale poi attaccare l’avversario qualora quest’ultimo non rispetta i patti.

Non dimentichiamo mai da che parte stiamo: come ha ricordato il Senatore Urso in un’intervista di lunedì (7 marzo, n.d.r.), gli ucraini hanno scelto l’Occidente, la pace e la libertà. Garantiamo a loro questa libera scelta, garantiamo il loro diritto di auto-determinarsi e garantiamo all’Occidente pace e benessere economico.

*Jacopo Ugolini, studente di Scienze politiche, Università di Parma

Le incertezze di una guerra alle porte dell’Europa

Il protrarsi delle ostilità in Ucraina da parte della Russia rappresenta oggi un evento singolare e di eccezionale gravità, quanto ad effetti sul piano economico e umanitario, destinato a mettere alla prova le previsioni formulate nei paesi occidentali sullo scoppio e l’andamento del conflitto. Ben prima che si materializzasse la decisione dell’uso della forza, una progressiva escalation politica e poi militare ha spinto i vari governi e le cancellerie, sino agli Stati Uniti, a concepire soluzioni in grado di sciogliere insieme alla Russia il nodo gordiano alla base del conflitto, che appare invece ancora più stretto dopo mesi di frustranti e infruttuose trattative. La crisi, che è ormai assurta alla dimensione di una guerra di aggressione condotta su più fronti ai danni dell’Ucraina, con l’esplicito obiettivo del suo annichilimento politico e territoriale, non figurava come una priorità nelle agende dei principali leader e ora sconta il vuoto di chi potrebbe quanto meno candidarsi a governarla. La decisione della Russia di raggiungere manu militari i propri obiettivi, con un impeto novecentesco, ha colto alla sprovvista chi prefigurava una sostanziale condizione pacifica dell’Europa, non più teatro di offensive su larga scala contro una nazione sovrana, ma anche chi all’opposto immaginava un’operazione tanto rapida quanto di successo per Mosca. Nessuna delle due previsioni si è avverata e oggi . È evidente che l’andamento del conflitto sin dalle prime ore ha tradito le aspettative di chi confidava in una facile vittoria, lasciano spazio ad una serie di valutazioni sulle conseguenze del protrarsi delle ostilità sul piano militare ed economico.

Se è vero che l’Ucraina ha scontato sin dalle prime ore una radicale asimmetria sul piano tattico, le forze armate Russe non sono state in grado di sfruttare la loro superiorità per una serie di fattori: in primis contrariamente alla narrazione diffusa l’esercito di Kiev non somiglia più ad una compagnia di sbandati, ricordo sbiadito del 2014. Dopo 8 anni di combattimenti nel Donbass e un piano di riarmo con il supporto dei paesi occidentali, l’Ucraina schiera delle truppe altamente motivate e ben equipaggiate, con una notevole esperienza bellica sostenuta in patria, sia in teatri urbani che in campo aperto, a cui si è aggiunto il prezioso contributo dell’addestramento americano in tecniche di combattimento in grado di ostacolare azioni offensive come quelle Russe. Gli ultimi mesi inoltre hanno visto un grande afflusso di aiuti militari, specialmente armi anticarro e antiaeree, che a fronte del costo relativamente esiguo sono in grado di infliggere perdite rilevanti e neutralizzare mezzi ben più dispendiosi e soprattutto difficilmente sostituibili ad un ritmo accettabile, se il conflitto dovesse perdurare per diverse settimane. L’esercito Russo al contrario oltre ad essere parso demotivato e smarrito, è sembrato incapace di sfruttare appieno le proprie dotazioni, finendo impantanato in clamorosi errori logistici ripetuti nel corso del tempo, che chiamano in causa l’intera catena di comando. Ci si potrebbe chiedere legittimamente come le decine di migliaia di coscritti inviati al fronte da Mosca dalla tundra siberiana possano prendere l’iniziativa, in una guerra che se è vero che è apparsa tanto insensata alle gerarchie Bielorusse da farle desistere dal partecipare alle operazioni, è altrettanto intuibile quanto possa interessare ai nativi dalle aree più remote del Paese. Meno inclini a fraternizzare con gli Ucraini con cui si scontrano per la prima volta, anche per differenze linguistiche ed etnoculturali, ma non per questo meno restii dei loro connazionali a combattere per conquistare Kiev, che dista pur sempre 5000 chilometri dalla Buriazia. Le débâcle dei primi giorni pongono la questione di quante siano effettivamente le truppe russe addestrate secondo i criteri dell’Alleanza Atlantica. Probabilmente meno di diecimila: un numero di gran lunga insufficiente per prevalere senza rinforzi, contro un nemico che padroneggia il terreno alla perfezione e che sembra disposto a resistere sino in fondo anche in contesti urbani.

L’impatto delle sanzioni economiche invece, è destinato a produrre i suoi effetti nel medio e lungo periodo, ma non è escluso che misure più radicali come una rimozione pressoché totale della Russia dal sistema di pagamenti SWIFT o l’embargo americano sugli idrocarburi, in particolare il petrolio, possano risultare insostenibili già nell’immediato. Decapitare un flusso di cassa di 800 milioni di dollari che giornalmente si riversano nell’erario di Mosca per garantire quel minimo livello di benessere accettabile dal popolo Russo, potrebbe avere contraccolpi altrettanto severi in Europa per la ormai arcinota dipendenza energetica, ma anche gli stessi Stati Uniti verrebbero investiti da una ulteriore fiammata inflazionistica “indotta” dalla crescita del prezzo dell’energia. Mosca potrebbe incorrere in una crisi del debito sovrano, come già accaduto in diverse circostanze ai tempi di Yeltsin, e potrebbe tentare di rimborsarlo in rubli anche in presenza di altri compratori dei suoi titoli di stato, come la Cina e in misura nettamente minore l’India. In assenza di altri paesi esportatori di greggio, l’Arabia Saudita (che sconta notevoli incomprensioni con la Casa Bianca) e l’OPEC rimangono maldisposte ad incrementare la produzione di petrolio e con il Venezuela e l’Iran ben lontani da un accordo politico maturo con gli USA, è facilmente intuibile le ripercussioni che una simile mossa avrebbe sulla ripresa post-covid e sulla tenuta sociale, che nelle democrazie occidentali è sicuramente più a rischio rispetto ad un paese autoritario come la Russia e di quest’ultimo particolare a Mosca sono ben consapevoli. È importante tenere a mente che il prezzo del petrolio si colloca intorno al 6% del PIL in Italia e la soglia della recessione si materializza al 7%, non è difficile intuire che ad Aprile la congiuntura diventerà negativa se il trend fosse confermato.

L’incognita rimane tuttavia comprendere come incideranno i due fattori, militare ed economico in rapporto all’arco di tempo di un conflitto che sembra voler durare abbastanza a lungo da dissanguare l’aggressore. Il supporto ancorché indiretto della NATO gioca un ruolo fondamentale nel contribuire ad infliggere notevoli perdite ai Russi, sia nelle divisioni corazzate che nelle forze aeree, così da distruggere le residue speranze di un blitzkrieg vittorioso. Una situazione di logoramento non potrà avvenire a queste condizioni, perché sarebbe per la Russia semplicemente insostenibile da un punto di vista economico sopportare intensità di un conflitto troppo alte per un paese che conta meno di un decimo della spesa militare degli Stati Uniti e poco più del Regno Unito, non potendo già adesso che impiega la quasi totalità degli effettivi nelle operazioni, rimpiazzare la totalità delle perdite senza sguarnire o depauperare le proprie forze armate al di fuori dell’Ucraina.

Uno stallo destinato a prolungarsi nei prossimi giorni che potrebbe aprire giocoforza lo spazio delle trattative, uno scenario ancora incerto con diversi attori che si affacciano con aspiranti ruoli di mediazione. In Europa Macron, Presidente di turno del Consiglio dell’UE, tiene i fili con il Cremlino forse per emulare il suo predecessore Sarkozy che dalla medesima posizione negoziò nel 2008 il cessate il fuoco in Georgia con Putin e Saakashvili. La Germania paga le consuete contraddizioni energetiche con la Russia, alimentate a vario titolo dagli ultimi cancellieri e si trova a dover prendere frettolosamente le distanze da un passato recentissimo. Se alcune voci autorevoli rimpiangono la leadership di Angela Merkel, ne dimenticano le sue responsabilità nel comportamento ambivalente che Berlino ha in un certo senso imposto all’Europa sulle forniture di gas naturale e nei tentennamenti mostrati davanti ad una crisi che dura ormai da 8 anni e che è parsa per tutto questo tempo una sorta di commedia degli equivoci, oscillante tra proclami internazionalisti e arrocchi mercantilisti. La Turchia gioca una sua partita autonoma dalla NATO, non applicando le sanzioni alla Russia con cui mantiene buoni rapporti, ma vendendo droni all’esercito Ucraino e ribadendo la propria primazia sugli stretti. Erdogan prova ad apparire come l’unico leader abbastanza equidistante da entrambi i contendenti sia da un punto di vista geografico che politico, così da poter promuovere una svolta, quantomeno apparente, nelle trattative in corso ed alimentare una presunta fama di risolutore di conflitti. I legami economici con la Russia poi pendono a suo favore e le recenti intese con Mosca in Siria trovano la diplomazia turca preparata a raggiungere un accordo. Anche Israele sembra apparentemente in grado di inserirsi e sfruttare i legami etnici e culturali che la legano ad ambedue le parti, ma l’eventualità di un successo sconta i limiti di una mediazione forse ancora non matura dal punto di vista temporale, che appare ancora oggi incerta e difficile da concretizzare. Chi si staglierà nei prossimi giorni come possibile paciere è la Cina: maggiore sarà la durata le conflitto, maggiori saranno le difficoltà Russe che potrebbero facilitare una soluzione orientale dalla quale Mosca uscirebbe doppiamente sconfitta. Sul piano militare perché costretta ad invocare l’intervento salvifico di Pechino da una guerra che non sembrerebbe più in grado di controllare autonomamente e su quello economico dove si troverebbe a brandelli, a fronte di conquiste territoriali dal discutibile valore strategico, con la certezza di finire nell’orbita cinese su interni settori produttivi: banche, energia e semiconduttori.

La reazione di Putin dinanzi ad un insuccesso militare, ancorché momentaneo, che si presenterebbe come l’anticamera di quella che fu la guerra in Afghanistan per l’Unione Sovietica, potrebbe spingere la Russia ad innalzare l’intensità dello scontro con uno scenario diametralmente opposto ad una trattativa lampo. Una vittoria di Pirro non è da escludere se l’impegno di Mosca fosse tale da rendere le forze Russe così soverchianti rispetto a quelle Ucraine, da portarle ad una sconfitta sicuramente dolorosa per entrambi o quantomeno da imporre una trattativa a senso unico che ha come precondizione la conquista delle grandi città, a cominciare dalla capitale. Se le perdite fossero eccessive persino in questo scenario, il modello che Putin potrebbe adottare è quello di Grozny, il che presupporrebbe rinunciare al combattimento urbano classico per radere al suolo con l’artiglieria le principali città ucraine in una sorta di riedizione della guerra in Cecenia, nella misura ritenuta sufficiente ad imporre un cessate il fuoco a Kiev, che si ritroverebbe a patire numerosissime vittime civili senza l’evacuazione con i corridoi umanitari. Facile intuire le finalità dal lato Russo di una misura apparentemente rivolta a mettere al riparo i civili, che darebbe il via libera al fuoco indiscriminato dell’artiglieria sui centri abitati, per altro già in corso in sprezzante contrasto con le convenzioni internazionali. Le perdite economiche sarebbero in quest’ultimo caso enormi, Mosca non risulterebbe in grado di colmarle ricostruendo i centri abitati e le infrastrutture. Ciò che rimarrebbe dell’Ucraina somiglierebbe ad una striscia di terra di nessuno devastata che ben si presta alla teoria dello stato cuscinetto più orientato verso l’annichilimento che l’equidistanza.

Un’escalation con il clima arroventato diventerebbe così più probabile, Le tensioni latenti, unite a quelle che un’ulteriore crescita del livello dello scontro sul piano economico e militare possono innescare, formano un mix esplosivo in grado di ipotecare sostanzialmente ogni residua aspettativa di pace nel breve periodo. Le modalità di escalation e di de-escalation sono speculari e spesso non dipendono fino in fondo dalla volontà dei contendenti: la NATO per esempio potrebbe anche istituire una no fly-zone nell’ovest del paese per assicurare il deflusso dei profughi ma al di là dell’aspetto provocatorio, le difficoltà dell’aviazione Russa, martoriata dagli stinger e spinta al volo notturno, renderebbero una  simile misura inutile contro gli attacchi portati avanti con artiglieria e missili cruise, che i caccia sarebbero difficilmente in grado di intercettare. Si aprono allora interessanti prospettive rispetto alla dichiarazione Russa di cobelligeranza, è qui che potrebbero nascere i presupposti per un’improvvisa accelerazione del conflitto: in assenza di un’invasione dal confine Bielorusso, che finora non ha avuto seguito, una Russia esausta con caccia e tank braccati da Kiev con le armi NATO, potrebbe pensare di colpire i trasferimenti degli aiuti militari al confine qualora risultassero così decisivi per le sorti del conflitto da portarla alla sconfitta. Questo in che misura possa interessare i membri dell’alleanza atlantica ancora non è chiaro e ovviamente dipenderebbe dall’area geografica interessata da un potenziale attacco. L’articolo 5 del trattato non contribuisce a sciogliere i dubbi e la stessa definizione di “attacco armato” si presta a diverse interpretazioni in assenza di una prassi applicativa. Lo stesso accadrebbe con la messa a disposizione dell’Ucraina delle infrastrutture aeroportuali in Polonia, avendo la Russia distrutto la quasi totalità degli aeroporti di Kiev, e di alcuni vecchi caccia MIG da trasferire, la cui utilità però appare dubbia in considerazione della scarsa importanza che l’aviazione ha avuto in questo conflitto. Contrariamente a quanto si crede, i bombardamenti aerei hanno avuto un impatto relativamente ridotto rispetto al loro potenziale e anche per i diversi errori di Mosca nelle prime fasi del conflitto l’Ucraina sembra conservare ancora una piccola parte delle proprie difese aeree che non ha esitato ad impiegare con successo.

Anche le sanzioni infine potrebbero influire su scenari inaspettati: non sarebbe difficile immaginare le conseguenze che una rimozione totale della Russia dallo SWIFT unita all’embargo dagli idrocarburi produrrebbero sulla leadership Russa, che appare sotto pressione in tutti i casi e che per questo potrebbe essere portata a compiere scelte avventate. La debolezza è spesso una caratteristica connaturata agli Stati autoritari e il paradosso di un Putin sempre più debole potrebbe essere il rafforzamento interno delle forze armate, non più semplice strumento di proiezione di una flebile potenza imperiale ma ormai le vere indiziate di questo conflitto, che le ha viste finora prevalere sul blocco di potere dei servizi di sicurezza che in Russia è da sempre dominante. La vera incognita potrebbe presto riguardare il ruolo nascosto dei generali, pronti a tessere la trama di uno scontro interno al Cremlino dove a prevalere sarebbero i falchi più che le colombe.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

 

 

 

La dimensione strategica della sicurezza energetica in Italia.

Come ogni anno, con l’inverno che entra nel vivo, l’Italia è chiamata a fare i conti con la prevedibile crescita della domanda di energia. Accanto alle perduranti criticità che cronicamente si trascinano e riguardano lo squilibrio degli approvvigionamenti di gas naturale, quest’anno per la prima volta si sono palesate le difficoltà della transizione ecologica, il ritorno dell’inflazione (in parte indotta proprio dal prezzo dell’energia), tensioni geopolitiche (Russia e Kazakhistan) e le strozzature della catena del valore. Questi cinque fattori, che pure presi singolarmente erano in grado di esercitare una notevole pressione sulle condizioni di debolezza intrinseca dell’Italia, si sono combinati dando luogo ad un fenomeno distruttivo su scala internazionale di cui ancora facciamo fatica ad intuire la portata.

È noto che il nostro paese ormai da un trentennio pecchi dal punto di vista programmatico delle ampie vedute che avrebbero potuto, almeno in parte, correggere la rotta. Fattori esogeni ed endogeni si sommano mettendo a dura prova linee di difese, la cui sola concezione richiederebbe anni di pianificazione da un punto di vista strategico. Appurata l’assenza di quest’ultima su scala Europea, quasi tutti gli Stati membri sono stati costretti, ancora una volta, ad affidarsi a tatticismi improvvisati senza una regia affidabile affidabile, che spesso nascondono le vere responsabilità imputabili a chi, con grande miopia, ha apparentemente privilegiato gli interessi del proprio universo produttivo (è il caso paradigmatico della Germania), ricavandone tuttavia molto meno di quanto pianificato per una serie di errori (tra cui l’abbandono del nucleare), frutto di immaturità decisoria, che si ripercuotono su tutta l’Unione.

È pur vero che individuare il principale “colpevole” del momento rischia di essere uno sforzo puramente teorico. La complessità del mondo globalizzato unita alle peculiarità del mercato dell’energia, soprattutto dal lato dell’offerta, fanno sfumare i confini delle responsabilità. È noto già da prima che i pochi pozzi propagandistici di Mattei fiorissero nella Pianura Padana, che l’Italia non sia mai stata un importante produttore di idrocarburi e in generale si trovi nella difficile condizione di chi è privo di importanti materie prime. Per questa ragione, anche volendo i volumi di metano estratti nell’Adriatico non potrebbero superare i 5 miliardi di metri cubi in un arco di tempo almeno triennale, che permetta di riallineare la produzione con gli investimenti necessari mai effettuati. Questi ultimi per essere programmati necessitano di un quadro regolatorio omogeneo che garantisca gli operatori dalle giravolte improvvisate della politica, senza certezza del diritto le trivelle rimarranno ferme. Con la liberalizzazione dei mercati dell’energia, l’Italia ha rinunciato ad attrarre considerevoli investimenti di imprese estere dell’oil&gas per le attività di prospezione mineraria: una filiera virtuosa, con il pregio di garantire una piccola protezione nei confronti di tempeste geopolitiche e che avrebbe contribuito ad integrare l’ottimo meccanismo di stoccaggio di cui il nostro paese si è dotato e che con l’autoproduzione ai minimi è destinato ad operare a metà.

Esulano dal destino dei pozzi dell’Adriatico e del canale di Sicilia le scelte attuate su scala Europea che hanno condotto l’Unione nelle mani della Russia. Una condizione di assoluta debolezza, fonte di numerosi interrogativi, che ha visto una crescita dei suoi profili di criticità in corrispondenza delle crisi geopolitiche degli ultimi 15 anni. L’UE oggi ha scelto consapevolmente di vestire i panni del vaso d’argilla e con le tensioni in Ucraina e Bielorussia si trova alla mercè degli eventi: alla prospettiva scongiurata di sanzioni sul gasdotto Nord stream 2, ancora in attesa delle autorizzazioni nonostante la fine dei lavori, si aggiunge la totale indisponibilità dell’Unione ad accodarsi agli Stati Uniti per imporre ulteriori sanzioni alla Russia sull’export di idrocarburi.

Non è paradossale immaginare anzi, che in caso di escalation in Ucraina possa essere Mosca a ridurre o tagliare le forniture, facendo piombare l’Europa in una crisi energetica simile a quelle che negli anni 70’ costarono all’Italia il tracollo dell’industria chimica e il ricorso ad un prestito del Fondo Monetario Internazionale, un MES ante litteram.

Se il ragionamento degli Stati Uniti si inserisce nella convinzione diffusa che il completamento del Nord stream 2 possa più agevolmente compromettere la stabilità economica dell’Ucraina, legata a doppio filo al transito del gas, che verrebbe facilmente aggirata e privata dei mezzi di sostentamento, è tutto da dimostrare l’assunto che la Russia disponga di una produzione di idrocarburi artificiosamente calmierata per scatenare una guerra dei prezzi: Mosca paga lo scotto delle sanzioni imposte durante la prima crisi Ucraina che hanno danneggiato l’industria estrattiva di Stato, già gravata da croniche inefficienze e scarsamente propensa ad attuare quegli investimenti la cui mancanza viene avvertita anche in altri paesi esportatori che, al contrario della Russia, hanno potuto contare su scambi di tecnologia mineraria pressoché illimitati con gli Stati Uniti e l’Europa.

Tutti gli sforzi diplomatici profusi dalle amministrazioni americane per contrastare il progressivo incremento della dipendenza energetica dell’Unione Europea nei confronti della Russia sono falliti e c’è da aspettarsi che presto le valvole del Nord stream 2 verranno aperte, non appena arriverà l’imprimatur amministrativo. Anche il suo gemello meridionale, il South stream in cui Eni giocava un ruolo fondamentale, è riemerso sotto mentite spoglie nel Turkstream che ha comportato un’ipoteca sull’autonomia energetica dei paesi balcanici e cementato i legami tra un ambiguo paese NATO e il più importante fornitore di gas naturale dell’Unione Europea.

C’è da chiedersi se la miopia pianificatrice che ha interessato lo sviluppo dei nuovi gasdotti sia il concorso di più fattori di carattere politico ed economico e delle presunte connivenze che, lungi dall’essere dimostrate, ne hanno accompagnato la realizzazione e da cui nemmeno le voci contrarie possono dirsi immuni.

Oggi il quadro energetico europeo appare irrimediabilmente compromesso. L’inflazione indotta dall’aumento dei prezzi di petrolio e gas naturale rischia di alzare significativamente il livello di scontro sociale e portare all’esasperazione un continente stretto ancora nelle morse della pandemia, ogni tentativo di invertire la rotta o di alzare i toni con Mosca si è tradotto in un simbolico aiuto Americano consistente in una flotta di navi gasiere che coprono appena il consumo giornaliero dell’Unione. In caso di scontro armato tra Russia e Ucraina è l’UE a rischiare le conseguenze peggiori e la consapevolezza di questa ambiguità ormai instillata nelle agende di Capi di Stato e di Governo va al passo con l’inettitudine di istituzioni prive di legittimazione decisionale.

Tutte le soluzioni valutate come compatibili con l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica sono state colpevolmente accantonate o sono risultate dei parziali correttivi: il gasdotto TAP è oggi in servizio dopo anni di deliranti boicottaggi ambientalisti e garantisce uno sbocco fondamentale al gas Azero, che in un futuro prossimo potrebbe essere affiancato da quello Turkmeno se la pipeline fosse prolungata sino all’altra sponda del Caspio. EastMed pur non essendo apparentemente necessario dal punto di vista della domanda rappresenta un asset fondamentale di diversificazione degli approvvigionamenti, nonché un importantissimo strumento geopolitico su cui l’Italia avrebbe potuto basare una ancorché limitata influenza. Impossibile non menzionare il futuribile gasdotto transahariano ormai in avanzato stato di progettazione e destinato a collegare la Nigeria all’Algeria, che sarebbe stata la plastica rappresentazione dell’impegno dell’Unione Europea per la pacificazione del Sahel. Al momento non si intravvedono scelte in tal senso neppure da parte dell’Italia che dovrebbe avere tutto l’interesse a sostenere il progetto, pur pagando lo scotto delle continue inchieste della magistratura milanese che hanno flagellato le attività di Eni in Africa, danneggiando la credibilità internazionale del gruppo e del suo management, sottraendo valore al suo primo azionista: lo Stato Italiano.

Un copione che negli ultimi anni si è ripetuto due volte, colpendo gli affari in due paesi fondamentali per la diversificazione delle importazioni di gas naturale. La Nigeria infatti si candida a giocare un ruolo di primo piano anche nell’esportazione del GNL insieme ad Egitto, Angola e Mozambico. L’Algeria rimarrà un partner fondamentale per i prossimi decenni.

Se il Mediterraneo non ha avuto grande fortuna, nemmeno gli sforzi di diversificare in Asia Centrale hanno segnato traguardi importanti. Se di petrolio si parla non si può non citare il giacimento di Kashagan che costò la guida di Eni a Mincato dopo 10 miliardi bruciati nelle profondità del Caspio, per il gas naturale è andata meglio e Karachaganak appare minacciato solo dalle nuvole che si addensano sul futuro del Kazakhistan e che rischiano di compromettere l’attività di siti estrattivi di notevole importanza. Dispute sul controllo dei ricchi giacimenti del Caspio hanno impedito al Turkmenistan di affermarsi come forte esportatore di gas naturale in Europa e ad oggi è improbabile che questo avvenga con la costruzione di un nuovo gasdotto.

La scelta di puntare tutte le fiches sulla Russia ha saturato l’offerta di gas naturale e reso apparentemente sconveniente costruire nuove pipeline. I costi nascosti non contemperano però gli aumenti repentini dei prezzi a cui saremo chiamati a far fronte comune nei prossimi anni in assenza di investimenti su scala globale. Poter contare su una più vasta pletora di fornitori avrebbe permesso all’Unione Europea di prendere una posizione più decisa nei confronti di Mosca, pur non pregiudicando in alcun caso l’importazione di idrocarburi che si sarebbe svolta con un minor rischio di ritorsioni, perché in fondo ad un’economia arretrata e basata sulle materie prime come quella Russa è imperativo vendere per poter comprare.

Un’ulteriore alternativa degna di nota, che vede l’arrendevolezza della Germania far soccombere gli altri Stati membri, è l’uso del nucleare come sostegno all’elettrificazione delle filiere economiche europee. Con la chiusura delle centrali Berlino si avvia a decretare un inverno energetico parzialmente compensato da quei bizzarri strumenti che sono i meccanismi di capacità, pronti a bruciare costosa lignite (se opportunamente sussidiati), quando le nuvole coprono il sole e non soffia vento nei parchi eolici del mare del Nord. Senza contare le conseguenze ambientali drammatiche, sottese a questa scelta immatura che pesa sull’eredità di Angela Merkel, la decisione di rinunciare all’atomo rischia di sommarsi alle strozzature della supply chain che stanno rendendo economicamente impossibile la transizione ecologica, unita all’inflazione che probabilmente ne è diretta conseguenza.

A conti fatti, un corollario di errori da matita blu difficilmente risolvibili nel breve periodo, richiederà nei prossimi anni soluzioni concrete, a partire dai nuovi investimenti nel settore minerario che sarà centrale per assicurare la tenuta sociale più che ipotetiche derive ideologiche destinate a consumarsi a contatto con la realtà, come ogni massimalismo all’esito dell’incontro con la Storia. I sistemi di accumulo da soli non salveranno l’Europa del 2025 e probabilmente nemmeno quella del 2030, la miopia geopolitica condanna l’Unione di oggi e farà lo stesso con quella di domani. È certo che il gas naturale ci accompagnerà ancora a lungo e l’idrogeno non sarà mai prodotto in modo conveniente e senza emissioni se non ricorrendo all’energia nucleare, unico modo di affrontare l’elettrificazione della società post-industriale. Pensare di alimentare il sistema produttivo con i parchi eolici può essere un’utopia ancora più pericolosa di chi predica la chiusura di fabbriche e acciaierie.

Per farsi trovare all’altezza delle sfide del reshoring è necessario garantire quel minimo di stabilità dei prezzi che convinca gli investitori internazionali a scommettere sull’Europa, non solo come terra di consumo ma anche di produzione. Un orizzonte che si avvicina sempre più e che rischia di condannare l’Italia in primis alla desertificazione industriale, con i redditi che non crescono falcidiati da bollette sempre più esose e un’inflazione indotta dai prezzi dell’energia che condiziona in concreto la vita dei cittadini, in nome di un ambientalismo ideologico e pericoloso che sembra aver smarrito la sua carica sociale che in passato l’ha contraddistinto.

Includere nucleare e gas naturale nella tassonomia “verde” della Commissione è una mossa necessaria che dovrà essere integrata con un regime agevolato di aiuti di stato e uno sforzo comune andrà indirizzato allo stoccaggio comune del metano su scala Europea, ad oggi la più importante riserva strategica nel vecchio continente che ha “rinunciato a combattere”.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Una risposta comune dell’Occidente alla crisi ucraina

In una fase della vita internazionale complessa, in rapida evoluzione  e per più di un motivo inquietante ( basti pensare, sul versante dell’Indo-Pacifico ,alle perduranti minacce della Repubblica Popolare cinese all’indirizzo della democrazia taiwanese) , le tensioni in atto tra Kiev e i suoi partner occidentali, da un lato, e Mosca dall’altro –  con correlati  movimenti / ammassamenti di truppe ai confini – non possono che accrescere il livello delle nostre preoccupazioni.

Anche perché tali tensioni  si collocano  sullo sfondo di un rapporto tra gli Stati Uniti e il Cremlino che resta difficile e improntato a diffidenza reciproca, per una pluralità di motivi. Motivi che vanno, per non citarne che alcuni :  dalla persistenza , in seno alla dirigenza e a larghi settori della popolazione russa, di quel “complesso dell’accerchiamento” che da secoli accompagna e condiziona le scelte di Mosca in politica estera – e che è per certi versi l’equivalente di quel che è per la Turchia Repubblicana, altro orgoglioso e sospettoso ex- impero…- il “complesso di Sèvres” –  alle inconciliabili tesi  , di  Mosca e di Washington,  circa l’esistenza di un “impegno”  americano a non procedere ad allargamenti della NATO verso est ( impegno che il Cremlino asserisce essere stato preso ai più alti livelli all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso: ciò che Washington nega) ;   alle confliggenti posizioni delle due Capitali in relazioni a crisi regionali di peso come quella siriana e quella libica nonché con riferimento, ad esempio, alla delicata questione del “nucleare iraniano”; alla perdurante aspettativa di Putin di vedere nuovamente riconosciuto al suo Paese, da parte   americana  , quello “status” di potenza globale a suo tempo negatogli, con formulazione oggettivamente poco felice..( “la Russia è una potenza regionale”)  , dall’allora Presidente Obama; alle accuse di molti Paesi occidentali al Cremlino, USA in primis,   di interferenze anche per via cibernetica nelle  proprie consultazioni  elettorali e nei processi democratici interni.

Di tale perdurante e  acceso confronto ad ampio spettro le rinnovate tensioni in atto  tra Washington e Mosca relativamente alla “questione ucraina” con richieste incrociate di “garanzie” – per il Cremlino essenziale quella che l’Ucraina mai sarà ammessa a far parte  della NATO, per la Casa Bianca quella che la Federazione Russa in nessuna circostanza  violerà  i confini e la sovranità di quel Paese – rappresentano per così dire il punto di fissazione e, al tempo stesso, un potenziale moltiplicatore , ove la via diplomatica  non riesca in tempi stretti a imporsi come strada maestra e senza subordinate… per uscire dalla crisi.

Sotto tale profilo il colloquio di martedi scorso di ben due ore , seppur in tele-conferenza, tra il Presidente Biden e il suo omologo russo non può che essere registrato positivamente, al di là del suo esito non risolutivo ( ma nessuno pensava lo sarebbe stato). Nel merito, si apprende dal comunicato finale diffuso dalla Casa Bianca, Biden ha tenuto a esprimere “ le profonde preoccupazioni degli Stati Uniti e degli alleati europei per l’escalation delle forze armate che stanno circondando l’Ucraina”.

Ha aggiunto, con un passaggio improntato a condivisibile  fermezza che “ deve essere chiaro gli Stati Uniti e gli alleati europei risponderanno con forti sanzioni e altre misure nel caso  di una ulteriore escalation militare ”. Egli ha poi  voluto   ribadire, come era lecito attendersi e in linea con la posizione degli alleati europei a cominciare dal nostro Paese, il sostegno degli Stati Uniti alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina   ( sostegno – merita ricordare a fronte delle attuali forti pressioni/intimidazioni di Mosca nei confronti di Kiev – che la stessa Federazione Russa non aveva   mancato di assicurare nel dicembre 1994 attraverso la sottoscrizione –   insieme con Stati e Uniti e Regno Unito seguiti poi da Cina e Francia – del cosiddetto “Memorandum di Budapest”   ) .

Accordo con il quale le potenze in parola – in cambio dell’accettazione da parte di Kiev dello smantellamento dell’enorme scorta di armi nucleari che aveva ereditato a seguito della dissoluzione  dell’URSS  e della sua adesione al Trattato di non-proliferazione –  si impegnavano, all’ articolo 1, a “ rispettare  l’indipendenza , la sicurezza e l’integrità territoriale dell’Ucraina entro i suoi attuali confini” ( impegno che da parte ucraina si era ovviamente tenuto  a ricordare a Mosca , pur se purtroppo senza esito, già nel 2014: all’epoca cioè della annessione russa della Crimea..).

La Casa Bianca  ha tenuto tuttavia significativamente a precisare , all’indomani della videoconferenza , che tra le opzioni di sostegno all’Ucraina oggetto di esame non rientra quella militare,  e che l’articolo 5 del Trattato istitutivo dell’Alleanza – la reciproca difesa tra alleati nel caso di un attacco di una Parte terza a uno di essi –  “ non si può applicare all’Ucraina che membro della NATO non è ”.

Osservo per inciso che il Presidente americano – ciò che non è dato secondario- ha peraltro tenuto ieri a rassicurare personalmente l’omologo ucraino Zelensky quanto al fatto che, si legge nel relativo comunicato della Casa Bianca, “ il sostegno statunitense alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina non conoscerà cedimenti “, rinnovando però in pari tempo la sua aspettativa di una soluzione diplomatica “ anche attraverso un rilancio delle trattative tra Kiev e Mosca , attualmente in stallo”.

Tornando al suo colloquio di martedi scorso con Putin  Biden ha poi voluto sottolineare   di essere stato molto chiaro con quest’ultimo, “che ha ricevuto il messaggio”, circa il  fatto che gli Stati Uniti adotterebbero “sanzioni mai viste” nel caso di un’invasione da parte di Mosca dell’Ucraina. Tra queste, secondo indiscrezioni che circolano a Washington riprese da autorevoli organi di stampa, figurerebbe anche l’ulteriore sospensione della realizzazione del gasdotto Nord Stream 2 : prospettiva di rinnovata  messa in “stand-by” del progetto ( progetto  al quale il nuovo Ministro degli Esteri tedesco, la verde Annalena Baerbock , è peraltro da sempre contraria) che avrebbe già ricevuto il tacito avallo del nuovo Esecutivo a Berlino.

Si tratterebbe in sostanza  di scelta che potrebbe essere utilizzata come sanzione, in caso di ingresso di forze russe in Ucraina;  in modo , si osserva, da togliere a Mosca  l’arma del ricatto del gas nei confronti dell’Unione Europea.

Da parte sua, Putin ha ribadito – nel corso della sua conversazione da remoto con Biden – la richiesta all’Ucraina di una piena messa in atto delle intese firmate a Minsk nel 2015 sotto l’egida di Parigi, Berlino e Mosca : a cominciare dalla concessione della prevista “autonomia regionale” alle regioni a maggioranza russofona facendone una precondizione per il ritiro delle forze filo-russe dal Donbass.  E’ richiesta cui, come noto, le componenti nazionaliste ucraine continuano ad opporsi impedendo l’adozione in Parlamento di  misure nel senso indicato nonostante le aperture  suo tempo manifestate dal Presidente Zelensky. Putin ha inoltre, a quanto è dato sapere, rinnovato a Biden  la richiesta di un “ impegno formale” da parte americana  che l’Alleanza Atlantica, dopo l’ingresso nel 2004 delle Repubbliche Baltiche, non si estenderà  ad altre Repubbliche ex-sovietiche a cominciare da Ucraina e Georgia. Domanda per evidenti motivi – anche di natura giuridica, non prevedendo il Trattato di Washinton o altri strumenti internazionali in vigore l’avallo di stati terzi a scelte “sovrane” dell’Alleanza- difficilmente ricevibile. Né – a essere onesti e al di là delle ricorrenti recriminazioni di Mosca –  paiono  al momento sussistere le premesse per raggiungere, sul tema dell’ adesione di Kiev alla NATO, la richiesta  unanimità in seno a un Consiglio Atlantico composto ormai da ben 30 Paesi membri con sensibilità e priorità geo-politiche non  necessariamente convergenti.  Anche perché , merita ricordare, a oggi non esiste alcun invito formale ad Ucraina ( e Georgia), da parte  degli stati membri, ad aderire alla NATO.

E tutto questo senza contare le stringenti condizioni poste, per l’ingresso di nuovi membri, dall’articolo 10 dello stesso  Trattato istitutivo ( Trattato di Washington dell’aprile 1949). A cominciare da quella secondo la  quale lo Stato invitato ad aderire deve essere in grado di “ promuovere i principi alla base del Trattato di Washington “ nonché – condizione  che mi sembra ancor più rilevante, e di difficile realizzazione, nel caso di specie – di “contribuire alla sicurezza dell’area  nord-atlantica”.

Come sopra accennato di tali fattori di complessità ( per non parlare di vera e propria criticità) la dirigenza russa non può non essere consapevole. Mi sento pertanto di concordare con quanti sostengono che l’insistenza di Mosca sui suoi timori di una prossima adesione all’Alleanza Atlantica di Ucraina ( e Georgia) possa essere  in realtà l’espressione, più che di una reale e a mio avviso infondata inquietudine , di una volontà del Cremlino di avvalersi di ogni carta possibile – anche di quelle oggettivamente meno spendibili ….- per rafforzare la propria mano negli  attuali e futuri negoziati a  tutto campo con Washington.

In tale ottica negoziale e di messa in guardia degli Stati Uniti credo vada letto anche il gioco al rialzo di Putin che  , il giorno successivo alla video-conferenza con  l’omologo americano , si è così espresso, dopo aver definito “provocatoria” l’accusa che il suo paese voglia attaccare la vicina Repubblica ucraina : ”….sarebbe criminale stare a osservare passivamente gli sviluppi di una possibile adesione dell’Ucraina alla NATO”. Aggiungendo che entro pochi giorni da parte russa sarebbero stati inviati a Washington “ i dettagli di quello che Mosca chiede” a titolo di garanzia. Allo stesso spirito  di tattica negoziale c’è da augurarsi ( ma è ,appunto, solo un auspicio..) rispondano le gravi affermazioni, di ieri, del vice-Ministro degli Esteri russo Rybakov spintosi a definire le tensioni che si registrano al confine orientale dell’Ucraina , delle quali sarebbe a suo avviso esclusivamente responsabile l’Occidente e la dirigenza di Kiev, “una minaccia all’ordine mondiale, paragonabile a quelle dei momenti più gravi della guerra fredda”.

Altrettanto preoccupanti le parole di Putin sempre ieri – due giorni dopo dunque la sua videoconferenza con Biden che si poteva sperare avrebbe  favorito  quanto meno  un  abbassamento dei toni –  secondo le quali “la situazione del conflitto nel Donbass è molto simile a un genocidio” ; cosi come inquietante suona la pressoché contestuale affermazione del Capo di Stato Maggiore russo secondo cui “ la situazione si sta aggravando e qualsiasi tentativo di Kiev di risolvere la crisi del Donbass con l’uso della forza sarà stroncato”.  Il percorso per un effettivo e durevole riavvicinamento tra Washington e Mosca sul tema Ucraina e per il superamento delle attuali tensioni resta, dunque, decisamente in salita né il colloquio da remoto  tra i due Capi di Stato ( con l’indiretto riconoscimento alla Russia, ciò che Putin notoriamente auspicava, di un ruolo di potenza globale ) appare aver davvero contribuito  almeno per ora – ma i fatti diranno- a raffreddare la crisi.   Anche se da parte americana- si apprende da autorevoli fonti interne all’Amministrazione riprese oggi tra gli altri dal “Guardian” – si intende proseguire nei contatti con la controparte russa per cercare insieme una via di uscita.

Non a caso – a conferma della serietà e delicatezza della questione ( e , penso, anche per non ripetere il grave errore e danno d’immagine rappresentato dal caotico ritiro statunitense dall’Afghanistan senza alcun previo coordinamento con gli alleati europei) – Biden ha tenuto  , subito dopo la conclusione della sua videoconferenza con Putin, a intrattenersi telefonicamente con i “leader” dei principali Paesi alleati europei, tra i quali il Presidente Draghi ( nel cosiddetto “formato    Quint ”: Francia Regno Unito, Germania, Italia più Stati Uniti) e altri contatti nello stesso formato sono previsti per i prossimi giorni .  Per informarli personalmente  dell’esito della sua discussione con Putin e consultarsi su come ulteriormente procedere, a pochi giorni dal Consiglio Affari Esteri UE del 13 dicembre e dal Consiglio Europeo  di tre giorni dopo : appuntamenti nel corso dei quali il tema Ucraina e quello di  eventuali nuove sanzioni nei confronti di Mosca occuperanno  certamente spazio importante.

Su tale sfondo, di per sé quanto mai  delicato, la dura reazione di Mosca ( e Pechino) alla tenuta  del       “  vertice  delle democrazie” convocato da Biden  al momento in corso in modalità virtuale  e che si chiuderà oggi – con Russia e Cina tra i Paesi non invitati – introduce  un ulteriore fattore di tensione . Tensione anticipata e alimentata , nei giorni scorsi, anche  dall’ articolo a firma congiunta degli Ambasciatori a Washington di Russia  e Cina nel quale si accusano gli Stati Uniti di “ dividere il mondo in buoni e cattivi, sulla base di loro criteri”.

Altro appuntamento diplomatico importante , di qui alla prossima settimana, è il confronto anche sul tema Ucraina e dei rapporti con Mosca che il Segretario di Stato Biden –  affiancato dall’influente  Sottosegretario Victoria Nuland – avrà a Liverpool con i suoi omologhi del G7 da oggi  a domenica.        Sarà  a mio avviso anche un  modo per cominciare a dare attuazione da parte americana – sul piano della necessaria previa concertazione con i principali alleati e partner occidentali –   all’appello lanciato da Biden a Putin  al termine della  video-conferenza di due giorni orsono : “ torniamo alla diplomazia e facciamo lavorare i nostri consiglieri”. Appello che, a voler essere ottimisti, lascia in qualche misura la porta aperta alla speranza  di una soluzione per via negoziale pur a fronte di ostacoli  che restano, senza dubbio, assai difficili da superare….

E  proprio per questo motivo la coesione dell’Occidente – in particolare    nel quadro  atlantico ed europeo : i due pilastri della nostra politica estera –  mi sembra più che mai indispensabile, rifuggendo dalla tentazione di fughe in avanti nei rapporti con Mosca  ( magari per il perseguimento di benefici   di breve periodo ad esempio sul terreno economico o energetico )  che qualche Capitale europea  ancora forse coltiva.

Da convinto “atlantista” – consapevole però al tempo stesso del peso geo-politico e della  capacità di condizionamento della Federazione Russa, ancor oggi ineludibile potenza euro-asiatica,  sulla scena internazionale e regionale – sono però in pari tempo dell’avviso  che il convincimento dei Paesi della “vecchia Europa” ( dalla Francia, alla Germania all’Italia)  in merito alla necessità continuare ad adoperarsi per mantenere aperto un qualche  canale di interlocuzione  con Mosca resti, in via di principio, corretto. A condizione  , naturalmente, che i comportamenti russi – con riferimento, ad esempio,  alla vicenda ucraina o a interferenze nei processi elettorali e nel gioco democratico di  paesi terzi – non rendano  tale strada  impraticabile. E i segnali che giungono in queste ore da Mosca , con le pesanti minacce alla sicurezza e integrità territoriale di uno stato sovrano come l’Ucraina , non inducono  all’ottimismo.

E’ dialogo , quello che ho sopra evocato, che andrà condotto con fermezza – in stretto coordinamento con i nostri alleati d’oltre- oceano ( Canada e Stati Uniti) –  e con un chiaro disegno politico di lungo periodo: avendo a mente tra l’altro la necessità di fare il possibile per evitare che il riavvicinamento in corso tra Mosca e Pechino si trasformi in un asse durevole e strutturato – seppur dettato, almeno per la parte russa, da motivi tattici – che si risolverebbe in una perdita secca per l’Occidente nel suo complesso. E per le democrazie nostre alleate anche di area asiatica .

L’importante è in sostanza, a mio avviso, definire un obiettivo per il raggiungimento del quale può  rivelarsi necessario  proseguire un dialogo con la Federazione Russa sui vari teatri di crisi: dal Mediterraneo allargato al futuro dell’Afghanistan e dell’Asia Centrale alla crisi libica a  quella siriana.

Per tornare all’obiettivo di fondo cui ho sopra accennato penso, ad esempio,  al traguardo di rilievo mondiale del raggiungimento della “stabilità strategica”, al rinnovo in tale prospettiva del Trattato START sulla riduzione degli armamenti nucleari strategici ( venuto a scadenza lo scorso febbraio)  e, infine,  al contributo che il Cremlino potrebbe offrire alla realizzazione del condivisibile auspicio statunitense, e della NATO, che il cosiddetto “NEW START” possa coinvolgere anche la Repubblica Popolare cinese :  da tempo impegnata, come noto,  in un impressionante e inquietante  potenziamento del proprio arsenale convenzionale e nucleare .

E’  linea del resto, quella del dialogo  con Mosca in presenza delle appropriate condizioni ,  che il nostro Paese – naturalmente all’interno della  inequivoca scelta atlantica ed europea da noi effettuata da decenni e opportunamente ribadita più di recente,  e con forza, dal Presidente Draghi – da sempre caldeggia al pari di Francia e Germania. Approccio che dovremo continuare a perseguire –  sempre che , ripeto, le iniziative di Mosca sul terreno non la rendano impraticabile – attraverso  una interlocuzione costante col nostro imprescindibile alleato statunitense. Interlocuzione che dovrà  essere  in grado però , più di quanto  non sia sinora avvenuto, di far valere anche il nostro “interesse nazionale” non necessariamente convergente con quello di Parigi e Berlino: due capitali tradizionalmente assai attente a calcolare i ritorni politici ed economico/commerciali di ogni loro azione di politica estera, anche  sul terreno dei contatti col nostro principale alleato .

In sostanza, quello che auspico è un’ Italia membro convinto dell’Alleanza atlantica – e fedele agli obblighi che ne derivano –  non pregiudizialmente chiusa però all’esigenza per l’Occidente di mantenere aperto per quanto possibile il dialogo con Mosca, nel segno di interessi di portata più generale ( come quelli, per non citarne che alcuni,  del controllo e della riduzione delle armi di distruzione di massa e del contenimento delle ambizioni cinesi su scala mondiale) . La duplice via della deterrenza e del dialogo con Mosca  , ma solo in presenza delle necessarie  condizioni, è del resto quella che la stessa NATO persegue , esplicitamente ribadita, da ultimo, nelle conclusioni del vertice alleato di Bruxelles dello scorso 14 giugno . Un’ invasione russa del territorio ucraino, indipendentemente da come Mosca tentasse poi di  giustificarla, si rivelerebbe evidentemente ostacolo non superabile sulla via della prosecuzione del dialogo ;  e tale da innescare da parte americana  la presa in considerazione di altre opzioni, tra le quali quella di un accresciuto sostegno anche sul versante  delle forniture militari agli alleati più a ridosso del confine russo ( oltre che , va da sé, in termini di invio di ulteriore equipaggiamento difensivo all’Ucraina).

*Gabriele Checchia, responsabile per le Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

 

UNA DIFESA POCO EUROPEA

Questo saggio di Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

 

Molti, sia in Italia che negli altri Paesi europei, hanno ben accolto il progetto volto alla creazione di una vera e propria difesa a stampo europeo: maggiori collaborazioni industriali e anche politiche, maggiori risorse finanziarie messe a disposizione dall’Ue, meno sprechi e meno duplicazioni in termini di capacità per il settore militare. Insomma, più sicurezza ad un costo (quasi) minore.

Tuttavia, l’ambizioso programma, fortemente supportato anche dal nostro Paese, ha dovuto fare i conti sin da subito con l’aspirazione di alcuni Stati di prenderne le redini e di dettarne le condizioni. Da quello che doveva essere uno sforzo collettivo a livello comunitario, in cui ciascun Membro ha lo stesso peso decisionale, si è celermente passati a una leadership bilaterale franco-tedesca che si è imposta quale nucleo dominante all’interno del progetto. Di fatto, ad un anno dalla firma del Trattato di Aquisgrana, è possibile vedere chiaramente i contorni della strategia di Parigi e di Berlino che pare abbiano deciso di interpretare la difesa Ue come l’occasione più opportuna per rimpiazzare la Gran Bretagna e l’ombrello securitario statunitense in Europa.

Seppure le intenzioni siano buone e in linea con le esigenze dell’Ue, ovvero assicurare all’Europa l’autonomia strategica, i due Paesi, forti del proprio peso politico, economico e militare nell’Unione, hanno preso il comando del progetto con buona pace degli altri Stati membri. La firma del citato Trattato di Aquisgrana, nel gennaio 2019, ha segnato la formalizzazione di un nuovo asse franco-tedesco che, tra i vari settori, annovera anche e soprattutto quello della difesa.

Si tratta di un accordo anzitutto politico, che ha l’obiettivo di presentare come una visione unitaria le posizioni francesi e tedesche. In pratica, i due Paesi hanno deciso di incontrarsi prima di ogni vertice Ue di rilievo per definire congiuntamente le proprie intenzioni, principalmente su temi di politica estera, difesa, sicurezza esterna e interna e sviluppo. Trattasi, quindi, di un graduale percorso finalizzato a incrementare la convergenza di interessi, obiettivi e strategie e, come evidenziato nel documento stesso, a rafforzare i sistemi di sicurezza collettiva (ossia il progetto di Difesa Ue) di cui Parigi e Berlino fanno parte. Inoltre, i due Paesi si sono impegnati in una costante e crescente collaborazione nel settore difesa, sia tra le Forze Armate per sostenere lo sviluppo di una cultura militare comune e dispiegamenti congiunti sia tra le rispettive industrie per la difesa, allo scopo di aumentare il proprio livello di competitività. L’apice della cooperazione viene raggiunto 231 con una clausola che prevede la reciproca difesa militare in caso di attacco armato in uno dei due Paesi, molto simile all’articolo 5 del trattato istitutivo della Nato.

A ben vedere, è stata creata in Europa una nuova forte alleanza che da un lato può andare a rafforzare la posizione europea nei teatri internazionali, dall’altro va quasi a nullificare o perlomeno a ridimensionare i tentativi di collaborazione militare veramente comunitari da poco inaugurati in sede Ue. Di fatto, nel ventaglio di progetti approvati nell’ambito della Collaborazione Strutturata Permanente (PESCO), Parigi e Belino sono non solo presenti nella maggior parte dei programmi, ma ne detengono il ruolo di leader per molti di essi.

Se tra i vari obiettivi della PESCO vi è anche dare la possibilità a Stati con industrie per la difesa meno consolidate di ricoprire un ruolo di rilievo, la quasi onnipresenza delle forti aziende francesi e tedesche va a minacciare la buona riuscita di tale intenzione. In aggiunta, quello creato da Macron e dalla Merkel è un club esclusivo le cui iscrizioni non sono aperte. Ne è un chiaro esempio il programma per lo sviluppo della caccia multiruolo di sesta generazione. Il prototipo franco-tedesco non può di certo definirsi europeo: tutte le decisioni strategiche in merito sono già state prese e la gran parte del budget proviene da Parigi e Berlino.

A chi si volesse aggregare è riservato un ruolo ancillare, come nel caso della Spagna. Quindi, l’Europa si trova ora ad avere ben due programmi per il nuovo caccia (quello franco-tedesco, per l’appunto, e quello inglese a cui partecipano anche l’Italia e la Svezia) nonostante gli sforzi e l’impegno collaborativo incoraggiati dall’Unione. In tale scenario, dove la Difesa europea cerca di formarsi tra un timido spirito comunitario e una crescente predominanza franco-tedesca, spetta agli Stati membri decidere se riprendere le redini del progetto o farlo decadere. Se una decisione in tal senso non venisse presto presa, l’Ue potrebbe incorrere in due rischi principali.

Internamente, si potrebbe venire a creare un fenomeno di progressiva erosione della collaborazione comunitaria in favore di parallele alleanze tra Paesi membri all’insegna della competitività anziché dell’efficienza. Al contempo, esternamente l’Ue potrebbe perdere credibilità nel settore militare agli occhi del resto del mondo. In questo contesto, l’Italia si trova davanti a un bivio: continuare a prendere attivamente parte di una difesa più franco-tedesca che europea o avvicinarsi gradualmente all’attore chiave negli equilibri transatlantici, ovvero la Gran Bretagna.

Un iniziale entusiasmo italiano circa la PESCO e il più ampio quadro Ue in cui è collocato è stato pian piano rimpiazzato da un meno spiccato attivismo, poi culminato nella decisione di prendere parte al Tempest, il programma britannico per il nuovo caccia. Visto il ruolo di rilievo che l’Italia 232 gioca all’interno dell’Unione, soprattutto per quel che concerne la politica estera e la difesa, la strada da percorrere potrebbe trovarsi al centro del bivio. Proprio in quanto promotore del progetto militare europeo, l’Italia potrebbe farsi portavoce di un rinnovato bilanciamento tra Stati all’interno della PESCO al fine di mantenere in vita il progetto della difesa europea. Parallelamente, Roma dovrebbe preservare il rapporto instaurato con la Gran Bretagna (soprattutto in materia di industria militare). In questo modo, il nostro Paese potrebbe contrastare l’asse franco-tedesco forte di una rinvigorita collaborazione comunitaria e, allo stesso tempo, continuare a intrattenere forti relazioni industriali con la Gran Bretagna.

*Andrea Margelletti, presidente CeSI – Centro Studi Internazionali

GB e Italia al bivio dell’Europa Unita

Un seminario della Fondazione Antonio Segni svela intrecci e relazioni diplomatiche dell’Italia dei primi anni sessanta, dalla crescita della CEE ai rapporti con gli Stati Uniti. Tra i relatori, lo storico dell’Università di Padova Antonio Varsori traccia le mosse di Roma, stretta tra Londra e Parigi, in uno scenario in cui le circostanze e i protagonisti si rivengono nell’epoca della Brexit.

Il 29 Marzo 2017 il Regno Unito ha comunicato al Consiglio Europeo l’attivazione della clausola di recesso dall’Unione.

Come previsto dalla disposizione del trattato, si è aperta una seconda fase di tipo negoziale, con la UE impegnata al raggiungimento di un accordo bilaterale per finalizzare un recesso consensuale.

I termini finali di quest’ultimo sono stati più volte rinviati per permettere la ratifica da parte della Camera dei Comuni. Alla fine del mese di Ottobre, anche in considerazione delle elezioni generali previste per il 12 Dicembre, il Consiglio europeo ha provveduto a prorogare al 31 gennaio 2020 il termine ultimo indicato dal Trattato sull’Unione europea per il perfezionamento della richiesta di recesso.

La storia dell’adesione del Regno Unito alla Comunità Economica Europea è piuttosto travagliata e riflette, anche nel successivo percorso di integrazione, quella che è stata autorevolmente definita “Politica del semi- distacco”. A scandirla i due veti della Francia di De Gaulle: il primo nel 1963 che si rivelò insormontabile, il secondo nel 1967 venne meno sei anni più tardi grazie all’ascesa all’Eliseo di George Pompidou, promotore di un referendum poi vinto sull’allargamento della CEE, che mitigò in parte le posizioni di un gollismo “duro e puro” che vedeva nell’ingresso del Regno Unito una testa di ponte degli Stati Uniti in Europa.

In questo contesto politico in rapido mutamento emergono le direttrici economiche che segneranno le priorità della neonata Comunità Economica Europe. L’impetuosa industrializzazione, trainata dal settore siderurgico, chimico e dai primi beni di consumo di massa come l’automobile spingeva per l’abbandono di visioni mercantilistiche a favore del libero commercio e di un’unione doganale. Tale fenomeno ha portato alla nascita di quella che numerosi urbanisti hanno descritto come “blue banana”. Un corridoio densamente popolato che unisce virtualmente l’Europa Occidentale da Manchester a Genova passando per i Paesi Bassi, La Renania, l’Alsazia e la pianura Padana.

A questa visione accentratrice e omologante faceva da contraltare la previsione di una Politica Agricola Comune (PAC). Espressione concreta delle necessità del mondo rurale della Francia “profonda”, tradizionale bacino di voti del gollismo, sino agli anni 80’ occupò ben due terzi del bilancio comunitario assumendo col tempo più un ruolo di protezione sociale nella transizione economica che di vera e propria spinta produttiva. Il Regno Unito d’altro canto non perse mai l’occasione sin dalla firma dei trattati di Roma di denunciare gli squilibri che gli aiuti della PAC provocavano ai danni dell’agricoltura britannica, ravvisando una violazione della concorrenza nel settore, resa ancora più grave dallo stretto legame con la sua principale fruitrice.

Ad accrescere i contrasti con la Francia contribuirono tuttavia le continue spinte politiche di De Gaulle, che si riverberavano sugli assetti e le relazioni interne alla CEE. In particolare l’obiettivo di unire i destini dell’Europa in una sorta di confederazione venne esposto nel piano Fouchet, il cui assetto prevedeva un Consiglio dei Ministri dal marcato carattere intergovernativo, un’Assemblea parlamentare di natura strettamente consultiva, priva della capacità di incidere nella determinazione dell’indirizzo politico ed una Commissione esecutiva dall’anima tecnico-burocratica. Parallelamente veniva avanzata l’idea di una più stretta collaborazione nel settore della difesa con la costituzione di un apposito comitato interministeriale, sufficiente da delineare la nascita di una nuova alleanza militare, in funzione difensiva, che in assenza del Regno Unito si sarebbe presentata come alternativa alla NATO. Un ambito nel quale una potenza atomica come la Francia avrebbe potuto esercitare un’influenza praticamente illimitata. L’adesione britannica ad una siffatta Comunità sarebbe stata nelle intenzioni di De Gaulle, l’occasione per propiziare la fine della doppia relazione Inglese con Europa e Stati Uniti.

Comportando una scelta irrevocabile a vantaggio della prima sia dal punto di vista economico che militare con la conseguente perdita della “special relationship” con Washington, a vantaggio di un disegno unificatore gollista soprattutto in politica estera.

Nel quadro della corsa agli armamenti, giunse da parte Americana a partire dal 1960 a controproposta dell’istituzione di una “Multi-lateral Force”. Il sistema prevedeva una condivisione dei sistemi missilistici Polaris da imbarcare sul naviglio di una flotta comune a guida NATO e sotto l’influenza degli Stati Uniti. Una proposta accolta favorevolmente dal Regno Unito per la sua naturale predilezione per la difesa via mare, ma anche dall’Italia che riteneva di poter contare essa stessa su una relazione privilegiata con gli Stati Uniti. L’occasione giunta con i lavori di ristrutturazione dell’incrociatore Garibaldi, divenuta la prima nave ad essere equipaggiata con un complesso sistema di lancio per missili balistici Polaris, suscitò molto interesse nell’ambito della NATO e apparve come la migliore soluzione per il futuro armamento del disegno MLF. Nonostante i promettenti avvii però il progetto non ebbe seguito, si può ritenere che la Multi-lateral force apparve come un superamento della proposta di un direttorio a tre interno al Patto Atlantico, tra Stati Uniti, Francia e Regno Unito, avanzato da De Gaulle nel 1958.  Un’idea profondamente osteggiata dall’Italia che ravvisava il rischio di una compromissione dell’influenza diplomatica faticosamente riguadagnata, in un momento di grande slancio e ottimismo. Anche in questo caso prevalse nell’amministrazione Kennedy la tendenza al mantenimento della coesione interna all’alleanza e al rispetto degli equilibri di tutti i paesi membri, una posizione su cui Parigi non poteva che dissentire.

Anche dal punto di vista politico le ambizioni e gli obiettivi Italiani e Britannici erano destinati a trovare delle importanti convergenze. Da parte di Roma era infatti esplicitato il massimo sostegno all’adesione del Regno Unito alla Comunità Economica Europea. Tali propositi confermati da un’importante visita di Fanfani e Segni e nel 1962, trovano una loro ragion d’essere nello scenario contemporaneo che vede il recesso di Londra dall’Unione Europea.

La presenza della Gran Bretagna era ritenuta all’epoca un necessario contraltare alle ambizioni della Francia gollista, soprattutto dal punto di vista militare. Non c’è da sorprendersi se oggi nel settantesimo anno di vita dell’Alleanza Atlantica, che è anche quello più difficile finora trascorso, emerga decisa l’ambizione di Parigi in merito al progetto mai concretizzatosi di una difesa comune. Oggi come ieri è il Patto Atlantico ad essere messo in discussione nelle sue fondamenta politiche e filosofiche. Dopo la Brexit la Francia rimarrebbe l’unica potenza nucleare nell’Unione, con gli Stati Uniti impegnati in un progressivo isolazionismo e beneficerebbe di un’importantissima funzione di indirizzo e controllo sull’industria della difesa e dello spazio grazie alla nomina a commissario al mercato interno europeo di Thierry Breton. Un parziale tentativo di riedizione del “Piano Fouchet”, naufragato nel lontano Aprile del 1962 davanti al portale di ingresso del traforo del Monte Bianco, sembra non essere un’ipotesi peregrina alla luce dei fatti. Le dichiarazioni pur filtrate d’altronde non lasciano trasparire un abbandono della tradizionale linea intergovernativa. In questo senso si colloca la proposta del Ministro dell’Economia Bruno Le Maire di investire il Consiglio europeo del potere discrezionale di disattendere le decisioni della Commissione in materia di concorrenza: secondo pilastro liberoscambista dopo l’unione doganale e motivo di connubio tra il “mondialismo” del Regno Unito e del suo Commonwealth e il “Regionalismo” della allora Comunità Economica Europea.

Un’altra importante ragione che spingeva a favore dell’ingresso inglese è da ricercarsi nel rafforzamento del rapporto con gli Stati Uniti, tramite appunto Londra, che della “special relationship” con Washington ha sempre beneficiato per ragioni storiche contingenti. Se Kennedy era un fautore dell’adesione britannica in prospettiva di un ridimensionamento Francese, l’Italia non poteva apprezzare le qualità sopravvenute in caso di rigetto della richiesta britannica. Profondamente legata all’America sul piano economico e militare, tanto che autorevoli fonti diplomatiche riferiscono la qualifica di “cavallo di Troia” statunitense nella CEE, è grazie al paternalismo degli Stati Uniti se Roma poteva sentirsi una nazione di rilievo sul piano internazionale. Un appoggio questo, spesso determinante nella risoluzione dei conflitti e delle crisi regionali, che Roma non ha mai smesso di cercare in tutti gli scenari in cui è direttamente coinvolta. Il conflitto civile libico è un caso emblematico di un atteggiamento remissivo e contraddittorio, frutto della mancanza di una salda e decisa leadership politica e dell’assenza di una sua autonoma proiezione. Così si sonda un asse tra Eni e BP nella speranza di rafforzare la cooperazione e si aspetta passivamente un intervento americano che faccia pendere la “pesatura delle anime” dei due contendenti a vantaggio delle ambizioni Italiane.

Un forte legame tra Roma e Londra infine avrebbe potuto contrapporsi efficacemente all’allora crescente rapporto dell’Asse franco-tedesco, rafforzando il fronte occidentale sotto la guida degli Stati Uniti di Kennedy che avrebbero garantito il fondamentale appoggio alla nascita del centro- sinistra. Evento spartiacque sarà nel Gennaio del 1963 il primo veto francese all’adesione inglese alla Comunità, cui seguirà in pochi giorni la stipula con l’omologo tedesco Adenauer del Trattato dell’Eliseo, primo frutto della collaborazione tra i due paesi. All’epoca toccò ad Ugo La Malfa abbozzare una risposta tanto coraggiosa quanto impulsiva a titolo personale: la realizzazione di un trattato italo-britannico da contrapporre a quello franco-tedesco con l’obiettivo di rafforzare la governance dell’Unione europea occidentale: organizzazione internazionale regionale di sicurezza militare e cooperazione politica, nata con il trattato di Bruxelles del 17 marzo 1948. Una proposta accolta con un misto di perplessità e bonaria accondiscendenza dal Foreign Office ma con freddezza e irritazione dal Presidente del Consiglio Fanfani che preferiva evitare uno scontro diretto con Parigi. Oggi il percorso delineato dal Trattato di Aquisgrana firmato il 22 gennaio 2019 tra la Francia del Presidente Emmanuel Macron e la Germania della Cancelliera Angela Merkel rilancia una visione bilaterale nella quale l’Italia non può trovare uno spazio con pari dignità politica. La presenza una clausola di reciproca difesa militare che prevede il ricorso ad “ogni possibile aiuto e sostegno”, compresi anche “strumenti militari è un chiaro sintomo delle patologie e delle insofferenze che scuotono la NATO con il rischio di renderla obsoleta per sovrapposizione. L’organo politico preposto: Il Consiglio di difesa e di sicurezza franco-tedesco, “che si riunirà regolarmente al massimo livello”, appare un surrogato del medesimo comitato interministeriale del Piano Fouchet, con la differenza fondamentale che i motivi che porteranno gli Stati Uniti di Trump ad osteggiarlo saranno più legati alla contabilità interna al Patto Atlantico che ad una reale volontà di reprimere la costituzione di una “force de frappe” atomica sotto l’egida Francese. Con l’addio del Regno Unito inoltre non ci saranno più limiti al dispiegamento di una comune attività di collaborazione e coordinamento in materia di politica estera ed economica che ridefinisce i contorni dell’Unione europea e rischia di trasformarla in un’architettura politica bilaterale assai poco gradita all’Italia di oggi come fu per quella di ieri.

Anche in questo caso la classe politica Italiana oscilla prudentemente tra una nuova apertura a Londra (e Washington) nel quadro di un accordo commerciale post-Brexit e l’inseguimento del tradizionale tandem dell’Unione. Un asse al quale giustapporre una cura degli interessi nazionali sufficiente ad elidere l’impressione di un suo rapido depauperamento a favore di ingerenze esterne contingenti, un’Unione nell’Unione esistente naturaliter dal punto di vista storico e culturale tra due nazioni si fanno interpreti di un preciso ordine degli assetti di interessi da regolare ai quali l’Italia non potrà risultare estranea e verso cui occorrono risposte autorevoli e ponderate per scongiurare quanto più si teme e si va evocando, cioè la completa irrilevanza in politica estera che come un virus si diffonde al mondo economico e produttivo con conseguenze fatali.

*Giovanni Maria Chessa, collaboratore Charta minuta