La nostra salvezza verrà dal mare

Dovrebbe essere oggetto di stupore che oggi la nozione di «interesse nazionale» possa essere oggetto di dibattito, e quindi di contrapposizione politica. E che questo venga visto come un fatto normale, di cui discorrere, e non per ciò che è: e cioè una patologia che testimonia dell’involuzione del discorso pubblico in Italia. Una patologia che si è avviata con la crisi istituzionale degli anni 1991-93; che, pur conoscendo diverse fasi, non si è mai interrotta; e che ha condotto alla situazione attuale di disorientamento della politica nazionale. Del resto l’Italia è l’unico paese dell’Europa occidentale che ha assistito, dopo il 1989, alla rimozione integrale di una classe politica, esattamente come è avvenuto nelle democrazie popolari dell’Est Europa (F. Fejto, La fine delle democrazie popolari. L’Europa orientale dopo la rivoluzione del 1989, Milano 1994). Lo stesso non è avvenuto in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, per guardare a paesi comparabili all’Italia per dimensioni, tradizione, capacità produttiva, e cultura, che invece hanno vissuto il Nuovo Ordine Mondiale (H. Kissinger, Ordine Mondiale, Milano 2015), Maastricht, e il nascere dell’Unione in una situazione di sostanziale continuità. Un giorno si spiegheranno meglio le ragioni che furono alla base di quello strano periodo: e si spiegheranno meglio quando la storia d’Italia di quel periodo sarà ricostruita sulla base della letteratura straniera che ne ha dato conto, durante e dopo quegli anni. Non sulla base di quanto è stato scritto in Italia. Sta di fatto che è da allora, e dalla Grande Cesura che lì si è prodotta, che l’Italia vive un «8 settembre» a bassa intensità e di lunga durata, che ne ha pregiudicato la collocazione sullo scenario mondiale, sia in termini economici, sia di ruolo geopolitico nelle aree di sua tradizionale spettanza, e cioè Mediterraneo e Vicino Oriente.

Questa situazione ha contato molto anche su altri versanti. Se si dovesse fare un bilancio del ruolo giocato dall’Italia all’interno dell’Unione è difficile negare che questo bilancio non sia stato altro che negativo. Senza ragionare qui delle cause che hanno condotto a questa situazione, ci vuol poco a riconoscere che in Europa l’Italia ha contato molto di più prima che dopo Maastricht. E che da Maastricht in poi il peso specifico di un paese di 60 milioni di abitanti, con un’economia splendidamente diversificata, con la seconda capacità industriale del Continente, ed eccellenze in praticamente tutti i settori della ricerca e della cultura, che ha contribuito come pochi alla formazione di quella che da europei, dovremmo chiamare cultura europeo-occidentale, sia andato riducendosi fino a diventare l’ombra di ciò che era solo trent’anni fa. Il che si dice nella consapevolezza di tutti i problemi e gli squilibri che erano evidenti ancora trent’anni fa, e che oggi si sono accentuati, fino a fare dell’Italia qualcosa di simile ad una Baviera con annessa una enorme Grecia. Detto questo sia chiaro: il Nord Italia non è la Baviera, e il Sud Italia non è la Grecia. Ma si tratta di una metafora utile a mettere in luce le tendenze in corso nel Paese, che indicano una chiara e forte tendenza alla divaricazione dei territori, in via di forte accelerazione. E che non danno mostra di interrompersi o rallentare. Tutto questo è una anomalia.

Ma è un’anomalia interessante, fortemente indicativa della condizione in cui versa il discorso sullo Stato – sulla statualità dovremmo dire – in Italia. Si sa che lo Stato, da G. Jellinek in poi, è un triangolo fatto di territorio, popolazione e governo: se viene a mancare o si indebolisce uno di questi tre elementi, lo Stato semplicemente cessa di essere uno Stato. Ma se le incrinature di territorio e popolazione sono tutto sommato facilmente riconoscibili (cosa è più misurabile di una perdita di Zona Economica Esclusiva?), lo stesso non avviene quando si parla di governo. Qui governo non è solo apparato o dominio: è innanzitutto azione, e cioè capacità di perseguire e realizzare obiettivi politici alla luce degli interessi che lo Stato di volta in volta ritiene di perseguire. Lo Stato, da questo punto di vista, si identifica con la politica, che è innanzitutto volontà e capacità di perseguire interessi. E allora non ci vuole molto a capire che uno Stato che non persegue un suo «interesse» può essere molte cose, ma ha già cessato di essere uno Stato perché non produce più politica. E di conseguenza ha lasciato spazio alla costellazione di interessi e di poteri indiretti – i poteri situazionali di cui parla sovente G. Sapelli (La democrazia trasformata. La rappresentanza tra territorio e funzione: un’analisi teorico-interpretativa, Milano 2007) – che ne occupano transitoriamente il territorio e che vengono di volta in volta scambiati per interessi italiani, tedeschi, francesi etc.: quando in realtà, nella maggior parte dei casi si tratta soltanto di interessi che si ammantano delle vesti dell’interesse nazionale (altrui) per trovare forma e realizzarsi. Quella tra potere statale e poteri indiretti, insomma, è una tensione ineliminabile, che si riflette sulla raffigurazione della rete degli interessi (del sistema, si dovrebbe dire, degli interessi) che alimentano la politica, e la sostanziano all’interno e al di fuori dello Stato. Interessi che, di quella rete, fanno una struttura in perenne movimento, decifrabile solo a prezzo di grandi sforzi e grande abilità e prudenza. Prudenza che, diciamolo pure, non sembra granché esserci stata dai tempi della Grande Cesura. Sicché la domanda che ci si dovrebbe porre è quali siano – e quali dovrebbero essere – gli interessi che sono stati perseguiti dalla politica nazionale da allora ad oggi. E quali siano i mezzi a disposizione – competenze, risorse, apparati – per perseguire oggi questi interessi. Ed è a fronte di queste domande – ma non solo di queste – che si scoprono gli effetti prodotti dalla cesura 1991-1993 sul Paese.

È su questo che si dovrebbe avviare una riflessione. Perché la politica è senz’altro identificazione di interessi altrui e capacità di realizzazione dei propri. Ma prima ancora è pensiero e capacità di ricognizione delle situazioni in cui è chiamato a muoversi lo Stato o quel che ne resta. Perché da sempre sono le domande a generare le risposte. E quindi a delineare gli scenari di azione. Questo dovrebbe essere il punto di partenza di una riflessione sull’interesse nazionale, dal momento che, se ci si muove da qui, si scopre che la società italiana ha smesso da allora, e cioè dai tempi della Grande Cesura, di interrogarsi sul proprio ruolo sullo scenario europeo e mondiale, essendosi appagata della sua dissoluzione nella nuova realtà istituzionale prodotta da Maastricht. Qualcuno, negli anni ’80, prima di Maastricht, aveva predetto che i tedeschi sarebbero entrati in Europa da tedeschi, i francesi da francesi, gli inglesi da inglesi, mentre gli italiani sarebbero stati gli unici ad entrarci da europei. I fatti gli hanno dato ragione. Ed è da allora che la politica italiana ha smesso di pensare e di pensarsi, acquietandosi nella delega firmata allora alle istituzioni europee, fino a trasformarsi in attività di esecuzione locale di scelte assunte altrove, e segnatamente in quel livello europeo dove – nel discorso pubblico italiano – tutto si fa indistinto ed opaco.

La seconda Grande Cesura, prodottasi nel 2011 con il fatto costituzionale del commissariamento finanziario della Repubblica, ha dato il colpo di grazia alla capacità del Paese di pensarsi come entità politica, favorendo il sorgere di un ceto politico sempre più penetrato da interessi esterni, che va cercando legittimazioni altrove. È esemplare – e dovrebbe essere oggetto di riflessione – la lista di politici e figure istituzionali italiane che hanno ricevuto medaglie e riconoscimenti provenienti da Stati esteri. Lo stesso non è avvenuto in altri paesi. Anzi, altrove – e non soltanto negli stati di democrazia classica occidentale, e cioè Francia e Germania, ma soprattutto negli stati di democrazia recente dell’Est, gli Stati cioè, dell’Intermarium – si è saputo capire che la nuova realtà istituzionale dell’Unione poteva essere un moltiplicatore di potenza per la realizzazione degli interessi nazionali, solo che si fosse stati in grado di coglierne le enormi potenzialità in termini di produzione di effetti egemonici. Il Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania del 2019 ne è un esempio; così come rischia di essere dello stesso fenomeno un esempio, ma a contrario, l’analogo Trattato tra Francia e Italia (Trattato del Quirinale) in gestazione da mesi. La vincolatività di questi Trattati sappiamo essere quella che è. Ma sono comunque spie di un unico processo in corso da decenni, che ha condotto, per merito altrui, e per incapacità nostra, alla situazione attuale. Il fatto che qualcuno sia entrato nell’Unione da Tedesco o da Francese, e solo noi da Europei ha prodotto, con il trascorrere del tempo, i suoi effetti. E lo stesso discorso dovrebbe essere fatto per altre forme di collaborazione, a cavallo tra il diritto internazionale ed il diritto dell’Unione, quali il Trattato Mes o il Trattato di Velsen con l’istituzione dell’Eurogendfor, i cui effetti benefici sul Paese sono tutto tranne che evidenti.

Tutto questo ha avuto, in aggiunta, l’effetto di allontanare il ceto politico italiano da quello che è il suo tradizionale alleato, e cioè gli Usa, i quali, anche per ragioni interne alle ultime amministrazioni, si sono progressivamente disimpegnati dal teatro europeo. E questo ha giocato non poco sulle condizioni che hanno portato all’attuale situazione, perché se il radicamento culturale ed economico dell’Italia è – e non può che essere – in Europa, bisogna capire che il suo radicamento politico non può che essere Oltreoceano, per le ragioni che si sono appena dette, stante che il disimpegno statunitense dal Mediterraneo e dall’Europa ha creato le condizioni affinché l’egemonia franco-tedesca potesse affermarsi, sia pure in modo zoppo e claudicante, sul resto del continente.

Bisogna riconoscere che ciò che, forzando il linguaggio, ci si è abituati a chiamare Europa – per farci dimenticare che Europa è una categoria della storia e della cultura mondiale, e non un disfunzionale gruppo di Stati retti da rapporti egemonici, il cui nome proprio è Unione europea – è esclusivamente una potenza terrestre. Governa un piccolo e limitato pezzo di Eurasia. Non ha capacità di proiezione marittima, nonostante la Francia da sempre aspiri ad essere presente sul mare. Il suo naturale ambito di espansione sta nell’Oceano di Terra che inizia, al confine tra Germania e Polonia, tra Chemnitz e Wroclaw, e finisce a Khabarovsk sulle coste del Pacifico, dove l’ultimo pezzo di costa siberiana affronta le coste giapponesi e a sud confina, per terra, con un lembo di Cina. Ma quello spazio le è precluso perché da sempre quell’Oceano di Terra è troppo vasto per poter essere controllato, ed è presidiato in modo insuperabile dal gigante russo. A differenza del suo ingombrante vicino, la proiezione di potenza dell’Unione non è militare, ma esclusivamente commerciale e mercantile. Tant’è che il suo diritto è una lex mercatoria riadattata all’età della tecnica e dell’informatica, impiegata come strumento di governo contabile, ed abbellita da una retorica dei «diritti fondamentali» fatta per distruggere la tradizione plurimillenaria del diritto razionale europeo. L’Unione non può proiettarsi nel mondo attraverso la forza della finanza, perché la finanza è affare esclusivamente anglosassone. Si proietta nel mondo attraverso la produzione e l’esportazione di manufatti,  e l’accumulo di surplus commerciali superiori a quelli cinesi.

La sua massima economia, quella tedesca, è un aliante trainato dal motore dell’aereo cinese e non è autosufficiente, essendo condannata all’esportazione dal modello economico scelto fin dal dopoguerra, e codificato nella Stabilitätsgesetz del 1967. Il progetto europeo per una proiezione di forza finanziaria in competizione con il dollaro nelle aree asiatiche e del Medio Oriente, che pure c’è stato, è fallito anche prima della crisi del 2008. Di quel progetto restano solo gli effetti interni, e cioè la capacità da parte di alcuni Stati-nazione di impiegare una moneta creata dall’ingegneria finanziaria per egemonizzarne altri con la collaborazione della classe dirigente di questi stati nuovamente asserviti. Con l’unica differenza, rispetto al passato recente, che questa egemonia si basa sulla forza contabile e non più militare. Da qui la differenza tra Core e Piigs – e cioè tra «Nucleo» e «Porci» – che descrive in due parole l’attuale disequilibrio europeo. La collocazione geografica degli Stati-nazione egemoni, e cioè Germania e la subordinata Francia, è però determinante per il loro destino politico. Vista la loro collocazione, la proiezione di forza attraverso l’esportazione è destinata a svolgersi soltanto per vie di terra, come per via di terra doveva proiettarsi la potenza manifatturiera tedesca sulla direttrice Berlino-Baghdad-Baku all’inizio del XX secolo: la via di terra, insomma, che, secondo il pensiero strategico tedesco di fine ‘800, doveva essere la risposta continentale alla rotta che, attraverso Suez, da Londra arrivava in India e in Australia e che costituiva la «spina dorsale» dell’Empire da proteggere ad ogni costo (Correlli Barnett, The Collapse of British Power, London 1972).

Già la diversa percezione degli spazi coinvolti dalle vie di terra e dalle rotte di mare avrebbe dovuto mettere in guardia i suoi architetti dal riporre troppe speranze in un progetto che si è interrotto con l’avvio della guerra civile europea, iniziata nel 1914 e finita nel 1945. Così non è stato, come aveva capito benissimo Carl Schmitt, quando diceva «la Germania non è mai stata altro che uno stato continentale europeo di media grandezza. Questo è il nostro destino: un destino da topi di terra! Il Reich tedesco è ridicolo a confronto con l’Empire inglese» (Terra e Mare. Riflessioni sulla storia del mondo, Adelphi 2002). Il Landnahme, l’impossessamento di Terra, insomma, non è niente in confronto al Seenahme, all’impossessamento di Mare: questa è la lezione lasciata da Carl Schmitt ai mediocri strateghi di Maastricht e Lisbona. E questo segna il destino dell’Unione, che è un destino di inevitabile fallimento, nonostante le sue strategie mercantiliste. In realtà l’Europa di Maastricht ha avuto la possibilità di diventare una potenza marittima attraverso  il rapporto con la Gran Bretagna, che è stata la grande continuatrice, in età moderna, della tradizione medievale veneziana – e dunque italiana – di traffici commerciali ed influenze politiche. Un’Europa che avesse saputo dare alla Gran Bretagna il ruolo che le spettava nel progetto europeo avrebbe potuto espandersi strategicamente sia per terra che per mare. Ma avrebbe dovuto risolvere l’equilibrio di potenza tra Terra e Mare attraverso un patto del genere di quello cercato nel 1940 e mai realizzato. Questo patto non c’è mai stato. E allora non deve stupire che la Gran Bretagna di Maastricht sia salpata una seconda volta nella sua storia, dopo il XVII secolo, ed abbia abbandonato i topi di terra al loro destino. Perché la convivenza tra Terra e Mare – e, cioè, fra pensieri strategici diversi e diverse percezioni dello spazio – è impossibile. Se temporaneamente questa convivenza si realizza, è sempre instabile e occasionale. Questo è il senso storico della Brexit, che riporta la Gran Bretagna nella sua antica posizione di ago della bilancia dello scacchiere europeo, e che restituisce il Foreign Office alla sua tradizione funzione di regolatore, per via diplomatica, degli equilibri europei.

Da oggi in poi l’unico suo interesse sarà lavorare per contenere o distruggere quel che resta di quel progetto imperiale europeo, che era poi nient’altro, come ha spiegato benissimo sempre H. Kissinger, se non la riproposizione in età moderna del modello di Carlo V d’Asburgo da parte del pensiero strategico americano del dopoguerra. E infatti, per qualcosa che non è una coincidenza della storia, l’altra grande potenza marittima che, dopo aver preso il dominio degli Oceani nel 1945, ha preso il dominio del Mediterraneo dai tempi di Suez, e cioè gli Usa, è oggi, sia pure con i nuovi limiti di pensiero strategico che un tempo non le appartenevano, in rotta di collisione con quel che resta del progetto neoimperiale europeo. E cioè di un progetto che, in origine, era stato voluto proprio dagli americani, prima in funzione di contenimento dell’Urss e poi, dopo il 1989, per stabilizzare un lembo comunque rilevante – una regione – di Eurasia, partendo dal presupposto della realizzabilità di un mondo unipolare a dominio americano. Gli anni della presidenza Obama-Clinton sono stati gli anni di massimo sviluppo del progetto neo-asburgico e l’euro ne è stata parte integrante. Così come ne è stata parte integrante, in Italia, la collaborazione di buona parte della classe dirigente di quegli anni, che, per sopravvivere e governare un paese che doveva deindustrializzarsi in nome della teoria dei vantaggi comparati, si è alimentata del doppio rapporto con la centrale americana e con i suoi terminali europei, in Francia e Germania. Sono anni, questi, che, nel Mediterraneo, sono finiti. E sono finiti prima con la vicenda libica, iniziata con una guerra combattuta dell’Italia, per conto terzi, contro gli interessi italiani, e poi con la vicenda siriana, in cui la Francia ha mostrato tutta la sua incapacità di sostituire la Gran Bretagna come braccio marittimo di proiezione di potenza, nonostante iniziative come la Scuola di Guerra Economica (Ecole de guerre économique), concepita dagli enarchi per perseguire, in forme non militari, e a discapito dei vicini europei, tra cui l’Italia, gli interessi francesi. E a buon diritto: in fondo il conflitto economico è il cuore del progetto europeo, come dimostra l’art. 3 del Trattato Unico Europeo, che fa della «forte competizione» l’obiettivo privilegiato dell’ordinamento dell’Unione, cui tutti gli altri devono subordinarsi. La creazione, da parte della Francia, di un’istituzione come la Scuola di Guerra Economica è solo un sintomo di salute e consapevolezza di sé da parte di uno Stato che non vuole rinunciare ad essere Stato, pur all’interno del «sogno» europeo. E che sfrutta il «sogno» per continuare ad operare, sia pure nel modo tradizionalmente velleitario e sbilenco che gli è proprio, come uno Stato. Semmai sono stati i paesi o, meglio, le classi dirigenti di paesi come l’Italia, che si sono voluti fare satellite, a precludersi questa consapevolezza di organizzazione e, dunque, di azione politica. Accettando così, e anzi, accelerando, una sorte di declino che sarebbe stata evitabilissima.

Oggi quel che resta del progetto europeo si è ridotto, come già nel 1943, all’area franco-tedesca e ai rispettivi satelliti (F. Merusi, Il sogno di Diocleziano, Torino 2012), anche extraeuropei, come sono dei satelliti le excolonie del Franco CFA, le cui popolazioni sono state fatte fluire in Italia negli ultimi anni come destinazione di seconda scelta, che alleggerisse la naturale pressione sulle coste francesi di popolazioni francofone. È un’area, quella franco-tedesca, tutta di Terra che oggi è sotto pressione dal Mare tanto da Ovest, con la Brexit, quanto da Sud, e cioè dal Mediterraneo, attraverso l’Italia. Non sono ricorrenze casuali quelle in corso, per il semplice fatto che la geopolitica ha una sua logica e che, come aveva capito benissimo Schmitt settant’anni fa, il mostro mitologico di Terra, il Behemoth, è destinato ad essere sempre strangolato dal mostro mitologico di Mare, il Leviatano. Una volta che gli equilibri di potere americani si saranno definitivamente stabilizzati, sarà solo questione di tempo perché l’anglosfera riprenda il controllo del piccolo gigante di Terra, e riduca a ragione uno strumento – in realtà un esperimento – di governo regionale sfuggito di mano ai suoi creatori. E che è stato venduto alle popolazioni di questa parte di Eurasia come «sogno europeo», infarcendolo di richiami a Kant, alla «pace perpetua», all’ideologia dei diritti in impossibile, perenne espansione, all’economia «in equilibrio» dell’ordoliberismo, e ad altre amenità del genere. Per l’Italia, che è una potenza regionale anfibia, che non ha mai scelto veramente fra Terra e Mare, e dunque non si è mai veramente compiuta, presa com’è fra un Nord manifatturiero ed esportatore, ed un Sud centro naturale del Mediterraneo, se ci sarà salvezza, questa salvezza verrà dal Mare. E sarà una salvezza dolorosa da raggiungere. Come, sempre dal Mare e dalle sue potenze, verrà – se verrà – la salvezza del resto d’Europa.

*Alessandro Mangia, professore ordinario di Diritto Costituzionale Università Cattolica, Milano

L’INTERESSE PER IL MARE, COME INTERESSE NAZIONALE

Come indicato da più parti, le possibilità di ripresa dell’economia italiana, dopo la forte recessione causata dalla pandemia, poggiano largamente sulle esportazioni. Una sempre migliore integrazione dell’Italia nel commercio mondiale, dal quale dipende il futuro della nostra economia, dovrà costituire una priorità per i futuri governi italiani. Pertanto, dovranno essere intraprese tutte quelle azioni necessarie per favorire la libera circolazione delle merci, rilanciando il multilateralismo ed il ruolo del Wto e favorendo l’azione europea nella sottoscrizione di nuovi accordi commerciali. Un commercio mondiale caratterizzato da una minore rischiosità e da un sistema di regole internazionali condiviso, costituirebbe per le imprese italiane uno scenario ideale per intercettare la domanda potenziale di «Made in Italy» proveniente da tutte le aree del nostro pianeta.

Per la sua posizione geografica e per il ruolo internazionale che riveste, l’Italia non può circoscrivere la propria area d’interesse al “giardino di casa”, ponendo un confine limitato tra Gorizia ed il Mediterraneo centrale oltre il quale non sarebbe conveniente spingersi. Era così che si pensava negli anni ’60 e ’70 in piena guerra fredda, ragionando, quindi, in un’ottica di “compartimenti stagni” e con aree d’interesse ben delineate.  Oggi la fluidità degli scenari internazionali e la competizione sempre più accesa impongono a Roma di gettare uno sguardo nuovo anche ai mari lontani come l’Oceano Indiano.

Oltre l’80% del traffico mercantile mondiale passa per mare ed il 75% attraversa gli stretti ed i canali internazionali; il mare è dunque una via di comunicazione privilegiata ma anche causa e luogo di conflitti. Basti pensare all’instabilità politica della gran parte delle nazioni che sono attraversate dai canali o che controllano gli stretti. Ben 7 dei 9 accessi più importanti alle rotte commerciali mondiali si trovano nell’Oceano Indiano e sono rispettivamente il Canale di Suez, lo Stretto di Hormuz, lo Stretto di Bab el Mandeb, il Capo di Buona Speranza, lo Stretto di Malacca, lo Stretto della Sonda e lo Stretto di Lombok.  Per Roma Suez, Bab el Mandeb, Hormuz ed il Capo di Buona Speranza sono di vitale importanza ed è fondamentale garantirne la libertà di navigazione con una presenza costante che sia essa militare o politico-diplomatica. La sicurezza di queste rotte è la principale garanzia per l’Italia di restare un hub strategico del commercio internazionale, di più è una carta fondamentale nelle mani della diplomazia economica italiana per far valere il suo punto di vista in molti tavoli importanti.

Dunque, nell’ottica di  stabilire la nostra necessità strategica e quali siano le linee di forza della presenza italiana nel mondo -per poi adeguare i mezzi a questa necessità strategica- vorrei evidenziare come l’interesse per il mare e l’interesse nazionale coincidano e vorrei porre l’attenzione anzitutto su due necessità strategiche fondamentali:

  1.  Il ruolo della Marina e il presidio delle Sea Lines of Communication (SLOC)

Viviamo una fase storica di forte accentuazione della dimensione strategica del mare. Attori globali come Stati Uniti, Cina e Russia, e attori regionali come i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, l’Iran, l’Egitto, la Turchia sono oggi impegnati in una corsa per acquisire il controllo delle Sea Lines of Communication (SLOC), indispensabile per la proiezione delle forze militari e degli interessi economici, nonchè per la deterrenza nei confronti di fenomeni di instabilità, quali pirateria, traffici illeciti, movimenti jihadisti e terrorismo in generale. Credo che l’Italia debba farsi portavoce a livello europeo e internazionale della creazione di una governance del mare e promuovere una regia istituzionale italiana ed europea per gli affari marittimi.  Infatti, analizzando gli scenari militari marittimi nel Mediterraneo e nell’area del Golfo Persico, così come nel Pacifico, stiamo assistendo a un diffuso rafforzamento dello strumento nautico e ad importanti investimenti nell’industria navale e subacquea della difesa. Ecco allora il ruolo centrale della Marina Militare che per essere all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte non può prescindere da alcune premesse che riguardano il suo funzionamento e il numero del personale specializzato.

  1. Lo sviluppo di una coscienza mediterranea, come sfida per il sistema educativo italiano

Nelle scuole e nelle Università italiane c’è un’evidente assenza nella programmazione didattica in riferimento al mare. Né i manuali scolastici, né i corsi universitari dedicano sufficiente attenzione a quell’incredibile deposito, di produttività e occasioni che è il Mare Nostrum. È ormai necessario innescare un processo formativo che generi consapevolezza delle opportunità legate al mare non solo in chiave turistica. Trasmettere una pedagogia del mare è un sentiero impervio, ma che va assolutamente perseguito. Significa coinvolgere scuole, università, mass media ed enti di ricerca, convogliare interessi e sussidi verso un unico obiettivo: veicolare la conoscenza della tradizione marittima italiana per educare a cogliere le opportunità di uno sviluppo economico e culturale. S’impone come interesse nazionale la riscoperta e lo sviluppo nei cittadini italiani di una coscienza mediterranea e del ruolo del nostro Paese come frontiera fra i tre continenti: Asia, Africa, Europa.  Il Mediterraneo, infatti, non è soltanto il Mare Nostrum dei Romani, è soprattutto la porta del mondo per l’Europa, perché regola gran parte dei suoi rapporti con l’Africa e con l’Asia. Senza il Mediterraneo non ci sarebbe l’Europa. Senza il Mediterraneo l’Europa sarebbe solo una penisola dell’Asia.In conclusione, a mio parere il ruolo che l’Italia deve cercare di ricoprire per difendere il proprio interesse nazionale è quello di rafforzare la propria presenza nella geopolitica europea e internazionale attingendo alla propria esperienza storica mediterranea, non per vivere di rendita, ma per costruire e promuovere un’Europa a dimensione mediterranea. L’Italia deve dare la massima priorità a questa visione euro-mediterranea condivisa.  Per tradizione e cultura abbiamo tutte le carte in regola.

*Giovanni Luchetti, strategic communication manager, Forbes Italia

 

 

Italia più forte con Ministero del mare

L’Italia, come è noto, è circondata da 7.456 chilometri di coste, 155.000
chilometri quadrati di acque marittime, interne e territoriali, e 350.000 chilometri quadrati di acque.
Un patrimonio non solo naturalistico, storico e culturale ma anche economico. Oggi più che mai.
Con l’80 per cento dei nostri confini bagnati dal mare, la blue economy costituisce, infatti, una parte
molto importante del sistema produttivo nazionale, con circa 200.000 imprese impegnate nella
cosiddetta « economia del mare », che va dalle attività primarie come la pesca, a quelle terziarie del
turismo marino, dei trasporti marittimi e della ricerca e regolamentazione ambientale, passando per
quelle secondarie quali la cantieristica.
Una forza imprenditoriale che cresce rispetto al resto dell’economia, come emerge dal VII Rapporto
sull’economia del mare (2018), e che coinvolge anche giovani (dieci imprese della blue economy su
cento sono « capitanate » da under trentacinque), donne (venti su cento sono a guida « rosa ») e
stranieri (sei su cento).

L’economia del mare si sviluppa in svariati settori che vanno dalla filiera ittica (che comprende le
attività connesse con la pesca, la lavorazione del pesce e la preparazione di piatti a base di pesce) a
quella della cantieristica (attività di costruzione di imbarcazioni da diporto e sportive, cantieri navali,
fabbricazione di strumenti per navigazione, installazione di macchine e apparecchiature industriali
connesse); dall’industria delle estrazioni marine (sale, petrolio, gas naturale) alla movimentazione di
merci e passeggeri (attività di trasporto via acqua di merci e persone, sia marittimo che costiero,
connesse attività di assicurazione e di intermediazione degli stessi trasporti e servizi logistici), ai
servizi di alloggio e ristorazione, alle attività sportive e ricreative (tour operator, guide e
accompagnatori turistici, parchi tematici, stabilimenti balneari e altri ambiti legati all’intrattenimento e
divertimento, discoteche, sale da ballo, sale giochi, eccetera), ma anche attività legate all’istruzione
(scuole nautiche). Senza dimenticare, poi, il settore della ricerca e della tutela ambientale che include
le attività di ricerca e sviluppo nel campo delle biotecnologie marine e delle scienze naturali legate al
mare più in generale, assieme alle attività di regolamentazione per la tutela ambientale e nel campo dei
trasporti e delle comunicazioni.
I settori in cui è più forte l’allargamento della base imprenditoriale, in termini percentuali, sono le
attività di ricerca, regolamentazione e tutela ambientale (più 34,6 per cento) e i servizi di alloggio e
ristorazione (più 23 per cento), mentre, tra le diverse ripartizioni territoriali, l’incremento maggiore del
numero di imprese della blue economy si riscontra nel Mezzogiorno e nel Centro Italia che
rappresentano, appunto, le due macro-ripartizioni a più alta concentrazione di imprese della blue
economy, con un’incidenza del 4,1 per cento e del 4,2 per cento sui rispettivi totali imprenditoriali.
Parliamo, dunque, di una forza imprenditoriale che rappresenta un motore per la produzione
economica, il cui valore aggiunto è arrivato, nel 2017, a 45 miliardi di euro, pari al 2,9 per cento del
totale economia, con un aumento di circa il 5,9 per cento, raddoppiando la variazione esibita dal resto
dell’economia.

Va poi rilevato il dato attinente alla forza lavoro che conta oltre 880.000 occupati, pari al 3,5 per cento
dell’occupazione complessiva nazionale, mentre dal 2011 al 2017 il numero di lavoratori è aumentato
di più 4 punti percentuali, a fronte di una crescita di solo l’1 per cento nel resto dell’economia.
Imprenditorialità, produzione e occupazione, a cui va ad aggiungersi la competitività in campo
internazionale, perché l’export della cantieristica e quello del settore ittico, nel suo insieme, ha toccato
nel 2017 quota 5,1 miliardi di euro.
Dati e numeri che per un effetto moltiplicatore devono aggiungersi a quelli dell’indotto relativi alle
attività fornitrici, ad esempio, di beni e servizi di input (materie prime, semilavorati, eccetera) e a
quelle che garantiscono la distribuzione commerciale, servizi di marketing, trasporti, logistica e così
via, per cui per ogni euro prodotto dalla blue economy se ne attivano quasi due sul resto dell’economia.
Analizzando in base alla ripartizione geografica, infine, il valore aggiunto prodotto dalla blue
economy, la sua attivazione sul resto dell’economia e il relativo moltiplicatore, emerge che l’intera
filiera della blue economy nel 2016 ha inciso, tra valore aggiunto prodotto in modo diretto e valore
aggiunto attivato, per circa l’11 per cento nell’economia del Mezzogiorno (36,3 miliardi di euro) e per
il 10,1 per cento in quella del Centro (33 miliardi di euro).
Un sistema che ha tenuto nonostante la crisi, che funziona, porta reddito e occupazione; una realtà,
quella marittima, molto complessa e articolata, legata al sistema portuale, al network trasportistico
terrestre, alla logistica e all’industria manifatturiera, oltre che ai servizi dedicati, che richiede una
organizzazione logistica puntuale, sistematizzata.

Appena un anno fa (8 giugno 2017), il Consiglio dell’Unione europea ha approvato la dichiarazione de
La Valletta sulla politica marittima dell’Unione europea che elenca tra le priorità: maggiore
competitività, decarbonizzazione e digitalizzazione, « per assicurare una connessione globale, un
mercato interno efficiente e un settore marittimo di primo livello ».
L’Italia su tutti questi aspetti può giocare un ruolo decisivo, ma per farlo deve presentare una strategia,
una vera politica dei trasporti e dell’economia marittima; è, dunque, necessario, come viene chiesto
dall’intera industria, promuovere una governance forte e unitaria del mondo del mare, declinato in tutte
le sue molteplici componenti.
Il controllo sul mare, il corretto svolgimento delle attività economiche, la tutela dell’ambiente marino,
la salvaguardia del trasporto umano e la sicurezza della navigazione sono competenze attualmente
ripartite in diversi Ministeri senza quella necessaria e doverosa visione comune e univoca delle
problematiche legate alla vita in mare.
Con il presente disegno di legge si intendono riportare nell’ambito di un unico dicastero le funzioni e i
compiti che hanno un collegamento con il mare, con la sua tutela, le sue risorse, il suo ecosistema e i
trasporti marittimi: un Ministero del mare deputato a valorizzare la peculiarità del sistema marittimo e
la complessità delle sue articolazioni e lo sviluppo di politiche organiche per il settore.

Il futuro dell’Italia è nel mare. Una sfida, una opportunità, forse anche una missione.

 

Relazione introduttiva alla Proposta di Legge n. 917/2019 presentata dal Senatore Adolfo Urso che sarà discussa al meeting organizzato dalla Fondazione Farefuturo a Bari giovedì 19 settembre