Draghi, Meloni e le generazioni future

L’incarico a Mario Draghi – da molti preconizzato – è maturato dopo le convulsioni della maggioranza del “Conte bis” e ha sparigliato il quadro politico, tagliando trasversalmente le alleanze tra i partiti.

La sciabolata improvvisa del Presidente Mattarella ha gettato nello scompiglio l’alleanza giallorossa.  PD e M5S avevano coltivano l’illusione di poter fare a meno di Italia Viva per andare avanti con la rinnovata formula politica di centro-sinistra saldata dalla figura di Giuseppe Conte, magari attraverso l’utilizzo dei miliardi del Recovery Fund. Sino alla conclusione dell’esplorazione di Roberto Fico i partiti della vecchia maggioranza si sono mostrati sin troppo sicuri che sarebbero riusciti a varare un “Conte ter” con l’aiuto dei soliti “responsabili”. Invece, come spesso accade in politica, si è imposta una realtà differente da quella immaginata ed è improvvisamente crollato il castello di carte di chi pensava di aver costruito – anche con l’uso mediatico dell’emergenza pandemica – il nuovo orizzonte strategico della sinistra di governo giallorossa.

Ma anche nel campo del centrodestra non sono tardate le divaricazioni. Alcune erano ampiamente previste, come quella che riguarda Forza Italia e la sua adesione ad ipotesi di governi tecnici o istituzionali, che potessero consentire il superamento della formula di governo giallorossa.

Altre, invece, erano sicuramente meno prevedibili, come quella derivante dalla disponibilità della Lega a partecipare ad un Governo di unità nazionale presieduto da Draghi.

L’unica eccezione alla grande alleanza per affrontare la crisi pandemica e provare a rilanciare l’Italia con l’utilizzo del prestito europeo del Recovery Plan è, dunque, quella di Fratelli d’Italia. Solo Giorgia Meloni ha volontariamente declinato l’invito del Presidente Mattarella, non chiudendo, tuttavia, la porta ad un concreto sostegno parlamentare su singoli provvedimenti nell’interesse della Nazione.

Anche questa scelta ha suscitato perplessità e un acceso, ma interessante dibattito nei circuiti politici, culturali ed editoriali della destra italiana. Da un lato, chi sostiene che in periodo di guerra (ormai consueta metafora dell’emergenza pandemica) nessuno dovrebbe sottrarsi alle istanze di una solidarietà politica nazionale, espressa con un corale appoggio al “Gabinetto bellico”.

Con il suo celebre “Whatever it takes” e con l’invenzione del Quantitative Easing l’ex Presidente della BCE ha salvato la moneta europea dalla speculazione internazionale e ha imposto, esponendosi agli anatemi dei rigoristi teutonici, un primo importante cambio di passo rispetto alle cieche politiche economiche depressive, fondate sull’ossessione tedesca per la stabilità monetaria.

Inoltre – last, but not least – il sostegno a Mario Draghi avrebbe potuto mettere in soffitta, definitivamente, i tentativi di riedizione, sotto mentite spoglie, del vecchio “arco costituzionale”. La conventio ad excludendum della destra, infatti, nella strategia del PD zingarettiano varrebbe ad imporre il ritorno ad una “democrazia bloccata” e il conseguente restringimento dell’area di governo al perimetro di un centro-sinistra con tonalità giallorosse.

Nell’interesse del Paese e non solo dei partiti che si collocano a destra dell’arco parlamentare, è fondamentale disinnescare questo grave rischio, la cui concretizzazione riporterebbe le lancette della democrazia italiana indietro di trent’anni. Si deve, tuttavia, riconoscere che l’ingresso in maggioranza della Lega di Salvini renderà spuntata quest’arma di delegittimazione rispetto a chi intendesse utilizzarla contro chicchessia e, a maggior ragione, nei confronti del partito nazionale che esprime il presidente dei Conservatori e riformisti europei.

D’altra parte, non mancano le ragioni a sostegno di quello che inizialmente è apparso come un “gran rifiuto” di Giorgia Meloni, ma che, con il passare delle ore, è stato messo a fuoco nei termini di una “opposizione patriottica”. La crescita progressiva di Fratelli d’Italia si spiega anche con una linea di rigorosa coerenza e con una visione dell’interesse nazionale (dalla economia agli assetti istituzionali, dal modello di sviluppo alla collocazione geo-politica del nostro Paese) non sempre espresse, con altrettanta organicità, da altre componenti del centro-destra. Probabilmente è vero che la visione “nazionale” di Fratelli d’Italia avrebbe faticato ad esprimersi con un governo di emergenza, magari sottoposto ai veti delle componenti grilline, democratiche e post-comuniste. La scelta, dunque, quella di convergere con la maggioranza che sosterrà il Governo Draghi, se e quando giungeranno in Parlamento indirizzi di politiche pubbliche coerenti con un disegno di riscossa dell’Italia e dell’Europa condivisibile per la destra identitaria e popolare.

Archiviato, dunque, il fisiologico, quanto utile dibattito interno su una scelta fondamentale per il destino del Paese (come si conviene ad un partito che possa dirsi veramente tale e non un mero coacervo di interessi elettorali), si tratta adesso di percorrere sino in fondo la via della “opposizione patriottica”.

Occorre, innanzi tutto, smascherare la falsa narrazione oppositiva tra europeisti e (presunti) antieuropeisti. Nessun europeo può e vuole oggi dire no all’Europa; ma ogni europeo può pretendere che il progetto di integrazione avanzi verso un modello di unione politica confederale. Una Unione che si regga sulle radici di una identità bimillenaria e sia capace di proiettarsi, non solo economicamente, nello scenario globale come potenza continentale. Una confederazione europea fondata sulla partecipazione politica dei suoi cittadini e sulla eguaglianza delle opportunità nell’intero suo territorio. Una comunità di Stati che sappia difendere i suoi ceti produttivi dall’economia finanziaria e dalla concorrenza sleale dei liberi battitori dei mercati internazionali. Un ordinamento sovrastale che, riavviando il processo di integrazione, restituisca le scelte monetarie e gli indirizzi di politica economica e fiscale alla sovranità di istituzioni politiche continentali, democratiche e rappresentative.

Del resto, proprio il “Whatever it takes” di Mario Draghi ha tutti i caratteri di una potente affermazione di sovranità rispetto alle dinamiche adespote dell’economia finanziaria globale. Una decisione politica anomala e in un certo senso paradossale, perché assunta da una autorità tecnica e “non politica”, che ha però dimostrato come, anche nel mondo globalizzato, non si possa fare a meno di istituzioni di governo dell’economia.

Un disegno, in definitiva, profondamente diverso dall’attuale Unione europea, troppo spesso concepita quale fonte di legittimazione tecnocratica e non, invece, come proiezione politica continentale di una concreta comunità democratica di cittadini e di Stati.

In questo senso, i conservatori possono essere, al contempo, europei e sovranisti. Nella tradizione del diritto pubblico europeo, infatti, al contrario rispetto a quanto sostenuto da alcune superficiali narrazioni, la sovranità è democrazia e partecipazione, universalismo inclusivo di cittadini, di comunità intermedie, di imprese e di lavoratori, nel quadro unificante di comuni principi di civiltà.

Una visione “patriottica europea”, dunque, può ben conciliarsi con la tutela degli interessi nazionali. Anche sul piano interno, quindi, l’opposizione costruttiva potrà esprimere il suo sostegno a tutte le iniziative di modernizzazione del Paese fondate sull’utilizzo razionale dell’enorme massa finanziaria del Recovery Plan. La risposta alla crisi indotta dalla pandemia ha, infatti, determinato un primo momento di rottura rispetto alle politiche rigoriste che rifiutavano l’idea di un debito comune per alimentare la solidarietà politica, sociale ed economica dell’Europa.

Un piano che dovrà sostenere, in Parlamento e nel Paese, il rilancio infrastrutturale dell’Italia e la ricucitura delle distanze fra il Nord e il Sud, con il potenziamento delle reti e con la valorizzazione delle identità territoriali. Un programma di supporto per assicurare nuova libertà di azione al genio nazionale sul piano della cultura, dell’impresa, dell’arte, della tecnica, della ricerca e dell’innovazione, da troppo tempo strozzato dalle rigidità burocratiche o dalle false rappresentazioni di una possibile “decrescita felice”. Un progetto di rilancio che sprigioni le energie individuali e collettive della nazione con il sostegno dello Stato e dell’Europa, garanti delle regole del gioco e delle infrastrutture strategiche. Una visione di competizione aperta al mondo nei termini della migliore tradizione dell’universalismo europeo, anziché sulla fiducia ingenua e incondizionata nel mercato globale.

In questo scenario dovrà misurarsi il contributo della maggioranza che sosterrà il Governo Draghi e il ruolo dell’opposizione costruttiva della destra italiana, con il pensiero rivolto alle generazioni future.

*Felice Giuffrè, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico, Università di Catania

Lagarde lasci a chi è competente

Occorre necessariamente essere persone di mondo per guidare un’alta istituzione europea e per essere di mondo occorre essere cittadini europei della propria nazione. Christine Lagarde, con il frasario da signorotta borghese intrisa di superiorità, si è dimostrata invece provinciale. E sia ben chiaro che si può essere provinciali anche provenendo dal IX arrondissement parigino. Si è rivelata inadeguata al ruolo di un presidente della BCE le cui parole vengono costantemente pesate da chi investe nel mercato finanziario, inadeguata a rappresentare il sentimento della parola unione che precede la parola “europea”, inadeguata a far percepire l’Europa come ciò che deve essere per uno Stato membro: rassicurante come una placenta per il proprio feto.

Nel momento in cui l’Italia, stremata per la lotta al Corona Virus, avrebbe bisogno solo di tatto e delicatezza, tutti gli attori politici italiani, nessuno escluso, hanno trovato il modo di rispondere a quel volutamente altezzoso “non siamo qui per ridurre gli spread”. E il mite Mattarella ha dovuto stendere un comunicato bagnato di stizza, le belle parole della presidente della Commissione Ursula von der Leyen sono state eclissate, il commissario Gentiloni e il presidente del Parlamento Sassoli hanno dovuto subire un’umiliazione che non meritavano, ma la cosa più grave è che il sentimento degli italiani, già provato da anni di assenza di percezione europea, ne è uscito lacerato. Lacerato. E l’Europa, al proprio interno, non può permettersi di instillare sentimenti di lacerazione.

L’Italia è il Paese che, attraverso i Trattati di Messina animati da Gaetano Martino e con l’attivismo di De Gasperi, ha contributo in primissima linea alla nascita dell’Europa. Roma è per sua natura la capitale europea nel Mediterraneo. Sarebbe dunque sbagliato dare ascolto agli istinti anti europeisti, perché la fotografia della realtà ci mostra che il limes dei singoli Stati dell’Unione è ormai scavalcato dai desideri delle persone, dalle necessità e dalle ambizioni delle aziende, dalla condivisione culturale. Dovremmo anzi essere protagonisti di un necessario rinascimento europeo, con un’agenda adeguata, per vivere il ruolo che per natura ci spetta, ma soprattutto per non essere irrilevanti dinnanzi a giganti come Cina, Russia ed U.S.A.

Come la vita, l’Europa ha le sue pecche ma è meglio averla… Così come è meglio vivere e cercare di migliorarsi e migliorare, invece che morire.

*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta

L’ANNO CHE VERRÁ

“Caro Giuseppi ti scrivo/ così mi diverto un po’/e siccome sei in un pantano/più forte ti irriderò/ Da quando sei al governo c’è una triste verità/ l’anno vecchio è finito ormai/ ma tu stai ancora là”
      A due ore dalla mezzanotte, sulla falsariga dell’Anno che verrà di di Lucio Dalla, Enzo strimpellava alla chitarra una sorta di filastrocca che pretendeva di essere ironica  sul futuro di Conte e del suo governo.
       “C’è poco da ridere, qui non ci resta che piangere – lo interruppe la moglie Silvana, impiegata di banca- coi licenziamenti in vista che oggi chiamano esuberi l’anno che verrà ci riserva brutte sorprese”.  “Vabbè – ribattè Enzo – anche per me al negozio è sempre più difficile tirare avanti, ma provo ad esorcizzare. Come si diceva una volta: una risata li seppellirà”.
           Gli amici ospiti per la serata di capodanno da trascorrere insieme li guardarono increduli.” Oh, ma di che vi lamentate? Proprio voi che ci avete rotto per anni le scatole con Grillo e con i suoi slogan” osservò Giulio, cinquant’anni, convinto sostenitore del PD con una non celata nostalgia di quando la sinistra si chiamava PCI.
        ” Che vuoi fare – si giustificò Enzo – in buona fede ci avevamo creduto, pensa avevamo votato anche per la Raggi, che amarezza”.
            “Ragazzi smettetela, basta parlare di politica, prepariamo le lenticchie e lo spumante – intervenne Federica, cattolica adulta – cerchiamo almeno stasera si essere più buoni. E comunque vada dobbiamo ringraziare il Signore che ci ha evitato le elezioni con la sicura vittoria di Salvini”.
           ” Ah, si questo è certo. Possiamo avere idee diverse ma qui siamo tutti antifascisti. L’abbiamo scampata bella” assentirono quasi in coro Gianni, Giulio, Franco e le rispettive compagne.
              A meno di un’ora dalla mezzanotte s’era creato un clima dì affabilità e condivisione nonostante i problemi che ognuno di loro si sentiva sul groppone. Mancava poco che qualcuno proponesse di cantare in coro Bella Ciao per chiudere in bellezza la serata quando si permise di dire la sua Filippo, sessant’anni, imprenditore un po’ in difficoltà, tutto sommato un brav’uomo, ma di quelli che la pensano in modo ritenuto dai presenti non politicamente corretto. Avesse fatto silenzio non avrebbe guastato la festa all’allegra compagnia di anime belle. E soprattutto non avrebbe messo in imbarazzo la moglie Giovanna, preoccupata di fare brutta figura con la sua ex compagna di classe Silvana che aveva usato la gentilezza di invitarla.
     “Sentiamo mo che ha da dire questo” pensò tra se e se Filiberto, uno che da sempre era convinto di ciò che proprio di recente aveva confermato Corrado Augias, uno degli intellettuali più in vista a Rai3, e cioè che quelli che non sono di sinistra sono, per dirla in povere povere, un po’ stupidi.
        Non è che Filippo avesse una precisa collocazione politica. No, ma di sinistra non era mai stato. Ai tempi della DC votava per lo scudo crociato, gli dava tranquillità e un po’ di garanzia  contro lo sbandierato pericolo comunista. Dopo tangentopoli aveva provato simpatia per Berlusconi, anzi, di più per Gianfranco Fini. La politica è passione, ma anche delusione. E per il povero Filippo fu una grossa delusione Gianfranco. Morto un papa se ne fa un altro e Filippo vide nella nuova Lega di Salvini l’immagine del futuro dell’Italia. Simpatico Matteo, ma gli manca qualcosa, dice le cose che tu vorresti dire, ma quanto a coerenza… basti dire che aveva proposto a Di Maio la Presidenza del Consiglio. Non ti regala Matteo quell’ideale che ti fa vivere e sognare, che ti fa vibrare il cuore.
         Matteo no ma… c’è lei…Giorgia. Avrebbe voluto gridarlo in faccia  all’allegra comitiva Filippo, avrebbe voluto dire che c’ è ancora chi crede nella politica come sangue e passione, come qualcosa che viene da lontano e andrá lontano, scarpe piene di fango e mani pulite. Ma no, le speranze ognuno se le tiene nel cuore e non le sbandiera agli occasionali compagni in una notte di capodanno.
       Alle anime belle Filippo si limitò a ricordare quello che tutti sanno e che alcuni fingono di non sapere o di dimenticare. Che Giuseppi sta lì senza essere stato eletto da nessuno.  Che aveva promesso un anno bellissimo, sì, bellissimo solo per lui. Che Zingaretti e Renzi con una rocambolesca capriola avevano contraddetto le loro precedenti solenni affermazioni e si erano alleati con i grillini. Che i cinque stelle sono allo sfacelo totale. Che la maggioranza non trova accordo su niente, dalla giustizia alla questione autostrade. Che la maggioranza di fatto non esiste più. Che Mattarella fa fatica a prenderne atto anche quando un ministro saluta e se ne va e come per il  miracolo dei pani e dei pesci viene sostituito raddoppiandolo. Che dall’ Ilva all’Alitalia il governo non riesce a fare nulla per impedire che decine di miglia di famiglie finiscano sul  lastrico. Che i porti  si sono riaperti e che è ripresa l’invasione islamica. Che le tasse e il deficit aumentano nonostante le menzogne dei Tg che predicano il contrario. Che il reddito di cittadinanza non ha creato posti di lavoro ed è finito in gran parte a sfaccendati, truffatori, spacciatori, ex terroristi e delinquenti. Che la la Turchia sta occupando la Libia mentre la politica estera dell’Italia è affidata all’ex steward dello stadio San Paolo.
       “Smettila Filippo. Sempre a lamentarti pure a capodanno” l’intervento della signora Giovanna sul marito fu accolto con un sospiro di sollievo dall’allegra comitiva. Hai voglia di cantare Bella Ciao o di puntare sulle sardine quando lo spettacolo che sta dando la sinistra è da ultimi giorni di Pompei. Ormai la festa l’aveva guastata Filippo riportandoli alla realtà.
             Ma la compagnia fece finta di sorridere perché a capodanno è obbligatorio ostentare allegria e soprattutto per non darla vinta a quel guastafeste di Filippo. Ormai mancavano dieci minuti alla mezzanotte. Enzo riprese in mano la chitarra e continuò a cantare la canzone di Lucio Dalla stavolta senza stravolgerla.
           “Vedi caro amico cosa si deve inventare/ per poter riderci sopra e continuare a sperare/… L’anno che sta arrivando tra un anno passerà/ io mi sto preparando/ è questa la novità/”
             Anche Filippo stavolta si era unito al coro. Cantava assieme agli altri l’anno che verrà, ma in cuor suo confidava nella novità , al 26 gennaio che verrà…
                 “Sette, sei, cinque, quattro, tre…”. Dalla Tv accesa una splendida ragazza scandiva i secondi. Mezzanotte!  Si stappa lo spumante. In cielo i colori dei fuochi d’artificio. È il Duemilaventi. Il futuro è già qui. L’alba, mancano poche ore, è vicina.
*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

Il "gran rifiuto" di Mattarella non è giustificabile

Per capire la crisi istituzionale più grave della storia repubblicana è necessaria una doverosa premessa, ovvero ricordare le parole del giurista Arturo Carlo Jemolo: «questa verbosità della Costituzione [e] questo frequente ricorso a formule vaghe non sono una semplice offesa al buongusto, ma riverberano su tutta la Carta costituzionale una nota d’indeterminatezza, di pressappochismo, che certo non le giova». L’articolo 92, divenuto improvvisamente celebre, non è purtroppo immune da vaghezza e indeterminatezza, e denota l’ormai assoluta inadeguatezza della nostra Carta nel fronteggiare le sfide del mondo globalizzato. Ciò precisato, è possibile analizzare l’interpretazione che Mattarella ha voluto dare a tale articolo, e verificare se può essere o meno considerata idonea.
L’articolo 92 recita: “Il Governo della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. L’italiano non è un’opinione: non sussiste alcun esplicito potere di veto da parte del Presidente della Repubblica sulla scelta dei Ministri. E non potrebbe essere altrimenti: l’Italia è una Repubblica parlamentare, non una Repubblica presidenziale. Il Quirinale non è l’Eliseo né la Casa Bianca. La nomina effettiva del Presidente del Consiglio e dei Ministri da parte del Presidente della Repubblica andrebbe a prefigurare un rapporto fiduciario che è presente solo, come detto, in una Repubblica presidenziale. Tuttavia, la fragilità del nostro sistema parlamentare ha fatto sì che le prerogative previste dall’articolo 92 siano state – in particolare dagli anni Novanta in poi – interpretate in maniera più ampia dagli inquilini del Colle, in particolare nei momenti di crisi e instabilità.
In questi casi la stella polare dell’azione presidenziale – talvolta definita di “supplenza” – è la ricerca di una solida e stabile maggioranza che garantisca il governo del Paese. In sostanza, e come noto, i poteri del Presidente della Repubblica si dilatano in assenza di una maggioranza, mentre in presenza di precisi orientamenti da parte dei partiti le prerogative quirinalizie vengono ricondotte all’alveo strettamente costituzionale. Si sono verificati dei casi in cui la nomina di un ministro è stata “stoppata” dal Colle, in talune circostanze attraverso una ferma moral suasion. Per citarne alcune: nel 1979 Pertini rifiutò Clelio Darida come ministro della Difesa. Nel 1994 Scalfaro impedì a Berlusconi di nominare Cesare Previti ministro della Giustizia e nel 2001 Ciampi bloccò ancora Berlusconi che spingeva per Roberto Maroni alla Giustizia. Da ciò, dunque, potrebbe derivarsi l’affermazione di consuetudini che assegnano al Presidente della Repubblica un effettivo potere di veto nella scelta dei ministri. Non è così.
Se, infatti, si vanno a verificare le ragioni che hanno bloccato le nomine sopra dette – procedimenti giudiziari in corso, conflitto di interessi, inopportunità etica – esse non sono mai andate in contrasto con l’articolo 95, che recita: “Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri. I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri. La legge provvede all’ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri”. In presenza di una maggioranza parlamentare – in questo caso, assicurata da Lega e Movimento 5 Stelle – la discrezionalità del Presidente della Repubblica nella nomina dei Ministri trova, pertanto, due limiti invalicabili. Il primo è che tale nomina possa, eventualmente, faccia venire meno la maggioranza che sostiene il Presidente del Consiglio. Il secondo è che la decisione di bloccare la nomina possa configurarsi come una violazione dell’articolo 95, ovvero che lo stop presidenziale vada a inficiare l’azione del Presidente del Consiglio e l’indirizzo politico del governo.
È il caso di Paolo Savona. Il “gran rifiuto” di Mattarella è, a tutti gli effetti, una decisione squisitamente politica che non ha alcuna base giuridica, né consuetudinaria, né costituzionale. Per le sue modalità e motivazioni rappresenta a tutti gli effetti una novità. Si tratta, infatti, di un processo preventivo alle intenzioni, ancor più incomprensibile considerato che nel “contratto di governo” tra Movimento 5 Stelle e Lega non si fa menzione di uscire dall’euro. È un palese tentativo di condizionare, ridimensionandolo, l’indirizzo politico e programmatico di un possibile esecutivo. Assicurare il rispetto dei trattati e degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia a organizzazioni internazionali e sovranazionali non significa assegnare al Presidente della Repubblica il potere di sbarrare le porte di Palazzo Chigi a chi manifesta orientamenti “eretici” nei confronti di Bruxelles. La ridiscussione dei trattati europei è un tema che, invero, sarà centrale nei prossimi mesi nonché nei prossimi anni. La volontà di ridiscutere i trattati da una posizione fortemente euroscettica non può essere considerata una minaccia tale da richiedere un inedito veto presidenziale, creando così un precedente pericolosissimo. Nè si può richiedere una  “professione di fede europea” a ogni personalità scelta per ricoprire il ruolo di ministro dell’Economia. Occorre altresì sottolineare che sul nome di Paolo Savona v’era la piena convergenza del Presidente del Consiglio incaricato e dei partiti che lo sostenevano, quindi l’eventuale nomina non minava affatto la stabilità della maggioranza: anzi, semmai la rafforzava.
Mattarella ha affermato di non poter subire imposizioni: ma, a sua volta, non può costruire barricate improvvisate. Il suo comportamento è un’evidente forzatura che ha creato l’ennesimo vulnus in ordinamento costituzionale già morente, nonché allargato la frattura già presente tra i cittadini e le istituzioni. Violare le regole per arginare il “populismo”: l’establishment ha già scritto il proprio epitaffio.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta