Riformismo conservatore e Mediterraneo allargato

“Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre”. (Fernand Braudel, La Méditerranée. L’espace et l’histoire, Tome I, 1977).

A distanza di quasi cinquant’anni, le parole di Fernand Braudel risuonano quanto mai attuali,  in un contesto geopolitico segnato da una rinnovata consapevolezza della centralità del Mediterraneo per la politica europea ed occidentale. Come ‘frontiera liquida’ tra mondi diversi ma indivisibili, e come snodo fondamentale tra i molti mari (dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano) lungo i quali si articolano oggi le sfide cruciali per la tenuta delle società di tutta la regione designata come EMEA (Europe, Middle East, Africa): migrazioni, energia, sicurezza alimentare e cybersicurezza.

In questo quadro, particolarmente feconda appare la prospettiva di un ‘autentico partenariato’ tra i paesi EMEA, delineata da Adolfo Urso nel convegno organizzato a Roma da FareFuturo, IRI (International Republican Institute) e Comitato Atlantico Italiano. Un convegno che, come osservato dall’Ambasciatore Checchia in questa stessa rivista, corona il lungo impegno di FareFuturo su questi temi e consolida la proiezione europea ed atlantica della Fondazione.

Come sottolineato da Urso, la ricerca un partenariato autentico richiede la capacità di elaborare una nuova visione del Mediterraneo allargato, che apporti motivazioni culturali e valoriali profonde alla collaborazione tra i tanti paesi di un’area così vasta e varia.

In tale direzione, si aprono inediti orizzonti alle forze del riformismo conservatore. Una visione alta e condivisa del Mediterraneo allargato, infatti, non potrà essere fondata sull’ennesima proposta di una omologazione ai modelli dell’Occidente, ma su una  sapiente ricerca di zone di dialogo tra ‘storie’ diverse ma profondamente interconnesse, che consenta a ciascuna comunità di delineare percorsi di sviluppo aperti al mondo ma compatibili con le proprie radici culturali e spirituali.

Per la sua storia e la sua geografia, l’Italia è chiamata a svolgere un ruolo cruciale in questo processo, in nuove sintesi dinamiche tra vocazione euroatlantica e vocazione mediterranea. Lungi dal ricadere in tentazioni di equilibrismi tattici, l’Italia può e deve impegnarsi a promuovere, in piena fedeltà e linearità con la sua collocazione internazionale, una ‘costruzione’ politico-culturale sufficientemente flessibile da accogliere le tante diversità che formano il complesso mosaico del Mediterraneo, ma basata su un nucleo di valori condivisi che possano costituire il tessuto connettivo di una duratura alleanza in area EMEA.

In questa logica, contrariamente a quanto vorrrebbe una certa vulgata, le forze conservatrici possono oggettivamente risultare le più ‘titolate’ a dialogare costruttivamente con le sponde meridionali del Mediterraneo, come pure con le sue sponde orientali.  Dal mondo arabo ed islamico all’Europa dell’Est, dopo la caduta delle grandi ‘narrazioni’ secolarizzanti di matrice socialcomunista o liberalprogressista, molti Paesi stanno infatti cercando la propria strada per il futuro in un richiamo creativo alla propria storia e nel recupero di radici culturali e spirituali profonde. Come dimostrano importanti casi concreti, dalla Tunisia all’Egitto alla Polonia, la valorizzazione creativa delle proprie radici non conduce necessariamente ad una caduta nelle spire dell’integralismo, islamico o di altro segno, né ad una chiusura al dialogo con l’Occidente. Al contrario, questi processi possono anche contribuire ad una più intensa collaborazione con i paesi occidentali, favorendo percorsi di innovazione culturale, politica e religiosa ‘dentro’ e non ‘contro’ la storia delle diverse comunità. Con ricadute significative anche sui fondamentali terreni della libertà religiosa, dell’uguaglianza tra uomini e donne, della cittadinanza inclusiva.  Ma ciò sarà possibile solo ad una condizione: che l’Occidente sappia spogliarsi di ogni residuo atteggiamento di ‘colonizzazione ideologica’, secondo l’efficace definizione di papa Francesco, per porsi invece un atteggiamento di rispetto dell’altro senza rinunciare alla propria identità e al tentativo di individuare valori comuni.

Su questo punto, è bene sgomberare il campo da un equivoco di fondo: lungi dall’essere un ostacolo al dialogo con le altre sponde del Mediterraneo, la volontà di riaffermare le radici cristiane dell’Europa, nel rispetto di tutte le altre sensibilità filosofiche e religiose, e di riportare i valori spirituali al centro dell’azione politica, può essere la chiave di volta per costruire una solida alleanza politica e culturale  non solo con i Paesi cristiani dell’Europa orientale ma anche con i Paesi islamici – o a maggioranza islamica – del Nord Africa e del Medio Oriente. Come dimostrano i molti successi raccolti dall’iniziativa diplomatico-culturale della Santa Sede nel mondo islamico, e come indica lo storico Documento sulla Fratellanza Umana siglato da papa Francesco e dal grande Imam di al-Azhar ad Abu Dhabi nel 2019, è proprio nell’individuazione di valori spirituali comuni tra comunità che hanno – e vogliono mantenere – identità differenti, che risiede la possibilità di nuove e feconde relazioni di pace e di collaborazione.

Una nuova ed efficace politica mediterranea richiede quindi una limpida prospettiva interculturale. Bisogna superare definitivamente sia l’esaltazione acritica dei ‘Sud del Mondo’ in chiave sartriano-fanoniana, sia la tentazione di imporre come presunti valori universali gli obiettivi di una agenda biopolitica ‘liberal-progressista’ che risultano profondamente divisivi anche in Occidente. Per ricercare invece un’interazione feconda sulla difesa di quei valori etici e spirituali che, con declinazioni diverse secondo le storie delle diverse comunità, possono costituire un tessuto di riferimenti comuni nella composita realtà del Mediterraneo allargato. Un compito che spetta in primo luogo alle forze del  riformismo conservatore: a chi non ha paura di esprimere la propria identità e le proprie radici e perciò sa rispettare le identità e le radici altrui, nella ricerca di superiori armonie.

*Giuseppe Cecere, docente di lingua e letteratura araba, Università di Bologna

Sicurezza e Mediterraneo, una questione cruciale

Le conclusioni del Forum di Roma

L’intensa due giorni di lavori (Roma, 11- 13 ottobre) con la partecipazione di autorevoli studiosi e parlamentari d’oltre oceano, europei , medio-orientali e africani ha fornito ulteriore conferma della proficua collaborazione in atto ormai da quasi due anni tra la nostra Fondazione, l’“International Repubblican Institute “( prestigiosa “think -tank“ statunitense vicina ma non organica al Partito Repubblicano) e il Comitato Atlantico italiano.

Si è trattato infatti del sesto Forum congiuntamente organizzato dalle tre fondazioni a poco più di un anno dal primo, su Europa e relazioni transatlantiche dopo la pandemia e il ritiro americano dall’Afghanistan, svoltosi lo scorso anno in non casuale coincidenza col ventesimo anniversario dell’11 settembre. L’evento, iniziato con una sessione aperta al pubblico nella mattinata del 12 ottobre per poi proseguire a porte chiuse, ha preso avvio con interventi del responsabile del Dipartimento per le Relazioni Transatlantiche dell’IRI, Ian Surotchak giunto espressamente da Washington, dell’Incaricato d’affari americano presso il polo onusiano romano Rodney M. Hunter e del Presidente della nostra Fondazione,  Adolfo Urso.

Al centro delle discussioni le ricadute sull’area EMEA (Europa, Mediterraneo e Africa) dell’aggressione russa all’Ucraina analizzate nelle loro diverse dimensioni: da quella della sicurezza alimentare, a quella energetica, fino a quella migratoria. Il tutto nel segno di una ribadita comune fedeltà ai valori dell’atlantismo che ha costituito il filo conduttore di tutti i Forum sinora realizzati in partenariato dai tre organismi.

Il forte apprezzamento americano per la salda e inequivoca collocazione di Farefuturo è stato manifestato a chiare lettere dal direttore Surotchak nel suo saluto a nome dei vertici dell’IRI.

Il senatore Urso si è soffermato su tre aspetti qualificanti: 1) la sfida lanciata alle nostre democrazie nei più diversi scacchieri dalle potenze autocratiche, come la Repubblica Popolare cinese e la Russia di Putin; 2) la necessità di una risposta ferma e congiunta da parte dell’Occidente, in uno spirito di forte solidarietà e coordinamento euro-atlantico; 3) il rilievo crescente che la regione mediterranea, così come quella centro/nord africana, sta rivestendo ( e appare destinata ancora a lungo a rivestire) in tale confronto di civiltà e per il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, a cominciare dalle terre rare cruciali per la competitività dei nostri sistemi industriali.

Urso ha sottolineato anche come il ricatto energetico e quello alimentare esercitato dalla Russia ai danni dell’Occidente (e dell’Europa e Africa in particolare) non rappresentino che altrettanti tasselli della guerra ibrida portata avanti nei nostri confronti da Mosca ( e Pechino) anche attraverso articolate campagne di disinformazione, sia in Europa sia nel continente africano; campagne alle quali è doveroso rispondere avvalendosi di ogni appropriato strumento, anche sul terreno della contro-narrativa.

Dobbiamo pertanto investire, ha proseguito il Presidente Urso, sia in Africa sia nella sponda sud del Mediterraneo in uno spirito di “autentico partenariato” con i paesi dell’area anche sul fondamentale versante della sicurezza alimentare. Se investiremo in questo senso, ha proseguito, sconfiggeremo anche l’altra minaccia: quella delle migrazioni incontrollate. Migrazioni, ha rilevato, che creano un serio problema anche nei paesi africani, che perdono così le loro intelligenze migliori. Per tale motivo è indispensabile, ha voluto sottolineare, sviluppare d’ora in poi una “grande politica Italiana, europea e occidentale nel Mediterraneo allargato e nel continente africano”. Perché quella parte del mondo potrà raggiungere un vero benessere, fondamentale anche ai fini del contrasto al terrorismo di matrice islamista, solo in stretto raccordo con l’Occidente ciò di cui anche da parte americana, ha concluso, si è sempre più consapevoli.

Spunti di interesse sono emersi anche dalle successive sessioni a porte chiuse. Con riferimento ad esempio, nel caso della sicurezza alimentare, alla necessità per l’Occidente di adottare ai fini dell’assistenza ai paesi più fragili del continente africano un approccio multisettoriale. Essendo chiaro che la sicurezza alimentare, l’accesso a condizioni sostenibili alle fonti di energia, la salute e la governance sono dimensioni strettamente interconnesse, cosicché quando anche solo una delle stesse viene a essere fragilizzata ne derivano onde di shock su tutte le altre.

In sostanza, e per concludere, il Forum ha offerto eloquente riprova del ruolo di primo piano che la nostra Fondazione si è ritagliata, per molti versi un “unicum”, nel corso dei due ultimi anni, in Italia e non solo: quale prioritario punto di riferimento per tutti gli ambienti e organismi che abbiano a cuore, da un lato, le sorti dell’ Occidente nel confronto con gli stati autocratici; e, dall’altro , la volontà di fornire risposte concrete e credibili alle criticità che in tante aree del mondo portano acqua al mulino dell’estremismo e dell’instabilità.

*Gabriele Checchia, responsabile per le Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

PROGRAMMA

The new frontline. Disegnare il futuro.

Art. La Verità

Art. La Stampa

Art. Graziosi

Mercato del lavoro tra sovranismo e fluidità

La spinta pro Ucraina sembra – forse già definitivamente – avere messo in crisi quella “guerra delle parole” per cui i concetti di Nazione, di sovranismo, di identità e di interesse nazionale erano il “male”, mentre tutto ciò che era globale, indistinto, unisex, transgender, senza differenza di età e di Stato era “il bene”. La crisi in atto dimostra che sovranismo significa difesa dell’Ucraina, come stato indipendente, per quanto “orbitante”, e che la globalizzazione come agente di pacificazione attraverso il profitto dei mercati sta fallendo.

Il mercato del lavoro sembra essere il figlio minore di questo assetto, essendo per sua natura sempre più fluido e per sua gestione sempre più vetusto, a cominciare dall’Italia (tranne alcune eccezioni regionali come il Veneto e la Lombardia), tanto che sembra legittimo chiedersi se esista un mercato del lavoro da gestire o se esso segua flussi e dinamiche spontanee.

Alla fluidità del mondo corrisponde la fluidità del lavoro. Il lavoro non identifica più. Il falegname, il ciabattino, il fruttivendolo, il panettiere, l’edicolante, il barista, il rappresentante…durante gli anni della piena occupazione di fine ‘900 valevano più del tuo nome e cognome, quello eri! Uscivi da scuola con un lavoro e con quel lavoro ci andavi in pensione. Quel lavoro era il sostegno della tua vita e ti identificava: eri quello che facevi. Nella fluidità del mondo non è più così. Non conta quello che sei, ma quello che fai. Il lavoratore, il disoccupato è quello sa fare (e deve rendersene conto per meglio competere). E’ più cose assieme e nello stesso tempo, siano essere referenziate, derivate dal lavoro sommerso o da semplici interessi e passioni.

Sono le competenze e non il profilo professionale che fanno il lavoratore. E’ un processo di destrutturazione del soggetto in tante cose, tante quante sono le sue competenze formali (titoli), non formali (esperienze) ed informali (interessi) che sa mettere in pratica.

Il lavoratore non può più (e non deve) passare per la cruna dell’ago con la sua identità, ma si deve frammentare nelle cose che sa fare, per poi ricomporsi nella dimensione che fa più “matching” con ciò che è richiesto dalle aziende. Il quid non è più chi sei. Ma cosa sai fare.

I servizi pubblici hanno pertanto una sfida in più, quella di intercettare la fluidità del mondo e la frammentazione dei profili professionali, in un modo mutato, tanto che i sistemi gestionali non possono di certo più, anche solo per un aspetto terminologico, incrociare domanda ed offerta di lavoro sul “battilamiere”, sull’ “ammondatore di pesce”, sullo “stampatore alla rotativa” e non farlo invece sull’ “esperto della reti on line”, “l’esperto di e-commerce”, il “free lance”, “l’operatore del delivery”, “l’europrogettista”, il “social media manager”. Inoltre la sfida è trovare uno standard terminologico di qualificazione almeno europeo, se non mondiale, per valutare titoli di studio, formazione, esperienze di lavoro, emersione di nuove lingue regionali…

Il mercato del lavoro deve mettere al centro le competenze del lavoratore nel corso della sua vita che a loro volta mutano nello spazio e nel tempo. C’è da chiedersi se lo stesso CV, per quanto europass, sia ancora uno strumento valido, dal momento che esso risponde più al “chi sei” che al “cosa sai”. Profili social, video curriculum potrebbero essere più adatti, comprendendo soft skills altrimenti impercettibili, oltre che dimostrando la messa in pratica con una presentazione video in inglese o alla guida di un muletto.

Tutta questa spinta in avanti, modernista, va poi bilanciata per non perdere chi potrebbe restare indietro da un punto di vista del gap tecnologico, linguistico, di genere, di età, di livello di studio, di disabilità.

La fluidità del mondo incontra la fluidità del mercato del lavoro non nel loro smanioso progredire per regredire, ma per evolversi in chiave neo conservatrice e pertanto reale, con senso di responsabilità per la gente che ci sta’ dentro. La sfida è quella delle competenze che con la loro leggerezza entrano meglio dalla finestre del treno in corsa, piuttosto che aspettando il lavoro in una remota stazione di periferia con un treno in ritardo.

La crisi russo/ucraina dimostra inoltre non solo la necessità di ritarare il mondo sulle persone, sulle competenze, ma fa emergere quello che del resto era già noto: la sfida delle competenze ci deve essere anche nel contesto di un Mediterraneo di cui l’Italia si è dimenticata, lasciandolo agli appetiti della Russia e della Cina. L’economia del mare: la pesca, la nautica, il turismo nautico, la logistica, la tutela ambientale e quindi le ZES (Zone economiche speciali), le ZEE (Zone economiche speciali) come luogo dell’interesse nazionale, come meta, tra le altre, del nuovo mercato del lavoro.

Il Sovranismo inclusivo e la fluidità estensiva del mercato del lavoro possono coesistere e rafforzarsi reciprocamente.

*Nicola Boscolo Pecchie, esperto mercato del lavoro

L’industria dei cavi sottomarini e gli interessi strategici del Paese

Intervento introduttivo del presidente Adolfo Urso al seminario  della Fondazione Astrid su “Industria dei cavi sottomarini: tendenze di mercato e geopolitica”

 

Colgo in apertura l’occasione per ringraziare Astrid e Franco Bassanini per la possibilità di continuare ad imparare in seminari come questo odierno, perché credo fortemente sia fondamentale per me, ed in generale per la classe dirigente di questo Paese, non smettere mai di apprendere su temi strategici e prioritari di cui è necessario avere approfondita conoscenza se si vuole agire, in tempi rapidi, in un mondo in cui assistiamo a continue accelerazioni nello sviluppo dei principali settori economici e tecnologici. Quindi, cercherò in particolare di ascoltare i vari interventi, che saranno molto utili, così come sono stati già molto utili incontri passati che ho avuto con alcuni di voi per continuare ad apprendere su questa materia.

Si tratta di questioni fondamentali nell’ambito del ruolo di Presidente che svolgo presso il “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” (Copasir), soprattutto per allargare anche la prospettiva con cui in quella sede affrontiamo le tematiche della sicurezza nazionale. Il Copasir, infatti, non si occupa soltanto di intelligence, come accadeva in passato, e la stessa denominazione “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” indica l’ampio perimetro della politica della sicurezza nazionale nei suoi vari aspetti, anche quelli riguardanti l’industria e la tecnologia del Paese.

Nell’ambito del mio lavoro di parlamentare, tra l’altro, ho presentato in Parlamento una mozione che riguarda proprio la politica italiana sui cavi sottomarini. Una mozione

parlamentare che non è stata né esaminata né discussa dal Parlamento, presentata oltre un anno fa, e che affrontava i temi complessi di cui discutiamo oggi.

È di assoluta importanza sottolineare che noi abbiamo un’industria ed una tecnologia da tutelare e da rafforzare nel campo dei cavi sottomarini. Non siamo infatti secondi a nessuna altra realtà internazionale, e possiamo svolgere un ruolo importante e significativo sotto i diversi aspetti che riguardano, ad esempio, le tendenze di mercato.

Ritengo su questo punto molto significativo il documento che avete presentato, in particolare per come riassume le modalità con cui si è sviluppato il mercato dei cavi sottomarini, come ha avuto un’accelerazione e quali sono i soggetti privati e pubblici, imprese e Stati, che intervengono e che comportano quindi considerazioni di natura geopolitica.

Per quanto riguarda il Copasir, la parte geopolitica di maggiore interesse è ovviamente la parte della sicurezza, tenendo però ben presente che le ricadute nel sistema industriale sono altrettanto significative: se infatti l’Italia perde eccessivo terreno nel campo della tecnologia e dello sviluppo industriale, utilizzare tecnologie altrui ci renderebbe sempre più dipendenti ed – in alcuni casi – soggetti a rischi che riguardano la nostra sicurezza nazionale. Questo vale nel settore di cui stiamo discutendo oggi, come sul terreno più ampio della transizione digitale e della transizione ecologica.

Se, lungo il percorso di queste due transizioni, l’Italia diventa Paese meramente utilizzatore di tecnologia altrui, aumenta in maniera esponenziale la dipendenza da altri paesi, con le conseguenze che tutti conosciamo. In particolare, si tratta della sicurezza nazionale, la quale ruota intorno all’informazione e ai dati che passano attraverso i cavi sottomarini, come è evidenziato sempre nella nota che avete condiviso in preparazione del seminario, ma anche della capacità di sviluppo dell’industria e dell’economia e quindi del lavoro italiano.

Il rischio che davvero corriamo, in riferimento anche all’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), e di tutto quello che ne deve conseguire in termini di investimenti, è che l’industria ed i prodotti italiani – alla fine – non siano protagonisti

nei settori tecnologici di punta, non siano quindi attori protagonisti delle due transizioni – digitale ed ecologica – verso un’era moderna, verso un nuovo modello di sviluppo.

Parlando più specificatamente dei cavi sottomarini, è importante l’esempio degli hub del gas. L’Italia, infatti, è un hub europeo di gas coi suoi gasdotti, e questo è un elemento di forza del sistema, poiché ad esempio alla luce dei recenti rincari dei prezzi, consente all’Italia di essere abbastanza garantita, se non altro sotto l’aspetto dell’approvvigionamento. Non ovviamente dal lato dei prezzi, poiché su questo aspetto incidono altri fattori legati al settore energetico. L’Italia può però diventare un hub importante anche per quanto riguarda il sistema dei cavi sottomarini e dei cavi terrestri.

In una interrogazione che presentai in Parlamento, prima di divenire Vice Presidente e poi Presidente del Copasir, posi la questione della necessità di una strategia italiana in materia di industria dei cavi, contemplando l’utilizzo dello strumento del golden power nel caso dell’azienda Interoute, una multinazionale europea che possedeva il più esteso backbone in fibra ottica presente sul continente europeo, frutto del lavoro delle imprese italiane, che avrebbe potuto essere recuperato al sistema Italia se il governo avesse attuato la stessa strategia che aveva attuato in passato. Lo strumento della golden power sarebbe infatti determinante per recuperare a sistema anche un’importante dorsale di telecomunicazione, di trasmissione di informazione europea.

Reputo pertanto che manchi all’Italia un “progetto Paese”, in cui lo Stato sappia difendere i propri interessi in settori strategici, in particolare in quelli innovativi dal punto di vista tecnologico. Recentemente, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato, molto correttamente, che lo Stato, nella frontiera tecnologica, deve essere presente. Le sue parole erano riferite alla frontiera tecnologica del digitale, nel campo della green economy e del settore energetico.

Nei settori di frontiera tecnologica, lo Stato deve svolgere un ruolo attivo, come viene svolto ad esempio dalla Repubblica Popolare Cinese o dagli Stati Uniti, secondo un modello di “capitalismo di Stato”. Un esempio è come gli Stati Uniti si stanno muovendo nel settore dello spazio, tema a cui ci stiamo interessando molto anche noi.

Sarebbe pertanto utile che il nostro Paese si dotasse finalmente di una strategia anche nella politica riguardante i cavi sottomarini. Una strategia necessaria perché, come è stato giustamente sottolineato nella nota introduttiva al seminario, ben il 99% delle informazioni e dei dati globali passano attraverso questa infrastruttura. Peraltro, diventa ancor più fondamentale svolgere un ruolo importante in questo settore, in un momento storico in cui connettere le varie aree geografiche è fattore determinante per il modello economico dominante.

In questo contesto, ci auguriamo inoltre che la strategia di cui si deve dotare l’Italia – ma anche l’Europa – consenta al Mediterraneo di svolgere un ruolo importante nel connettere l’area atlantica con l’area del Pacifico, il continente americano e quello europeo e, queste due ultime aree, con le zone in forte sviluppo dell’Africa e dell’Asia.

Il Mediterraneo rappresenta infatti il centro strategico che può connettere tutte queste realtà, uno snodo fondamentale che sarebbe auspicabile, tramite ad esempio gli hub di Palermo o Genova e non solo di Marsiglia, potesse svolgere un ruolo da protagonista nell’ambito dello scambio e della trasmissione di dati e informazioni a livello globale.

La competizione è molto forte anche sulla scelta delle aree dove i cavi sottomarini si ricollegano a quelli terrestri; per questo è importante avere una posizione dell’Italia decisa e in grado di favorire i propri hub e quindi di creare una dorsale italiana strategica a livello internazionale. È necessario quindi porre grande attenzione che le nuove infrastrutture di cavi sottomarini che stanno nascendo e nasceranno nel Mediterraneo non “saltino” i nostri hub, in favore di hub tedeschi (Francoforte) o francesi (Marsiglia), favorendo quindi le economie e gli interessi di altri paesi a discapito dei nostri.

In conclusione, l’Italia deve recuperare al più presto il terreno perso in questo settore strategico anche a causa, e lo dico senza intenti polemici, di alcune privatizzazioni di grandi imprese nazionali che hanno di fatto impedito all’Italia di avere un ruolo importante nella costruzione delle infrastrutture dei cavi sottomarini. Motivo per cui, ad esempio, per altre grandi imprese italiane come Enel ed Eni, fu scelto un modello

diverso, che ha oggettivamente funzionato, in cui il ruolo del pubblico rimaneva centrale. Per altre aziende, come ad esempio Telecom Italia, purtroppo furono fatte scelte diverse: meno di tre decenni fa Telecom Italia era una delle più grandi aziende di telecomunicazione globali ed oggi abbiamo quel che il mercato ci ha riservato.

Si tratta purtroppo di errori del passato che hanno conseguenze importanti sul presente. Nell’ambito del settore di cui discutiamo oggi, quello dell’informazione e dei dati, della loro trasmissione, circa trent’anni fa furono fatte scelte sbagliate, non considerandolo strategico al pari di quello dell’energia, del gas o del petrolio. Non si è avuta la capacità di comprendere che invece si trattava di settori probabilmente ancor più strategici di quelli citati, che – se affrontati con politiche economiche e industriali adeguate – oggi non ci avrebbero posto nella condizione di dover gestire e superare le enormi difficoltà con cui invece dobbiamo confrontarci.

È importante però recuperare il tempo perso e rimediare agli errori fatti in passato, poiché è ancora possibile ritagliarsi un ruolo importante a livello internazionale, applicando un’unica logica in quello che è lo sviluppo del sistema digitale in questo Paese. Lo Stato può avere una sua strategia che può poi declinarsi di volta in volta secondo strumenti diversi: ad esempio, tramite la golden power per difendere i propri interessi nazionali, o tramite la Cassa Depositi e Prestiti, per intervenire in maniera attiva in alcuni settori strategici, o infine attraverso la politica regolamentare.

A monte di tutto ciò, è però decisivo che lo Stato si doti di una strategia ben precisa ed organica, in grado di fare dell’Italia una piattaforma digitale e di connettività tra contenimenti nel Mediterraneo e in Europa. Per questo, è necessario che anche le aziende svolgano un ruolo attivo e centrale nel settore dei cavi sottomarini, ragionando e operando in una logica di sistema. Soltanto ragionando in questi termini, si può giungere ad accordi internazionali che tutelino gli interessi italiani ed europei. Il nostro Paese, ovviamente, non può aderire direttamente a consorzi internazionali, né è dotato di imprese in grado di fare da sole quello che sono in grado di fare le grandi Big Tech americane o cinesi, ma può mettere in campo una strategia di sistema Italia, in cui le

nostre imprese sono incentivate ad aderire a consorzi di imprese internazionali, delineando un piano nazionale che renda la nostra penisola una piattaforma strategica, interconnessa con cavi sottomarini al resto d’Europa e, attraverso l’Europa, all’Atlantico, interconnessa nel Mediterraneo con i paesi africani. In particolare, l’Italia deve mirare a rappresentare un hub centrale tra i paesi della sponda sud del Mediterraneo, che dovranno interconnettersi con la piattaforma europea, e quei paesi che vorranno connettersi con i paesi asiatici, dove nei prossimi anni, è prevista la maggiore produzione di informazione.

Non dobbiamo inoltre dimenticare che l’Europa resta il continente che produce la maggior quantità di dati ed informazioni, e di conseguenza non dobbiamo dimenticare quanto sia importante preservare questi dati e queste informazioni. Questi elementi, infatti, oggi rappresentano il campo da gioco dove si svolge la partita della geopolitica, ed è estremamente importante per l’Italia svolgere un ruolo centrale. Dotarsi di una gestione strategica dei dati oggi consente, da una parte, di garantirsi maggiore sicurezza nazionale, e, dall’altra parte, di sviluppare i settori dell’industria, della ricerca della tecnologia, incentivando e attraendo investimenti internazionali.

Credo quindi che il seminario che Astrid ha organizzato oggi sia molto importante anche per lanciare un messaggio alle istituzioni, che devono rendersi conto della grande velocità con cui certe dinamiche si stanno sviluppando, anche a seguito della recente pandemia e del lockdown a cui siamo stati costretti. Abbiamo infatti scoperto tutti quanto sia importante il lavoro a distanza, e quanto sia importante la rete Internet. L’uso della rete ha raggiunto livelli incredibili, rendendoci consapevoli sia degli aspetti positivi, sia di quelli negativi in termini di sicurezza e vulnerabilità (ad esempio in ambito sanitario).

Ci rendiamo quindi conto, e mi rivolgo in particolare all’amico Bassanini, quanto sia importante creare una rete in Italia che giunga all’ultimo miglio nel più breve tempo possibile. Se non abbiamo una rete italiana di banda ultra larga, se non abbiamo un Cloud nazionale della pubblica amministrazione che preservi i nostri dati, se non

abbiamo investimenti significativi, una connessione di cavi marittimi e cavi terrestri per farci diventare piattaforma digitale europea nel Mediterraneo e quindi nel mondo, anche le risorse, il PNRR, subiranno una dispersione e andranno a beneficio di altri, non certamente a noi.

*Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo

 

Il Copasir aveva denunciato l’aggressività della Russia

Pubblichiamo il testo dell’intervento del 1° marzo  del senatore Adolfo Urso in occasione del dibattito in Aula sulla posizione dell’Italia sulla guerra in Ucraina

Signor Presidente, intervengo per la prima volta in quest’Aula da quando sono stato eletto Presidente del Copasir, utilizzando il tempo che mi è stato concesso dal mio Gruppo per evidenziare innanzitutto proprio quanto il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica abbia fatto in questi mesi proprio sulle questioni che ora dovremo necessariamente affrontare, in un clima di emergenza sull’onda della guerra nella nostra Europa. Sarà poi il senatore La Russa, in sede dichiarazione di voto, a esporre la posizione del Gruppo.

In questi mesi, con gli altri colleghi del Copasir abbiamo svolto un’intensa attività, come prescrive la legge, in vincolo di segretezza, con indagini, audizioni e analisi di cui abbiamo dato conto in relazioni specifiche al Parlamento – queste sì – pubbliche. In esse abbiamo evidenziato, tra l’altro, con estrema chiarezza proprio la postura aggressiva della Russia, non solo in Ucraina e nell’Europa orientale, ma in ogni area di interesse strategico italiano ed europeo: dai Balcani al Caucaso, dal Mediterraneo al Sahel, secondo una strategia volta al mantenimento della supremazia energetica, al controllo delle materie prime, anche al fine di accerchiare la nostra Europa.

Avevamo segnalato anche cosa stava accadendo in Bielorussia con il referendum costituzionale; le nuove minacce che si alzano in Bosnia e in Kosovo; il rafforzamento del dispositivo militare russo in Siria; la presenza dei mercenari della Wagner in Libia e i golpe militari – sei – nel Sahel, alla frontiera del nostro Mediterraneo allargato, che spianano la strada proprio alla Wagner. Significative peraltro le manovre navali militari congiunte di Russia, Cina e Iran svoltesi in gennaio nel Golfo dell’Oman.

Avevamo anche indicato con chiarezza la necessità di predisporre una vera difesa europea, come ha indicato il Presidente del Consiglio oggi, complementare alla NATO, per aumentare la difesa dell’Alleanza atlantica nel nostro continente e nel Mediterraneo allargato. Tra breve consegneremo la relazione sullo spazio, come fattore geopolitico su cui proprio Italia, sesta potenza spaziale civile al mondo, può giocare un importante ruolo. Difesa e spazio saranno peraltro oggetto delle decisioni che l’Europa dovrà assumere in marzo con lo Strategic compass e il progetto di autonomia strategica spaziale, oggi più che mai necessario. Abbiamo però già evidenziato nella recente relazione annuale come appariva già del tutto inadeguato il progetto di difesa europea, che allo stato prevede una forza di intervento rapido di appena 5.000 militari, quando la sola Italia ha un dispositivo di 9.200 militari in missioni internazionali. Agli asseriti impegni declamati in conseguenza della sciagurata ritirata dall’Afghanistan non è infatti corrisposto un maggiore impiego di risorse; anzi, nel nuovo bilancio europeo le risorse destinate ai diversi progetti di difesa europea sono state di fatto dimezzate.

Ora appare chiaro a tutti che occorre cambiare, perché l’Europa è sotto minaccia e noi sapremo come fare. Proprio per questo il nostro primo pensiero oggi va alla resistenza ucraina, alle famiglie nei rifugi che sui social chiedono aiuto; alle ragazze che confezionano le bottiglie molotov; agli operai che scavano le trincee per rallentare l’avanzata dei carri armati.

Il nostro pensiero va ai giovani che imbracciano un fucile pur non avendo mai fatto il servizio militare, a chi rientra in patria per difendere le proprie famiglie e la propria terra, a un popolo eroico che ha scoperto di essere finalmente una vera Nazione senza distinzione di lingue e di religione, come mai nella propria martoriata storia.  Loro ci ricordano oggi, con il sacrificio della lotta, quali siano i nostri valori, risvegliando loro le nostre coscienze intorpidite. Putin ha fatto un azzardo che ha ottenuto l’effetto di sollevare l’opinione pubblica mondiale, unita come mai si era vista prima. Persino all’interno della stessa Russia c’è chi protesta rischiando il carcere e la repressione. Questa è la prima importante lezione, un monito per chiunque nel mondo pensi che anche la libertà abbia un prezzo, che sia misurabile in rubli, in dollari o in renminbi; un monito a chiunque nel mondo pensi che si possa togliere la libertà senza sollevare la reazione unanime di chi, come noi, crede e vive nella libertà.

La resistenza eroica degli ucraini segna una prima e un dopo nel conflitto globale tra le democrazie occidentali e i sistemi autoritari, un punto di svolta che sarà segnato nel calendario della storia. Quanto accaduto ci deve essere finalmente da lezione per affrontare tematiche che abbiamo da decenni accantonato, come se riguardassero altri, mentre riguardano noi e soprattutto i nostri figli che ne pagheranno il prezzo se non interveniamo subito.

Gli investimenti per la difesa sono certamente necessari, come ha appena fatto la Germania, ma lo sono anche gli investimenti in ricerca, tecnologia, formazione, nell’economia digitale e nell’intelligenza artificiale, nello spazio e nel cyber, per la sovranità energetica e la tutela degli asset strategici, senza cui nessuna autonomia e indipendenza si può più preservare.

Il Copasir ha presentato in questa legislatura sei relazioni tematiche e una relazione annuale in cui ha appunto affrontato ciò di cui oggi si discute. Cari colleghi, nessuna di queste relazioni è stata però ancora esaminata in modo compiuto dal Parlamento, anche se alcuni interventi importanti da noi indicati sono stati poi realizzati, dal sistema della golden power all’Agenzia per la cybersicurezza nazionale che colma un ritardo decennale. Lo stesso destino nel vuoto hanno avuto le altre relazioni presentate nelle precedenti legislature, così come le relazioni annuali della Presidenza del Consiglio. Siamo stati troppo distratti sui temi della sicurezza nazionale, ora occorre prenderne atto. È necessario che si svolga presto una sessione del Parlamento, come abbiamo espressamente chiesto nel nostro documento inviato alle Camere prima che la situazione precipitasse.

Quanto sta accadendo ci fa capire infatti quanto importante sia la sicurezza della Repubblica e quanto ciò debba essere considerato in ogni decisione che prendiamo, anche quando affrontiamo i temi dell’energia o dell’economia digitale, della tecnologia, dell’intelligenza artificiale, dello spazio come dell’acciaio, degli asset infrastrutturali come delle filiere industriali, ben sapendo che i nostri avversari sistemici, cioè i sistemi autoritari, li utilizzano appieno nel loro confronto con le democrazie occidentali. Tutto questo fa parte di quello che viene chiamato guerra ibrida. A tal proposito, abbiamo evidenziato la necessità di disporre di un’intelligence economica al servizio del sistema Italia, che sia proattiva a tutela della scienza e della tecnologia e degli asset produttivi del Paese.

Sì, è vero, le sanzioni stanno producendo i loro effetti devastanti, ma occorre anche fermare le armi, rispondendo alle accorate richieste di aiuto di chi è minacciato nella vita e negli affetti, come stanno facendo persino Paesi che sono stati sempre storicamente neutrali come la Svizzera e la Svezia. Ora è il momento delle scelte di campo per tutti. Certo, anche noi pagheremo i costi delle sanzioni, soprattutto come conseguenza del prezzo dell’energia o – se permettete, cari colleghi – come conseguenza delle nostre scelte energetiche errate che ci hanno resi più vulnerabili di altri partner europei.

Proprio sulla sicurezza energetica abbiamo presentato in gennaio una relazione al Parlamento, in cui abbiamo evidenziato le criticità del sistema e le sue pericolose vulnerabilità, sia a fronte della necessaria transizione ecologica, sia a fronte dell’azione egemonica degli attori statuali. In quella relazione individuavamo già alcune soluzioni che in queste ore sono state oggetto della decretazione d’urgenza e concludevamo come fosse necessario realizzare un piano di sicurezza energetico che riducesse la dipendenza dall’estero e soprattutto dalla Russia, con l’obiettivo dell’indipendenza energetica e dell’autonomia produttiva e tecnologica, in collaborazione con i partner europei occidentali, anche in considerazione dei fattori e dei rischi geopolitici sempre più evidenti già allora.

Nella relazione annuale per la messa in sicurezza della rete cyber. Ieri peraltro l’Agenzia ha lanciato un allarme particolarmente significativo, anche perché la Russia è lo Stato meglio attrezzato al mondo per la guerra cibernetica. Per completare questa linea difensiva abbiamo richiamato la necessità di realizzare al più presto il cloud nazionale della pubblica amministrazione e la rete unica a controllo pubblico.

Cari colleghi, la Russia si è preparata da tempo al confronto con l’Occidente. Sono dieci anni che investe sulle due armi che possiede: le risorse energetiche e le forze armate. Punta al controllo delle materie prime e delle frontiere d’Europa, a sottomettere l’Ucraina oggi, per sottomettere domani le Repubbliche baltiche, la Georgia e la Moldova. Ora tutti sappiamo perché e dobbiamo elevare il livello di difesa, anche a fronte di un mondo in cui emergono altri attori altrettanto aggressivi, innanzitutto la Cina, primaria potenza tecnologica e produttiva, capace, essa sì davvero, di aspirare alla supremazia globale. Non possiamo fuggire dalla storia, però possiamo cambiarla. Con la risoluzione unitaria che voteremo oggi cominci davvero una nuova fase nella vita politica del Paese, che ci veda sempre uniti quando è in gioco la sicurezza della Repubblica e, con essa, i valori fondamentali della nostra civiltà.

*Adolfo Urso, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica

Siamo più forti uniti. Il nostro orgoglio di lavorare insieme con partner italiani

To say that COVID19 has changed us may sound self-evident. Indeed, our daily lives have been so much affected by the virus that we now even wonder whether we will ever return to pre-pandemic “normal”. But whatever the impact on our individual lives, it is also important to analyze and understand the long-term changes that have happened at a higher level in our politics, the functioning of our democracies, and international relations.

For a number of reasons, Italy is probably the country in Europe that has been at the forefront of the momentous change we have lived over the past two years. Italy was the first country in Europe to shut down its economy due to the unexpected arrival and spread of the virus. Italy was also the country that paid the highest price last year for the first lockdown and, interestingly enough considering the rise of Euroscepticism in the country over the past few decades, it will also be the biggest single beneficiary of the European recovery fund – a lifeline for the national economy, and a unique opportunity to engineer a new start for the country, after 30 years of economic difficulties. Finally, Italy was also at the center of attention for Russian spies and Chinese propagandists, as they tried to use the occasion to weaken the country’s security and ties with its allies. To say that these attempts have backfired spectacularly may be true, but this is certainly not the end of the story. Russia will be back, and so too will China, as it desperately tries to extend its influence in Europe, sending more countries in a debt trap and extorting political favors from economic dependence.

There is much that Europeans (and more largely Westerners) can learn from Italy’s experience in fighting off the virus, and Italy is a key ally for the United States, as well as a key member of the European Union. With this in mind, and as the pressure builds on the Mediterranean – with the crisis in Afghanistan, but also the pressure China is exerting to gain a foothold in this key sea for East-West trade, it is high time for us to talk. This is what drove the International Republican Institute to organize this LEAD21 event in Rome, bringing up-and-coming MPs to discuss the lessons we can all take from the past year and a half, and most importantly talk about the future of Southern Europe, of the Mediterranean, and of the Transatlantic relationship.

Such an ambitious endeavor requires allies, and to provide the highest quality of debates, IRI, together with their Italian colleagues and experts from our partner organizations, Fare future, the Italian Atlantic Committee, but also the Fondazione de Gasperi and the Fondazione Luigi Einaudi, is glad to have teamed up with some of the best brains in the country to set up this discussion with  Europe’s future political leaders. The diversity of these think-tanks is in itself an asset, allowing for a wider and (importantly) a more profound debate, with conclusions not set as a foregone conclusion, but as the result of research and deliberation. Such is the strength of the West, and this seminar will be yet another chance for us to demonstrate that debate and intelligent dialogue, not the monolithic model offered by our adversaries, is the way forward.

Success requires teamwork, and this event is no exception. But in every team, some players are always more special than others, and so we are particularly grateful to Farefuturo for bringing the discussion to new levels in terms of international security, a crucial topic after this summer’s events, for inviting the group to debate in the Senate, and also for bringing us all together to commemorate the victims of jihadi terrorism – and those who fell fighting against it – at the Vittoriano, such an important symbol of Italian patriotism, where so many who fell for freedom and the unity of their country are celebrated.

The event that we are organizing together with our Italian friends these days should not be taken as a single event. It is part of a much wider discussion that IRI has undertaken in Italy and more widely in the Mediterranean. Together with politicians and actors in the think-tank universe, we believe it is time to discuss – and shape – the future of the Transatlantic alliance, and that of the Mediterranean. We also need to build a constructive dialogue about the current challenges facing our democracies – all of these crucial for the success of the West in the future, may the perspective be from Rome or Washington.

For this large and ambitious project, IRI is happy to have found in Farefuturo a great partner, with whom we hope to continue working in the future, through the exchange of ideas and further events we hope to organize jointly. This September event is the start of what we hope to be a long and mutually beneficial relationship.

 

*Thibault Muzergues, Europe and Euro-Med Program Director, Transatlantic Strategy

 

ITALIANITÀ NEL MONDO, FORZA PROFONDA

Questo saggio di Giulio Terzi di Sant’Agata, è stato pubblicato sul Rapporto Italia 2020 della Fondazione Farefuturo

 

I CONTENUTI IDENTITARI

Un forte elemento identitario della società italiana è il principio di solidarietà e di partecipazione, intrinsecamente legato al valore della vita umana e della dignità della persona. È rimasto saldo nelle generazioni che hanno vissuto la tragedia della Seconda guerra mondiale. Neppure le dittature nazista e comunista sono riuscite a cancellare i valori di questa identità: nei territori controllati dalle nostre forze armate persino la «soluzione finale» voluta da Hitler è stata in ogni modo ostacolata, anche sacrificando la vita, da migliaia di militari, diplomatici, funzionari, religiosi e comuni cittadini italiani. Tutto questo non è avvenuto per un caso della storia. Per quasi tre secoli il nostro pensiero politico e giuridico ha sviluppato quel senso di libertà laico e illuminista che, in simbiosi con la tradizione giudaicocristiana, ha ispirato le rivoluzioni democratiche di fine Settecento, e ha fatto progredire lo Stato di Diritto sino alla sua odierna concezione nel diritto internazionale, dai Trattati Europei ai numerosi accordi regionali e globali. È proprio la tradizione giuridica a costituire per gli italiani un forte elemento identitario. Vi è, certo, il paradosso della disaffezione popolare per la politica e per le sue istituzioni. Ma il nostro Paese è tra i primissimi in Occidente ad aver influito e ad influire, da Cesare Beccaria e Gaetano Filangieri sino a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulla diffusione dei principi dello Stato di Diritto pur trovandosi oggi in posizione piuttosto arretrata nella lotta alla corruzione, nella libertà di informazione, per quanto riguarda la giustizia, e il sistema carcerario. È dimostrato in ogni caso come l’elemento identitario profondo e forte riguardi l’insieme della nostra cultura, il suo contributo valoriale al progresso umano, e il senso di un «comune destino» che lega gli italiani sparsi nel mondo alla terra di origine. Un’identità, quindi, essenzialmente culturale; recepita e al tempo stesso alimentata da un’«altra Italia» fatta da quasi sessanta milioni di individui di cittadinanza o di discendenza italiana. L’attrazione che loro hanno verso il paese di origine e la sua cultura è così forte che gli ultimi censimenti negli Stati Uniti – dove il numero stimato dei nostri connazionali corrisponde quasi alla metà di tutti gli italiani all’estero – rilevano significativi aumenti tra i cittadini americani che dichiarano una loro origine italiana nonostante l’immigrazione dall’Italia sia ferma da quarant’anni.  Purtroppo l’attenzione che dedichiamo a questa «italianità», così importante per far «capire l’Italia» anche nei momenti più difficili, è assai modesta, anche quando si sprecano assicurazioni e promesse retoriche. Riconoscere un preciso interesse nazionale in tale direzione presuppone un netto cambiamento di rotta.

 

UN DECENNIO PERSO?

Il richiamo dell’«italianità» appare ancor più necessario ove si consideri che nel decennio appena concluso la «performance» del nostro Paese rispetto ad altri – a noi paragonabili per popolazione, dimensione economica, proiezione regionale e globale, sviluppo sociale e istruzione – viene giudicata debole da molti punti di vista. In politica è stato un susseguirsi poco concludente di esperimenti che hanno accresciuto la sensazione di instabilità e di transizione permanente, governativa e istituzionale. La crescita economica e dell’occupazione è rimasta una chimera. Contraddittorie e carenti sono parse le misure fiscali, di sostegno allo sviluppo e all’innovazione. In politica estera si deve ammettere come siano stati anni più di declino che non di rilancio del ruolo complessivo dell’Italia in Europa, nel Mediterraneo, e sul piano globale.  Hanno indubbiamente pesato fattori poco prevedibili e lontani dalla capacità di controllo per un singolo, per quanto influente, paese europeo. Lo è stato il disimpegno americano da spazi geopolitici di nostro diretto interesse; così come l’emergere di due «potenze revisioniste» dell’attuale ordine mondiale, o di ciò che ne resta. Pur essendo molto diverse per dimensione economica – il Pil russo equivale a un ottavo circa di quello cinese, e ai tre quarti di quello italiano – Cina e Russia sono infatti mosse da una comune propensione all’utilizzo della forza nell’accaparrarsi risorse naturali, nell’ampliare la loro influenza politica e presenza militare, nella politica del fatto compiuto. Cina e Russia si preoccupano sempre meno di dover risolvere – come prevedono trattati e statuti che hanno ratificato – ogni eventuale controversia attraverso i numerosi strumenti giurisdizionali e pattizi offerti dal Diritto internazionale. Da parte italiana, numerose incertezze, rinunce, ambiguità nei riferimenti fondamentali della nostra politica estera e di sicurezza, europea, atlantica e mediterranea hanno tuttavia contribuito, e non poco, a ridimensionare il ruolo dell’Italia sulla scena globale. Se pertanto si è chiuso un decennio che sarebbe arduo valutare come positivo per il ruolo internazionale del Paese, ancor meno accettabile è la scarsità di risultati conseguiti nell’affermazione dell’interesse nazionale e della sovranità dell’Italia.

 

NON UN DECENNIO PERSO PER LA «DIPLOMAZIA DELLA CULTURA»

Vi è tuttavia un ambito che si è rivelato sorprendentemente vitale anche negli ultimi dieci anni, persino più di quanto non lo sia stato in precedenza. Una dimensione cresciuta con dinamiche essenzialmente proprie, per lo più estranee all’impiego di risorse pubbliche, a strategie di Governo, o a visioni sostenute nei palazzi del potere. Si tratta della «Diplomazia della Cultura»: terreno privilegiato di interazione tra le «società civili», tra grandi e meno grandi protagonisti del sapere, della comunicazione e della conoscenza a livello globale. Ed è proprio in tale dimensione che si sta affermando con maggior chiarezza un ruolo di primo piano dell’Italia sostenuto dai valori identitari e culturali di «italianità» propri alle nostre comunità all’estero.  Vi sono principalmente tre motivi che rafforzano questa tendenza: 1. In primo luogo, si rileva da tempo una motivazione crescente delle nostre comunità all’estero – per effetto soprattutto della accelerata globalizzazione del sapere sostenuta dalle nuove tecnologie –  a «promuovere l’Italia» nella sua riconosciuta «unicità» di patrimoni culturali e di bellezza che colma oltre due millenni di una storia al centro dell’Europa e del Mediterraneo.  2. Inoltre, tale elemento motivazionale appare concentrarsi tra i giovani; siano essi di seconda, terza o altra fascia generazionale della nostra emigrazione; così come tra quanti sono partiti per l’estero in numero crescente negli ultimi dieci-quindici anni. Sono stati e continuano a essere sempre più numerosi i nostri giovani e giovanissimi impegnati a formare nei nuovi Paesi di residenza centri di studio, associazioni, reti di scienziati, di studiosi e professionisti, a lanciare con partner in Italia collaborazioni nella ricerca, nei servizi e nell’industria dei settori tradizionali del «Made in Italy» e dei comparti più innovativi, nelle attività di cooperazione allo sviluppo, maturando positive esperienze imprenditoriali e di lavoro tra le realtà nelle quali vivono e operano all’estero e il paese di origine. 3. In terzo luogo, come recentemente ha scritto da Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della Sera», «l’Italia da sola ha una stazza troppo leggera per ambire a un ruolo significativo: anche solo per difendere i propri interessi. Ha bisogno di un partner forte, quanto più possibile forte. Ora, non potendo questo partner essere l’Unione Europea (…) la scelta si restringe di fatto agli Stati Uniti. (…) oggi nel teatro geografico che più ci interessa la posizione degli Stati Uniti appare oscillante tra tentazioni di disimpegno e affondi improvvisi. Sta di fatto però che nella politica americana alcuni punti fermi sono comunque ravvisabili: contrasto con l’espansionismo russo; un consolidato buon rapporto con il fronte islamico tradizionalista e anti-iraniano; una permanente intesa di fondo con Israele. (…) l’accredito di cui l’Italia gode nel mondo arabo, la sua posizione geografica di assoluto valore strategico unitamente al suo forte legame con la Santa Sede e da ultimo la sua qualità di terzo Paese dell’Unione Europea e quindi potenziale importante sponda con Bruxelles utili per consentire di stringere un rapporto significativo con gli Stati Uniti più forte e concertato di quello attuale». Nel rapporto privilegiato tra Italia e Stati Uniti conta, e può ancor di più influire in futuro, la realtà italiana negli Stati Uniti purché Roma esprima consapevolezza di un interesse nazionale imperniato sull’italianità nel mondo e sulle opportunità offerte dalla grande comunità italiana negli Usa.

 

… E PER IL SOFT POWER

Se ricerca e sviluppo in Italia soffrono di un’endemica carenza di risorse, per disfunzioni amministrative o fondi decrescenti, decine di migliaia di nostri studiosi nelle più prestigiose università sono una forza insostituibile per collaborazioni e partenariati in campi di ricerca avanzata dai quali spesso possono operare in stretto rapporto con nostre aziende, enti e istituzioni. Tutto questo è anche il soft power del nostro Paese, ed è un fondamentale interesse nazionale sostenerlo nel modo più convinto. Il principale studioso del soft power, Joseph Nye, ne ha definito i contenuti sottolineando come si tratti di strategie utilizzate da un Paese e da una società civile per diventare attraenti nel mondo anziché utilizzare la coercizione, gli interessi nazionali possono essere sostenuti attraverso un mix di cultura, valori, iniziative di politica estera con le quali persuadere gli altri ad agire in modo compatibile con gli interessi nazionali affermati da chi ricorre al soft power. In questa linea è stato autorevolmente affermato che la democrazia liberale è il sistema di governo certamente più idoneo ad agire attraverso soft power. Riesce necessariamente più difficile farlo a un sistema autocratico o dittatoriale. E in effetti, mentre il presidente cinese Xi Jinping aveva affermato che i «valori sottostanti alla Via della Seta e alla Belt and Road Initiative hanno un richiamo più forte che in passato», le iniziative infrastrutturali e culturali promosse da Pechino stanno avendo crescenti difficoltà nell’ammorbidire la dura immagine internazionale della Cina. Autorevoli analisti, come sottolinea «Portland Report 2019» sul soft power, giudicano la Via della Seta e la Belt and Road Initiative un danno per la reputazione internazionale della Cina. Non è un caso che nel raffronto analitico tra le diverse componenti del soft power in Cina e in Italia, il nostro Paese appaia negli ultimi tre anni in netta crescita mentre la Cina registra una considerevole flessione.

Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli Affari Esteri

IL GRANDE MEDIO ORIENTE È ANCHE ITALIA

Questo saggio dell’ambasciatore Gabriele Checchia,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

A chi gli chiedeva valutazioni sulle crisi ai suoi tempi in atto nello scacchiere mediterraneo, il compianto Fernand Braudel era solito rispondere: «…quando mi si parla di Mediterraneo, ho bisogno di pensare la totalità». Il grande storico francese intendeva in tal modo porre in luce come una lettura delle dinamiche mediterranee disancorata dalla dimensione geo-politica ben più ampia all’interno della quale il Mediterraneo in senso stretto si colloca (dall’Africa sub-sahariana oggi tornata prepotentemente di attualità con la pressione esercitata dai flussi migratori verso l’Europa, all’area del Golfo la cui rilevanza strategica è sin troppo evidente…) rischi di rivelarsi di scarsa utilità per chi voglia avvalersene ai fini della messa a punto di strategie di natura politico/diplomatica/securitaria.

Ecco perché soprattutto da parte statunitense – sostanzialmente a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso – si è ritenuto opportuno affiancare, se non in molti casi sostituire, al concetto di Mediterraneo allargato quello di «Grande Medio Oriente». Se le due formulazioni coincidono in generale sulla direzione dell’«allargamento» verso zone tradizionalmente considerate propaggini naturali del bacino mediterraneo, esse si differenziano per la prospettiva con la quale guardano alle aree in questione. Nel Mediterraneo allargato il baricentro è da individuare nel bacino mediterraneo mentre Golfo Persico e Caucaso ne costituiscono la turbolenta periferia; nella formula del «Grande Medio Oriente» è il bacino mediterraneo a giocare un ruolo secondario poiché il centro del sistema è spostato più a est, nella Penisola arabica e nel Golfo Persico con tendenza a proiettarsi verso l’ancora più lontano scacchiere indo-pacifico. Di tale interrelazione tra le due aree prova evidente è fornita proprio in queste settimane dalle complesse dinamiche e reazioni di vario segno innescate nell’insieme dello scacchiere dalla eliminazione da parte statunitense, lo scorso 3 gennaio, del generale Qassem Suleimani, di fatto il numero due del regime iraniano (nonché la figura più vicina alla Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei).

Eliminazione che – pur se notoriamente avvenuta in risposta alle gravi provocazioni e attacchi da parte di Teheran nei confronti degli interessi statunitensi e occidentali nella regione – ha colto di sorpresa anche molte capitali «alleate» (tra cui la nostra) aprendo questioni non secondarie: ad esempio in termini di livello auspicabile (doveroso?) di concertazione per il futuro tra Washinton e gli «alleati» in particolare in aree – come quella del «Mediterraneo allargato/ 187 Grande Medio Oriente» – nelle quali contingenti di Paesi alleati sono impegnati a vario titolo sul terreno in diversi, e sovente contigui teatri, nel segno di condivisi valori e obiettivi. Basti pensare per quanto riguarda il nostro Paese, e per tornare a un tema che ho già evocato, ai circa 800 nostri militari ancora dispiegati in Afghanistan con cappello Nato seppur in missione «no combat», ai poco meno di 1000 schierati in Iraq nel quadro della coalizione anti-Daesh a titolo bilaterale o multilaterale (nonostante la sospensione in atto delle attività addestrative, sulla scia della vicenda Suleimani e delle minacciate ritorsioni da parte iraniana), agli oltre 1000 da tempo dispiegati nel Libano meridionale nel quadro della missione UNIFIL II. Tutto ciò in un momento nel quale – a ulteriore conferma della particolare complessità della presente congiuntura missione – poco più a «ovest» gli interventi su fronti opposti di Turchia e Russia in Libia (solo in parte – e non si sa per quanto tempo… – riassorbiti dalle decisioni adottate in occasione della Conferenza di Berlino dello scorso gennaio) stanno evidenziando come siano in gioco in quell’area interessi di straordinario rilievo: vale a dire non solo le grandi commesse legate al petrolio e al gas ma anche, se non soprattutto, la individuazione di chi – sullo sfondo del «disimpegno» statunitense da quel teatro – sarà chiamato a esercitare l’egemonia sul bacino mediterraneo. E perciò stesso, maggiore capacità di influenza, se non di vero e proprio condizionamento, sulle economie che vi si affacciano (Italia in primis).

Su uno sfondo di tale problematicità, fluidità e rilevanza, il nostro Paese per la sua collocazione geografica – ma anche per sua identità e storia di Nazione da sempre refrattaria a visioni manichee delle relazioni tra Stati e culture – è inevitabilmente (naturaliter, direbbe Tertulliano) chiamato a svolgere un ruolo di «fulcro» o quantomeno di catalizzatore degli sforzi in atto, o da avviare, per una «stabilizzazione sostenibile» dello scacchiere. Vocazione legittimata altresì – mi sembra doveroso osservare – da un ulteriore fattore tutt’altro che secondario: vale a dire dal prestigio maturato in questi ultimi decenni anche a livello internazionale dalle nostre Forze Armate impegnate in missioni della più varia natura (da quelle Ue a quelle onusiane a quelle in ambito Nato) nei più diversi teatri, con senso del dovere, professionalità e risultati oggetto di unanime apprezzamento. In altri termini, credo spetti all’Italia far valere al meglio il proprio tradizionale ruolo di «media potenza regionale» consapevole, certo, dei propri limiti (è questo un segno di maturità specie se raffrontato al velleitarismo di altri importanti attori europei…) ma anche delle proprie potenzialità: a cominciare da quella di credibile (ben più di altri, a condizione di sapere come muoversi…) «facilitatore» di dialogo tra interlocutori con agende sovente divergenti ma per così dire obbligati – salvo voler davvero mettere a repentaglio la pace 188 e la sicurezza nella Regione – a ricercare modalità di coesistenza foss’anche nel segno di un minimo comun denominatore al ribasso.

Penso, ad esempio, alla preziosa azione di ricucitura che il nostro Paese (e la nostra diplomazia) potrebbero svolgere, ove del caso, per scongiurare un non impossibile emergere di difficoltà nelle relazioni tra la Nato e l’Unione Europea qualora la Turchia a guida AKP decidesse, per qualsivoglia motivo, di far venir meno il necessario «consensus» in ambito atlantico sulla opportunità di andare avanti nel percorso da tempo avviato di accresciuta collaborazione tra le due Organizzazioni. O, ancora, al contributo che da parte italiana si potrebbe fornire, ove ciò fosse auspicato da parte statunitense, alla ricerca di un «modus vivendi» tra gli Stati Uniti e un Iran a guida Khamenei nella ancor più difficile fase apertasi con l’uscita di scena di Qassem Suleimani e le successive ritorsioni della Repubblica islamica attraverso le milizie ad essa fedeli in Iraq, in primis Kataib Hezbollah. Mi concentrerò dunque proprio su quella estensione a est e a sud-est del Mediterraneo che configura, nella accezione comune, il «Grande Medio Oriente».

Cercherò di evidenziare taluni versanti che ritengo di prioritario rilievo per la tutela dal nostro interesse nazionale, lasciando ad altri l’analisi nel dettaglio di crisi in atto a ovest di tale scacchiere: come quella in Libia, di perdurante gravità, e con rilevanti implicazioni per il nostro Paese. Da un punto di vista di ordine generale non vi è dubbio che nostro precipuo interesse, anche in termini di contenimento della minaccia terroristica, sia proprio la ricerca di quella «stabilità sostenibile» che ho sopra evocato. Il progressivo emergere di una regione mediterranea, nel senso più ampio del termine, sicura e stabile è infatti indispensabile sia per l’Italia che per l’Europa nel suo complesso della quale il nostro Paese costituisce, per così dire, la frontiera avanzata. È sfida complessa ma da raccogliere per almeno due ordini di motivi: il primo, cui ho già fatto cenno, connesso alle implicazioni che la maggiore o minore stabilità e affermazione di una buona governance nell’area (seppure con le specificità dettate dai singoli e assai diversificati contesti socioculturali) riveste sotto il profilo della nostra sicurezza; il secondo, legato alla nuova rilevanza strategica che la Regione in parola è in questi anni venuta acquisendo.

Oltre che per le sue implicazioni di sicurezza, l’odierno Mediterraneo allargato e la sua propaggine rappresentata dal Grande Medio Oriente è infatti venuto guadagnando, da qualche anno a questa parte, crescente rilievo anche come «piattaforma di connessione globale»: il raddoppio del canale di Suez, le ricadute dell’allargamento di quello di Panama, le recenti scoperte energetiche nelle sue acque orientali (il c.d. «Levantine basin») e l’ambizioso progetto – dalle implicazioni non necessariamente rassicuranti… – di «Via della Seta» spregiudicatamente 189 portato avanti dall’attuale dirigenza cinese, fanno infatti del Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente uno snodo cruciale sul piano infrastrutturale, dei trasporti e delle reti logistiche. Se questi sono dunque alcuni dei versanti suscettibili di beneficiare di un contributo del nostro Paese in un’ottica di stabilità regionale è doveroso porsi anche il quesito di quali siano i settori da curare in via prioritaria ai fini della tutela del nostro «interesse nazionale» in senso stretto, nonché quello degli strumenti e/o delle «policies» più idonee al perseguimento di tale obiettivo. Tre mi sembrano i terreni cui rivolgere speciale attenzione.

Il primo è quello relativo, appunto, alla sicurezza nell’accezione più ampia del termine: dal ritorno, dunque, di accettabili condizioni di stabilità e governance condivisa in Siria (e per certi versi in Iraq dove continuano gli scontri tra le milizie sciite pro-iraniane e le forze statunitensi colà presenti in funzione anti-Daesh) al contrasto al terrorismo che proprio nell’area in parola trova da tempo una delle principali fonti di reclutamento. Sarà pertanto essenziale che il nostro Paese continui a figurare tra i principali provider di sicurezza nella Regione attraverso gli strumenti già in atto (e altri che dovessero essere in prospettiva posti in essere a livello internazionale): dal nostro tradizionale contributo di primo piano alla missione UNIFIL II nel Libano meridionale; all’Iraq, dove – in aggiunta al nostro significativo ruolo di co-presidenza del Gruppo di lavoro per il contrasto al finanziamento del Daesh – figuriamo tra i principali contributori di truppe alla «coalizione anti-Daesh», oltre che in prima linea nell’addestramento delle forze di sicurezza e polizia irachene (nonostante la recente sospensione, per i noti motivi, di tali attività di formazione che c’è da augurarsi possano al più presto riprendere).

Sotto tale profilo appare dunque condivisibile la proposta avanzata dal ministro Di Maio di una riunione a Roma – in tempi per quanto possibile ravvicinati e non appena superata la drammatica pandemia del corona virus – per un punto della situazione, e uno scambio di vedute su come ulteriormente procedere, tra i ministri degli Esteri degli 84 Paesi membri della coalizione: coalizione la cui area di interesse andrebbe però, ad avviso italiano, estesa alla turbolenta regione del Sahel. Sempre in relazione alla regione del Sahel, dalla quale continua a provenire buona parte dei flussi migratori che investono il nostro Paese e l’Europa, sarà indispensabile per l’Italia continuare a battersi a Bruxelles, e in ogni appropriata istanza, per una sostanziale modifica delle regole sull’asilo europeo (in sostanza per modificare in senso per noi meno penalizzante il Regolamento di Dublino), nonché per dare impulso ai rimpatri assistiti. In sostanza nostro obiettivo – non facile da raggiungere ma da perseguire con determinazione – deve essere quello 190 di fare sì che l’Europa cominci a muoversi in materia di asilo in base a risorse e norme chiare ed equilibrate oltre che con interventi rapidi ed efficaci.

Basterebbe, a comprovare l’urgenza di una nostra forte azione in Europa volta a far sì che il tema del contenimento dell’immigrazione illegale figuri tra le priorità della nuova Commissione – oltre che del Consiglio e dell’Europarlamento – la situazione drammatica che continua a registrarsi al confine tra Turchia e Grecia e l’esito sinora interlocutorio (a essere ottimisti) dei contatti ad alto livello in corso tra l’Unione europea e la Turchia per la ricerca di una soluzione concordata al problema. Da una angolazione più generale, un segnale indubbiamente incoraggiante – frutto anche delle sollecitazioni in tal senso che sta da tempo rivolgendo alla Commissione Europea il nostro Paese – appare l’indicazione di una prossima proposta della stessa Commissione per un superamento del Regolamento di Dublino fornita dal commissario agli Affari Interni, Ylva Johansson, in occasione di una sua recente visita ad Atene per valutare da vicino la difficile situazione in quel Paese.

Tornando al dramma siriano sarà per noi indispensabile continuare a fornire sostegno ai processi politici rivolti a individuare soluzioni «non militari» alle diverse crisi in atto nell’area promuovendo – sempre di concerto con i nostri partner e alleati a cominciare dagli Stati Uniti – un «dialogo inclusivo» e la ownership degli attori locali: come nel caso del conflitto siriano (sempre avendo come «stella polare» la Ris. 2254 del Consiglio di Sicurezza del dicembre 2015) e di quello yemenita. Un ruolo all’altezza delle nostre potenzialità per la soluzione della crisi siriana così come la prosecuzione delle importanti iniziative da noi già avviate a supporto dei rifugiati nei Paesi limitrofi ci potrà/dovrà tra l’altro consentire di essere adeguatamente posizionati allorché decollerà – ciò che prima o poi non potrà non avvenire – la ricostruzione di quel martoriato Paese. In termini di valore aggiunto arrecato dal nostro Paese all’ individuazione di una soluzione politico- diplomatica alla crisi siriana, da noi da sempre caldeggiata, va certamente registrata in positivo la riunione a Roma nei mesi scorsi, su iniziativa della Farnesina, tra il Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per la Siria e gli Inviati Speciali dei Paesi dell’Unione Europea coinvolti nel «dossier» (Italia, Belgio, Germania, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito oltre al Servizio Europeo di Azione Esterna e al Segretario della Santa Sede per i rapporti con gli Stati, Monsignor Gallagher).

Si è trattato di un ulteriore esempio della nostra tradizionale vocazione a operare come un ponte «discreto» (ma non per questo meno efficace…) tra l’Europa e lo scacchiere mediterraneo nel suo complesso. È linea sobria ma pro-attiva alla quale ritengo indispensabile che il nostro Paese continui a ispirarsi – indipendentemente da chi sia di volta in volta al governo – trattandosi di una delle 191 carte migliori tra quelle a nostra disposizione per far valere in positivo la «specificità» italiana nella presente fase della storia mondiale: fase nella quale le ruvide logiche della riemersa geo-politica e competizione dura tra Stati rendono ancor più importante il ruolo di «attori» (come il nostro Paese) da sempre noti e apprezzati per la loro capacità di interlocuzione a 360 gradi. Secondo le stime della Banca Mondiale gli investimenti che si renderanno necessari per consentire il ritorno della Siria a condizioni più o meno normali anche sotto il profilo delle infrastrutture (fermo restando che si tratterà di una Siria comunque diversa, anche per la ben più marcata presenza e capacità di influenza di Mosca di fatto già in atto) si collocheranno in una forchetta compresa tra i 300 e i 400 miliardi di dollari Usa. Ne deriverà, va da sé, la possibilità di importanti ritorni anche per le nostre imprese molte delle quali da anni presenti e altamente apprezzate nella regione.

Da ultimo, dovrà proseguire la nostra azione a Bruxelles, da tempo avviata, perché sia l’Unione europea che la Nato – in quest’ultimo caso anche attraverso una adeguata valorizzazione dell’«hub per il sud» presso il JFC di Napoli dall’Italia fortemente voluto – assegnino la dovuta priorità allo scacchiere mediterraneo nell’accezione più ampia del termine. In ambito Ue, sarà invece essenziale continuare a vigilare affinché – anche attraverso vincoli di natura giuridica come il c.d. ring-fencing – i fondi previsti dalla Commissione per il «Vicinato meridionale» non siano deviati verso altre regioni del mondo. Quanto all’Iran – altro attore che resta ineludibile, ci piaccia o meno, nella Regione – è mia opinione che sia ormai irrealistico, dopo il ritiro americano dall’intesa «5 più 1» sul nucleare e le più recenti decisioni della dirigenza iraniana sulla scia della vicenda Suleimani, immaginare un mantenimento in vita – magari con qualche marginale ritocco – dell’ accordo del 2015. Credo sia invece nostro precipuo interesse prendere atto del suo venir meno, di fatto se non di diritto, e lavorare di concerto con i nostri principali alleati – a cominciare proprio dagli Stati Uniti – alla individuazione di formule innovative che, da un lato, facciano salvo l’obiettivo di impedire alla Repubblica Islamica di dotarsi dell’arma atomica; dall’altro, incentivino Teheran a comportamenti più responsabili e, auspicabilmente, alla sottoscrizione di un nuovo accordo migliorativo di quello del luglio 2015. Va detto che, sotto tale profilo, la netta affermazione del fronte dei «conservatori» in occasione delle elezioni parlamentari tenutesi in quel Paese lo scorso 21 febbraio non rappresenta un segnale che induce a ben sperare quanto alle possibilità di ripristino, per lo meno nel breve/medio periodo, di un dialogo costruttivo con quella dirigenza.

Sarà poi non meno importante continuare ad adoperarsi – ciò che la nostra diplomazia sta già attivamente facendo – per pervenire a un ancoraggio del nostro Paese a quel nucleo ristretto di «partner» europei (Francia, 192 Regno Unito e Germania: il cosiddetto formato «E3») che tanta parte ebbe a suo tempo nel raggiungimento dell’intesa con Teheran sul «Joint Comprehensive Plan of Action» (JCPOA). È formato che – al di là degli infruttuosi tentativi di salvare l’accordo dopo il ritiro statunitense e del mancato decollo dello strumento INSTEX quale contrappeso alla reintroduzione delle sanzioni da parte di Washington – appare, almeno a oggi, destinato comunque a permanere quale prioritario foro di coordinamento per la definizione delle policies europee nei confronti dell’Iran. Il secondo terreno per noi cruciale, in termini di tutela dell’interesse nazionale nell’area del «Grande Medio Oriente», è quello degli approvvigionamenti energetici, larga parte dei quali proviene proprio dallo scacchiere in parola. In tale prospettiva da parte italiana particolare attenzione dovrà essere a mio avviso rivolta ai seguenti aspetti: in primo luogo – tenendo presente che il gas rappresenta per il nostro Paese la principale fonte energetica ancor più nella prospettiva di una completa «decarbonizzazione» – al mantenimento dei migliori rapporti possibili con ciascuno dei Paesi attraverso cui corre il c.d. «Corridoio Meridionale del Gas» la cui entrata in funzione è prevista per l’ottobre 2020: dall’Azerbaijan (attualmente il nostro principale fornitore) a Georgia, Turchia, Grecia e Albania dalla quale il «corridoio» approderà in Puglia grazie alla «Trans Adriatic Pipeline».

In tale contesto sarà importante – pur senza rinunziare a far valere ogni qualvolta necessario i nostri principii e, se del caso, le nostre ragioni… – fare il possibile per mantenere le migliori relazioni possibili con una Turchia che mira anch’essa ad affermarsi come «hub» regionale per le infrastrutture del gas ma che potrebbe avere comunque interesse a cooperare con noi, al di là del segnale non incoraggiante per l’Italia e per la nostra Eni rappresentato dall’intesa conclusa lo scorso 28 novembre tra Ankara e Tripoli per la delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive (ZEE). Una Turchia assertiva che resta per giunta – e resterà a lungo, indipendentemente da chi ne sia di volta in volta in volta alla guida – nostro primario «partner» commerciale e industriale oltre che attore geo-politico pro-attivo e ineludibile (come anche gli eventi di queste settimane dimostrano) sia nello scacchiere del «Mediterraneo allargato» che in quello, ancor più vasto, del «Grande Medio Oriente».

Non minore attenzione andrà riservata alla qualità delle relazioni con i Paesi dai quali verranno convogliati verso l’Europa, via Italia, i flussi di gas naturale provenienti dal recentemente scoperto «Bacino del Levante» (Cipro, Israele, Libano ed Egitto). I nostri tradizionalmente buoni se non eccellenti rapporti con ciascuno di essi – a cominciare dallo Stato ebraico – rappresentano naturalmente un atout non secondario rafforzato, nel caso del Libano, dalla gratitudine che quella dirigenza e opinione pubblica nutrono nei nostri confronti per il ruolo di primo piano storicamente svolto dall’Italia nel quadro della missione UNIFIL (della 193 quale un nostro ufficiale, seppur sotto il «cappello» onusiano, ricopre attualmente il comando).

Per il nostro Paese si tratterà tra l’altro di giocare al meglio le carte che ci derivano dalle nostre buone relazioni con tutti gli attori coinvolti per evitare che il citato accordo tra Ankara e Tripoli in tema di delimitazione delle rispettive ZEE comporti ricadute negative per il futuro del gasdotto Eastmed (progettato da Israele, Cipro e Grecia e da noi appoggiato): gasdotto che dovrebbe in teoria, alla luce dei citati sviluppi, sottostare al nullaosta di Ankara per poter approdare sulle coste greche e poi italiane.

Sarà infine essenziale – come rilevato tra i primi dall’Ambasciatore Terzi in un sua riflessione sul tema di alcuni mesi orsono – contribuire a vigilare affinché sia preservata la libertà di navigazione in arterie cruciali ai fini del nostro approvvigionamento in petrolio e in «gas naturale liquefatto» (GLN): a cominciare dallo Stretto di Hormuz, vero e proprio «collo di bottiglia» marittimo dal quale transita tra l’altro circa il 40% del greggio mondiale, tenendo presente che il nostro Paese acquista dal piccolo ma influente Qatar poco meno dell’80% del nostro fabbisogno complessivo in GLN. Va dunque valutata positivamente la decisione di principio di recente adottata dal nostro Paese di prendere parte, con altri partner europei, alla missione di pattugliamento condiviso dello Stretto in parola, nel quadro della «coalizione di volenterosi» tra europei che, proprio con tale obiettivo, ha di recente visto la luce su iniziative francese. Il terzo e ultimo versante da presidiare e consolidare è quello di natura economica e di collaborazione industriale con i Paesi del «Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente»: mi limiterò a ricordare due dati: il primo è che, dopo l’Europa, il bacino del Mediterraneo (nel quale si concentra il 20% del traffico marittimo mondiale) costituisce la prima zona di penetrazione diretta delle nostre imprese; il secondo, è che – nello strategico e per molti versi trainante settore della difesa – la sola area del Golfo ha assorbito tra il 2016-2018 circa il 50% delle nostre esportazioni di armamenti.

Si tratterà, in sostanza, di continuare ad adoperarsi – anche attraverso un dialogo costante con i Paesi costieri dell’Oceano Indiano interessati alle prospettive offerte dalla «blue economy» – per rilanciare e rendere irreversibile la vitalità del Mediterraneo come piattaforma di connettività economica, energetica e infrastrutturale tra Europa, Asia e Africa. Traguardo arduo ma non impossibile, ove sorretto da una adeguata volontà politica a supporto delle nostre «eccellenze» imprenditoriali. Volontà politica di sostegno che dovrà manifestarsi con ancor più vigore – anche facendo ricorsi a strumenti innovativi e da definire – non appena sarà possibile trarre conclusioni attendibili sul prezzo che anche l’Italia inevitabilmente pagherà in termini di perdita di punti di Pil a seguito della crisi innescata a livello mondiale anche sul terreno economico/finanziario dalla pandemia, ancora in atto, del «coronavirus». Tale azione ad ampio raggio richiede 194 però, perché possa essere coronata da successo, la consapevolezza di un elemento fondamentale: e cioè del fatto che – col ritorno della «realpolitik» e del primato della geo-politica rispetto alla logica delle «appartenenze» tipico del periodo della guerra fredda – è (e resterà credo a lungo indispensabile) sapersi muovere sulla scena internazionale, come Italia e come «sistema-Paese», con quella spregiudicatezza e determinazione delle quali da sempre danno prova sulla scena internazionale altri attori a noi geograficamente e culturalmente vicini, Francia in primis. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’approccio di quella dirigenza al «dossier» libico o, ancora, la ricerca di un rapporto comunque privilegiato con la Federazione Russa (sotto tale ultimo profilo lo stesso può dirsi della Germania), attore ormai imprescindibile nella ridefinizione in atto degli equilibri medio-orientali.

È politica, quella sopra evocata, che dovrà naturalmente essere condotta senza venire meno al rispetto dei nostri obblighi «atlantici» ed europei come, ripeto, stanno da tempo mostrando di sapere fare – in ambito europeo – Francia e Germania. D’altra parte un solido rapporto con gli Stati Uniti – indipendentemente da chi sieda di volta in volta alla Casa Bianca – è e resterà per noi imprescindibile, non solo sotto il profilo della sicurezza, ma anche quale sponda essenziale per contenere in ambito europeo le riaffioranti velleità del direttorio franco-tedesco. Senza contare l’importanza che un solido rapporto con gli Stati Uniti continuerà a rivestire per il nostro Paese quale importante fattore di «traino tecnologico» ancor più in una fase, come quella attuale, nella quale la competizione tra le imprese europee di eccellenza nel campo delle alte tecnologie sta diventando sempre più serrata e con un esito sovente legato proprio alla individuazione di un adeguato «partner» sul versante statunitense. Ed è proprio con un richiamo al contesto europeo che mi piace concludere riprendendo la considerazione svolta di recente da un nostro acuto osservatore, da sempre attento e sensibile al tema dell’interesse nazionale: quella cioè secondo la quale il primo mattone della politica estera europea resta, almeno a oggi, l’azione nazionale.

Ciò che presuppone che ciascun Stato-membro «si sia già posto propri obiettivi strategici e vi abbia dedicato risorse…». In sostanza, se vorremo davvero perseguire anche in ambito europeo il nostro «interesse nazionale», non potremo – al di là dell’impegno per un salto di qualità che potrà essere posto dagli alti rappresentanti per la politica estera e di sicurezza comune di volta in volta in carica – astenerci dal considerare l’Unione Europea per quello che ancora è: vale dire un livello «supplementare» delle politiche estere e di sicurezza nazionali e non già un loro sostituto.

*Gabriele Checchia, ambasciatore, già rappresentante permanente d’Italia presso la Nato

IL GRANDE MEDIO ORIENTE È ANCHE IN ITALIA

Questo saggio di Gabriele Checchia, ambasciatore, già rappresentante permanente d’Italia presso la Nato, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.

A chi gli chiedeva valutazioni sulle crisi ai suoi tempi in atto nello scacchiere mediterraneo, il compianto Fernand Braudel era solito rispondere: «…quando mi si parla di Mediterraneo, ho bisogno di pensare la totalità». Il grande storico francese intendeva in tal modo porre in luce come una lettura delle dinamiche mediterranee disancorata dalla dimensione geo-politica ben più ampia all’interno della quale il Mediterraneo in senso stretto si colloca (dall’Africa sub-sahariana oggi tornata prepotentemente di attualità con la pressione esercitata dai flussi migratori verso l’Europa, all’area del Golfo la cui rilevanza strategica è sin troppo evidente…) rischi di rivelarsi di scarsa utilità per chi voglia avvalersene ai fini della messa a punto di strategie di natura politico/diplomatica/securitaria. Ecco perché soprattutto da parte statunitense – sostanzialmente a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso – si è ritenuto opportuno affiancare, se non in molti casi sostituire, al concetto di Mediterraneo allargato quello di «Grande Medio Oriente».

Se le due formulazioni coincidono in generale sulla direzione dell’«allargamento» verso zone tradizionalmente considerate propaggini naturali del bacino mediterraneo, esse si differenziano per la prospettiva con la quale guardano alle aree in questione. Nel Mediterraneo allargato il baricentro è da individuare nel bacino mediterraneo mentre Golfo Persico e Caucaso ne costituiscono la turbolenta periferia; nella formula del «Grande Medio Oriente» è il bacino mediterraneo a giocare un ruolo secondario poiché il centro del sistema è spostato più a est, nella Penisola arabica e nel Golfo Persico con tendenza a proiettarsi verso l’ancora più lontano scacchiere indo-pacifico.

Di tale interrelazione tra le due aree prova evidente è fornita proprio in queste settimane dalle complesse dinamiche e reazioni di vario segno innescate nell’insieme dello scacchiere dalla eliminazione da parte statunitense, lo scorso 3 gennaio, del generale Qassem Suleimani, di fatto il numero due del regime iraniano (nonché la figura più vicina alla Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei). Eliminazione che – pur se notoriamente avvenuta in risposta alle gravi provocazioni e attacchi da parte di Teheran nei confronti degli interessi statunitensi e occidentali nella regione – ha colto di sorpresa anche molte capitali «alleate» (tra cui la nostra) aprendo questioni non secondarie: ad esempio in termini di livello auspicabile (doveroso?) di concertazione per il futuro tra Washinton e gli «alleati» in particolare in aree – come quella del «Mediterraneo allargato/ 187 Grande Medio Oriente» – nelle quali contingenti di Paesi alleati sono impegnati a vario titolo sul terreno in diversi, e sovente contigui teatri, nel segno di condivisi valori e obiettivi. Basti pensare per quanto riguarda il nostro Paese, e per tornare a un tema che ho già evocato, ai circa 800 nostri militari ancora dispiegati in Afghanistan con cappello Nato seppur in missione «no combat», ai poco meno di 1000 schierati in Iraq nel quadro della coalizione anti-Daesh a titolo bilaterale o multilaterale (nonostante la sospensione in atto delle attività addestrative, sulla scia della vicenda Suleimani e delle minacciate ritorsioni da parte iraniana), agli oltre 1000 da tempo dispiegati nel Libano meridionale nel quadro della missione UNIFIL II.

Tutto ciò in un momento nel quale – a ulteriore conferma della particolare complessità della presente congiuntura missione – poco più a «ovest» gli interventi su fronti opposti di Turchia e Russia in Libia (solo in parte – e non si sa per quanto tempo… – riassorbiti dalle decisioni adottate in occasione della Conferenza di Berlino dello scorso gennaio) stanno evidenziando come siano in gioco in quell’area interessi di straordinario rilievo: vale a dire non solo le grandi commesse legate al petrolio e al gas ma anche, se non soprattutto, la individuazione di chi – sullo sfondo del «disimpegno» statunitense da quel teatro – sarà chiamato a esercitare l’egemonia sul bacino mediterraneo. E perciò stesso, maggiore capacità di influenza, se non di vero e proprio condizionamento, sulle economie che vi si affacciano (Italia in primis).

Su uno sfondo di tale problematicità, fluidità e rilevanza, il nostro Paese per la sua collocazione geografica – ma anche per sua identità e storia di Nazione da sempre refrattaria a visioni manichee delle relazioni tra Stati e culture – è inevitabilmente (naturaliter, direbbe Tertulliano) chiamato a svolgere un ruolo di «fulcro» o quantomeno di catalizzatore degli sforzi in atto, o da avviare, per una «stabilizzazione sostenibile» dello scacchiere. Vocazione legittimata altresì – mi sembra doveroso osservare – da un ulteriore fattore tutt’altro che secondario: vale a dire dal prestigio maturato in questi ultimi decenni anche a livello internazionale dalle nostre Forze Armate impegnate in missioni della più varia natura (da quelle Ue a quelle onusiane a quelle in ambito Nato) nei più diversi teatri, con senso del dovere, professionalità e risultati oggetto di unanime apprezzamento.

In altri termini, credo spetti all’Italia far valere al meglio il proprio tradizionale ruolo di «media potenza regionale» consapevole, certo, dei propri limiti (è questo un segno di maturità specie se raffrontato al velleitarismo di altri importanti attori europei…) ma anche delle proprie potenzialità: a cominciare da quella di credibile (ben più di altri, a condizione di sapere come muoversi…) «facilitatore» di dialogo tra interlocutori con agende sovente divergenti ma per così dire obbligati – salvo voler davvero mettere a repentaglio la pace 188 e la sicurezza nella Regione – a ricercare modalità di coesistenza foss’anche nel segno di un minimo comun denominatore al ribasso. Penso, ad esempio, alla preziosa azione di ricucitura che il nostro Paese (e la nostra diplomazia) potrebbero svolgere, ove del caso, per scongiurare un non impossibile emergere di difficoltà nelle relazioni tra la Nato e l’Unione Europea qualora la Turchia a guida AKP decidesse, per qualsivoglia motivo, di far venir meno il necessario «consensus» in ambito atlantico sulla opportunità di andare avanti nel percorso da tempo avviato di accresciuta collaborazione tra le due Organizzazioni. O, ancora, al contributo che da parte italiana si potrebbe fornire, ove ciò fosse auspicato da parte statunitense, alla ricerca di un «modus vivendi» tra gli Stati Uniti e un Iran a guida Khamenei nella ancor più difficile fase apertasi con l’uscita di scena di Qassem Suleimani e le successive ritorsioni della Repubblica islamica attraverso le milizie ad essa fedeli in Iraq, in primis Kataib Hezbollah. Mi concentrerò dunque proprio su quella estensione a est e a sud-est del Mediterraneo che configura, nella accezione comune, il «Grande Medio Oriente». Cercherò di evidenziare taluni versanti che ritengo di prioritario rilievo per la tutela dal nostro interesse nazionale, lasciando ad altri l’analisi nel dettaglio di crisi in atto a ovest di tale scacchiere: come quella in Libia, di perdurante gravità, e con rilevanti implicazioni per il nostro Paese.

Da un punto di vista di ordine generale non vi è dubbio che nostro precipuo interesse, anche in termini di contenimento della minaccia terroristica, sia proprio la ricerca di quella «stabilità sostenibile» che ho sopra evocato. Il progressivo emergere di una regione mediterranea, nel senso più ampio del termine, sicura e stabile è infatti indispensabile sia per l’Italia che per l’Europa nel suo complesso della quale il nostro Paese costituisce, per così dire, la frontiera avanzata.

È sfida complessa ma da raccogliere per almeno due ordini di motivi: il primo, cui ho già fatto cenno, connesso alle implicazioni che la maggiore o minore stabilità e affermazione di una buona governance nell’area (seppure con le specificità dettate dai singoli e assai diversificati contesti socioculturali) riveste sotto il profilo della nostra sicurezza; il secondo, legato alla nuova rilevanza strategica che la Regione in parola è in questi anni venuta acquisendo.

Oltre che per le sue implicazioni di sicurezza, l’odierno Mediterraneo allargato e la sua propaggine rappresentata dal Grande Medio Oriente è infatti venuto guadagnando, da qualche anno a questa parte, crescente rilievo anche come «piattaforma di connessione globale»: il raddoppio del canale di Suez, le ricadute dell’allargamento di quello di Panama, le recenti scoperte energetiche nelle sue acque orientali (il c.d. «Levantine basin») e l’ambizioso progetto – dalle implicazioni non necessariamente rassicuranti… – di «Via della Seta» spregiudicatamente 189 portato avanti dall’attuale dirigenza cinese, fanno infatti del Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente uno snodo cruciale sul piano infrastrutturale, dei trasporti e delle reti logistiche.

Se questi sono dunque alcuni dei versanti suscettibili di beneficiare di un contributo del nostro Paese in un’ottica di stabilità regionale è doveroso porsi anche il quesito di quali siano i settori da curare in via prioritaria ai fini della tutela del nostro «interesse nazionale» in senso stretto, nonché quello degli strumenti e/o delle «policies» più idonee al perseguimento di tale obiettivo. Tre mi sembrano i terreni cui rivolgere speciale attenzione. Il primo è quello relativo, appunto, alla sicurezza nell’accezione più ampia del termine: dal ritorno, dunque, di accettabili condizioni di stabilità e governance condivisa in Siria (e per certi versi in Iraq dove continuano gli scontri tra le milizie sciite pro-iraniane e le forze statunitensi colà presenti in funzione anti-Daesh) al contrasto al terrorismo che proprio nell’area in parola trova da tempo una delle principali fonti di reclutamento. Sarà pertanto essenziale che il nostro Paese continui a figurare tra i principali provider di sicurezza nella Regione attraverso gli strumenti già in atto (e altri che dovessero essere in prospettiva posti in essere a livello internazionale): dal nostro tradizionale contributo di primo piano alla missione UNIFIL II nel Libano meridionale; all’Iraq, dove – in aggiunta al nostro significativo ruolo di co-presidenza del Gruppo di lavoro per il contrasto al finanziamento del Daesh – figuriamo tra i principali contributori di truppe alla «coalizione anti-Daesh», oltre che in prima linea nell’addestramento delle forze di sicurezza e polizia irachene (nonostante la recente sospensione, per i noti motivi, di tali attività di formazione che c’è da augurarsi possano al più presto riprendere).

Sotto tale profilo appare dunque condivisibile la proposta avanzata dal ministro Di Maio di una riunione a Roma – in tempi per quanto possibile ravvicinati e non appena superata la drammatica pandemia del corona virus – per un punto della situazione, e uno scambio di vedute su come ulteriormente procedere, tra i ministri degli Esteri degli 84 Paesi membri della coalizione: coalizione la cui area di interesse andrebbe però, ad avviso italiano, estesa alla turbolenta regione del Sahel. Sempre in relazione alla regione del Sahel, dalla quale continua a provenire buona parte dei flussi migratori che investono il nostro Paese e l’Europa, sarà indispensabile per l’Italia continuare a battersi a Bruxelles, e in ogni appropriata istanza, per una sostanziale modifica delle regole sull’asilo europeo (in sostanza per modificare in senso per noi meno penalizzante il Regolamento di Dublino), nonché per dare impulso ai rimpatri assistiti. In sostanza nostro obiettivo – non facile da raggiungere ma da perseguire con determinazione – deve essere quello 190 di fare sì che l’Europa cominci a muoversi in materia di asilo in base a risorse e norme chiare ed equilibrate oltre che con interventi rapidi ed efficaci.

Basterebbe, a comprovare l’urgenza di una nostra forte azione in Europa volta a far sì che il tema del contenimento dell’immigrazione illegale figuri tra le priorità della nuova Commissione – oltre che del Consiglio e dell’Europarlamento – la situazione drammatica che continua a registrarsi al confine tra Turchia e Grecia e l’esito sinora interlocutorio (a essere ottimisti) dei contatti ad alto livello in corso tra l’Unione europea e la Turchia per la ricerca di una soluzione concordata al problema. Da una angolazione più generale, un segnale indubbiamente incoraggiante – frutto anche delle sollecitazioni in tal senso che sta da tempo rivolgendo alla Commissione Europea il nostro Paese – appare l’indicazione di una prossima proposta della stessa Commissione per un superamento del Regolamento di Dublino fornita dal commissario agli Affari Interni, Ylva Johansson, in occasione di una sua recente visita d Atene per valutare da vicino la difficile situazione in quel Paese.

Tornando al dramma siriano sarà per noi indispensabile continuare a fornire sostegno ai processi politici rivolti a individuare soluzioni «non militari» alle diverse crisi in atto nell’area promuovendo – sempre di concerto con i nostri partner e alleati a cominciare dagli Stati Uniti – un «dialogo inclusivo» e la ownership degli attori locali: come nel caso del conflitto siriano (sempre avendo come «stella polare» la Ris. 2254 del Consiglio di Sicurezza del dicembre 2015) e di quello yemenita. Un ruolo all’altezza delle nostre potenzialità per la soluzione della crisi siriana così come la prosecuzione delle importanti iniziative da noi già avviate a supporto dei rifugiati nei Paesi limitrofi ci potrà/dovrà tra l’altro consentire di essere adeguatamente posizionati allorché decollerà – ciò che prima o poi non potrà non avvenire – la ricostruzione di quel martoriato Paese. In termini di valore aggiunto arrecato dal nostro Paese all’ individuazione di una soluzione politico- diplomatica alla crisi siriana, da noi da sempre caldeggiata, va certamente registrata in positivo la riunione a Roma nei mesi scorsi, su iniziativa della Farnesina, tra il Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per la Siria e gli Inviati Speciali dei Paesi dell’Unione Europea coinvolti nel «dossier» (Italia, Belgio, Germania, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito oltre al Servizio Europeo di Azione Esterna e al Segretario della Santa Sede per i rapporti con gli Stati, Monsignor Gallagher).

Si è trattato di un ulteriore esempio della nostra tradizionale vocazione a operare come un ponte «discreto» (ma non per questo meno efficace…) tra l’Europa e lo scacchiere mediterraneo nel suo complesso. È linea sobria ma pro-attiva alla quale ritengo indispensabile che il nostro Paese continui a ispirarsi – indipendentemente da chi sia di volta in volta al governo – trattandosi di una delle 191 carte migliori tra quelle a nostra disposizione per far valere in positivo la «specificità» italiana nella presente fase della storia mondiale: fase nella quale le ruvide logiche della riemersa geo-politica e competizione dura tra Stati rendono ancor più importante il ruolo di «attori» (come il nostro Paese) da sempre noti e apprezzati per la loro capacità di interlocuzione a 360 gradi. Secondo le stime della Banca Mondiale gli investimenti che si renderanno necessari per consentire il ritorno della Siria a condizioni più o meno normali anche sotto il profilo delle infrastrutture (fermo restando che si tratterà di una Siria comunque diversa, anche per la ben più marcata presenza e capacità di influenza di Mosca di fatto già in atto) si collocheranno in una forchetta compresa tra i 300 e i 400 miliardi di dollari Usa. Ne deriverà, va da sé, la possibilità di importanti ritorni anche per le nostre imprese molte delle quali da anni presenti e altamente apprezzate nella regione. Da ultimo, dovrà proseguire la nostra azione a Bruxelles, da tempo avviata, perché sia l’Unione europea che la Nato – in quest’ultimo caso anche attraverso una adeguata valorizzazione dell’«hub per il sud» presso il JFC di Napoli dall’Italia fortemente voluto – assegnino la dovuta priorità allo scacchiere mediterraneo nell’accezione più ampia del termine.

In ambito Ue, sarà invece essenziale continuare a vigilare affinché – anche attraverso vincoli di natura giuridica come il c.d. ring-fencing – i fondi previsti dalla Commissione per il «Vicinato meridionale» non siano deviati verso altre regioni del mondo. Quanto all’Iran – altro attore che resta ineludibile, ci piaccia o meno, nella Regione – è mia opinione che sia ormai irrealistico, dopo il ritiro americano dall’intesa «5 più 1» sul nucleare e le più recenti decisioni della dirigenza iraniana sulla scia della vicenda Suleimani, immaginare un mantenimento in vita – magari con qualche marginale ritocco – dell’ accordo del 2015. Credo sia invece nostro precipuo interesse prendere atto del suo venir meno, di fatto se non di diritto, e lavorare di concerto con i nostri principali alleati – a cominciare proprio dagli Stati Uniti – alla individuazione di formule innovative che, da un lato, facciano salvo l’obiettivo di impedire alla Repubblica Islamica di dotarsi dell’arma atomica; dall’altro, incentivino Teheran a comportamenti più responsabili e, auspicabilmente, alla sottoscrizione di un nuovo accordo migliorativo di quello del luglio 2015.

Va detto che, sotto tale profilo, la netta affermazione del fronte dei «conservatori» in occasione delle elezioni parlamentari tenutesi in quel Paese lo scorso 21 febbraio non rappresenta un segnale che induce a ben sperare quanto alle possibilità di ripristino, per lo meno nel breve/medio periodo, di un dialogo costruttivo con quella dirigenza. Sarà poi non meno importante continuare ad adoperarsi – ciò che la nostra diplomazia sta già attivamente facendo – per pervenire a un ancoraggio del nostro Paese a quel nucleo ristretto di «partner» europei (Francia, 192 Regno Unito e Germania: il cosiddetto formato «E3») che tanta parte ebbe a suo tempo nel raggiungimento dell’intesa con Teheran sul «Joint Comprehensive Plan of Action» (JCPOA).

È formato che – al di là degli infruttuosi tentativi di salvare l’accordo dopo il ritiro statunitense e del mancato decollo dello strumento INSTEX quale contrappeso alla reintroduzione delle sanzioni da parte di Washington – appare, almeno a oggi, destinato comunque a permanere quale prioritario foro di coordinamento per la definizione delle policies europee nei confronti dell’Iran. Il secondo terreno per noi cruciale, in termini di tutela dell’interesse nazionale nell’area del «Grande Medio Oriente», è quello degli approvvigionamenti energetici, larga parte dei quali proviene proprio dallo scacchiere in parola. In tale prospettiva da parte italiana particolare attenzione dovrà essere a mio avviso rivolta ai seguenti aspetti: in primo luogo – tenendo presente che il gas rappresenta per il nostro Paese la principale fonte energetica ancor più nella prospettiva di una completa «decarbonizzazione» – al mantenimento dei migliori rapporti possibili con ciascuno dei Paesi attraverso cui corre il c.d. «Corridoio Meridionale del Gas» la cui entrata in funzione è prevista per l’ottobre 2020: dall’Azerbaijan (attualmente il nostro principale fornitore) a Georgia, Turchia, Grecia e Albania dalla quale il «corridoio» approderà in Puglia grazie alla «Trans Adriatic Pipeline». In tale contesto sarà importante – pur senza rinunziare a far valere ogni qualvolta necessario i nostri principii e, se del caso, le nostre ragioni… – fare il possibile per mantenere le migliori relazioni possibili con una Turchia che mira anch’essa ad affermarsi come «hub» regionale per le infrastrutture del gas ma che potrebbe avere comunque interesse a cooperare con noi, al di là del segnale non incoraggiante per l’Italia e per la nostra Eni rappresentato dall’intesa conclusa lo scorso 28 novembre tra Ankara e Tripoli per la delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive (ZEE). Una Turchia assertiva che resta per giunta – e resterà a lungo, indipendentemente da chi ne sia di volta in volta in volta alla guida – nostro primario «partner» commerciale e industriale oltre che attore geo-politico pro-attivo e ineludibile (come anche gli eventi di queste settimane dimostrano) sia nello scacchiere del «Mediterraneo allargato» che in quello, ancor più vasto, del «Grande Medio Oriente». Non minore attenzione andrà riservata alla qualità delle relazioni con i Paesi dai quali verranno convogliati verso l’Europa, via Italia, i flussi di gas naturale provenienti dal recentemente scoperto «Bacino del Levante» (Cipro, Israele, Libano ed Egitto).

I nostri tradizionalmente buoni se non eccellenti rapporti con ciascuno di essi – a cominciare dallo Stato ebraico – rappresentano naturalmente un atout non secondario rafforzato, nel caso del Libano, dalla gratitudine che quella dirigenza e opinione pubblica nutrono nei nostri confronti per il ruolo di primo piano storicamente svolto dall’Italia nel quadro della missione UNIFIL (della 193 quale un nostro ufficiale, seppur sotto il «cappello» onusiano, ricopre attualmente il comando). Per il nostro Paese si tratterà tra l’altro di giocare al meglio le carte che ci derivano dalle nostre buone relazioni con tutti gli attori coinvolti per evitare che il citato accordo tra Ankara e Tripoli in tema di delimitazione delle rispettive ZEE comporti ricadute negative per il futuro del gasdotto Eastmed (progettato da Israele, Cipro e Grecia e da noi appoggiato): gasdotto che dovrebbe in teoria, alla luce dei citati sviluppi, sottostare al nullaosta di Ankara per poter approdare sulle coste greche e poi italiane. Sarà infine essenziale – come rilevato tra i primi dall’Ambasciatore Terzi in un sua riflessione sul tema di alcuni mesi orsono – contribuire a vigilare affinché sia preservata la libertà di navigazione in arterie cruciali ai fini del nostro approvvigionamento in petrolio e in «gas naturale liquefatto» (GLN): a cominciare dallo Stretto di Hormuz, vero e proprio «collo di bottiglia» marittimo dal quale transita tra l’altro circa il 40% del greggio mondiale, tenendo presente che il nostro Paese acquista dal piccolo ma influente Qatar poco meno dell’80% del nostro fabbisogno complessivo in GLN.

Va dunque valutata positivamente la decisione di principio di recente adottata dal nostro Paese di prendere parte, con altri partner europei, alla missione di pattugliamento condiviso dello Stretto in parola, nel quadro della «coalizione di volenterosi» tra europei che, proprio con tale obiettivo, ha di recente visto la luce su iniziative francese. Il terzo e ultimo versante da presidiare e consolidare è quello di natura economica e di collaborazione industriale con i Paesi del «Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente»: mi limiterò a ricordare due dati: il primo è che, dopo l’Europa, il bacino del Mediterraneo (nel quale si concentra il 20% del traffico marittimo mondiale) costituisce la prima zona di penetrazione diretta delle nostre imprese; il secondo, è che – nello strategico e per molti versi trainante settore della difesa – la sola area del Golfo ha assorbito tra il 2016-2018 circa il 50% delle nostre esportazioni di armamenti. Si tratterà, in sostanza, di continuare ad adoperarsi – anche attraverso un dialogo costante con i Paesi costieri dell’Oceano Indiano interessati alle prospettive offerte dalla «blue economy» – per rilanciare e rendere irreversibile la vitalità del Mediterraneo come piattaforma di connettività economica, energetica e infrastrutturale tra Europa, Asia e Africa.

Traguardo arduo ma non impossibile, ove sorretto da una adeguata volontà politica a supporto delle nostre «eccellenze» imprenditoriali. Volontà politica di sostegno che dovrà manifestarsi con ancor più vigore – anche facendo ricorsi a strumenti innovativi e da definire – non appena sarà possibile trarre conclusioni attendibili sul prezzo che anche l’Italia inevitabilmente pagherà in termini di perdita di punti di Pil a seguito della crisi innescata a livello mondiale anche sul terreno economico/finanziario dalla pandemia, ancora in atto, del «coronavirus». Tale azione ad ampio raggio richiede 194 però, perché possa essere coronata da successo, la consapevolezza di un elemento fondamentale: e cioè del fatto che – col ritorno della «realpolitik» e del primato della geo-politica rispetto alla logica delle «appartenenze» tipico del periodo della guerra fredda – è (e resterà credo a lungo indispensabile) sapersi muovere sulla scena internazionale, come Italia e come «sistema-Paese», con quella spregiudicatezza e determinazione delle quali da sempre danno prova sulla scena internazionale altri attori a noi geograficamente e culturalmente vicini, Francia in primis. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’approccio di quella dirigenza al «dossier» libico o, ancora, la ricerca di un rapporto comunque privilegiato con la Federazione Russa (sotto tale ultimo profilo lo stesso può dirsi della Germania), attore ormai imprescindibile nella ridefinizione in atto degli equilibri medio-orientali.

È politica, quella sopra evocata, che dovrà naturalmente essere condotta senza venire meno al rispetto dei nostri obblighi «atlantici» ed europei come, ripeto, stanno da tempo mostrando di sapere fare – in ambito europeo – Francia e Germania. D’altra parte un solido rapporto con gli Stati Uniti – indipendentemente da chi sieda di volta in volta alla Casa Bianca – è e resterà per noi imprescindibile, non solo sotto il profilo della sicurezza, ma anche quale sponda essenziale per contenere in ambito europeo le riaffioranti velleità del direttorio franco-tedesco. Senza contare l’importanza che un solido rapporto con gli Stati Uniti continuerà a rivestire per il nostro Paese quale importante fattore di «traino tecnologico» ancor più in una fase, come quella attuale, nella quale la competizione tra le imprese europee di eccellenza nel campo delle alte tecnologie sta diventando sempre più serrata e con un esito sovente legato proprio alla individuazione di un adeguato «partner» sul versante statunitense.

Ed è proprio con un richiamo al contesto europeo che mi piace concludere riprendendo la considerazione svolta di recente da un nostro acuto osservatore, da sempre attento e sensibile al tema dell’interesse nazionale: quella cioè secondo la quale il primo mattone della politica estera europea resta, almeno a oggi, l’azione nazionale. Ciò che presuppone che ciascun Stato-membro «si sia già posto propri obiettivi strategici e vi abbia dedicato risorse…». In sostanza, se vorremo davvero perseguire anche in ambito europeo il nostro «interesse nazionale», non potremo – al di là dell’impegno per un salto di qualità che potrà essere posto dagli alti rappresentanti per la politica estera e di sicurezza comune di volta in volta in carica – astenerci dal considerare l’Unione Europea per quello che ancora è: vale dire un livello «supplementare» delle politiche estere e di sicurezza nazionali e non già un loro sostituto

*Gabriele Checchia, ambasciatore, già rappresentante permanente d’Italia presso la Nato

Paolo Quercia: “solo se contiamo nel Mediterraneo, contiamo in Europa”

Docente di Studi Strategici, Paolo Quercia è direttore del Center for Near Aboard Strategic Studies (CeNASS).

D. Quali sono i principali avvenimenti e mutamenti in corso nella area Mediterranea d’interesse dell’Italia?
R. Sono enormi, ed ormai in corso da molti anni. Essi stanno creando un nuovo gorgo geopolitico in cui naufragano le vecchie certezze sull’euromediterraneo, sulla sicurezza regionale, sul ruolo dell’Europa e delle sue vecchie potenze coloniali. Il fattore primo, il motore di questi eventi, è stato l’intervento militare in Iraq, che ha avviato il processo di destrutturazione del Medio Oriente. La crisi economica, le primavere arabe, le sfide poste dall’assertività della Turchia di Erdogan e della Russia di Putin si sono aggiunte negli anni. La mancata reazione dell’Occidente a questi cambiamenti – ed in alcuni casi l’averli addirittura promossi o esasperati – ha gettato la regione nel disordine. Ricordiamo che le regioni geopolitiche non esistono in natura, ma sono delle creazioni storico-strategiche. Sono concetti sempre in movimento, perchè in movimento sono le forze sociali ed economiche che le sottendono. Ed aggi abbiamo il vecchio concetto di Mediterraneo che si sta frantumando. L’Italia è massimamente interessata a che il processo di spezzettamento del Mediterraneo non vada avanti; purtroppo nell’ultimo decennio, ad iniziare dal conflitto libico del 2011, l’Italia ha avuto un ruolo internazionale passivo ed è iniziato il nostro processo di marginalizzazione. Oggi subiamo l’inerzia degli alleati, l’aggressività dei vicini e la malizia di tanti altri attori grandi e piccoli, dalle milizie libiche fino a Malta, passando per alcune ONG che operano in mare con una propria agenda che non tiene conto della nostra sicurezza.

D. Negli ultimi anni l’Italia, che è la porta europea nel Mediterraneo, sembra aver dimenticato il proprio “estero vicino”. L’assenza di protagonismo dell’Italia, in quella che in passato è stata la propria area cuscinetto d’influenza, quanto può costarci nell’immediato futuro?
R. Faccio questo lavoro da venti anni ormai. E sono sufficientemente vecchio per ricordare i fiumi di retorica che sono stati versati dagli addetti ai lavori in Italia sul Mediterraneo come “ponte”, sul soft-power europeo, sull’esportazione della democrazia, sulla modernizzazione dell’Islam, sul potere benefico degli accordi di libero scambio, sulla società civile, sull’immigrazione come fattore di sviluppo, sulla cooperazione, sulle primavere arabe, sul mediterraneo allargato e su tanti altri concetti post-moderni. La dura realtà di oggi è che la post-modernità non è arrivata nel Mediterraneo, ma nel frattempo abbiamo distrutto o fortemente danneggiato quel poco di modernità, anche imperfetta, che era stata creata. Scricchiolano ed implodono gli Stati – che non abbiamo voluto aiutare e sostenere adeguatamente per fare il loro lavoro di sovranità e di costruzione del bene comune – mentre avanzano gli attori non statuali, le forze “private” che si appropriano delle funzioni statuali che collassano. In alcuni casi prendono il volto delle organizzazioni criminali, di milizie armate delle città-stato, delle mai scomparse tribù, del jihadismo, ma anche delle società di sicurezza private. Nuove forme di sovranità post-moderna costruite su antichi paradigmi pre-moderni ma attualizzati alle nuove logiche della globalizzazione. E questi attori non statuali sono le pedine con cui avanzano gli attori esterni, nuove potenze che si muovono con logiche sempre più predatorie, non con logiche di vicinato né di sicurezza regionale. Un gioco alla portata di tutti, anche attori medio o piccoli che vedono nella distruzione degli Stati deboli del Mediterraneo un occasione di far avanzare le loro agende geopolitiche. E’ la ricetta per un caos geopolitico che ci accompagnerà per anni. In questo contesto l’Italia ha dimenticato che tra le sue tante debolezze abbiamo una forza enorme da giocare, quella della nostra posizione geopolitica, baricentrici nel Mediterraneo che dividiamo in quattro parti e che ci vede essere un estero vicino per tutti gli Stati del mediterraneo. Ma se gli Stati implodono, se noi rinunciamo a giocare il nostro ruolo, se altri attori giocano sporco, questa posizione centrale diviene una vulnerabilità e ci troveremo presto ad essere noi stessi travolti dall’instabilità che si sta generando nel Mediterraneo.

D. La cinetica della Turchia come la possiamo interpretare?
R. Difficile tema. In parte una reazione a questa destrutturazione, in parte una causa di essa. Con la Turchia abbiamo molti interessi comuni e siamo portati a convergere su molti dossier. Ma Erdogan, per motivi interni e regionali, sta spingendo molto sulla questione della identità non occidentale della Turchia, sull’islamismo politico, sulla politica estera muscolare. In questo modo ci mette in difficoltà. Per di più, in Libia ed in Somalia sta chiaramente puntando a scalzare la nostra influenza decrescente per nostre colpe. E’ legittimo ma storicamente doloroso. A sua discolpa c’è da dire che Ankara ha subito molti degli errori ed omissioni geopolitiche commesse dall’Occidente nel Medio Oriente e nel Mediterraneo – dalla guerra in Iraq alle primavere arabe – ed ha deciso di passare al contrattacco, ossia di andare da sola, riscoprendo una nazionalismo islamista che mette in crisi la sicurezza regionale nel Mediterraneo e che rende più difficili essere buoni vicini. C’è però da dire che Ankara non ha tutte le colpe. Anche l’effetto dell’Unione Europea sulla Turchia, con tutte le sue contraddizioni, non è stato interamente positivo ed ha paradossalmente favorito l’ascesa nel Paese prima dell’islamismo politico e poi della sua radicalizzazione. Ma in questo gioco nulla è scontato e definitivo. La Turchia negli ultimi dieci anni ha fatto numerose piroette geopolitiche. E anzi tanto può essere influenzato anche dall’Italia se torniamo a fare una politica estera nel Mediterraneo. Penso ad esempio che in Libia, se avessimo una politica più assertiva su questo dossier, potremmo costruire diversi interessi comuni e far emergere spazi di collaborazioni che oggi non appaiono. E a quel punto potremmo usare la nostra influenza su Ankara anche nelle tensioni nel Mediterraneo Orientale. Se perdiamo terreno in Libia, sarà invece Ankara a costruirsi una potere di interferenza sull’Italia e sulla politica interna italiana.

D. La Libia, oltre ad essere il principale porto di partenza di rifugiati e migranti economici, è luogo strategico per i nostri interessi economici ed in particolar modo quelli energetici. Il Governo Conte II aveva parlato di istituire una figura specifica delegata a seguire le vicende nell’area, crede sarebbe stata utile?
R. Parliamo dell’inviato speciale per la Libia. Certo che sarebbe stato utile, direi fondamentale. Ma andava scelto mesi se non anni fa. È stato annunciato ma non nominato. Arrivati a questo punto però, penso che sarebbe meglio un inviato per le questioni strategiche del Mediterraneo – Sahel. Questo perchè sulla Libia c’è bisogno non solo di un maggior coordinamento, ma anche di riscoprire il significato politico e geopolitico del dossier. La Libia non è solo una questione di terrorismo, migranti ed energia. Dentro il dossier libico ci sono le chiavi del nostro ruolo non solo nel Mediterraneo ma nella stessa Europa. Perché solo se contiamo nel Mediterraneo, contiamo in Europa. E per come si stanno mettendo le cose, contiamo nel Mediterraneo se contiamo in Libia. Se giochiamo bene le nostre poche carte in Libia possiamo velocemente recuperare posizioni in Europa, dove ormai contiamo molto, molto poco. E possiamo farci rispettare meglio nei rapporti politici nella regione, che saranno sempre più spigolosi, anche tra alleati. Se invece sbagliamo le mosse in Libia, rischiamo di diventare noi la Libia d’Europa. Io credo che dovremmo smettere di trattare il dossier libico come un dossier del ministro degli interni o di sicurezza. Non perché non ci siano problemi di questa natura, ma perchè nelle questioni internazionali gli approcci funzionalisti nel lungo periodo non pagano. La politica estera o è politica a 360 gradi o non è. Perlomeno questo è il mio approccio nel caso dell’Italia, dove la politica estera dovrebbe essere prioritaria ed è l’elemento fondamentale non solo per la costruzione e tutela dell’interesse nazionale ma anche come elemento caratterizzante l’identità nazionale. Le altre questioni, pure importanti, sono strumenti non obiettivi. Anche per questo ritengo che nel caso delle crisi sistemiche, come quella libica, serva una figura del governo dedicata costantemente a seguire le tante sfaccettature del dossier.

D. C’è ancora tempo affinché l’Italia acquisisca un ruolo primario in territorio libico?
R. Il tempo rimasto è poco, anche perché molte cose andavano fatte subito dopo il conflitto, nel 2012 e nei due, tre anni seguenti. Abbiamo invece galleggiato, e il non aver avuto un ruolo assertivo in quegli anni ha lasciato ampi spazi vuoti che sono stati colmati da altri Paesi, Turchia e Russia in primo luogo. Dobbiamo tornare nei prossimi anni a giocare un ruolo ampio di politica estera nel Nord Africa e nel Mediterraneo. E questo non può che essere fatto a partire dalla Libia, sul cui processo di pacificazione e ricostruzione sono collegati numerosi altri dossier, interni e internazionali. Non è solo una responsabilità storica, visto che Libia l’abbiamo creata noi italiani, ma anche una necessità geopolitica.