Il futuro delle Regioni? Pensare "macro", oltre il limes

L’amministrazione di una espressione geografica, come una regione, risulta sempre inutile quando, come spesso accade, è vittima della casualità di chi la interpreta senza accorgersi della condizione statuale, vera e propria, in possesso. Mentre ha la capacità di essere un’importante impalcatura di sviluppo laddove al posto della casualità trova spazio la progettualità, il protagonismo delle iniziative, lo scavalcamento del confine, la velocità nel cogliere le aspettative da una parte e le opportunità dall’altra. E le regioni hanno a disposizione le premesse ed i poteri per l’assunzione di qualsivoglia iniziativa nello spazio nazionale ed europeo, a patto che vi sia un programma che si nutra di una visione particolareggiata, fatto non soltanto di toner; e che vi sia soprattutto la voglia di responsabilità, che non può avere nulla a che fare con la frase «questo non mi compete».
Vi sono esperienze regionali che, partendo dalla consapevolezza delle risorse normative in possesso, hanno saputo essere strumento realizzativo, che ponendosi domande su quali bisogni riuscire a soddisfare hanno proiettato il raggio d’azione anche oltre i propri confini. Pensiamo alla Lombardia che ha scavalcato addirittura il confine nazionale, ponendo la propria offerta territoriale in competizione con la Baviera, ad esempio, ma anche con istituzioni extra europee… una regione che nell’Europa non ha visto semplicemente un luogo da cui attingere finanziamenti comunitari, ma un luogo in cui contaminarsi. E i Quattro motori dell’Europa ne sono l’esempio: Rodano-Alpi, Catalogna, Baden Württenberg e Lombardia appunto, siglando un vero e proprio memorandum hanno dato vita ad una partnership di lungo termine per sviluppare insieme tematiche che vanno dalla ricerca all’economia, dall’istruzione all’ambiente, dalla cultura ad altri settori, per la crescita delle rispettive qualità territoriali. E il Veneto degli ultimi anni lascia trasparire la stessa ambizione.
Ovviamente non tutte le regioni italiane hanno le caratteristiche per esercitare un ruolo come quello lombardo o veneto, ma non possono essere ammessi gli atteggiamenti di arrendevolezza che abbandonano i territori centro-meridionali nella pigrizia. La domanda che le regioni “minori” devono porsi sono sostanzialmente due: quali esperienze dimostrano che si possono raggiungere comunque dei validi risultati? Quale spazio può consentire protagonismo istituzionale? Senza ombra di dubbio un’esperienza degna di nota è il Quadrilatero, Marche ed Umbria, che hanno saputo attuare quello scavalcamento necessario a raggiungere una dimensione di estensione territoriale e soprattutto di bisogno da soddisfare, ben più ampio di quello di una regione “minore”. Il progetto infrastrutturale che queste due regioni hanno sapientemente messo in piedi e stanno portando avanti respira in una dimensione di collegamento tra il Tirreno e l’Adriatico in uno spazio interregionale verso l’esterno, verso i Balcani, in quell’emergente Europa di prossimità dove le Marche hanno già saputo declinarsi per garantirsi uno sviluppo di scala.
Degna di menzione è la regione Friuli Venezia-Giulia che, nonostante le piccole dimensioni geografiche e di popolazione, è stata promotrice di una vera e propria politica finanziaria, svolta per il tessuto territoriale delle PMI, attraverso la costituzione di una società di gestione di risparmio funzionale al punto da scavalcare il raggio di azione anche nei confinanti di Austria e  Slovenia… ma soprattutto nel più “grande” Veneto con cui infine ha dato vita ad una comune ed efficiente agenzia di sviluppo che è un unicum per la qualità dei servizi finanziari a vantaggio dell’economia territoriale. La prossimità a ciò che è in corso e in corsa è il nodo focale da sciogliere per la crescita delle regioni “minori”. E come si raggiunge la prossimità se non con un’ampiezza di dimensione geografica e di bisogno?… La realtà ha già superato il limes: l’ha superato l’economia, la società, il livello della sfida.
Le regioni possono trovare le proprie ragioni solo mediante una visione macroregionalistica, che è una scelta per le regioni “maggiori” ed è l’unica chance di sviluppo per le regioni “minori” che arrancano, che restano indietro, che vengono percepite come inutili perché incapaci di rispondere ai progetti di vita individuali e collettivi sia pubblici che privati. Per essere utili ai propri territori storici, all’Italia, all’oltre l’Italia, le Regioni non devono più vivere al passato e devono pensare al futuro che è fatto di sfide di ampia scala contendibili soltanto abbandonando la logica campanilistica e pensando alle macroregioni perché si può essere utili soltanto nella misura del bisogno che si riesce a soddisfare.
Lo Stato centrale deve avere ovviamente una funzione pienamente organica nella vivacità regionale e sicuramente la forma di una Repubblica presidenziale gli consentirebbe di farlo meglio. La dinamicità regionale come spinta proattiva di sviluppo ha bisogno di uno Stato centrale più forte, al passo con i tempi decisionali moderni; uno Stato compatto nei poteri propri e dunque più fluido nel rapporto con i poteri delegati ai territori regionali che per sprigionare le proprie qualità hanno bisogno di più facilità e velocità che purtroppo una Repubblica parlamentare può tenere ingessate.
*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta