Questo saggio di Gennaro Sangiuliano, direttore Tg2, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo
La politica globale del nostro tempo troppo in fretta aveva archiviato la storia e con essa la geografia delle culture, dei popoli, delle religioni e delle peculiarità che si sono sedimentate nei millenni. Il nostro tempo è segnato da veri e propri «padroni del pensiero contemporaneo», caste di potere tecnocratiche e culturali, strutturate secondo lo schema delle peggiori oligarchie, burocrazie del potere che esercitano una pedagogia quotidiana e impongono una visione univoca della realtà. Queste élite hanno decretato la «morte della nazione» che è soprattutto la «morte della Patria». Patria, Nazione, Stato, invece, restano i tre sostantivi che hanno ancora profondo valore nell’indicare indicare una comunità politica organizzata.
Il vocabolario dell’Enciclopedia Treccani definisce il sostantivo Patria come «il territorio abitato da un popolo e al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni». L’origine della parola è latina e rimanda a patrius «paterno», ma nell’accezione latina la parola Patria sottintende anche terra. Cicerone già la definisce come un insieme di istituzioni, tradizioni, sentimenti, ideali. L’Encyclopédie francese indica la Patria come pays des pères, la terra dei padri, che per i tedeschi è Vaterland o Heimat, anche se, quest’ultima parola tedesca, non sarebbe correttamente traducibile con Patria perché indicherebbe un ambito più ristretto, legato al luogo dell’infanzia e alla lingua degli affetti. Petrarca, fra i primi nella letteratura nazionale ad adoperare questo sostantivo, identificherà la sua Patria: Non è questa (l’Italia) la patria in ch’io mi fido, Madre benigna e pia, Che copre l’un e l’altro mio parente? Nell’antica Roma «padre della Patria» (pater patriae) era il titolo di onore conferito a cittadini particolarmente benemeriti; titolo attribuito ad Augusto nell’anno 2 a.C. e portato da altri imperatori. Rinnovato in epoca moderna, tale titolo fu concesso dai fiorentini a Cosimo de’ Medici e in seguito fu attribuito anche a Vittorio Emanuele II per aver realizzato l’unità politica dell’Italia.
Lo Stato non è solo un’entità formale ma è l’organizzazione giuridica di una nazione che per definizione è un’entità linguistica e culturale. Da qualche parte è circolata nella cultura politico-giuridica l’idea di poter concepire una democrazia «agnostica», basata su regole autonome, universali, sganciate dalla tradizione di un popolo. Lo stesso Hans Kelsen ammette: «La democrazia, sul piano dell’idea, è una forma di Stato o di società in cui la volontà generale o, senza tante metafore, l’ordine sociale, vengono realizzati da chi è a quest’ordine sociale sottomesso, cioè dal popolo.
Democrazia significa identità di governanti e governati, di soggetto e di oggetto del potere, governo 59 del popolo sul popolo»1 . Una democrazia per essere credibile deve essere consensuale e non solo formale, si può aggiungere che è arduo concepire una democrazia, come Sollen giuridico, puramente formale, al di fuori dei giudizi di valore, estraneo a ogni dovere morale. Ciò significa affermare che la legge costituzionale deve dimostrare di mantenere nel tempo una capacità di includere l’intera comunità rispecchiandone l’identità collettiva. Il rischio è che si realizzi una separazione tra legge e identità nazionale che finirebbe per essere un danno alla qualità della democrazia. Non c’è democrazia e non c’è libertà senza il contenuto storico e culturale della nazione che vi è pervenuta. Lo Stato si fonda sull’obbedienza alla legge che si vuole imporre ai cittadini-soci, ma affinché essa funzioni occorre che sia la più condivisa possibile e questa condivisione della necessità e dei modi dell’organizzazione statuale non può poggiare solo su un dato giuridico, deve accompagnarsi a valori morali condivisi. Di qui il passaggio logico ci conduce alla nazione, entità aperta a tutti a patto che i nuovi cittadini ne condividano le fondamenta perché «la storia delle origini dei popoli è, per i costruttori di sistemi, ciò che è la tavolozza per il pittore»2 . L’affermazione della nazionalità significa un processo storico di rinvenimento dell’idem sentire comune di un popolo, la capacità di aggregare quella comunanza di valori, lingua parlata e scritta, religione, consuetudine che è nella tradizione. Se Giambattista Vico parlava del sensus dei popoli, Federico Chabod, partigiano e dirigente del CLN, precisa: «Dire senso di nazionalità, significa dire senso di individualità storica.
Si giunge al principio di nazione in quanto si giunge ad affermare il principio di individualità, cioè ad affermare, contro tendenze generalizzatrici e universalizzanti, il principio del particolare, del singolo»3 . La modernità va vissuta senza omettere la trasmissione della memoria, come in Eliot la nazione non è una mera nostalgia, ma una tradizione genuina coniugata col vivere contemporaneo. Augusto Del Noce in un suo celebre saggio conia il termine «transpolitico» per indicare una dimensione profonda che si sedimenta nella coscienza dei popoli. La democrazia costituisce il più elevato risultato della storia dell’Occidente, ma non si può definire la stessa nozione di democrazia se si prescinde dalla storia occidentale, dal travaglio secolare che ci ha condotti a definire la forma politica più vicina alla libertà. Alexis de Toqueville ha chiara questa proposizione quando scrive: «Le leggi sono sempre vacillanti fintanto che non poggiano sui costumi». Tutte le teorie più credibili sulla nascita dello Stato e quindi sull’approdo alla democrazia partono da quello stato di natura in cui vive l’uomo descritto bene, sia pur 1 H. Kelsen, La democrazia, Bologna, ristampa del 2010, pp. 57-58. 2 Ivi, p. 25. 3 F. Chabod, L’idea di nazione, Roma 1961, p. 17. 60 a tinte diverse, da Locke e Hobbes. La globalizzazione, forse, è un dato ineludibile del nostro tempo ma occorre distinguere fra una dimensione globale positiva, dove le pluralità con le loro diversità e le loro tipicità si incontrano e si migliorano, e la «globalizzazione sinistra» prevaricazione di un modello totalizzante e interessato sugli altri.
La storia lo ricorda: globali e virtuose furono le espansioni verso nuovi mercati della Repubblica di Venezia, di Genova, di Firenze, dell’età comunale, della Magna Grecia e dei Fenici. «Le decisioni stanno migrando dallo spazio tradizionale della democrazia», è questo il monito che all’inizio del nostro secolo è stato lanciato da Ralf Dahrendorf, aggiungendo che la democrazia non fosse applicabile «al di fuori dello Stato-Nazione, ai molti livelli internazionali o multinazionali in cui si forma oggi la decisione politica». Da una prospettiva diversa, un altro autore britannico, il filosofo Roger Scruton, ha scritto che le «democrazie devono la loro esistenza alla fedeltà nazionale», perché laddove «l’esperienza di nazionalità sia debole o inesistente, la democrazia ha mancato di attecchire».
Lo studioso aggiunge con estrema chiarezza: «I recenti tentativi di trascendere dallo Stato nazionale e trasformarlo in qualche tipo di ordinamento transnazionale, si sono conclusi spesso in dittature totalitarie». Il politologo statunitense Robert Kagan, esponente di punta del pensiero neocon, parla di «paradiso poststorico» che, però, oggi mostra evidenti limiti. Nella sua morfologia della storia universale Max Weber lo aveva amaramente teorizzato: la linea progressiva di crescita economica e sociale dell’Occidente si sarebbe spezzata, a meno di non essere continuamente rivitalizzata dall’etica del dovere, dall’identità e da una continua relazione fra economia e cultura. Un rapporto dove una visione strategica e culturale diventi la base per lo sviluppo.
«La vita pubblica», scrive Ortega y Gasset nel delineare quello che definisce il fenomeno dell’agglomerato, «non è soltanto politica, ma in pari tempo e in prevalenza, è intellettuale, morale, economica, religiosa; comprende tutti i costumi collettivi, inclusa la maniera di vestire e la maniera di godere». Un monito a quei gruppi di potere che elaborano modello e soluzioni senza tener conto dell’idem sentire comune popolare. «Qu’est-ce qu’une nation?», «Che cos’è una nazione» si domanda il francese Ernst Renan in una famosa conferenza tenuta alla Sorbona nel 1882, per poi affermare che la nazione è il plebiscito di ogni giorno, e concludere: «Attraverso le loro diverse vocazioni, spesso opposte, le nazioni servono alla comune opera della civiltà; tutte apportano una nota a quel grande concerto dell’umanità».
*Gennaro Sangiuliano, direttore TG2 Rai