Perché occorre un’Authority per gli ivestimenti esteri

Per le società estere investire in Italia è storicamente una corsa ad ostacoli tra restrizioni, burocrazia, tasse, caos normativo ed una incompetenza generalizzata delle pubbliche amministrazioni. Qualcuno dirà che, dopotutto, almeno non si svende il paese preservando così l’italianità dell’economia. Nulla di più sbagliato! Attirare investimenti e know-how arricchisce il sistema produttivo del paese e certo non lo indebolisce.

Il Belpaese ha sempre avuto la presunzione di poter fare da sé. Forse colpa di quel narcisismo e vanità intrinsechi in una Nazione che ha dalla sua parte delle eccellenze riconosciute in tutto il mondo. Arte, storia, cultura ed, ovviamente il Made in Italy.

Questa consapevolezza in qualche modo ha penalizzato l’Italia, soprattutto per quanto riguarda la scarsa apertura verso chi viene dall’estero. Sarebbe opportuno prendere spunto dalle storiche rivali come Francia, Inghilterra e Germania, oltre ad altri player internazionali di caratura minore, che hanno puntato molto sull’attrazione di investimenti esteri incassando notevoli benefici e rafforzando le proprie economie, stando al contempo vigili ed attenti a non lasciare mai che il potere decisionale passasse in mani straniere.

Negli anni In Italia si è fatto pressoché il contrario. Abbiamo assistito ad abili operazioni di mercato quasi sempre svantaggiose per le imprese italiane, dove società estere (con “spalle coperte” dagli stessi paesi di provenienza) sono riuscite a prendere il controllo su molti asset strategici. Si è trattato di veri campioni nazionali passati ormai in mani straniere, ribaltando il concetto di attrattiva in permissivismo verso la depredazione del Made in Italy. L’Italia quindi si è rivelata debole ed inefficiente in quella competizione internazionale volta all’attrazione degli investimenti esteri cosiddetti buoni, diretti a portare benefici e ricchezza, dove si è vista superare persino da competitor molto più deboli ma (occorre ammetterlo) molto più organizzati ed agguerriti. In tutti i settori. Basti pensare all’Olanda, all’Inghilterra pre-Brexit, a Malta, a Cipro e ora persino agli Emirati Arabi che si sono tutti abilmente approfittati dall’insostenibilità della pressione fiscale italiana facendo si che molte aziende, soprattutto finanziarie ed erogatrici di servizi, trasferissero sedi e filiali operative in tali paesi allettati da condizioni fiscali favorevoli e zero burocrazia.
Riguardo la delocalizzazione industriale, invece, l’elenco comprenderebbe la quasi totalità dei paesi dell’Est Europa, dove le imprese italiane usufruiscono di manodopera più vantaggiosa a parità di qualità produttiva, di una ingerenza pressoché minima dei sindacati ed, ormai inutile dirlo, di un regime fiscale agevolato e attento alle esigente di chi investe. In molte di queste nazioni l’investitore estero viene affiancato persino da un tutor statale che lo aiuta a sbrigare gli adempimenti burocratici ed amministrativi.
Infine, pur brevemente, occorre menzionale le università, una vera arma di attrazione, questa volta non di investimenti bensì di menti eccelse provenienti da altri paesi, che poi si trasformano in ricchezza nazionale. L’Italia oggi si può difendere a malapena con la Bocconi e con il Politecnico di Milano. Sono tutte chance mancate. Difficilmente recuperabili ma non perse, qualora il Governo sia deciso a cambiare il modello attuale.  Se pensiamo a quante agenzie si occupano di attrazione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy, da Invitalia a SIMEST, ICE, il Comitato Attrazione Investimenti
Esteri (CAIE) presso il MISE, colpisce la scarsezza dei risultati raggiunti.
Certo, anche tali soggetti non possono fare miracoli se prima non si procede alla sburocratizzazione, alla digitalizzazione del paese, all’alleggerimento della pressione fiscale e all’adeguamento del sistema anche guardando (e perché no? Prendendo a modello) ciò che fanno gli altri.
L’attuale governo dovrebbe seriamente prendere in considerazione una politica di concertazione della gestione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy. Ciò può avvenire attraverso la creazione di una vera e propria Authority che si occupi non solo di coordinare l’azione delle predette agenzie, ma di fare anche da tramite tra le imprese estere e tutti gli interlocutori italiani, pubblici o privati che siano, onde eliminare quell’impasse burocratico che schiaccia ogni entusiasmo ad investire in Italia.
Questo lavoro di coordinamento è fondamentale considerato che ogni impresa estera che vuole operare in Italia si imbatte in problematiche grottesche.
Un breve esempio. Una società estera (UE) che vuole operare in Italia come prima cosa costituisce una newco davanti al Notaio che provvede a registrarla presso la Camera di Commercio e segnalare l’inizio attività all’Agenzia delle Entrate. Da questo momento inizia il calvario. La società, desiderosa di cominciare a lavorare, a creare posti di lavoro, a produrre o fornire servizi, va ad aprire un conto corrente dove versare il capitale sociale. Però non si può. Se la neocostituita (di diritto italiano, regolarmente iscritta) ha più del 20% di capitale estero (ed è ovvio che sia così, si tratta di investitore estero) nessun istituto bancario italiano è disposto ad aprirle un conto. Senza spiegazioni, senza motivazioni, salvo evidenziare che trattasi della policy bancaria italiana. Nel frattempo arriva la burocrazia. La neocostituita società (il cui investitore estero ancora non ha ancora versato il capitale sociale visto che non gli aprono un conto) si scontra immediatamente con una serie di altre problematiche, tra cui l’obbligo del pagamento della bollatura dei libri sociali che nel 2022 si fa ancora per mezzo di bollettino postale cartaceo compilable a mano (Digitalizzazione? Manco a parlarne). Senza contare che i siti web istituzionali (Agenzie governative, P.A.) che contengono le linee guida, i regolamenti, le normative, elementi preziosissimi per il corretto operato amministrativo di una società, sono esclusivamente in italiano relegando le poche sezioni in inglese a informazioni parziali ed incomplete. A questo punto il malcapitato investitore estero alza comprensibilmente i tacchi e se ne va in Olanda. O a Dubai. Ovunque ma non qui.

Infine, si è sempre saputo che il grado di attrattività degli investimenti esteri si basa sulla stabilità politica di un paese. Quindi, è ovvio che fino ad oggi non abbiamo avuto molte chance. Basti come esempio ciò che è avvenuto anni fa con il Fondo del Qatar. All’invito dell’allora primo ministro italiano ad investire nel Belpaese, il Qatar ha declinato l’invito rispondendo che l’Italia non forniva garanzie di stabilità politica considerato il noto avvicendarsi di governi di breve durata. Neanche a farlo apposta dopo pochi mesi il noto epilogo del governo Letta e delle rassicurazioni di Renzi a stare sereno. L’attuale Esecutivo ha invece tutte le carte per portare a termine la legislatura e questo dovrebbe rassicurare gli investitori stranieri. Quindi è il momento di agire.  C’è un sistema paese da riformare, perché solo un paese moderno, digitalizzato, con un apparato burocratico snello e reattivo può creare le condizioni giuste per attrarre investimenti ed eccellenze verso l’Italia. Serve quindi un’Authority che coordini e affianchi tutte le agenzie attuali preposte a tale scopo, che vigili sull’operato di banche e P.A. riguardo le politiche adottate verso le società estere e crei delle regole snelle e chiare per accogliere le imprese straniere. Oltre all’esigenza di un portale unico dedicato, in inglese, con una forte connotazione anche pubblicitaria (utile anche per la promozione inversa del Made in Italy) che costituirebbe senz’altro uno strumento imprescindibile per l’attrazione degli investimenti e per la conseguente prosperità del paese.

*Kiril K. Maritchkov, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Come difendere la qualità italiana

Questo saggio di Luisa Todini presidente del Comitato Leonardo, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Il momento estremamente difficile che il nostro Paese, unitamente alla maggior parte delle altre nazioni industrializzate, sta affrontando è del tutto straordinario ed impone riflessioni che impattano pesantemente su tutte le politiche economiche ed industriali da adottare. Va innanzi tutto considerato che l’Italia è il settimo Paese manifatturiero mondiale, con un comparto export componente irrinunciabile del Pil nazionale, contribuendo per oltre il 35% alla sua formazione, ma anche un Paese di industrializzazione relativamente recente, che ha saputo raggiungere in pochi decenni una produzione estremamente differenziata unita ad un settore agroalimentare vitale, strategico e di altissima qualità. I suoi fattori valoriali sono cambiati negli anni, e la qualità oggi ha in larga misura sostituito il prezzo del prodotto per la competitività del «Made in Italy».

Il nostro sistema industriale, sviluppatosi a cavallo del primo conflitto mondiale, solo nei primi anni Trenta inizia ad essere parzialmente competitivo a livello internazionale. Il secondo conflitto mondiale interrompe tutto ciò, ed alla fine della guerra la situazione dell’Italia è drammatica, con la produzione industriale al 30% di quella prebellica, le aziende fortemente danneggiate o obsolete, le infrastrutture carenti. La ripresa è tuttavia impetuosa: nei 15 anni dal 1945 al 1960 si passa, con una velocità sorprendente, da «l’Italia della ricostruzione» a «l’Italia del miracolo economico», col sistema industriale che è il grande protagonista di questo periodo, e trova il suo sbocco naturale nella crescente domanda interna di nuovi e più moderni prodotti, assorbendone oltre il 75% della produzione. L’export negli anni ‘50 si indirizza fondamentalmente verso mercati tradizionali e contribuisce solo per il 15% alla formazione del Pil.

Negli anni Sessanta la produzione industriale continua a crescere ed inizia ad essere in esubero rispetto alla domanda interna. L’export diventa sempre più uno sbocco essenziale per l’economia delle imprese: i mercati di riferimento rimangono quelli europei e, parzialmente, il Nord America, i punti di forza sono saldamente ancorati alle produzioni tradizionali. Tra 1960 ed il 1970, l’Italia comincia ad essere considerata la migliore produttrice di prodotti di buon gusto e fattura, la cui competitività è fondata essenzialmente sulla varietà degli stessi ed il prezzo. All’inizio degli anni Ottanta si afferma anche la qualità tecnologica dei macchinari italiani, che conquistano importati quote di mercato; ma accade ciò che condizionerà in assoluto la percezione internazionale dei nostri prodotti: esplode il boom dell’alta moda italiana. Da sempre ancillare alla moda francese, e sulla spinta di alcuni grandi stilisti – Valentino, Armani, Versace in primis – la nostra moda diventa il vero sinonimo di eccellenza, innovazione, gusto e lusso. E si inizia a parlare di Qualità Globale come elemento portante del «Made in Italy».

Quasi negli stessi anni scoppia negli Usa uno scandalo destabilizzante per tutto l’export italiano, quello dell’etanolo nei vini italiani, cui segue un crollo verticale dell’export del settore sul mercato americano e non solo. Con una decisione assolutamente innovativa viene deciso di lanciare una grande campagna promozionale, che punti non più sulla convenienza del prodotto, ma sulla qualità. La campagna ha un grandissimo successo ed influenzerà tutte le iniziative promozionali degli anni a venire: è la qualità del prodotto che viene indicata come il vero fattore vincente, a prescindere dall’elemento prezzo. Tutti questi eventi contribuiscono, in modo decisivo, a cambiare il metro di valutazione del «Made in Italy» da parte del mondo intero.

Con gli anni Novanta e la fine del bipolarismo internazionale, inizia l’era della globalizzazione e della liberalizzazione dei mercati. Sorgono nuovi competitor, che attaccano l’export italiano su quei prodotti economici o di livello medio dove il fattore prezzo rimane elemento assolutamente determinante. Le imprese italiane si trovano da un lato spiazzate per l’enorme differenza dei costi di produzione, e dall’altro costrette a trovare un riposizionamento produttivo ed un nuovo approccio commerciale sui mercati avanzati. Non basta più essere, come negli anni Settanta e Ottanta, dei buoni produttori per vendere: bisogna consolidare l’impresa e radicarsi sui mercati esteri, e questo può essere fatto solo arricchendo l’offerta con quei valori aggiunti che possono qualificare un prodotto: aumento del livello qualitativo, diversificazione in base ai mercati di destinazione, accorte politiche di vendita, servizi post-vendita, difesa del marchio. Al «Made in Italy» viene soprattutto richiesta una garanzia: lo standard di qualità dei prodotti. È in questa ottica che nasce, nel 1993, il Comitato Leonardo: un’Associazione indipendente di imprese, fondata da Confindustria e Ice, che riunisca l’eccellenza del «Made in Italy» e ne porti avanti i suoi valori fondanti: capacità innovativa, eccellenza produttiva, qualità esclusiva. Viene superato il concetto del lusso – che, al contrario, continua ad essere considerato dirimente da altri Paesi concorrenti, quali la Francia – per includere anche prodotti teoricamente «poveri», o economici, ma di totale leadership mondiale nel loro settore. Nell’intuizione italiana, il concetto di Qualità si dilata, in quanto include tutti gli altri fattori che concorrono a distinguere un prodotto: l’origine, l’innovazione, la tecnologia, lo stile, la competitività. Ecco così che questo concetto di «qualità globale» diviene il vero elemento distintivo e parte imprescindibile del «Made in Italy».

Nel nuovo secolo la concorrenza mondiale diventa più pressante: la globalizzazione porta investimenti produttivi e tecnologici anche in paesi emergenti a basso costo, l’offerta globale diviene più ampia e riguarda anche produzioni sinora considerate esclusive dei paesi avanzati. Il mercato globale si presenta molto più incerto rispetto al passato, con grandi tensioni internazionali, nuove barriere politiche e normative al libero scambio, una Brexit dalle conseguenze ancora non prevedibili, crisi economiche latenti e nuovi competitor. Emerge anche un altro forte elemento distorcente, a lungo sottovalutato, che limita pesantemente l’espansione del nostro sistema, ma anche il mantenimento di quote di mercato ormai acquisite: quello del prodotto «simil-italiano», contraffatto o ingannevole, che è stimato valere, per i soli prodotti agroalimentari, circa una volta e mezzo in più dell’intero export nazionale del settore. È una realtà difficile da contrastare, che riguarda anche altri settori, quali la moda, l’arredo, il design ed anche una parte dei beni strumentali: una vera e propria concorrenza illegale.

Se il prodotto italiano riesce a mantenere il passo della concorrenza soprattutto grazie al fattore qualità, si cominciano tuttavia a notare le prime crepe del mondo idealmente liberalizzato che era il presupposto della globalizzazione: nascono pulsioni protezionistiche, cresce l’insofferenza dei paesi meno sviluppati, sorge il protagonismo di nuovi giganti economici. In questo quadro così mutevole e potenzialmente instabile, si inserisce improvvisamente e prepotentemente la pandemia del Covid-19, diffondendosi con una rapidità inaudita in tutto il mondo creando, immediatamente, una stasi in tutte le attività economiche, ponendo quesiti sul come e quando riprendere e sui possibili scenari futuri. Appare innanzi tutto chiaro che la prima emergenza (superata, almeno parzialmente, quella sanitaria) sarà assicurare la conservazione economica e produttiva delle aziende italiane. È un aspetto questo che coinvolgerà tutti gli strumenti economici e finanziari del governo, ma che non potrà prescindere da un poderoso intervento dell’Europa, a costo della sua stessa sopravvivenza come unione politica ed economica tra Stati. Il secondo aspetto, più strettamente legato alla tematica base di questo intervento, riguarda l’esigenza di rafforzare e proteggere l’export italiano, rilanciando il concetto che comprare «Made in Italy» non significa solo acquistare un prodotto, ma soprattutto un’idea: quella qualità globale che ne è alla base conferendo ad ogni prodotto italiano una sua precisa identità, fatta di tradizione e al tempo stesso di innovazione. Anche qui occorre intraprendere iniziative finanziarie a largo respiro, che intervengano sia esternamente (sui mercati, sui consumatori, sul trade) sia all’interno delle aziende, la loro formazione e riorganizzazione, nonché su nuove politiche commerciali e promozionali.

In grande sintesi, possono essere così elencate:

  1. il primo intervento, che deve vedere il Governo assolutamente protagonista affiancandosi e coordinando anche tutte le misure decise dalla Ue, riguarda il sostegno economico alle imprese, sia sotto forma di liquidità che di garanzie, con prestiti a lungo termine ed a fondo perduto. Cancellazione parziale dell’anno fiscale. Eliminazione di quella giungla burocratica per arrivare ad una «Italia facile» che consenta alle stesse di superare la straordinaria emergenza e riprendere più forti di prima;
  2. indispensabile, con riferimento all’export, che il Governo imposti una convinta politica di sostegno dei principali settori produttivi, attraverso iniziative globali con progetti pluriennali, a forte componente mediatica, articolati con strumenti che la moderna politica di promotion può offrire e che ribadiscano come la qualità sia «il» valore assoluto del «Made in Italy»;
  3. per bloccare i prodotti imitativi o falsificati deve essere perseguita una sempre più decisa e rigorosa politica di forte contrasto, attraverso tutti gli strumenti legali e giuridici disponibili ed un convinto supporto del nostro Governo. In particolare per la difesa dell’autentico italiano è fondamentale lanciare una forte campagna di informazione e formazione del consumatore estero, che possa metterlo in grado di riconoscere il vero dal falso, la qualità del prodotto italiano dalle sue imitazioni;
  4. investire su una continua opera di educazione aziendale tesa alla convinzione che la difesa del prodotto si attua innanzitutto in casa, tramite un attento controllo dei processi produttivi e qualitativi del prodotto, che conduca anche a quella sostenibilità sempre più dirimente per i consumatori;
  5. Rafforzare ed incentivare le iniziative volte ad accelerare investimenti tecnologici ed innovativi in tutti gli aspetti del processo produttivo, gestionale e commerciale soprattutto delle piccole e medie imprese che rischiano di essere tagliate fuori dai grandi cicli di rinnovamento. È ormai chiaro che la promozione si modificherà radicalmente, almeno a breve, rispetto agli schemi tradizionali, e sarà fondamentale raggiungere direttamente il consumatore.

Un programma vasto, come si vede. Ma una crisi straordinaria come l’attuale impone un progetto altrettanto straordinario che, nella sua complessità, può essere realizzato se tutte le controparti, Imprese, Associazioni, Governo, sapranno collaborare per quella che sarà la vera sfida del nostro tempo, quella del dopo-virus: rafforzare le imprese per superare la grande crisi mondiale, sostenere e consolidare il «Made in Italy» nella sua posizione di eccellenza pronte al nuovo grande mercato post-globale che verrà.

*Luisa Todini, presidente Comitato Leonardo

Identità e made in Italy. Un Paese come un brand

Nell’epoca della globalizzazione si parla sempre più di made in Italy. Tutto quello che viene prodotto in Italia rappresenta un brand riconosciuto a livello mondiale. Un marchio, quello del made in Italy, sinonimo di alta qualità, tradizione di famiglia, artigianalità, ma anche lusso ed esclusività. Parliamo di abbigliamento, scarpe, e più semplicemente di cibo e vino delle nostre bellissime regioni. Ma non solo. Il prodotto italiano fa riferimento anche ai servizi e riguarda l’industria turistica e il marketing territoriale. I nostri tour eno-gastronomici, il nostro patrimonio artistico-culturale e le tradizioni locali si vendono in tutto il mondo.

Un brand che rappresenta il suo modo di vivere, la sua storia, le sue radici culturali. La vocazione manifatturiera italiana è talmente apprezzata al mondo, da far considerare il Made in Italy uno dei brand più importanti a livello globale.

Ma c’è un modo per misurare la percezione del Made in Italy nel mondo?

Il Best Countries Report, redatto dallo US News & World Report, il BAV Group e la Wharton School of the University of Pennsylvania attraverso dei parametri quali quantitativi cerca di dare un valore a questo intangible asset.

Tale report misura il Made in Italy calcolando il valore di mercato dei 30 brand italiani più importanti, cercando di estrapolarne i punti di forza.

Nel Best Countries Report 2020, relativo all’anno 2019, l’Italia è considerata al 17° posto su una classifica di 80 Paesi. Rispetto al 2017, quando ricopriva il 15° posto, è stata superata da Singapore e Cina. Ciò che non avrebbe aiutato la posizione internazionale dell’Italia sarebbe stato, in primis, la forte instabilità politica. Quest’ultima caratteristica, strutturale nella nostra Repubblica, negli ultimi anni avrebbe determinato una crescita economica più lenta rispetto ad altri Paesi sviluppati. Tale fattore, insieme alla disoccupazione e al calo demografico, costituiscono gravi fonti di preoccupazione da un’ottica internazionale. A livello globale, i principali brand italiani vengono percepiti come garanzia di qualità, autenticità e stile. Questi brand fanno però riferimento ad un gruppo ristretto di imprese grandi, agili e interconnesse con una fitta rete di altre imprese di piccole/medie dimensioni. In particolare, si fa riferimento ad imprese guidate da un forte spirito imprenditoriale e caratterizzate da innovazione, internazionalizzazione e focus sulla costumer experience.

Nel 2020 il valore del brand Italia è stimato circa di 1.776 miliardi di dollari (-15,8% rispetto al 2019). Le prime 100 nazioni avrebbero perso 13.100 miliardi dollari di valore per via della pandemia.
Dall’analisi di Brand Finance traspare che vi sono alcune imprese italiane molto abili nello sfruttare la propria immagine. Ad eccezione di settori specifici come lusso, moda, design e food, il Made in Italy sembra avere un’immagine meno forte del Made in Germany, in Usa e in France.

La debolezza del brand Italia dipenderebbe per Brand Finance principalmente dalla difficoltà di fare business, dalla gestione della cosa pubblica e dalla qualità della comunicazione di privati e imprese.
A livello globale, USA, Cina, Giappone, Germania e Regno Unito risultano i brand nazionali a più alto valore aggiunto. La Cina continua a colmare il divario con gli USA; il marchio Cinese varrebbe 18.800 miliardi di dollari contro 23.700 miliardi di quello statunitense.

Ma nonostante ciò e le acquisizioni che hanno interessato il brand, il proliferare di nomi italiani nel mondo, il vero made in Italy resta ancora molto forte e riconosciuto a livello globale. La ragione è legata al concetto di rarità del brand. Le nostre materie prime sono spesso di rara qualità e si trovano solo in determinate aree geografiche (pensiamo ai nostri vini o al nostro olio). Lo stesso concetto di rarità lo ritroviamo nelle skills delle risorse umane: i lavoratori delle nostre aziende sono tecnicamente preparati, con competenze uniche e difficilmente imitabili. Sarà anche per questo che molti marchi di moda italiana hanno la loro scuola dove formano sarti e modellisti.

La strategia per mantenere positiva la percezione del Paese diventa ancora più cruciale durante la pandemia da Covid-19. Alcuni esperti suggeriscono l’istituzione di un team specifico che dovrà gestire l’immagine dell’Italia nel periodo post-crisi. Quest’ultimo non dovrà limitarsi ad un’ottima comunicazione, ma dovrebbe condurre analisi di marketing e finanziarie per stabilire lo stato attuale del marchio Italia. Attraverso tali dati, occorrerà difatti identificare i fattori su cui focalizzare la strategia con relativo impatto economico, tenendo conto dei costi e dei ritorni sugli investimenti.

Noi abbiamo tradizionalmente avuto difficoltà a fare sistema, cioè mettere a disposizione delle imprese strumenti di formazione per stare sul mercato; sistema significa mettere a disposizione delle imprese risorse e strumenti per l’innovazione e la ricerca, perché nella competizione globale un paese a costo del lavoro mediamente alto come l’Italia vince soltanto se punta sulla qualità dei prodotti e sull’innovazione.

Il “Made in Italy” è un elemento centrale dell’identità culturale di questo paese.  C’è uno spessore di professionalità, di know-how, di sapere, di lavoro, di innovazione, di ricerca, di qualità, di straordinario valore. L’Italia deve essere molto più consapevole della forza economica, sociale e culturale che esprime come paese dell’estetica, del gusto, del design, dell’immagine, della identità e della storia che l’hanno da sempre accompagnata.

*Giuseppe Della Gatta, analista finanziario

Siderurgia, la politica abbia visione!

La politica abbia visione!

La sentiamo pronunciare da tempo e da più parti ma cosa significa e come la si declina questa miracolosa parola che non è più un obiettivo ma è diventata una necessità? È giunto il momento di traslare il significato che da adito a molteplici interpretazioni su un piano operativo e concreto di idee e progetti atti a creare condizioni favorevoli per un nuovo e solido sistema Paese.La visione per essere realizzata ha bisogno di modelli e, più precisamente nel contesto sociale ed economico in cui viviamo, di Modelli Strategici Integrati. Applicare una visione al settore siderurgico, nello specifico ad un esempio dei nostri giorni come la crisi ILVA, significa cercare di dare un contributo di idee concrete alla soluzione di un problema che impatta su più piani e più livelli.

L’Italia ha bisogno del settore siderurgico ed ha bisogno di ILVA, l’industria da troppi anni per motivi ideologici ancora oggi radicati paga un ostracismo che ci ha reso deboli sui mercati globali. La responsabilità di questo retaggio culturale è anche della stessa industria che non ha voluto e saputo comunicare nel modo giusto, non ha fatto innovazione e ristrutturazioni volontarie se non quando il mercato le ha imposte. ILVA ha un impatto nazionale ed europeo sul comparto dell’acciaio ma anche sul tessuto economico e sociale della Puglia e dell’intero Sud. Voler dare soluzione al problema guardando solo all’azienda e alla riqualificazione green delle linee produttive è illusorio e riduttivo, dieci anni di tentativi su questa linea di pensiero dovrebbero essere sufficienti per capire che è necessario cambiare strategia.

Un Modello Strategico Integrato è quella cornice operativa che vede attuare strumenti e strategie dove l’azienda è un attore e non l’attore, dove il regista è lo Stato che guida e coinvolge con le opportune politiche le forze economiche, sociali, culturali del territorio per un grande progetto di interesse comune. L’Italia ha bisogno di acciaio, di innovazione, di eccellenze che esprimano le capacità, le conoscenze e competenze delle esperienze tra settori differenti per sviluppare nuovi business, nuove aziende, nuovi posti di lavoro, nuove opportunità di crescita del Paese per affermarsi nei mercati globali.

Nell’immediato futuro, solo per citare alcuni focus d’interesse:

– l’Italia e le aziende italiane avranno bisogno di acciaio e soprattutto di acciaio di qualità.

– l’acciaio sarà il materiale da costruzione del futuro soprattutto in Italia perché più Eco e Riciclabile.

– nei prossimi 20/30 anni il patrimonio immobiliare e infrastrutturale del Paese sarà giunto a fine vita, Acciaio, legno e plastica, prenderanno sempre più campo sul cemento.

– il know-how italiano sulla produzione di acciaio che sull’impiantistica innovativa e green   è da leader mondiali.

– in Italia la capacità di studiare, realizzare e produrre acciai di alta qualità, tipologie e composizioni innovative per utilizzi tradizionali e in applicazioni speciali è straordinaria. Dal mondo delle costruzioni e ricostruzioni (in ambito sismico sarà strategico) alla meccanica e robotica avremo sempre maggior bisogno di studiare e realizzare nuovi prodotti.

In questo contesto, applicare un Modello Strategico Integrato ad ILVA significa:

– riconversione della città di Taranto (salute, lavoro, economia, cultura, turismo).

– delocalizzazione della struttura produttiva ILVA in altra area fuori Taranto con polo integrato di produzione di acciaio e semilavorati speciali (meno quantità più qualità)

– bonifica ex area ILVA.

– realizzazione di un Campus Universitario dell’Acciaio (tecniche, tecnologie, studio, ricerca e sviluppo, architettura, ingegneria sismica, costruzioni, meccanica, robotica,, ecc..), giovani e studiosi da attrarre da tutto il mondo, una eccellenza per il mondo dell’acciaio. Le università del futuro oltre alla formazione iniziale dovranno ri-qualificare, ri-formare, ri-convertire le 3C (competenza, conoscenza, capacità) di ogni profilo professionale. La formazione continua sarà una necessità per tutta la vita lavorativa, dall’operaio al manager e la sinergia tra università e imprese sarà decisiva.

– realizzazione di un’area di eccellenza industriale con attività connesse e complementari alla Nuova ILVA (sismica, meccanica, robotica, aerospaziale, impiantistica, ecc..)

– realizzazione di un museo dell’acciaio e dell’industria.

– ri-qualificazione e ri-valorizzazione del quartiere Tamburi e dei quartieri limitrofi, costruzione di un quartiere attrattivo con grattacieli in acciaio simbolo di sviluppo della Nuova Taranto.

– realizzazione dell’aeroporto internazionale di Taranto a servizio di tutta la Puglia ed il Sud in genere con sistema integrato su rotaia per un forte Progetto Turismo con attrazione delle primarie catene alberghiere e strutture di servizio in ambito turistico.

Il perché lo abbiamo detto, il cosa pure, manca il come! Come finanziare tutto questo? La risposta più semplice sarebbe, abbiamo il Recovery! Sbagliato! Dobbiamo dimostrare che siamo in grado di farcela con la forza delle nostre idee e quindi saper coinvolgere ed attrarre finanziatori ed investitori con risorse superiori a quelli che saranno i fondi UE. Attrarre aziende e filiere italiane ma anche fondi e partners esteri per un progetto di grande risonanza a livello globale per dimostrare che il sistema Italia sa trasformare una crisi cronica in opportunità di sviluppo e innovazione. Facciamo di Taranto un esempio nel mondo di “buona industria” integrata nel territorio ad un benessere più ampio che è quello della comunità. L’obiettivo di questo progetto è attivare tutte le risorse economiche e sociali per dare una prospettiva di crescita non solo sostenibile ma lavorativa, demografica e di opportunità.

Le dinamiche della globalizzazione combinate con l’innovazione, la tecnologia, l’intelligenza artificiale, inevitabilmente porteranno nelle aziende di qualsiasi settore ma soprattutto nell’industria grandi riduzioni di personale operativo non qualificato. Inutile ed illusorio pensare di mantenere i livelli occupazionali, vale per ILVA come per Alitalia e tante altre aziende che nel post-covid si aggiungeranno. Da queste situazioni se ne esce solo con la convinzione che una crisi può e deve essere opportunità di aprire la strada a nuovi e innovativi business che creino da due a tre volte la necessità di nuove risorse umane, questo è il Modello Strategico Integrato, questa è la visione.

ILVA sia un Modello, sia un esempio replicabile nelle tante aree di crisi italiane che sono ormai croniche e strutturali a causa anche di un Modello di Impresa tutto italiano che ha difficoltà ad evolversi e rinnovarsi. La riflessione si allarga ovviamente a quello che è il tessuto economico imprenditoriale dove “nanismo” e “ricambio generazionale” sono due dei principali limiti e in prospettiva vitali problemi . Lo sentiamo dire spesso: le aziende italiane soffrono di “nanismo”. Nonostante sia una giusta affermazione, si devono considerare i vantaggi di tale frammentarietà. L’altissimo livello di specializzazione dovuto alle peculiarità locali che rendono ogni prodotto e servizio un’eccellenza agli occhi del mondo, l’espressione di una brand equity positiva sul piano internazionale, in quanto immagine di eleganza, creatività, ingegno e soprattutto di stile di vita, tutto questo è racchiuso nel marchio Made in Italy.

È necessario applicare anche in questo contesto un MSI mantenendo la nostra identità ma attuando strumenti di sistema e sinergia che ci permettono di creare condizioni di crescita e consolidamento nei mercati globali anche per le nostre piccole aziende. Parafrasando una nota pubblicità non abbiamo bisogno di “aziende grandi” ma di “grandi aziende”!  Agevolare, supportare, guidare il ricambio generazionale, che è il vero problema delle piccole aziende, nel contesto di uno strumento e forme di aggregazione che lascia piena autonomia all’azienda ma integrata ed inserita in filiere del valore con alta visibilità nei mercati internazionali, questo è il futuro, questo è il Modello Strategico Integrato per rendere forte e solido il mondo delle PMI.  Abbandonare le piccole aziende industriali al loro destino porterebbe a tante piccole ILVA, vorrebbe dire rischiare di far morire le imprese con il proprio fondatore, con conseguente impatto economico, sociale e ambientale su tutta la comunità, nelle generazioni a seguire.  Tali riflessioni sono da tenere in considerazione nel momento presente, con progetto di lungimiranza, per evitare l’inevitabile in futuro.

La pandemia anche quando sarà finita o tenuta sotto controllo avrà un impatto che noi oggi ancora non immaginiamo sia nelle persone che nelle attività economiche. I Modelli di Business cambieranno per piccole e grandi aziende, non tutti potranno o sapranno adeguarsi. Pertanto, al fine di evitare un darwinian shakeout tra le imprese, spetta allo Stato mettere in campo politiche, strumenti e strategie per gestire una fase dove tutti, in special modo coloro che saranno caduti, potranno rialzarsi per essere parte integrante di una nuova era. Un’era dove l’assistenzialismo sia l’ultima ratio, mentre il profluvio ordinato e organizzato di idee e progetti possano divenire un processo fondamentale di un nuovo tessuto economico, in modo da ristabilire un equilibrio nell’interesse della comunità!

In sintesi un Modello Strategico Integrato!
La politica abbia visione!

*Alessandro Maglioni, manager industriale

La riflessione di un Italiano all’estero

Da oltre un decennio si parla sempre di più e in toni sempre più foschi del flusso costante di italiani che lasciano il Paese per trasferirsi all’estero. Le motivazioni sono le più disparate, si passa da studenti che vogliono proseguire i propri studi in contesti più internazionali, a giovani professionisti alla ricerca di opportunità di affermazione, a persone in difficoltà che portano sulle spalle i segni delle due crisi e di un decennio di politiche economiche restrittive.

Nel mio caso, lo spirito di avventura e l’interesse professionale per lo sviluppo di mercati esteri, mi hanno portato a trascorrere quasi interamente gli ultimi 10 anni in vari paesi europei e non solo.

L’interessante lezione che il Senatore Urso ha tenuto in apertura del nostro corso FormarsiNazione, sull’interesse nazionale e su come altri paesi si stiano muovendo sul tema, mi ha spinto a fare alcune riflessioni che vorrei condividere.

Nella definizione di una strategia per tutela e la promozione dell’interesse nazionale, bisogna tenere conto infatti tra i vari aspetti, anche delle leve su cui si può giocare per la sua implementazione. Tra queste è oggi di particolare rilevanza a mio parere quella costituita dagli italiani che vivono all’estero.

Sulla scorta della mia esperienza diretta ho pensato di poter suddividere i nostri connazionali espatriati in tre macro-categorie: la prima che chiamo quella degli esterofili tout court, la seconda quella degli emigranti, la terza quella delle persone di buona volontà.

Alla prima appartengono in media individui in età universitaria o post-universitaria, generalmente dotati di un elevato livello di formazione. Rientrano in questo gruppo alternativamente giovani che desiderano raggiungere velocemente posizioni di rilievo e ben remunerate, come ad esempio quelle negli organismi comunitari o internazionali oppure individui che, nonostante l’alto livello di preparazione, in Italia riuscirebbero a stento a sottrarsi al precariato e remunerazioni non consoni al loro profilo, un caso su tutti, quello dei ricercatori. Quello che ho osservato dialogando con alcuni di essi è un rapporto spesso quasi controverso con il proprio Paese, che viene vissuto in maniera conflittuale. L’idea stessa di interesse nazionale è sentita come un retaggio novecentesco da superare alla luce di un ben più nobile interesse europeo o di una vaga apolidia propugnata dal main stream del pensiero contemporaneo.

Il secondo gruppo è quello che chiamo degli emigranti. Vi appartengono molto spesso persone che sono state costrette a lasciare il Paese da situazioni di precarietà o di difficoltà economica. I profili professionali sono molteplici si va da operatori della ristorazione, a operai, a liberi professionisti. In questo caso la scelta di emigrare è fortemente subita e giustificata dalla ricerca di una stabilità economica che il nostro mercato interno ormai non è più in grado di assicurare oltre che dalla volontà di offrire maggiori opportunità per il futuro dei propri figli.  Essi tendono ad aggregarsi in piccole comunità dove concentrano la maggior parte dei propri rapporti sociali, riproponendo dinamiche che ormai pensavamo di vedere solo in qualche vecchio film di Alberto Sordi. Sono in generale caratterizzati da un forte desiderio di rientrare a casa qualora le condizioni lo permettano e, in alcuni casi, presentano un certo risentimento sia verso l’Italia matrigna che verso il paese ospitante, in cui molto spesso sono tollerati con malcelata sufficienza.

Tra questi due estremi vi è poi il gruppo che ritengo il più numeroso e che mi piace definire delle persone di buona volontà.

Al suo interno vi si possono trovare individui dai profili molto variegati, uomini di impresa, ricercatori, liberi professionisti, operai, manovali, ristoratori. Sono in larga parte persone espatriate alla ricerca di migliori occasioni di realizzazione personale e di accesso a buoni standard di vita. In generale, possiamo affermare che sono lontani da un qualsiasi approccio ideologico al loro stato di espatriati, vivendo molto spesso la propria italianità in maniera positiva se non come un vero e proprio valore aggiunto da sfruttare nel contesto in cui operano. Presentano mediamente un buon livello di integrazione con le comunità locali e valutano positivamente l’opzione di rientrare stabilmente in Italia qualora si presentassero buone opportunità lavorative.

I dati ISTAT per il 2019 certificano la partenza di circa 800.000 italiani nell’ultimo decennio, il 53% del quale con un titolo di studio medio alto e un’età media inferiore ai 35 anni. Di fronte a questi numeri e alle pesanti conseguenze, è inevitabile domandarsi come si possa declinare l’interesse nazionale in riferimento agli italiani trasferitisi all’estero.

A mio giudizio due sono le sfide su cui iniziare a lavorare. La prima e forse la più difficile, è quella di rendere il sistema Italia appetibile e più concorrenziale per i nostri connazionali e per gli stranieri con profili professionali di alto livello. Senza voler entrare qui nel merito di una discussione particolarmente affascinante ma allo stesso tempo molto complessa, sulla base della mia attività lavorativa penso che gli aspetti su cui intervenire in questo senso siano la valorizzazione del mercato interno (in termini salariali e fiscali), la promozione della crescita dimensionale del nostro tessuto produttivo (con aziende troppo piccole per garantire una remunerazione adeguata e sfide professionali reputate interessanti da professionisti e giovani altamente qualificati) e l’incremento del livello di servizio alle imprese da parte della pubblica amministrazione. Agendo decisamente su queste leve si potrebbe pensare di agevolare il mondo imprenditoriale garantendo buone opportunità di crescita e un positivo flusso nei rimpatri.

La seconda sfida consiste invece nel rendere i nostri connazionali che vogliano continuare a vivere all’estero soggetti attivi nella difesa dell’interesse nazionale. A vario livello e in funzione dei singoli profili potrebbero divenire veri e propri ambasciatori del made in Italy e del Paese, attraverso la loro attività professionale, i loro consumi e i loro interessi culturali. Penso in particolar modo a quella categoria che ho chiamato degli uomini di buona volontà, che particolarmente integrata nelle comunità ospitanti e generalmente priva di posizioni ideologiche predefinite, può effettivamente diventare un vero e proprio volano per il miglioramento della percezione dell’Italia nei paesi ospitanti, con rilevanti ricadute in termini economici e di flussi informativi.

La grande priorità che abbiamo tutti di fronte è quella di convincere in primis noi stessi, che l’Italia non è inesorabilmente destinata a diventare solo un paese vacanze. Fare industria, fare commercio, fare agricoltura con successo è possibile anche in questo mondo globale. Non solo ne abbiamo le risorse, le competenze e le capacità. Abbiamo soprattutto la bellezza del nostro Paese e il nostro stile di vita, che, rimossi i freni che stanno bloccando da oltre un ventennio lo sviluppo industriale, possono farci tornare a considerarlo come diceva Dante, il vero e unico “giardino dell’impero”.

*Federico Laudazi, collaboratore di Charta minuta

QUANTO VALE IL BRAND ITALIA? DIPENDE…

Quante volte si sente parlare dell’importanza del marchio Italia, ma quanto esattamente sia il suo valore ce lo dice uno studio condotto da Brand Finance, che ogni anno conduce un’accurata rilevazione sui brand delle 100 nazioni top a livello mondiale.

Tenuto conto che il Covid ha falcidiato anche il valore dei marchi nazionali, dal -29% della Germania al -22% degli USA, l’Italia con il suo -24% riesce comunque a scalare di una posizione la graduatoria, posizionandosi al nono posto nella classifica dei marchi commerciali ma solo perché la Corea ha perso di più e ha chiuso in decima posizione.

Il valore del brand commerciale italiano è stato quantificato in 1.604 miliardi (ne valeva oltre 2.100 nel 2019), contro i 3.400 miliardi della Germania e i 2.437 della Francia, solo per restare in Europa. Comunque un buon piazzamento, che rispetta gli equilibri economici in campo.

Dove però andiamo decisamente peggio è nella percezione del mondo business, dove il nostro Paese, sempre tra le 100 economie prese in considerazione, si posiziona solo al 28° posto. Cosa significa è presto detto: mentre sul piano commerciale i nostri prodotti reggono, sul piano complessivo dell’immagine Paese arretriamo. Quel complesso di indicatori che comprendono, oltre all’economia reale, anche il sistema burocratico e in generale il “soft power”, penalizzano l’immagine complessiva dell’Italia.

Un costo in più per le imprese tricolore, perché devono investire singolarmente di più in comunicazione per affermare i propri prodotti sui mercati internazionali e una perdita complessiva per il Sistema Paese, che non risulta così attrattivo come potrebbe e dovrebbe.

Lo stile di vita italiano è apprezzato da tutti a livello planetario ma non tutti voglio fare business in Italia e quindi investire sullo Stivale. Ecco la necessità di migliorare questa percezione, con attente iniziative di sistema, così come si fa in Germania che certo non ha lo stesso appeal dell’Italia. Eppure con impegno e capacità, il Sistema tedesco è riuscito a far breccia nel mondo, pur non scaldando i cuori.

Oggi più che mai, con gli investimenti esteri che arretrano e con il mercato internazionale in contrazione, è necessario che le istituzioni si impegnino in modo coordinato e in stretta sinergia con i privati per rilanciare una narrazione del Paese diversa e più incisiva, con l’obiettivo di portare l’Italia ai primi posti, dove merita di stare per la qualità complessiva e reale che è in grado di offrire. Verrebbe da dire meno monopattini e più investimenti strutturali di qualità, per garantire un futuro migliore alle generazioni che verranno.

*Enrico Argentiero, esperto mercati internazionali

Con il Sole sul viso: un progetto etico per l’industria culturale

La Sala Caduti di Nassirya ha ospitato la conferenza stampa istituzionale del progetto etico “Con il sole sul viso”, attivo dal 2016 e da me ideato. Sono soddisfatta della numerosa partecipazione di tante realtà positive del terzo settore, del mondo della cultura e dello spettacolo che hanno riempito ben oltre la capienza massima la sala. Amici i quali, oltre il mio percorso artistico, condividono con me il valore della solidarietà e dell’attivismo sociale.
Nei giorni d’incertezza sui risvolti della “manovra” è stato importante arrivare in Senato e dare un po’ di coraggio spostando l’asse su una visione nuova, proiettata verso il futuro, e ricordando che certi temi non dovrebbero avere un sguardo unidirezionale ma universale. Il senatore Maurizio Gasparri, che ha sposato l’iniziativa, ha dimostrato grande sensibilità sul tema sostenendo la proposta di legge per “L’Istituzione del Fondo Nazionale per il Sussidio Temporaneo” a chi lavora nel settore artistico-culturale e della comunicazione.
Dal momento che mi piace dare seguito con i fatti a ciò che sostengo, è mia intenzione con questo progetto porre l’attenzione sulle realtà meritevoli. Ho trascorso gli ultimi tre anni ad osservare il nostro sistema lavorativo, anche come testimone diretta, principalmente per quanto concerne il mondo delle arti, della cultura e della comunicazione. Ho potuto riscontrare che persiste uno stato di necessità autentica per la sopravvivenza di coloro che vivono solo della propria “arte”: siamo portatori di sogni di emozioni, sentimenti e produciamo economia. Il disegno di legge, dunque, nasce da un’attenta valutazione dello stato di bisogno in cui versano molti lavoratori di questi settori strategici del “modello Italia” nel mondo.
La proposta legislativa prevede l’istituzione di un fondo permanente, con una dotazione di cento milioni annui, presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, da destinare come sussidio temporaneo a tutti i lavoratori dei settori artistico-culturali e della comunicazione, in particolare autonomi e con partita IVA, che non possono accedere ad alcuna forma di assicurazione sociale in caso di disoccupazione temporanea. Il testo prevede che, contestualmente, venga istituita presso il Ministero una Commisione chiamata a verificare dall’apposito elenco dei richiedenti tenuto dal dicastero della Cultura le domande, così da agevolare il reinserimento nell’ambito lavorativo di competenza indicato dal richiedente.
Il senatore Maurizio Gasparri nel corso della conferenza ha sottolineato così il valore dell’incontro: «Complimenti per questa iniziativa promossa da Alma Manera, artista di elevate e riconosciute qualità, sempre impegnata nelle giuste cause insieme a Federica De Pasquale che rappresenta in modo attivo il mondo dell’associazionismo e ha illustrato questa proposta di legge che da subito ho ritenuto necessario portare avanti». Per l’esponente di palazzo Madama il fondo da cento milioni di euro da istituire presso il Ministero della Cultura e dei Beni Culturali «rappresenta un passo significativo per andare realmente incontro a delle importanti realtà professionali del nostro Paese oggi prive di tutele concrete in caso di temporaneo bisogno».
Il disegno di legge – che vede come cofirmatari i senatori Adolfo Urso, Francesco Maria Giro, Antonio Saccone e le senatrici Isabella Rauti, Sandra Lonardo e Maria Rizzotti – ha riscosso interesse tra gli esponenti di quasi tutti gli schieramenti politici. La senatrice Rizzotti, ad esempio, commentando il progetto ha parlato di «un doveroso riconoscimento al mondo artistico culturale che rappresenta un comparto importantissimo della nostra società e che dobbiamo ringraziare: basti pensare a quanti sono gli artisti che sostengono tante iniziative di solidarietà anche negli ospedali vicino ai bambini ed alle persone sofferenti».
Importante contributo, poi, è stato quello del senatore Adolfo Urso, sempre disponibile a dare consigli “profetici” anche grazie alla sua esperienza internazionale e la conoscenza dei modelli esteri. «L’industria della cultura è di fatto il cuore del “made in Italy”, anche quando si tratta di prodotti manifatturieri – ha spiegato – . È stile, creatività, ingegno, qualità, eccellenza. Per questo va preservata: perché ne beneficia l’intera nazione e ne configura la propria identità». Ed ancora è stato Pasquale Cicciarelli, presidente commissione Cultura della Regione Lazio, a rinnovare il suo apprezzamento per le iniziative future: «Per me motivo di profondo orgoglio aver ricevuto il vostro graditissimo invito per questa importante iniziativa che persegue l’obiettivo di valorizzare il merito e le competenze, l’impegno e la tenacia a far esprimere le energie migliori e ad aiutare la capacità di comunicazione ed espressione di tutte le forme di differente abilità. Un progetto come questo merita la massima attenzione delle istituzioni e la vasta rappresentanza delle stesse per questa conferenza è un autentico segnale di condivisione».
Nel suo intervento il Vice Presidente A.F.I. Gianni di Sario ha affermato la validità delle proposte del progetto “Con il sole sul viso” e l’importanza del messaggio che la musica esprime, ricordando che fu proprio l’A.F.I. nel 1973 a chiedere con forza l’equiparazione del disco ai prodotti culturali di pari valenza. Molto appassionato l’intervento di Antonello Crucitti – responsabile dell’Associazione Famiglie Numerose e fondatore dell’omonima squadra nazionale di calcio -, papà, grazie ad Angela, sua moglie, di 11 figli. Crucitti è stato ringraziato per il supporto concreto dimostrato negli anni e per aver voluto promuovere il ruolo della famiglia come nucleo fondante della società all’interno del progetto.
Incisive le parole del maestro Franco Miseria: «L’arte e la cultura sono motori indispensabili in uno Stato che vuole essere civile. Il lavoro d’impresa va incentivato così come l’occupazione. Vivo ogni giorno la realtà della Danza, del Teatro e cerco di dare speranza ai giovani talenti che incontro e che mi interrogano e si interrogano sul futuro. Gli artisti, i comunicatori hanno necessità di esprimersi, vanno garantiti».
La Comunità Incontro con rappresentante il dott. Nannini ha raccontato il grande lavoro di terapia di recupero per i giovani vittime della droga, ma che oggi ritrovano il valore della vita attraverso un nuovo inizio e quanto il suo fondatore Don Pierino Gelmini tenesse alla musica e alle arti come veicolo di messaggi positivi e strumento di riabilitazione per ritrovare la gioia dell’incontro con la vita.
Questo, dunque, è l’incipit di un nuovo percorso. Ora insieme agli attori coinvolti e alla responsabile istituzionale del progetto, Federica De Pasquale, il nostro compito è sviluppare i prossimi obiettivi. Tra questi il consenso unanime sul testo normativo da noi proposto che auspichiamo abbia il giusto riconoscimento del governo, così come meritano le categorie speciali che garantisce.
Perché? Chi vive la propria professione con una fortissima vocazione deve essere tutelato. Deve poter rivendicare il diritto occupazionale e la libertà di profondere l’energia espressiva che per ogni Nazione equivale anche ad affermarne il corpo e l’anima tradotti come sentimento e nel nostro caso del “sentimento italiano”. W l’Italia!

*Alma Manera, artista