Urso: Orban vince su immigrazione ed economia

Le grandi manovre in vista del prossimo Parlamento europeo hanno già una scadenza importante, quella del 20 marzo quando l’assemblea del Ppe dovrà decidere se espellere Fidesz, il partito del premier ungherese Viktor Orban, per il suo palese attacco alla politica della Commissione Europea guidata da Junker, anche lui popolare. Orban potrebbe unirsi all’Ecr, il gruppo dei Conservatori e riformisti di cui fanno già parte il partito del premier polacco, Jaroslaw Kaczynski, e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Adolfo Urso, senatore di FdI, è appena tornato da incontri avuti a Budapest con il presidente del Parlamento Röver Laszló, il ministro degli Affari Europei, Szabolcs Takäcs e il presidente della Fondazione Századveg, il principale think thank sovranista d’Europa.

 

Senatore Urso, gli ungheresi hanno già deciso di uscire dal Ppe o ci sono margini di trattativa?

Loro non vogliono cedere assolutamente e daranno battaglia fino alla fine. Nel frattempo stanno preparando un’alternativa, in modo trasparente, ragionando sull’ingresso nel gruppo Ecr che, con l’uscita di conservatori inglesi, è oggi guidato dai polacchi. L’accusa all’Unione europea è di non aver difeso i confini esterni e Orban spesso ha detto che l’Italia è stata lasciata sola.

 

Anche lei ha detto che il Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania rischia di far esplodere l’Unione.

Anche su questo ci siamo trovati pienamente d’accordo. Anche loro pensano che francesi e tedeschi vogliono dominare l’Europa che invece deve tornare a essere l’Europa dei popoli e degli Stati, e accusano la Commissione europea di comportarsi come se fosse un altro Stato alleato di Berlino e Parigi. Anche noi di Fratelli d’Italia siamo d’accordo sul fatto che bisogna tornare all’Europa delle origini, quella fondata con i Trattati di Roma da Germania, Francia e Italia che allora erano in posizioni paritarie. Serve una alleanza tra le Nazioni dell’Europa centrale, oggi raccolte in Visegrad e le nazioni dell’Europa mediterranea, con Italia in prima fila, per riequilibrare il predominio tedesco e, sui temi culturali, quello dei Paesi scandinavi e del Benelux che hanno trasformato l’Unione in una scatola vuota. Il vulnus nasce quando la Convention di Parigi rifiutò di affermare le radici giudaico cristiane d’Europa.

 

La Lega alla fine aderirà a questo blocco sovranista?

È possibile che ciò avvenga, peraltro Matteo Salvini e già stato a Varsavia, ma il disegno riguarda anche partiti di altri Paesi come gli spagnoli di Vox e i francesi di Nicolas Dupont-Aignan.

 

Alle elezioni, dunque, si scontreranno due visioni opposte di Europa: quella franco-tedesca e quella dei partiti di destra sovranista.

Si, certamente. Sarà una contrapposizione sul futuro dell’Europa tra chi ha una visione burocratica dell’Unione funzionale alla Grande Germania e chi ritiene, invece, che occorre riaffermare l’Europa dei valori, casa comune delle Nazioni. Nel contempo, si rafforza l’asse occidentale, come ha dimostrato l’intervento di Giorgia Meloni a Washington, insieme a Ronald Trump, alla Cpac, la grande convention dei conservatori statunitensi. Non è solo un tema europeo, ma globale. E Fratelli d’Italia si trova nella principale famiglia della destra occidentale.

 

Silvio Berlusconi difende Orban e lo invita a non uscire dal Ppe. In chiave di voto italiano alle elezioni europee, alla fine passerà un messaggio basato sui valori di chi vuole difendere il Ppe o quello più rigido dei sovranisti?

Nel Partito popolare Orban è difeso dagli italiani e dagli spagnoli che vorrebbero spezzare anch’essi l’alleanza con i socialisti; ancora una volta, però, la decisione è nelle mani dei tedeschi. Nell’Italia di oggi e in gran parte d’Europa, c’è più appeal verso la destra di governo sovranista, che difende la cultura e la civiltà cristiana e occidentale, piuttosto che la vecchia immagine del Ppe, subordinato al predominio francese e tedesco che ha snaturato l’Unione.

 

Il tema dell’immigrazione sarà ancora una volta decisivo? Orban ha difeso l’Italia, ma non ha mai accettato le quote di immigrati da ricollocare.

Le elezioni si decideranno su due temi: immigrazione e sicurezza da un lato, economia dall’altro. In entrambi, il modello di Orban appare vincente: l’Ungheria ha difeso la frontiera terrestre dell’Unione, così come l’Italia sta difendendo la frontiera mediterranea, in ogni caso nell’assenza dell’Unione. Ancora più evidente, il successo della politica economica di Orban, in questo caso davvero incontestato: l’Ungheria segna il tasso di crescita più elevato d’Europa, con la stessa ricetta che era nel nostro programma elettorale, purtroppo dimenticato dalla Lega quanto sottoscrisse il suo Contratto di governo: flat tax al 15 per cento; tassa massima su impresa 9 per cento, se reinveste gli utili solo il 4,5; la disoccupazione è sotto al 4 per cento, cioè sotto alla soglia fisiologica, e quindi la piena occupazione è già raggiunta; il reddito ungherese aumenta del 10 per cento l’anno: c’è una forte politica di sostegno alle famiglie e alla natalità. Il Sole 24 ore ha appena scritto che un’impresa italiana al giorno va in Ungheria. Mentre noi siamo in recessione quello è il modello che funziona: l’economia sarà un tema più importante dell’immigrazione. Anche Salvini dovrà rivedere i suoi conti.

 

*Intervista di Stefano Vespa con Adolfo Urso pubblicata su Formiche

Rousseau, il nemico della democrazia

Oggi con la votazione made in Casaleggio sul caso Salvini, è andata in scena la fine della democrazia rappresentativa e l’inizio del “Contratto sociale” in cui “Non vi debbono essere società parziali e guai se ogni cittadino pensasse con la propria testa; egli deve invece alienarsi con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità” e obbedire alla “volontà generale” interpretata in questo caso da Giarrusso e imposta ai cittadini con il suo video sulla piattaforma dei 5stelle non a caso chiamata Rousseau.

Piattaforma, nata nella versione “alpha” nel 2013 per volontà di Gianroberto Casaleggio e lanciata definitivamente alla sua morte come sistema operativo chiuso. Un “cervellone digitale” reso un vero e proprio coordinatore di tutte le attività del Movimento. I suoi problemi tecnici sono a tutti noti e oggi ha nuovamente confermato le falle del sistema che non solo non garantisce la privacy dei suoi iscritti, ma risulta totalmente inadeguato tanto che i vertici pentastellati sono stati costretti a ritardare lo show di 2 ore.

Ma la questione non è di natura tecnica, acclarata l’incapacità del sistema operativo, ma di natura costituzionale. Ovvero quell’insieme di regole che ci siamo dati per vivere in comunità garantendo sinora lo stato di diritto e che lo stesso Movimento ha difeso a spada tratta nello scontro con Renzi. L’art. 67 della Costituzione recita: “Ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” quindi senza nessun condizionamento tantomeno se esso è generato “digitalmente” da un sistema manovrato, controllato e gestito da una società privata. Ma la questione va ben oltre il vincolo di mandato, che è bene ricordarlo è assente in tutti paesi liberi del mondo ad eccezione del Portogallo, di Panama, dell’India e del Bangladesh. Il vero problema è quella che Rousseau chiama “volontà generale” interpretata dal “Legislatore” o “dal popolo”. Due concetti astratti e come notò Einaudi, vennero i Lenin, gli Stalin, gli Hitler e i Mussolini a presumere di incarnare la Volontà generale e la Pura Ragione e a volerla imporre all’intero corpo sociale. E come imporre questa “volontà generale” e salvifica al popolo? Anche su questo Rousseau ha una soluzione: “L’autorità assoluta deve agire dall’interno dell’uomo”. Infatti, la libertà di opinione e di stampa è una peste della società e lo Stato deve usare decisamente la censura per frenare le cattive opinioni dei giornalisti. E deve anche imporre quelle buone, con un’opera massiccia e costante di indottrinamento. La piattaforma Rousseau viene certamente in aiuto alle esigenze degli ideologi pentastellati creando di fatto una comunità chiusa dal pensiero unico che rappresenta la “Volontà Generale” da imporre al popolo. Un prototipo sperimentale composto al momento da solo centomila persone ma che è quello che attende la nostra società, se i suoi corpi intermedi non si svegliano da questo sonno durato anche troppo a lungo. La borghesia di questo Paese, le associazioni di categoria, i sindacati, i partiti hanno l’obbligo morale di attivarsi concretamente in difesa della democrazia rappresentativa. Devono uscire dalla trappola infernale delle dirette Facebook e riorganizzare un pensiero politico trasversale che tuteli le libertà individuali e che difenda “la rappresentanza” nelle sue diverse forme come unico argine ai totalitarismi vecchi e nuovi.

*Mario Presutti, collaboratore Charta minuta

 

15 FEBBRAIO: Autonomia rafforzata o secessione?

Il 15 febbraio è la data fissata dal Governo Salvini Di Maio per la firma della Intesa con le Regioni Lombardia Veneto ed Emilia Romagna per la nuova Autonomia rafforzata.

Tuttavia a pochi giorni dalla sottoscrizione nessuno sa niente di questo Patto cosi impegnativo per la vita socioeconomica di tutto il Paese, vista l importanza di dette Regioni, che da sole fanno più del 50% del PIL nazionale.

Sembra incredibile eppure è cosi, anche se dovrà essere sottoposto al Parlamento, che tra l’altro, non potrà emendarlo, ma solo approvare o bocciare, così come cucinato da Governo e regioni beneficiarie.

Per capire di che si tratta occorre rifarsi alla preintesa del 28 febbraio 2018 siglata dal Governo Gentiloni, a pochi giorni dal voto, in un estremo e grottesco tentativo di intestarsi una merito autonomistico verso l’ elettorato del Nord.

Cosicchè si può partire dai contenuti di quella preintesa per esaminare le condizioni minime di quel che ci aspetta e quindi capire la gravità delle conseguenze politiche ed economiche per tutto il Paese ed in particolare a danno del Sud.

Infatti già nel documento Gentiloni emerge chiaramente quella che molti commentatori ha definito come una “secessione economica di fatto” o “secessione morbida”, con la attribuzione a dette Regioni di competenze che, seppur contemplate all’ art 116 della Costituzione, determina, comunque, un vulnus alla Sovranità dello Stato se ad esso sono sottratte anche nella normativa Generale e per di più contemporaneamente.

Istruzione, Ambiente, Sanità, Lavoro, Infrastrutture, Energia, Beni Culturali, in queste materie, così strategiche per lo sviluppo nazionale si trasferirebbe oltre la competenza organizzativa territoriale, anche la potestà di “normazione generale”.

Dalla preintesa, forse aggravata dalla Intesa definitiva prossima, si evince anche l accordo sulle pretese di maggiori finanziamenti a fronte delle maggiori spese collegate alle nuove competenze!

Nonostante le vacue e tentennanti dichiarazioni di Salvini, Zaia e Fontana, che si affannano ad assicurare che le regioni del Mezzogiorno non perderanno nemmeno un euro da questa Autonomia differenziata, in realtà già nella preintesa si scopre l ‘inganno.

Infatti la invarianza finanziaria è prevista solo per il primo anno!

Al suo termine, infatti, l’ art 4 della preintesa prevede la istituzione di una Commissione paritetica per definire gli stanziamenti per le materie delegate sulla base dei “bisogni standard parametrati al gettito fiscale.”

In pratica, maggiori finanziamenti a chi ha maggiori capacità contributiva! Con tanti saluti al principio Costituzionale  della perequazione e della solidarietà Nazionale.

Dunque gravi conseguenze sia sul piano economico per il Sud, ma il Centro non sta molto meglio, e sia sul piano della erosione della Sovranità Nazionale, a cui bisognerebbe rispondere innanzitutto chiedendo una moratoria che permetta un dibattito che è stato fatto finora solo su base regionale sfociati in referendum locali  che certo non possono essere cogenti per tutta la Nazione.

In via subordinata concedere l autonomia ma con esplicita riserva di decisioni strategiche per lo Stato ed infine assoluto divieto di finanziamenti aggiuntivi a scapito del fondo perequativo regionale.

 

*Luciano Schifone, già Assessore regionale in Campania ed Europarlamentare

 

Global compact è la fine dei confini. Salvini dica no

Tra il braccio di ferro con l’Ue sulla manovra e le spericolate divisioni interne alla maggioranza, un fantasma sempre più palpabile aleggia sul punto di maggiore consenso del “governo del cambiamento”: il Global compact immigration. Ossia l’accordo promosso dall’Onu che promuove la necessità di una risposta mondiale al problema della migrazione. Tradotto? In realtà – come ha denunciato per prima Giorgia Meloni – è un documento «che sancisce un principio inedito e pericoloso: il diritto fondamentale per ogni essere umano a immigrare e a essere immigrato indipendentemente dalle ragioni per le quali si muove. È la vittoria delle tesi mondialiste e un altro colpo mortale a chi si oppone all’invasione».
Incredibile ad immaginarlo, pensando a un esecutivo che viene descritto a “trazione Salvini”. Eppure si tratta di una provvedimento sul quale il ministro degli Esteri, Enzo Moavero, e quindi il governo è orientato sul sì in previsione del summit che si terrà tra il 10 e l’11 dicembre a Marrakech, all’interno della conferenza intergovernativa organizzata dall’ Assemblea generale delle Nazioni Unite. Un vero e proprio non sense, viste le decisioni di Salvini & co sul tema degli sbarchi e dopo i provvedimenti inseriti nel decreto sicurezza riguardo proprio il restringimento delle misure di protezione umanitaria. E invece, se la porta principale in questione sembra ufficialmente sul punto di chiudersi, con un una misura del genere si spalancherebbero invece le finestre (a partire da quelle giuridiche) per quell’immigrazione incontrollata che l’esecutivo giallo-verde sostiene di voler bloccare: «Incredibilmente il governo italiano intende sottoscrivere questo patto e sconfessare così tutta la politica fatta finora sull’immigrazione», ha commentato non a caso la leader di FdI dopo la risposta-shock nel question time. Ed è così ma noi non possiamo accettarlo e chiediamo all’esecutivo di non sottoscrivere il patto. Come ha invitato a fare Meloni siamo pronti a dare battaglia (qui il testo della petizione) e invitiamo tutti a portare alla ribalta questa «trappola».
Ad alimentare ulteriormente i dubbi sulle intenzioni del governo, o per lo meno di quella parte in sintonia con i desiderata del Quirinale, ci ha pensato infatti lo stesso titolare della Farnesina il quale, intervenendo qualche giorno fa anche a un incontro con l’ex premier Paolo Gentiloni, ha pensato bene di uscirsene con una dichiarazione che più distonica non si poteva: «Di fronte al migrante economico – ha spiegato – non dobbiamo essere ottusamente chiusi, dobbiamo porci la domanda del perché si migra». Non più solo emergenza profughi (con tutte le dissimulazioni del caso) ma adesso – secondo il titolare della Farnesina – l’Italia dovrebbe porsi il problema dei “perché” di tutti i migranti del mondo: un passepartout bello e buono per aprire un fronte interno con la benedizione della “Dichiarazione di New York”, la formula altisonante con cui è stato ribattezzato il Global compact.
Peccato, per gli immigrazionisti, che proprio gli Stati Uniti di Donald Trump sono stati velocissimi a sconfessare tesi e “trappole” del suddetto accordo. E lo hanno fatto in grande compagnia proprio dove il tema è “sensibile”. Con chi? Con mezza Europa: Austria, Bulgaria, Polonia, Repubblica ceca, Svizzera ed Ungheria. Governi molto preparati e leader estremamente vigili sul tema con i quali proprio la Lega – come Fratelli d’Italia – è sulla stessa lunghezza d’onda. Proprio per questo il sospetto è di un tentativo di sabotaggio del cambio di paradigma sul dossier che più di tutti viene considerato strutturale dai sostenitori del globalismo, della decostruzione della sovranità. Ecco perché un “no” deciso al Global Compact da parte del ministro dell’Interno e quindi del governo è un atto politico irrinunciabile.

*Marco Marconi, collaboratore Charta minuta

Rinaldi:Il ruolo dello Stato? Investire su chi produce in Italia

Lunedì 26, a Roma, si terrà la terza sessione di studi del master di Farefuturo “Sovranismo vs Populismo”. L’incontro sarà dedicato a un altro tema di stringente attualità: “Impresa, lavoro, formazione e nuove povertà: quale il ruolo dello Stato?”. Ne discutiamo con uno dei relatori dell’incontro, l’economista e professore Antonio Maria Rinaldi.

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Professor Rinaldi, viviamo giorni di concitazione e d’incertezza dovuti alla bocciatura della manovra economica da parte dell’Unione europea. A suo avviso, questa manovra va nella direzione giusta per rilanciare il nostro Paese (e se sì, quali punti ritiene meritevoli di attenzione), oppure ha ragione Bruxelles?


Lo “scontro” con Bruxelles deriva essenzialmente dal fatto che i precedenti governi hanno ottenuto “concessioni” grazie alla flessibilità delle regole previste con la conseguenza di poter posticipare le clausole di salvaguardia che prevedevano aumenti del gettito IVA e accise attualmente quantificabili in 12.4 Mld. Ebbene l’attuale manovra intrapresa dal nuovo governo secondo i “tecnici” della Commissione Europea non avrebbe i requisiti attesi per “compensare” le concessioni ottenute dall’Italia e che anzi aggraverebbe ulteriormente il percorso di convergenza verso le regole della UE. Perciò ha proceduto per la prima volta all’apertura di una procedura per deficit eccessivo basata sul debito. Quindi la tesi del governo italiano di puntare alla crescita del PIL per la diminuzione del rapporto debito/PIL non ha trovato ascolto e supporto sui tavoli europei. 

 

La quarta rivoluzione industriale, con il suo carico d’innovazione, sta cambiando il modo di fare business. Quale ruolo pensa debba avere lo Stato in questo processo, considerate le preoccupazioni in merito all’impatto dell’automazione sul mercato del lavoro?


Certamente la cosiddetta Industria 4.0 rappresenta un elemento positivo e innovativo ma per ora è stato concepito per le industrie di dimensioni più grandi tralasciando le piccole e micro aziende che rappresentano la vera colonna portante dell’economia italiana. Pertanto l’automazione per massimizzare le nuove tecnologie produttive e miglioramento delle condizioni di lavoro, con innegabili vantaggi di produttività, sono stati ad esclusivo appannaggio delle grandi industrie. Se si riuscirà ad attrarre in modo intelligente anche le più piccole in questa nuova rivoluzione industriale si riuscirà a salvaguardare, se non aumentare, posti di lavoro e aumentandone inoltre sensibilmente la qualità e sicurezza.

 

Il reddito di cittadinanza è uno dei provvedimenti più discussi negli ultimi mesi. Qual è il suo giudizio in merito? Ritiene che sia lo strumento più efficace per combattere la povertà, oppure sarebbero preferibili altri provvedimenti?


Vorrei personalmente che neanche un cittadino italiano avesse la necessità di dover accedere al RdC, perché vorrebbe dire che di lavoro ce n’è per tutti. Ma questo purtroppo non è negli orizzonti prossimi e pertanto in linea di principio sono favorevole a dei meccanismi che diano la possibilità, a determinate e temporanee effettive condizioni reali, di ottenere una forma di reddito, ovvero di integrazione del reddito, per ottenere un livello di vita “dignitoso”. Naturalmente dal punto di vista tecnico di erogazione si può discuterne, ma non disdegno il principio che lo Stato deve tener conto della situazione di estremo disagio economico a carico di fasce sempre più estese della popolazione. Pertanto solo in in ottica temporale e di raccordo in attesa di opportunità di lavoro effettivo.

 

L’Indice della Libertà Economica redatto da Heritage Foundation vede l’Italia fanalino di coda d’Europa e in una posizione poco lusinghiera a livello globale. Ritiene veritiero questo studio? Quali provvedimenti si dovrebbero mettere in cantiere per rendere l’Italia un Paese su cui investire a livello imprenditoriale?


Aldilà della validità o meno di tutti gli studi comparativi è innegabile che l’Italia abbia sempre sofferto di mancanza di “attrazione” nei confronti di investitori esteri. Le motivazioni sono infinite ad iniziare dalla complessità e dalla non certezza delle regole amministrative e fiscali oltre ad una cronica lentezza della giustizia. Pertanto il capitale estero trova difficoltà ad avere un terreno ad esso favorevole e pertanto decide di orientarsi verso sistemi Paese più “semplici”. Ma questo crea, inoltre, un ulteriore disagio per il Paese perché induce capitali esteri ad acquistare realtà ed eccellenze italiane che si fregiano di brand di successo per poi delocalizzare immediatamente le produzioni avvalendosi naturalmente poi del prestigioso marchio italiano. 

 

Recentemente Matteo Salvini ha proposto l’abolizione del valore legale della laurea. Cosa pensa di questa proposta? Ritiene che l’attuale sistema formativo risponda alle esigenze del mercato del lavoro?


Anche in questo caso sono d’accordo in linea di principio con l’abolizione del voto di laurea nei concorsi pubblici poiché le diverse valutazioni degli Atenei italiani potrebbe sfavorire/favorire i partecipanti non ponendoli sullo stesso piano. Pertanto l’abolizione del previsto requisito minimo di voto conseguito alla laurea rappresenta a mio avviso una opportunità da valutare con interesse. Sarà poi la serietà e difficoltà del concorso a determinare i vincitori con criteri di meritocrazia che il solo voto di laurea, per i motivi sopra esposti, non consente di attribuire. 

 

 In Italia il tasso di disoccupazione giovanile viaggia intorno al 30%, quasi il doppio della media europea. Quali contromisure dovrebbe adottare il nostro Paese per invertire questa tendenza?


La nostra Costituzione sancisce al primo articolo che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e che quindi dovrebbe essere l’obbiettivo principale dell’azione di qualsiasi governo. Sappiamo, purtroppo, che l’attuale architettura su cui si fonda l’unione monetaria europea di fonda si fonda sulla stabilità dei prezzi, inflazione, e il rigore dei conti pubblico fino al perseguimento del principio del pareggio di bilancio. Questo modello si avvale essenzialmente della cosiddetta svalutazione salariale per recuperare obiettivi competitivi unitamente al fenomeno delle delocalizzazioni dei siti produttivi sempre più “incentivato” dalla globalizzazione senza regole. Questo ha prodotto danni nel mercato del lavoro con conseguenze ancora più marcate nei confronti dei giovani. Abbiamo visto recentemente come la nuova amministrazione USA abbia iniziato una mirata azione nel contrastare gli effetti devastanti della delocalizzazione nei confronti dell’occupazione e del tessuto industriale nazionale intraprendendo politiche di sgravi e incentivi fiscali a favore delle aziende che riportano le produzioni in patria. Sarebbe opportuno seguire anche in Italia lo stesso percorso.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Un laboratorio "tricolore" per l’Europa identitaria: ecco l’asse italo-ungherese

«Salvini è il mio eroe!» Viktor Orban utilizza una parola tanto cara al popolo ungherese per benedire il ministro dell’Interno italiano. Quella magiara è infatti terra di eroi; dove le strade, le piazze e persino le pietre raccontano le storie di quei tanti che nei secoli hanno lottato e vinto per la difesa dell’indipendenza e la fede di una delle nazioni più orgogliose e fiere della Mitteleuropa. Se le parole hanno quindi un peso, l’incontro tra i due leader si conclude con un evidente segno più. Ovvia e chiara l’unità d’intenti sui temi dell’immigrazione e della difesa dei confini continentali. «Noi ungheresi abbiamo dimostrato che può essere fermata sia sul piano giuridico che fisico. Salvini è popolare in Ungheria perché sta dimostrando che l’immigrazione può essere fermata anche in mare, solo lui lo ha fatto».
Ma c’è di più, perché è sui temi economici che l’intesa tra i due è addirittura su tutta la linea. A partire dalla flat tax, cavallo di battaglia Matteo Salvini e del centrodestra che sulle sponde del Danubio è già realtà. Ed è appunto da lì che quello ungherese si presenta come un laboratorio tutto da esplorare, dove al contenimento della tassazione corrisponde anche un basso tasso di disoccupazione. Insomma, «la dimostrazione che un Paese può crescere investendo, spendendo e non tagliando e sacrificando», commenta il segretario del Carroccio. Fuori dall’Eurozona, dunque, l’Ungheria cresce economicamente mantenendo tuttavia i prezzi sotto controllo. Nazione in cui la ricetta liberale, corretta però in chiave identitaria, fa correre in tandem lo sviluppo con la tutela del bene comune.
Insomma, si piacciono i due. E mentre le manifestazioni di protesta dell’area antagonista sono sullo sfondo, Orban si concede persino una civetteria stilistica: la cravatta verde. Un segnale che trasforma un’intesa in una vera e propria sinergia transnazionale in vista della prossima scadenza Europea. «Stiamo lavorando per un’alleanza che escluda le sinistre  – ha spiegato a sua volta Salvini – e riporti al centro le identità che i nostri governi rappresentano, ognuno con la sua storia. Possiamo unire energie diverse con un obiettivo comune».
Il premier magiaro ha dunque le idee chiare. E a fronte della geografia centrodestra/centrosinistra, non può non sentirsi culturalmente e strategicamente alternativo al socialismo europeo. «Gentiloni ha sempre parlato male del popolo ungherese, mentre la Lega ci ha sempre difesi. All’amico Berlusconi, invece, ho chiesto: appoggi il fatto che io incontri Salvini? Lui mi ha risposta “Certo”». Della simpatia con Giorgia Meloni, ne ha parlato lei stessa al Tempo e sulla scorta di approcci comuni ai medesimi temi continentali. Insomma, guarda all’Italia Orban e vede un altrettanto interessante laboratorio politico da studiare. E non è evidentemente quello del governo gialloverde, i cui nodi sono in parte già venuti al pettine a latere della crisi Diciotti sulla scorte delle incertezza pentastellate. Il laboratorio è semmai tricolore. Proprio come la bandiera ungherese.

*Ferdinando Adonia, collaboratore Charta minuta

Ribaltone Pd-5 Stelle & rivincita a destra. Sogno di una notte di mezza estate

«Allora dimmi che vuoi, 6 numeri per il Superenalotto? No? Ho capito, vuoi sapere qualcosa di più complicato, se lei ti ama, quanto e fino a quando. Le risposte sui problemi di cuore sono le più difficili e costose». Si fa chiamare Merlino tanto per darsi le arie da mago e tentare di sbarcare il lunario. Magari all’anagrafe è registrato come Peppino Esposito o Aristide Brambilla o poco importa. Lui legge il futuro a pochi soldi per sopravvivere al presente. Fortuna, amore, gelosie e fedeltà a trenta euro e se il cliente abbocca anche a cinquanta.
             «Senti Merlino, non mi frega niente di numeri o di donne alla mia età. Quel futuro è alle spalle. E poi non credo che tu possa predire o favorire quel che accadrà. Sono venuto qui per curiosità o per gioco. Nella mia carriera ho seguito cronache che sono diventate storia. Nei palazzi del potere. Ma dopo una certa età il tempo strige e non sono sicuro di vedere ora come andrà a finire. Mi racconterai fandonie, ma raccontami lo stesso. Vabbè voglio bruciarmi cento euro. Conte, Salvini, Di Maio, Mattarella questi i personaggi. Fai tu l’autore».
           Immagini di averlo messo in difficoltà il mago disgregando il suo repertorio consueto fatto di sesso, sangue, soldi e sentimento. Invece Merlino si concentra un attimo e poi sviscera lo scilinguagnolo in un politichese stretto che sembra scaturire da Porta a porta.
              Mette le dita sulla sfera di cristallo, la fissa a lungo e profferisce.
              «Vedo, vedo vedo….e no, non la vedo lunga l’azione di governo di Salvini. Vedo forze che lo stringono in un angolo. Anime belle e sante che non possono accettare porti chiusi e respingimenti. Intellettuali, attori, musici, prime donne e comparse, scrittori e giornalisti, preti e cardinali, presidenti e gregari tutti contro uno. Sì questo Salvini ha i giorni contati. Non reggerà l’urto.»
             Sorprendente il mago, ma che vuoi che ne sappia lui di politica. E poi non mi convince il fatto che invece del mantello azzurro con le stelle, abbigliamento tipico di ogni mago che si rispetti, costui indossi una maglietta rossa.
                    «Allora signor mago, che farà il mattarellato Salvini, solo soletto contro il mondo intero?»
                    «Vedo, vedo nella mia sfera di cristallo…vedo questo ragazzone che vorrebbe resistere e non mollare…lui è sicuro di avere il popolo dalla sua parte… Ma cos’è questo spread che continua a crescere? E cresce pure il malessere degli alleati grillini….Matteo, Matteo, con la metà dei voti vuole dettare la linea di governo…No, non può. Tanto più che se Conte tace Di Maio c’è e batte un colpo, anzi due: vitalizi, lavori precari..mai più, anzi un po’, poi si vedrà. E poi le pensioni, tagliare le pensioni sopra i quattromila euro…Il popolo pentastellato esulta. Quello che ha votato Lega un po’ meno, anzi per niente. Viene l’autunno ed ha gli occhi della crisi».
                «La crisi signor mago? Vuol dire che Salvini molla Di Maio e si torna al votare?»
                «Ma dove vive lei, in un regime democratico? No, non si torna al voto». Ribatte il mago. E disegna lo scenario del futuro.
                 «L’ora è grave e il Presidente tesse la tela per salvare il Paese. Gran trambusto e via vai al Quirinale. Poi dal cilindro ecco la soluzione. Nuova maggioranza di pentastellati con Pd, sinistra di ogni colore con l’aggiunta di centristi-democratici, radicali, neo-responsabili e chi più ne ha più ne metta. Tutti uniti in difesa della democrazia. Si vara il nuovo governo. È l’ora di Fico. Salvini fuori dal coro assieme a Meloni. Berlusconi: “Vengo anch’io?” Si ricompatta all’opposizione il centrodestra in tutto o in parte quasi a Natale, mentre il Governo va a gonfie vele. L’ Europa di Bruxelles applaude. Scende lo spread, scende come mai era sceso prima. Riprendono gli sbarchi. Torna l’accoglienza. Si riaccende il sorriso sul volto delle anime belle. Tutti contenti. Anche all’ Eliseo e in Vaticano. Beh, allora si può varare anche la legge dello ius soli che era stata accantonata. È vero, si può. E avanti anche con i diritti civili. L’adozione possibile per le coppie gay. E l’eutanasia? Si può tralasciare la legge sull’eutanasia?»
           «Signor mago mi sa che lei sta dicendo un sacco di c…zzate. Di fronte a uno scenario del genere il popolo che ha votato Salvini, Meloni e Berlusconi insorgerebbe…»
            «Guardi, io sono un mago, una persona seria, non un politico. Le dico che andrà così. Si ricorda di Boldrini, Saviano, Gino Strada, Vauro il vignettista e dei preti impegnati, da don Ciotti a Zanotelli? Torneranno tutti e tutti assieme a celebrare il pericolo scampato. La tv e i giornali diranno che le cose vanno bene e anche se l’occupazione cala, prima o poi con l’auto di Bruxelles quella precaria potrebbe aumentare dello 0,000001%».
              «Lei dice? Più che predire il futuro lei mi sembra voglia rinverdire il passato….. Vabbè, ma poi che succederà? Alle elezioni europee del 2019 sarà il trionfo del sinistra-centro rinnovato?»
                  Merlino non risponde, farfuglia qualcosa. Fa capire che lui più in là non può andare nelle previsioni se no mette a rischio la sua licenza di mago. Mette le mani sulla sua sfera di cristallo per impedire che io vada a curiosare. Ma vedo lampeggiare un 60% dalle parti della destra. Vedo un castello di carte rosse cadere e nuove elezioni politiche… vedo vedo vedo… no, non sono un mago…ma inseguo ancora miraggi. Esco dalla casa del mago. Lungo la strada su un muro malandato scorgo una scritta: «Liberate Salvini dai Cinquestelle!».
*Angelo Belmonte, gionalista parlamentare

Luigi Di Maio e il cerino bruciato: ecco l’apprendista "disastro"

Giù la maschera. È durato fin troppo il tentativo di Luigi Di Maio, ancora fresco d’accredito a Cernobbio, di mostrare il presunto lato moderato del Movimento 5 Stelle. Questi due mesi – e più – di stallo sono stati utili per mettere alla prova i grillini ai tavoli delle trattative e saggiarne la vera natura. Un minuto dopo la chiusura delle urne, Di Maio ha provato a riscrivere le regole del gioco, convinto di poter imporre i propri desiderata agli italiani e all’intero Parlamento. Un comportamento che, vale la pena ricordarlo, era già sfociato in un’inusuale visita al capo dello Stato prima delle elezioni per consegnare la lista dei ministri di un ipotetico governo monocolore a 5 Stelle. Un atto che è sembrato una ridicola intimidazione e che, post-elezioni, è stato declinato in toni perennemente presuntuosi e arroganti verso gli interlocutori. 
L’illustre Di Maio, dopo cinque anni di insulti e di minacce di processi pubblici nei confronti della classe dirigente, si è detto non solo “disponibile a parlare con tutti” per formare un governo, ma ha restaurato la vecchia politica dei due forni tanto di moda nei “panifici” della Prima Repubblica. Davvero curioso per un bellicoso movimento anti-sistema che ambiva ad aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Il problema, per il giovane apprendista, è non aver compreso che per ottenere un pane di qualità occorre rispettare gli ingredienti e saperli impastare con pazienza. Altrimenti, si rischia non solo di ottenere un prodotto scadente, ma di rimanere scottati. Il 5 aprile annuncia solennemente: “Noi non proponiamo un’alleanza di governo ma un contratto di governo per il cambiamento dell’Italia. È un contratto sul modello tedesco e che noi proporremo perché vogliamo che le forze politiche si impegnino di fronte agli italiani sui punti da realizzare”. In sostanza, Di Maio pretendeva i voti di altre forze politiche in Parlamento senza tuttavia cedere alcuna poltrona. Credeva che gli altri partiti dovessero andare, in pellegrinaggio, capo chino e battendosi il petto, presso la Casaleggio Associati. 
Così, maldestro, Luigi Di Maio ha trascorso qualche settimana a ricattare Matteo Salvini, convinto che sarebbe caduto nella trappola: lasciare la tanto agognata leadership del centrodestra per diventare un subalterno. Ma dalle parti di via Bellerio non hanno abboccato, e non è riuscito il piano – tentato sino all’ultimo secondo – di spaccare il centrodestra. Iniziano, allora, gli insulti a Forza Italia e a Silvio Berlusconi, e la quotidiana rivendicazione della guida del governo. Ripetono come un mantra di essere il primo partito, tentando così di delegittimare il vero vincitore delle elezioni, la coalizione di centrodestra, che ha ottenuto la maggioranza dei voti e dispone di una maggioranza di seggi ben più ampia di quella grillina. 
Quella di sedere a palazzo Chigi diventa una vera e propria ossessione, tanto che Di Maio chiude il forno con Salvini e apre al Partito Democratico. Una piroetta degna del miglior Baryšnikov e sicuramente coerente con la storia del Movimento 5 Stelle. Quelli che fino a ieri venivano definiti in modo sprezzante “PDioti” e impresentabili collusi con la mafia, divengono improvvisamente dei potenziali alleati. Ma anche in questo caso, Di Maio vuole di dettare legge in casa d’altri: esige non solo un’alleanza, ma un’alleanza con un Partito Democratico de-renzizzato. L’ex sindaco di Firenze, che di fatto controlla ancora la maggioranza dei parlamentari democratici, riesce a far saltare il dialogo già avviato da Franceschini e Orlando.
A questo punto, Di Maio e il suo cerchio magico si trovano da soli, con il classico cerino in mano. E allora, ecco che ne emerge la reale personalità: quella dei bambini capricciosi e impertinenti che perdono la testa e prendono a sfasciare tutto. Iniziano le urla scomposte, i toni da fine dal mondo, le minacce al presidente della Repubblica. Gridano al golpe, vogliono le elezioni anticipate a fine giugno, anzi no a luglio, rievocano il referendum per uscire dall’euro. Questa è l’affidabilità degli “onesti”. Questa è l’affidabilità di chi vuole governare l’Italia.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Lo scontro. E se fosse Saviano, allora, il "mandante morale" delle baby gang?

Quanto accaduto nell’arco di pochi giorni a Macerata ha scatenato un acceso confronto, tra esponenti della politica e non solo, che sta influenzando, inevitabilmente, la campagna elettorale attualmente in corso. Come si sa, il tragico ritrovamento del corpo della giovane Pamela Mastropietro, smembrato, chiuso in due trolley abbandonati nelle campagne di Pollenza (comune del maceratese) ha fatto scattare, nella mente di Luca Traini, il folle proposito di “vendicare” la morte della ragazza.

Tra i tanti volti noti della politica e delle istituzioni che non hanno esitato a condannare severamente il gesto sconsiderato del ragazzo, affetto evidentemente da gravi problemi psichici, non poteva mancare lo scrittore Roberto Saviano. Quest’ultimo, tramite un tweet, ha pensato però di puntare il dito contro Matteo Salvini, accusandolo di essere il «mandante morale» del raid di Macerata. Saviano, nel suo j’accuse a mezzo social, ha inoltre incolpato il leader della Lega sostenendo che «lui e le sue parole sconsiderate sono oramai un pericolo mortale per la tenuta della democrazia» e che «una classe politica in perenne campagna elettorale e alla ricerca di consenso a prescindere non è un argine ma un viatico verso il fascismo».

Ora, che tra Matteo Salvini e Roberto Saviano non corra buon sangue è cosa nota e innegabile, considerate soprattutto le loro passate scaramucce combattute a suon di tweet, messaggi su YouTube, interviste etc… Ciò che tuttavia lascia perplessi è la facilità con cui, un gesto di uno squilibrato fuori controllo, venga strumentalizzato per dare addosso al proprio antagonista additandolo come mandante morale. Salvini, che ha sempre dimostrato di avere posizioni nette, in particolare sul tema immigrazione, non ha mai incitato i propri sostenitori ad alcuna forma di violenza contro stranieri ed extracomunitari. Nonostante ciò, a Roberto Saviano, l’occasione è parsa troppo ghiotta per non sferrare un nuovo e incisivo colpo contro il suo avversario.

Inoltre, un’eventuale considerazione che potremmo fare come ha sottolineato con efficacia Giorgia Meloni, qualora dovessimo sposare le parole del celebre autore di Gomorra riguardo il leader della Lega, potrebbe consistere invece nel ritenere Saviano, se non il mandate morale, il proponitore di un modello negativo per i ragazzi, di Napoli e dintorni.

I recenti fatti di cronaca, infatti, parlano di baby gang, composte da ragazzi molto giovani, che, con armi di vario tipo, commettono atti di violenza ai danni dei loro coetanei, ispirandosi a Genny Savastano e a Ciro Di Marzio, entrambi personaggi protagonisti della fortunata serie televisiva Gomorra di cui Saviano è autore.

Che Gomorra sia una serie ben realizzata e avvincente non vi è dubbio. Tuttavia, la fiction, giunta alla terza stagione con la quarta attualmente già in cantiere, rischia non tanto di condannare il fenomeno della camorra quanto di celebrarlo, creando – seppur all’interno di un prodotto cinematografico – dei modelli negativi per i giovani ragazzi che vivono in contesti in cui l’illegalità rappresenta l’unica strada da percorrere. Di questo Saviano non sembra curarsi, anzi, ritiene che narrare le gesta di Genny e di Ciro sia, come avvenne per il libro Gomorra, un valido mezzo per denunciare il fenomeno. In realtà il dato sarebbe un altro, come testimoniano i resoconti delle aggressioni avvenute a Napoli e provincia in questi ultimi tempi, e, ciò nonostante, nessuno punta il dito contro Saviano.

*Alessandro Boccia, collaboratore Charta minuta

Il laboratorio sovranista? Strategico per il centrodestra (e per il Paese)

Se la scelta era quella di introdurre temi forti in questa smaliziata campagna elettorale, Giorgia Meloni e Matteo Salvini ce la stanno mettendo tutta per alzare l’asticella dei contenuti. Professori no-euro, clausola di supremazia, controllo migranti: l’area identitaria e sovranista del centrodestra si candida a essere il laboratorio vivo della coalizione. Non solo culturale, ma emozionale. Esattamente così. Perché al netto delle cesure dettate dal politicamente corretto, tra i temi maggiormente sentiti tra i più urgenti dalle cosiddetta gente comune, molti fanno capo al rapporto che le istituzioni continentali hanno mal tarato con la popolazione europea soprattutto meridionale.
Un cortocircuito che il ventre del Paese ha avvertito prima ancora degli indici di Borsa. Nella nuova polarizzazione del linguaggio politico, è qui che si gioca la partita elettorale: nella divaricazione sopra-sotto che ha segnato tutte le recenti competizioni occidentali. Tutto questo mentre Silvio Berlusconi fa la spola tra l’Italia e Bruxelles in cerca di una nuova verginità istituzionale – in parte dovuta – in vista di un argine al grillismo. In quest’ottica arriva la sponsorizzazione di Antonio Tajani, presidente Ppe dell’europarlamento, quale premier in pectore di marca forzista.
C’è tuttavia un’idiosincrasia da denunciare. E sta tutta nella comunicazione attuale dell’ex Cavaliere. Suvvia, se il rimedio al populismo dei Cinque Stelle è declinato in una sventagliata di promesse televisive dal fiato corto, c’è di che preoccuparsi. E seriamente. Se la campagna elettorale si risolve in una fiera di meme da condividere sui social, anche quei partner europei che vedono in Berlusconi il possibile traghettatore della post Brexit avrebbero di che riflettere. Dopo la lunghissima crisi non ancora conclusa dell’eurozona, non si può parlare di Ue e Bce come se nulla fosse accaduto. Comunque si giudichi la questione banche nell’ultimo decennio, e a qualsiasi livello, sul campo restano solo imbarazzi che coinvolgono a vario titolo la politica italiana.
E prima ancora che gli economisti sappiano declinare gli scenari futuri, la scelta di Matteo Salvini di candidare Claudio Borghi nell’uninominale a Siena (probabilmente contro il ministro Pier Carlo Padoan) e nel proporzionale ad Arezzo, zona Banca Etruria, arriva all’immaginario degli italiani. Segnale chiaro e netto sia contro le incertezze di Di Maio sul referendum sulla moneta unica, sia verso il giglio magico di Matteo Renzi.
Parlare di clausola di supremazia – sulla scorta del modello tedesco – in questa fase è tutt’altro che una boutade da parte della Meloni: si tratta semmai di una vera e propria esigenza dettata dal quadro internazionale. Dinnanzi “all’America first” di Donald Trump e al rinnovato (e non annunciato lungo tutta la sfida con la Le Pen) sciovinismo della Francia di Emmanuel Macron, l’Italia deve ritrovare un suo ruolo sia in Europa che nel Mediterraneo senza rinunciare ai propri quadri di riferimento e ai suoi doveri come nazione.
Il primato della Costituzione repubblicana sul “ce lo di chiede l’Ue” e la difesa degli interessi del sistema paese rispetto dalle politiche aggressive dei nostri storici alleati, non servono a servono a esasperare il dibattito, tutt’altro. Si tratta semmai di scelte strategiche – e quindi politiche – da disegnare senza ipocrisie. In gioco c’è la sopravvivenza della nostra industria pesante e la capacità delle imprese italiane di competere liberamente nel mercato globale contro i colossi emergenti quali India e Cina. Una guerra fatta di numeri le cui vittime si contano in perdite di posti di lavoro. Nulla di più concreto: nulla di più reale.
*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta