PER UNA NUOVA POLITICA ECONOMICA NEL MEZZOGIORNO

Senza troppi giri di parole esiste un problema che va al di là degli investimenti del Pnrr, di cui ci siamo occupati più volte con ambiti di proposte concrete ed analisi di possibilità di risultato: un problema culturale. Se da un lato, infatti, esiste una macchina amministrativa disabituata a ragionare in termini di programmazione e risultati, dall’altra vi è una carenza nel tessuto imprenditoriale Campano, incapace o non messo in condizione di cogliere gli sviluppi che un mondo digitalizzato impone. In questo scenario si innestano varie distorsioni di un sistema mal funzionante che porta ai discutibili risultati in evidenza già prima del Covid ed aggravati dalla crisi pandemica. Con onestà di analisi, bisogna ribadire ancora una volta come sia indispensabile rivedere alcuni istituti di politica attiva sul lavoro ma che tali interventi non potranno, da soli, essere risolutivi delle tematiche attinenti allo sviluppo ed all’offerta di opportunità. Resta palese, ritornando al problema culturale, che diventa indispensabile uno scatto in avanti delle “istituzioni”, intese in ogni ordine, grado e particella costitutiva, attraverso l’adozione di un lavoro armonico e pianificato teso ad un reale rilancio territoriale: avere una visione, dunque, quale presupposto di una lunga e prolungata ripresa.

Non basta, quindi, investire in infrastrutture, seguendo politiche spot di carattere emergenziale, bensì diventa imprescindibile capire come queste poste di spesa andranno ad incidere sul sistema socio economico campano, rispettando le regole del come, del quando e del perché. Già in passato, infatti si è assistito ad azioni di “innesto” che non hanno prodotto gli effetti desiderati e che negli anni ’90 portarono, per insostenibilità, ad un vasto e troppo frettoloso programma di privatizzazioni, procurando una regressione repentina sia del mercato del lavoro campano sia del tessuto economicamente trapiantato. Non illudano, quindi, i risultati attuali che indicano una ripresa economica, in quanto il “rimbalzo” è un risultato effimero che ci porta a risultati di poco al di sotto di quanto espresso in tempi preCovid: dà coraggio, forse un po’ di respiro ma restano in piedi i numeri disarmanti che volevano la Campania come una delle peggiori regioni in Europa per numero di inoccupati, Neet e famiglie a rischio povertà.

A tal proposito resta attuale il piano strategico da noi prodotto lo scorso anno basato su una analisi delle peculiarità territoriali e sulle capacità e possibilità di sviluppo suddivise per macroaree territoriali. Al pari resta indispensabile che cambi la mentalità datoriale e che la stessa impari da quanto di buono realizzato anche in Campania con eccellenze che spaziano dal mondo del turismo alle alte tecnologie. Ribadiamo, per tali ragioni, la necessità di un continuo confronto tra istituzioni e realtà socio economiche territoriali perché, solo attraverso un piano condiviso e non imposto, si potrà disegnare una regione realmente all’avanguardia e performante.

*Umberto Amato

La sfida del dualismo italiano

Questo saggio di Umberto Ranieri, presidente Fondazione Mezzogiorno Europa, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.
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Nel trentennio che segue la fine del secondo conflitto mondiale, grazie all’intervento straordinario, il divario in termini di Pil pro capite tra il Mezzogiorno e il Nord dell’Italia calò di dieci punti percentuali. Furono costruite infrastrutture essenziali per le regioni meridionali, si promosse una crescita dell’industria con l’insediamento di poli di sviluppo che si pensava avrebbero diffuso una spinta modernizzatrice all’ambiente circostante. L’autorità pubblica costituiva il soggetto con il compito di ridurre le disuguaglianze e aiutare le aree arretrate a svilupparsi.
Questa strategia si affermò negli anni che vanno dal dopoguerra al decennio Settanta attraverso fasi differenti ma tutte costantemente ispirate alla convinzione di poter ridurre il ritardo meridionale. Con il trascorrere degli anni tuttavia, nonostante i massicci investimenti, il divario non scomparve. Non solo. I flussi di spesa pubblica produssero, almeno in parte, più che dinamismo economico, assistenza e clientelismo. L’immagine del Sud cambiò in quegli anni. Lo scrisse in un bel libro Franco Cassano: da arretrato il Sud diventò dipendente e parassitario. Una situazione da cui si tentò di venire fuori con una diversa strategia: spingere il Sud a contare sulle proprie forze, «tenendolo lontano dalle scorciatoie ingannevoli che emergono all’ombra dell’intervento statale».
Questa si riteneva fosse la via per fare emergere le energie più produttive e migliori del Sud. Insomma, l’intervento dello Stato non era più la soluzione, ma diventava il problema. Passività e irresponsabilità erano il risultato della dipendenza di intere aree dai trasferimenti statali. Non mancavano elementi di verità in questa posizione. Si pensi soprattutto alle patologie che accompagnano, con l’invadenza della politica, la spesa pubblica. E tuttavia, come scriveva Cassano, questa posizione attribuiva alla mobilitazione virtuosa delle classi dirigenti locali la capacità di cancellare l’arretratezza, senza interrogarsi anche sugli indirizzi della politica economica nazionale e sulle scelte dell’Unione europea.
Veniamo all’oggi quando conclusa l’esperienza della Cassa e senza significativi risultati la fase definita della «programmazione dal basso», il problema irrisolto del divario appare in tutta la sua gravità. Cosa fare? Su tre aspetti della realtà meridionale è il caso di riflettere. 1) La politica. C’è una questione elementare che sarebbe opportuno considerare quando si solleva il tema della scomparsa del Sud dall’agenda politica del paese. L’Italia al Sud è mal governata. Ne scrisse Robert Putnam un quarto di secolo fa. Gli esempi non mancano. Perché il dragaggio del porto di Napoli è rimasto lettera morta? Perché le risorse europee non vengono utilizzate appieno e per accrescere il patrimonio di infrastrutture del Mezzogiorno? Per lungo tempo, la politica locale si è trasformata in una macchina per l’acquisizione di consenso attraverso la distribuzione di benefici particolaristici e la dispersione della vera e propria ricchezza giunta dall’Europa. Governi nazionali hanno tollerato che ciò avvenisse. 2) La incapacità delle istituzioni meridionali di selezione, progettazione e attuazione di programmi: incapacità che ha portato a perdere la grande occasione di una utilizzazione produttiva dei fondi europei. 3) L’offerta inadeguata di beni pubblici di base come istruzione, giustizia, sicurezza, servizi alle persone e alle imprese ha reso più bassa nelle regioni meridionali la propensione all’imprenditorialità, più alto il costo del credito, penalizzato le imprese operanti su mercati aperti alla concorrenza. Infine c’è da prendere atto che la politica di incentivazione alle singole imprese ha pesato molto sulla finanza pubblica ma non ha condotto molto lontano.
Sono queste le questioni da affrontare per rilanciare una strategia tesa al recupero dello sviluppo delle regioni meridionali. Una strategia che ruoti intorno all’idea che il Mezzogiorno possa diventare la piattaforma dell’Europa in un Mediterraneo che anche con il raddoppio di Suez (che triplica il tonnellaggio complessivo delle merci che transitano) ritrova nuova centralità negli scambi internazionali. A questa prospettiva è interessato il Mezzogiorno che non indulge ad un rivendicazionismo deteriore e chiede investimenti a sostegno dell’istruzione e della ricerca; investimenti per accrescere l’offerta di beni pubblici di base: questo è il Mezzogiorno che va sostenuto e incoraggiato. Considerare il Mezzogiorno una grande questione europea e mediterranea e affrontarla di conseguenza è il modo per tutelare l’interesse nazionale.
Occorre tuttavia un salto di qualità nel modo in cui le forze politiche si misurano con la questione Mezzogiorno.
La sfida al dualismo deve tornare ad essere un elemento centrale del progetto delle forze politiche che si candidano a governare il Paese. Questa la via lungo la quale si ritrovano i nessi con la migliore classe dirigente italiana cattolica, socialista o liberaldemocratica, che fondava la propria azione politica, al di là delle diverse origini culturali e politiche, sul principio che la vera unità dell’Italia sarebbe nata dal superamento del dualismo, dal mettere fine ad una storica arretratezza.

La cultura del piagnisteo

La polemica innestata qualche tempo fa da Vittorio Feltri con le sue parole sulle capacità, le attitudini, l’inferiorità del Sud ha scatenato ancora una volta le opposte tifoserie nordiste e sudiste in un momento in cui serve invece unità, solidarietà e coesione sociale.
Vediamo perciò con quanta più obiettività possibile come stanno veramente le cose nel Mezzogiorno d’Italia.
Qualche tempo fa il Censis rilevò come la comunità meridionale si andasse sempre più parcellizzando in gruppi chiusi, separati e non dialoganti. E la Fondazione Res spiegava che resta un’incompiuta la cooperazione tra imprese. Successivamente arrivò un saggio per i tipi di Rubbettino, i cui autori Mariano D’Antonio, Matteo Marini, Sonia Scognamiglio, Annalisa Marini, Antonio Russo, Lucia Cavola, Achille Flora, Giovanni Laino, Francesco Pastore, Sara Gaudino, Giuseppe Leonello, Roberto Celentano, individuavano la causa dei mali del Sud, negli stessi meridionali, in particolare nella loro scarsa attitudine a rispettare le regole, nella scarsa fiducia reciproca, nel sospetto e invidia sociale, nel familismo amorale e poi nell’evasione fiscale e contributiva, nell’assenteismo per malattia, nell’inflazione dei diplomi e delle lauree, nel mancato pagamento delle tariffe del trasporto pubblico locale. «Lo scarso senso civico – scriveva D’Antonio – è effetto e al tempo stesso concausa dell’insufficiente sviluppo: la povertà spinge a violare le regole, l’illegalità a sua volta ostacola la riduzione della povertà ». Di qui i reati segnalati dalla Corte dei conti: la corruzione è al 42% del totale nazionale, la concussione al 53%, l’abuso d’ufficio arriva al 62%. (Tutti i dati e le citazioni sono tratti da Riccardo Pedrizzi – Il Salvadanaio. Manuale di sopravvivenza economica – Guida Editori – Napoli 2019).
A queste miriadi di difetti o, quantomeno di mancanze di qualità etiche, civiche e sociali si aggiunge un fattore che, oltre al clientelismo, la corruzione, il diffuso basso livello d’istruzione, ci accomuna veramente alla Grecia ed è “la cultura del piagnisteo”, con la tendenza d’addebitare tutti i guai del Mezzogiorno all’azione di forze esterne. Se le cose vanno male, – scrisse Luca Ricolfi sul “Il Sole 24 Ore” – è sempre colpa di qualcun altro: la storia, l’unità d’Italia, i piemontesi e l’occupazione, l’Europa, il Nord e il governo centrale. La politica nazionale ha ovviamente le sue responsabilità, prime fra tutte quella di non aver dotato il Sud di una rete di infrastrutture decente, il mancato controllo del territorio ecc. ecc., ma si dimenticano le gravissime responsabilità delle classi dirigenti locali, sulla connivenza che la gente del Sud ha nei confronti delle proprie classi dirigenti. Se il resto del paese è più ordinato del Mezzogiorno, se gli sprechi della Pubblica amministrazione sono più contenuti, ci sarà pure un motivo. “Ormai 35 anni fa Manlio Rossi Doria concludeva uno scritto sui cent’anni di questione meridionali con le seguenti parole. ‘Non vi è dubbio che nelle caratteristiche di una larga parte delle classi dirigenti meridionali vada ancora oggi individuato, a distanza di un secolo da quando per la prima volta se ne parlò, uno dei nodi più gravi e decisivi della ‘questione meridionale’” (M.R. Doria, Scritti sul mezzogiorno, L’ancora del mediterraneo, 2003, p. 222)».
Chi scrive, da sempre sostenitore della causa del Mezzogiorno, difensore della storia meridionale soprattutto preunitaria e borbonica, tanto da essere gratificato dalla Casa Borbone con l’Ordine cavalleresco Costantiniano di San Giorgio, condivide da sempre questa analisi. Aver da decenni attribuito le cause dei mali del Sud a fattori esterni ed a forze estranee alla società ed alla storia meridionali non solo ha contribuito a deresponsabilizzare le classi dirigenti e la politica, ma ha creato in certi ceti sociali (la borghesia in particolare), che avrebbero dovuto rappresentare e costituire l’ossatura della struttura istituzionale, amministrativa e burocratica dello Stato e degli enti locali, una mentalità diffusasi poi in tutta la popolazione secondo la quale tutto è dovuto e niente si deve fare per cambiare la situazione. “Così è diventato preponderante il concetto del posto pubblico come vademecum di tutti i problemi”. (cf. Rapporto Unimpresa). “Non c’è dubbio, dunque, che il problema è innanzitutto nelle istituzioni, prima ancora che sul versante economico: la classe dirigente del Sud è stata orientata a una ricerca clientelare e assistenziale del consenso, che ha solo drenato risorse e i governi nazionali lo hanno tollerato in cambio di voti”, come dichiarò Carlo Triglia, professore di sociologia economica a Firenze, già ministro per la Coesione territoriale nel governo Letta. Il ruolo perciò delle istituzioni pubbliche è cruciale. Nel Sud, anche per ragioni storiche, si è affermato e aggravato un modello di potere predatorio. Proprio per questo siamo obbligati a dar ragione persino a Matteo Renzi quando anni fa diceva alla direzione del Pd, convocata per affrontare l’emergenza Sud dopo i dati del rapporto Svimez: “Se il Sud è in difficoltà non è colpa di chi lo avrebbe abbandonato. La retorica del Sud abbandonato è autoassolutoria. L’autoassoluzione è un elemento che concorre alla crisi del Mezzogiorno”. La verità è che oggi nel Sud non si può fare a meno di quella eredità storica che è in grado di esprimere quella forza vitale che deve dirigere e alimentare il “benessere” di un paese. Massimo Lo Cicero in: “Sud a perdere? Rimorsi, rimpianti e premonizioni”, (Rubbettino, 2010, p. 151.) scrive: “La teoria della crescita insegna che la prima fragilità dei deboli nasce dalla perdita della conoscenza accumulata nelle proprie radici”. (Lo Cicero cit., p. 164.). «Tale conoscenza ovviamente non rinvia al sapere che deriva dalla tradizione, né tanto meno della potenza della nostalgia e della memoria, ma appunto si qualifica come “conoscenza accumulata” come deposito del dato collettivo del sapere sociale e del capitale sociale, come riconoscimento reciproco di comportamenti e atteggiamenti virtuosi e creatori di ricchezza comune».
Il Sud però non è affatto una terra arretrata e sottosviluppata, era ed è solamente una realtà “diversa” da quella del resto d’Italia, ancora abbastanza compatta nella struttura sociale, dotata in larghi strati della popolazione di una radicata cultura tradizionale, legata ancora ad un cattolicesimo vissuto e concepito in maniera completamente diversa da come lo si vive altrove. È stato perciò un grave errore tentare di omologare tutto ciò, schiacciare ed annichilire le particolarità, le peculiarità, gli usi, i costumi, le tradizioni, persino la lingua. Infatti per oltre un secolo e mezzo si è inculcato, nell’animo di ogni generazione di meridionali, il sentimento della sconfitta e della rassegnazione, un autodistruttivo fatalismo che ha costituito la psicologia individuale e, soprattutto, la psicologia collettiva dell’intero popolo meridionale. E poiché questo sentimento è stato prodotto principalmente dalla falsificazione storiografica ufficiale chiusa nella cerchia di ambienti ristretti fortemente impregnati di una cultura illuministica, è venuto il tempo di lanciare un’offensiva culturale di largo respiro, cogliendo, eventualmente, le opportunità di alleanza con quei settori del mondo economico ed imprenditoriale meridionale che siano sensibili ad un progetto di autentico sviluppo del Meridione. Per questo la rivisitazione, la ricostruzione e la riconsiderazione del nostro “Risorgimento” sarebbe forse un’operazione culturale e storica utile per individuare più correttamente la nostra identità e per riappropriarci delle nostre vere radici. Ed allora bisogna chiedersi possono oggi la stessa storia e la cultura esser “maestra di vita” e forza di sviluppo? Il voler far rivivere, ai nostri tempi, usi e tradizioni sviluppatisi nel corso dei secoli potrebbe a prima vista apparire anacronistico o comunque di ostacolo alla naturale crescita economica di un territorio. Ma non è così. Recentemente infatti si incominciano ad intravedere i segni di una maggiore consapevolezza della nostra storia che individua nel “vuoto di memoria” la causa principale dell’attuale perdita dell’identità meridionale ed anche il tramonto delle nostre tradizioni economiche e culturali che, fino all’800, avevano contribuito a rendere le nostre regioni non solo meta preferita dei viaggiatori stranieri, ma anche centri di produzione e di scambi internazionali. Un progetto ambizioso quanto difficile per il decollo del Sud, quindi, deve partire da qui. Una verità appare evidente: la cultura, per quanto rinvigorita da nuovi spazi e mezzi, ancora non riesce oggi
nel Meridione né a favorire uno sviluppo di “benessere”, (benessere inteso non solo e non tanto in termini patrimoniali e materiali, ma soprattutto quale ricchezza morale e civile), né ad ottenere una diffusione su vasta scala, soprattutto in ambienti quali quelli dell’economia. Se davvero vogliamo riconoscere alla cultura una funzione propulsiva per il risveglio del Mezzogiorno e delle sue attività, bisogna renderla patrimonio disponibile per tutti. In un Sud che manifesta solo in rari casi attitudini industriali e che, quindi, rivolge le sue attenzioni principalmente alla produzione turistica, artigianale e agricola, nonché a tutte le conseguenti attività commerciali, non si può fare a meno dell’eredità storica che è invece in grado di esprimere quella forza vitale che deve dirigere e alimentare l’economia e il “benessere” di un paese. E dunque, bisogna riportare alla luce tutto questo patrimonio sommerso nelle miniere e nei giacimenti della nostra storia. Infatti solo attingendo al comune bacino dell’identità può generarsi una efficace e redditizia simbiosi tra cultura e impresa: l’economia, recuperando le sue forme naturali (cosiddetta “economia della tradizione”), tornerà così ad essere espressione culturale e la cultura, dal suo canto, potrà diventare il volano dell’economia. Occorre creare perciò nuove possibilità di “intervento attivo” dell’imprenditoria, che consentano di ottenere immediati benefici nella vendita e nella qualità del proprio prodotto. Nell’ambito di una grande strategia di sviluppo, va riconosciuto perciò agli imprenditori un ruolo di fondamentale importanza: – il prodotto, se rinvigorito da tutte le qualità desunte dalla tradizione storica, potrà avere una veste nuova ed antica, nello stesso tempo, che sia vincente sui mercati nazionali e stranieri; – dall’intervento diretto degli imprenditori nelle attività di promozione dei luoghi ove essi operano, deriverà ai loro prodotti il beneficio di un valore aggiunto derivante proprio dal legame con la terra di origine. Tutto questo significa Economia Tradizionale. Il Mezzogiorno d’Italia è come un genio imprigionato in una lampada. Aspetta un Aladino che lo faccia solamente uscire. Segnali propositivi ce ne sono.