Commercio libero ma anche equo

Si dibatte dei recenti dazi USA contro la Cina sulle merci sottocosto, mentre la UE è al lavoro per finalizzare gli ennesimi accordi di libero scambio con Messico, Cile e Mercosur, verso il quale si elimineranno dazi e quote sul 90% dei commerci. Un certo buonismo tende a demonizzare i primi e santificare i secondi, sebbene la storia recente dia adito a ben altro punto di vista.

L’economia contemporanea si basa su imprese multinazionali che operano in assenza di limiti alla circolazione di merci e capitali, al fine di spostare la produzione nei paesi a bassi salari e gli utili imponibili in paesi a bassa fiscalità, generando extra profitti altrimenti non realizzabili.

Oggi il capitale è libero di muoversi in cerca delle condizioni migliori, mentre il lavoro deve adattarsi alle sue condizioni. Ma non è sempre stato così.

La libera circolazione di merci e capitali si è consolidata negli anni Ottanta, con il verificarsi congiunto di alcuni fattori: (1) la terza rivoluzione industriale dell’informatica, che ha permesso lo scambio di dati tra divisioni aziendali nel “primo” e “secondo” mondo; (2) l’ingresso nel mercato di paesi poveri dell’Asia e dell’ex URSS; (3) precise scelte politiche di eliminazione dei vincoli esistiti in precedenza, che avevano contributo al miracolo economico dell’Occidente. Senza sfruttare nessun cinese.

Tale sistema ha avuto come conseguenza diretta l’allargamento della forbice tra ricchi e poveri: la crescita delle diseguaglianze reddituali ha avuto inizio, dovunque, in contemporanea a questo processo. Cina inclusa. Questo perché la gran parte del “risparmio di costi” sopra esposto non finisce nelle tasche dei lavoratori (con maggiori salari), né nei consumatori (con minori prezzi) ma dell’imprenditoria che organizza la catena di approvvigionamento globale (con maggiori profitti).

È nell’interesse di tutti i Paesi fornirsi aiuto reciproco attraverso un Nuovo Accordo che limiti tali fenomeni e ripristini i presupposti di uno sviluppo equo. Il suo principio fondamentale dovrebbe essere che la libera circolazione di merci e capitali sia ammissibile solo qualora – primo – i Paesi in questione siano omogenei economicamente e – secondo – sussista tra di essi un meccanismo redistributivo come all’interno di uno Stato sovrano.

Centrale in questo senso è la differenza tra concorrenza e iperconcorrenza: la prima, realizzata sui prodotti, promotrice di sviluppo, va favorita; la seconda, realizzata sui fattori produttivi (in primis sul lavoro e sulla superiorità tecnologica), foriera di oligopoli, va evitata.

Una funzione degli Stati moderni è quella di operare da camera di compensazione tra chi vince e chi perde sul mercato, trasferendo ricchezza dai primi ai secondi attraverso lo stato sociale. Invece, il mercato globale della iperconcorrenza ha permesso grandi guadagni per i pochi che vincono ma perdite per tutti gli altri, proprio in assenza di strumenti in grado di assorbire le iniquità del sistema.

Il dogma che ha imperato negli ultimi decenni è stato invece quello della “libera volpe nel libero pollaio”. Un bell’affare per le volpi, assai meno per i polli!

*Stefano Lera, collaboratore Charta minuta

Europa contro Impresa Italia

Questo meeting promosso dalla Fondazione Farefuturo apre il confronto, per nulla scontato in questa fase politica, tra forze politiche di maggioranza e di opposizione e forze sociali e produttive su una tematica che riteniamo centrale per lo sviluppo produttivo, economico e sociale del nostro Pese e del contributo che possiamo dare allo sviluppo della nostra casa comune europea.

Il titolo è volutamente provocatorio ma sicuramente nel contempo evidenzia una problematica reale: “Europa contro Impresa Italia” dove per Impresa Italia intendiamo ovviamente il nostro sistema sociale produttivo. Per questo, abbiamo voluto mettere a confronto le istanze rappresentate dalle numerose Associazioni di impresa del nostro Paese.  Tutte qui rappresentate, in questa sala le Associazioni nazionali più rappresentative dalla Confindustria alla Confagricoltura, Confcommercio, Confapi Confartigianato e le abbiamo messe a confronto con i rappresentanti dei gruppi parlamentari di maggioranza e di opposizione e con i rappresentati del governo.

In questo meeting vorremmo che le associazioni di impresa presentassero le loro istanze, le loro problematiche anche citando casi specifici, positivi o negativi che siano,  e ci auguriamo che alla fine di questo dibattito e del lavoro susseguente che faremo con il nostro centro studi, sarà possibile presentare, in vista della competizione europea, un dossier su questa tematica centrale per lo sviluppo del Paese, nella speranza di dare un contributo al nostro Sistema Italia e nello specifico come esso si possa rapportare meglio nella UE.

Non posso non evidenziare che oggi è il primo giorno in cui l’Italia non ha un Ministro per gli affari europei, nel senso che ieri il Prof. Paolo Savona – che è venuto più volte negli anni passati ai nostri meeting, fornendo contributi significativi all’attività della nostra Fondazione, anche con scritti e interviste sulla nostra rivista  – è stato nominato dal Governo presidente della Consob e il Governo, in attesa che questo incarico sia confermato, ha già annunciato che l’interim passa al Presidente del Consiglio. Speriamo che l’interim duri poco e che si possa avere un ministro competente a rappresentarci in Europa.

Nel frattempo, appare per lo meno inusuale che la casella decisiva degli Affari europei non abbia ad oggi un ministro incaricato. Io credo che questo sia un vulnus soprattutto per chi come noi pensa che in questo momento l’Italia deve vincere la sua scommessa, la sua sfida in Europa, credo che ne siamo tutti convinti. È importante che una persona di alto valore, come Savona, assuma questo incarico, anche alla luce di tutto quello che potrebbe derivarne dalla competizione europea, dal nuovo Parlamento europeo, dalla nuova Commissione europea; insomma l’Italia deve arrivarci al massimo di rappresentanza, non al minimo di rappresentanza a questo appuntamento; questa è la mia opinione.

I casi che dobbiamo esaminare sono a tal proposito davvero emblematici ed è giusto che lo facciano direttamente le associazioni di categoria. Poco fa un esponente del sistema bancario mi ha detto che non abbiamo messo tra questi casi il sistema bancario. Al contrario, ne abbiamo fatto un caso specifico che analizzeremo in un prossimo meeting, perché certamente, l’ultima notizia è di questa mattina, ci sono dei giornali che evidenziano, come anche le recenti decisioni sui crediti deteriorati, sui NPL, in qualche misura sono decisioni che non collimano con le potenzialità del nostro sistema bancario o con la problematica dei crediti deteriorati che noi abbiamo in Italia. Ma altri provvedimenti di questo tipo, pensiamo al meccanismo del salva-Stati, alla recente decisione sull’unione bancaria, si tratta di provvedimenti fatti da un sarto che conosceva un sistema bancario diverso, comunque poco attinente alle peculiarità, alle potenzialità e anche ai difetti e alle lacune del sistema bancario italiano con tutto quello che ne è conseguito. Comunque su questo faremo un altro meeting. Qui noi parliamo di imprese, non finanziare, non bancarie ma produttive e vorremmo dare la parola ai rappresentanti delle associazioni produttive

 

Intervento in chiusura

Nel chiudere questo meeting, davvero proficuo ed istruttivo, mi riallaccio ad un aspetto che conosco molto bene: l’etichettatura “made in”, per evidenziare purtroppo nostra scarsa capacità di incidere nei contesti europei. Questa proposta l’ho fatta proprio io al vertice Euromediterraneo nel luglio del 2003 che si svolse a Palermo nel periodo in cui l’Italia presiedeva il semestre di turno europeo e il commissario europea era il francese Pascal Lamy. Una battaglia fatta poi, per anni, in tutte le sedi europei e internazionali, bilaterali e multilaterali, purtroppo in maniera infruttuosa.

Da allora è passato molto tempo e se fosse stata applicata fin da allora la etichettatura obbligatoria del Paese d’origine, appunto il cosiddetto “made in”, i risultati probabilmente sarebbero stati diversi per quanto riguarda la riconoscibilità del prodotto, la filiera industriale e quindi la competizione globale del nostro sistema produttivo ed anche le conseguenze positive per il consumatore mondiale. Oggi obiettivamente il sistema è diverso e l’Italia ha perso quella battaglia che non era facile vincere allora, e forse nemmeno oggi in Europa per la opposizione dei paesi nordici e soprattutto della Germania.

Concludo dicendo che faremo altri convegni tematici su quello che crediamo sia importante soprattutto in questo contesto: ricomporre un dialogo  tra le forze sociali e produttive di questo Paese e il Parlamento che vedo sempre più isolato dal Paese e tanto più il governo che appare sordo ai bisogni di chi produce e lavoro. L’ho detto all’inizio e lo ribadisco adesso: il fatto che le dimissioni di Savona abbiano lasciato scoperta una casella considerata all’inizio della legislatura come strategica in Europa è particolarmente emblematico!

Quando prima accennavo alla politica commerciale di Trump, dicevo che non è da sottovalutare. La guerra commerciale che si sta combattendo tra gli Stati Uniti e la Cina ci vede in mezzo come ai tempi della Guerra fredda dove l’Italia era terra di frontiera rispetto l’Oriente. Oggi in questa guerra di frontiera commerciale, l’Italia è ancora una volta “frontiera” e temo anche “preda”. Oggi le tematiche di politica commerciale sono prevalenti, decisive, per ogni sistema produttivo e per ogni Paese, verrebbe da dire: “questa è la globalizzazione, ragazzi”!

Che siano dazi piuttosto che la riforma del Wto oppure che siano accordi commerciali come il Nafta, è una rivoluzione. Trump con il Nafta ha imposto ai paesi, in questo caso al Messico, una rivoluzione commerciale. Ha imposto al Messico e anche al Canada che nessuno dei paesi firmatari del Nafta possa firmare accordi di libero scambio con paesi a economia non di mercato come la Cina, senza il consenso degli altri. Ha imposto che per esempio il Messico debba avere un salario minimo nel settore automobilistico. Ha imposto delle regole di mercato del lavoro per ristabilire condizioni di equità tra partners. Questo significa ripensare la politica commerciale e industriale europea. Io credo che l’Italia dev’essere in testa a questa rivoluzione commerciale. Siamo il Paese che ha più pagato una certa ignavia nella competizione e negli accordi e che oggi è più esposto alle azioni predatorie che sono in atto. A noi serve un commercio equo e non solo, libero, che ripristini condizioni di parità tra competitori. In condizioni di parità, il made in Italy vince sempre!

Grazie a voi di essere stati qui e mi auguro che ciascuna associazione fornisca, anche in seguito una documentazione appropriata  perché vorremmo scrivere un “libro bianco” su questa tematica cosi vitale per il Sistema Italia

 

Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo – intervento al meeting “Europa contro Impresa Italia” del 6 febbraio 2019