La Francia e il deficit di classe dirigente

Le elezioni presidenziali in Francia chiudono una contesa che non ha mai visto mettere in discussione la rielezione di Emmanuel Macron. Un fatto questo di per sé inusuale negli ultimi anni, che hanno visto una sostanziale alternanza all’Eliseo al secondo turno favorita dalla progressiva frammentazione del quadro politico francese. Bisogna tornare al 2002, con la vittoria di Jaques Chirac su Jean Marie Le Pen per ritrovare un quadro simile ma non del tutto sovrapponibile a quello attuale.

Al di là delle lotte dinastiche che hanno interessato il Front National, in vent’anni è letteralmente cambiato il mondo, non abbastanza per propiziare una vittoria della destra, che attende con pazienza biblica il passaggio del cadavere nel fiume da ormai due decenni senza reali possibilità di successo. Forse il corpo esanime del nemico non arriverà mai e c’è pure il rischio concreto che a passare sia quello della Le Pen, a dispetto delle continue profezie a tinte fosche pronte a predire il crollo oggi della globalizzazione, domani dell’Unione Europea e chissà magari anche della società Francese.

Questa attesa spasmodica degli errori dell’establishment, ha portato a tralasciare contro ogni buonsenso la creazione di una vera classe dirigente, realisticamente in grado di affrontare i problemi che hanno fiaccato la popolarità di Macron in questi cinque anni e capace di proporsi agli elettori come una concreta scelta alternativa. È bene ricordare che il sistema istituzionale francese, oltre ad attribuire al Presidente della Repubblica un potere quasi “Jupiteriano”, plasmato ad immagine e somiglianza di De Gaulle, è permeato da una declinazione unica dell’elitismo che tutta la cittadinanza ha interiorizzato in modo più o meno consapevole e sicuramente sufficiente a scoraggiare avventure alla Masaniello a cui l’Italia è abituata da orami quasi un decennio.

Il Repubblicanesimo elitario si sostanzia nella sinergia tra alte sfere dell’amministrazione pubblica e vertici politici, da Pompidou a Macron, con l’eccezione di Sarkozy, spesso si ricorda come i Presidenti francesi abbiano in comune un percorso accademico scandito da tappe pressoché identiche, culminate con il diploma da enarca. Si potrebbe obiettare che ormai le pulsioni egalitarie hanno investito anche la Francia in quest’ambito e che l’ENA ha cambiato nome, una linea di pensiero a cui  Marine Le Pen non può mostrarsi estranea nella sua crociata contro i “privilegiati”. Tuttavia è questo il fattore che più l’ha contraddistinta negativamente rispetto al suo rivale Éric Zemmour, nonostante apparisse più moderata infatti, la vicinanza del leader di Reconquête ai circoli del potere editoriale e al mondo dei media di Vincent Bollorè, l’ha portato a coagulare pur con un risultato sotto le aspettative il sostegno di una buona parte della potenziale classe dirigente affine anche al Front National. Facile immaginare le conseguenze che ha sortito un simile depauperamento sulle ambizioni di governo della destra. Marine Le Pen non può neppure impiegare l’ottimo ma pur perdente risultato delle urne per fugare i dubbi che adombrano la sua reale capacità non solo di essere eletta vincendo al secondo turno, ma di incarnare un ruolo che in Occidente è l’apoteosi del verticismo politico, senza aver ricoperto prima d’ora cariche diverse dalla guida del maggiore partito di opposizione.

È quindi la mancanza degli attributi tecnico-politici ad aver allontanato gli elettori dal Front National ? Anche la Francia negli ultimi anni è stata interessata, in misura minore dell’Italia, da un fenomeno di perdita del potere d’acquisto chiamato “grand déclassement”: inflazione, crisi energetica e transizione ecologica sono stati sufficienti per attizzare il fuoco lepenista ben oltre il 40%, ma in misura lontana dal convincere i francesi della praticabilità di una soluzione politica basata su un programma di governo realmente alternativo a quello del presidente uscente.

Ciò non si è verificato forse perché un orientamento così governista non era neppure all’ordine del giorno di Marine Le Pen. Non basta infatti aver intrapreso un percorso di “normalizzazione” rispetto all’eredità politica paterna, sfociato nella costituzione del Rassemblement National e in un generale cambio di toni rispetto alla stagione politica passata. Marine Le Pen non ha mai dato l’impressione di voler prendere in mano le redini del paese e la tentazione della rendita di posizione dell’eterna opposizione può spiegare la velleitaria assenza di contenuti, spesso sfociata nella contraddizione come nel dibattito televisivo, da cui infatti è risultata sconfitta. La percezione di Macron come un bene rifugio dell’elettorato francese, rende la sua rielezione una vittoria parziale agli occhi dell’opinione pubblica che non l’ha ancora pienamente assimilato nelle categorie politiche tradizionali e con cui ha scontato grandi cali di popolarità durante il mandato.

Quando Chirac venne rieletto venti anni fa con un margine di quasi 60 punti, incarnava l’unità repubblicana e sia gli elettori che i candidati tradizionali ne riconobbero in modo esplicito l’assoluto ruolo di garanzia. Il caso di Chirac è emblematico perché sette anni prima aveva trionfato a sorpresa al primo turno contro il Primo Ministro uscente Balladur e poi al secondo con Jospin, facendo leva già allora sul tema della frattura sociale che in un paese come la Francia, meno disposta rispetto ad altri a rinunciare alle conquiste del welfare state, assume una dimensione trasversale comune a tutto l’elettorato.

Macron tuttavia non è Chiarc e pur vantando un successo solido, ma meno granitico del 2017, rischia di apparire solo come la migliore delle alternative possibili al Lepenismo, capace di coagulare intorno a sé consenso più per necessità di impedire l’ascesa del Front National che per gradimento elettorale.

Di conseguenza, la condizione del “migliore dei candidati possibili” continuerà a giocare a favore di Macron e degli altri leader europei finché i sostenitori di una proposta politica alternativa non si dimostreranno in grado di offrire all’opinione pubblica dei loro Stati pari garanzie sull’idoneità politica e tecnica richiesta dal ruolo di Capo di Stato o di Governo. Un simile processo di maturazione richiede innanzitutto la creazione di una classe dirigente in grado di offrire ad un presidente e al suo governo gli strumenti minimi per maneggiare la complessità della realtà odierna, prevedendo allo stesso tempo soluzioni in grado di incidere favorevolmente su temi in continuo mutamento, che vanno al di là delle conseguenze prodotte sulla vita di tutti i giorni come il caro benzina o l’aumento del prezzo dell’energia.

In Italia in particolare il centrodestra rischia di trovarsi in una situazione altrettanto spiacevole, con la differenza che mentre i risultati del primo mandato di Macron sono inequivocabili sia in termini di crescita economica che di riduzione della disoccupazione, in Italia altrettanto non si può dire degli esecutivi guidati dal Partito Democratico in questi ultimi 9 anni. Con la parentesi del primo governo Conte, il centrosinistra ha potuto beneficiare di una continuità politica e amministrativa pressoché ininterrotta, unita alla sostanziale benevolenza se non acquiescenza dell’Unione Europea a fronte di dati economici di gran lunga inferiori a quelli programmati nei documenti di bilancio, che non sono in alcun modo comparabili con i ritmi sostenuti della Francia ben prima della pandemia. Quello che è in apparenza un grande rompicapo politico, deve essere uno stimolo affinché il centrodestra si doti finalmente di un gruppo dirigente in grado di presentarsi ai mercati e al mondo senza ingenerare quei dubbi o insicurezze che, uniti alla litigiosità quasi puerile della coalizione, ne hanno impedito l’approdo a Palazzo Chigi. Solo dalla consapevolezza dei limiti dell’attuale quadro politico, per altro comuni a tutti gli schieramenti, potrà nascere una proposta di governo realistica e concreta che permetterà nel 2023 di ritornare al timone del paese.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

Macron- Le Pen al duello finale

Parigi, 30 marzo

“Rien n’est joué, il faut mouiller la chemise”. “I giochi non sono finiti, bisogna bagnarsi la camicia”, cioè diamoci da fare perché la vittoria al secondo turno non è scontata. La preoccupazione è stata espressa da Emmanuel Macron mercoledì scorso all’ultima riunione del Consiglio dei Ministri, secondo quanto riferisce uno dei presenti.

Nessun problema al primo turno che si terrà domenica 10 aprile. Tutti i sondaggi danno il Presidente quasi al 30%, 9 punti avanti alla probabile sfidante Marine Le Pen che supera a sua volta Jean-Luc Mélenchon, candidato della sinistra, fermo al 14% ed Eric Zemmour, estrema destra, all’11%.

Ma il secondo turno, il 24 aprile, non sarà una

passeggiata per Macron. A preoccupare molti esponenti di En Marche, è l’astensionismo che potrebbe toccare il record del 30% e penalizzare principalmente il partito del Presidente. Molti elettori che al primo turno dicono di votare per la sinistra, non sono sicuri al secondo turno di convergere su Macron, piuttosto pensano di non recarsi alle urne.

Il malcontento a sinistra viene alimentato anche dalla riforma che porterà gradualmente da 62 a 65 anni l’età pensionabile. Una misura questa duramente criticata da Marine Le Pen che reclama “il diritto al riposo per le persone più fragili”. Aggiungi la rabbia non del tutto sopita dei gilet gialli e il quadro si complica per Macron.

I sondaggi degli ultimi giorni che danno in salita Le Pen preoccupano Il Presidente. Lei, la leader di Rassemblement National, ha impostato la campagna elettorale in difesa dei più deboli, un “patriottismo sociale” che le vale nel suo ambiente il titolo di “petit mer” del popolo.

Il ministro dell’Interno Gerard Darmanin ha candidamente espresso a France 5 il timore che la destra possa vincere le elezioni. Un timore o una speranza manifestati da numerosi osservatori politici.

Finora Macron ha coltivato la sua immagine a livello internazionale come presidente di turno del Consiglio Europeo e nel ruolo prestigioso che si era ritagliato nella trattativa per fermare la guerra.

Ma si osserva che le fasce più deboli colpite economicamente dalla crisi si preoccupano più del potere d’acquisto che dell’Ucraina.

Solo da lunedì scorso, 28 marzo, Macron si è immerso anima e corpo nella campagna elettorale. Tre punti principali nel programma del Presidente: lavoro, giovani, ecologia. E la rivendicazione delle cose fatte soprattutto nella sanità: rimborso delle spese per occhiali, cure dentarie e apparecchi acustici.

Maggiori aiuti a chi è in difficoltà, nel programma di Marine Le Pen, lotta alla criminalità e certezza della pena. Quanto basta per sperare di cavarsela questa volta nel duello finale per l’Eliseo, l’ultimo duello perché se perde , ha detto, non si ripresenterà più. Quella attuale è per lei una condizione migliore rispetto al 2017 quando uscì con le ossa rotte dal confronto televisivo con Macron. Stavolta le riconoscono una maggiore padronanza degli strumenti mediatici. Non solo. La presenza alla destra estrema di Zemmour, impegnato principalmente a frenare l’immigrazione, fa da parafulmine alle accuse che pendevano in precedenza sulla testa della figlia di JeanMarie Le Pen. Certo, si contesta a Marine il suo rapporto con Putin. Ma lei minimizza: se c’è un presidente francese che non ha avuto rapporti con Putin lanci la prima pietra.

*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

GB e Italia al bivio dell’Europa Unita

Un seminario della Fondazione Antonio Segni svela intrecci e relazioni diplomatiche dell’Italia dei primi anni sessanta, dalla crescita della CEE ai rapporti con gli Stati Uniti. Tra i relatori, lo storico dell’Università di Padova Antonio Varsori traccia le mosse di Roma, stretta tra Londra e Parigi, in uno scenario in cui le circostanze e i protagonisti si rivengono nell’epoca della Brexit.

Il 29 Marzo 2017 il Regno Unito ha comunicato al Consiglio Europeo l’attivazione della clausola di recesso dall’Unione.

Come previsto dalla disposizione del trattato, si è aperta una seconda fase di tipo negoziale, con la UE impegnata al raggiungimento di un accordo bilaterale per finalizzare un recesso consensuale.

I termini finali di quest’ultimo sono stati più volte rinviati per permettere la ratifica da parte della Camera dei Comuni. Alla fine del mese di Ottobre, anche in considerazione delle elezioni generali previste per il 12 Dicembre, il Consiglio europeo ha provveduto a prorogare al 31 gennaio 2020 il termine ultimo indicato dal Trattato sull’Unione europea per il perfezionamento della richiesta di recesso.

La storia dell’adesione del Regno Unito alla Comunità Economica Europea è piuttosto travagliata e riflette, anche nel successivo percorso di integrazione, quella che è stata autorevolmente definita “Politica del semi- distacco”. A scandirla i due veti della Francia di De Gaulle: il primo nel 1963 che si rivelò insormontabile, il secondo nel 1967 venne meno sei anni più tardi grazie all’ascesa all’Eliseo di George Pompidou, promotore di un referendum poi vinto sull’allargamento della CEE, che mitigò in parte le posizioni di un gollismo “duro e puro” che vedeva nell’ingresso del Regno Unito una testa di ponte degli Stati Uniti in Europa.

In questo contesto politico in rapido mutamento emergono le direttrici economiche che segneranno le priorità della neonata Comunità Economica Europe. L’impetuosa industrializzazione, trainata dal settore siderurgico, chimico e dai primi beni di consumo di massa come l’automobile spingeva per l’abbandono di visioni mercantilistiche a favore del libero commercio e di un’unione doganale. Tale fenomeno ha portato alla nascita di quella che numerosi urbanisti hanno descritto come “blue banana”. Un corridoio densamente popolato che unisce virtualmente l’Europa Occidentale da Manchester a Genova passando per i Paesi Bassi, La Renania, l’Alsazia e la pianura Padana.

A questa visione accentratrice e omologante faceva da contraltare la previsione di una Politica Agricola Comune (PAC). Espressione concreta delle necessità del mondo rurale della Francia “profonda”, tradizionale bacino di voti del gollismo, sino agli anni 80’ occupò ben due terzi del bilancio comunitario assumendo col tempo più un ruolo di protezione sociale nella transizione economica che di vera e propria spinta produttiva. Il Regno Unito d’altro canto non perse mai l’occasione sin dalla firma dei trattati di Roma di denunciare gli squilibri che gli aiuti della PAC provocavano ai danni dell’agricoltura britannica, ravvisando una violazione della concorrenza nel settore, resa ancora più grave dallo stretto legame con la sua principale fruitrice.

Ad accrescere i contrasti con la Francia contribuirono tuttavia le continue spinte politiche di De Gaulle, che si riverberavano sugli assetti e le relazioni interne alla CEE. In particolare l’obiettivo di unire i destini dell’Europa in una sorta di confederazione venne esposto nel piano Fouchet, il cui assetto prevedeva un Consiglio dei Ministri dal marcato carattere intergovernativo, un’Assemblea parlamentare di natura strettamente consultiva, priva della capacità di incidere nella determinazione dell’indirizzo politico ed una Commissione esecutiva dall’anima tecnico-burocratica. Parallelamente veniva avanzata l’idea di una più stretta collaborazione nel settore della difesa con la costituzione di un apposito comitato interministeriale, sufficiente da delineare la nascita di una nuova alleanza militare, in funzione difensiva, che in assenza del Regno Unito si sarebbe presentata come alternativa alla NATO. Un ambito nel quale una potenza atomica come la Francia avrebbe potuto esercitare un’influenza praticamente illimitata. L’adesione britannica ad una siffatta Comunità sarebbe stata nelle intenzioni di De Gaulle, l’occasione per propiziare la fine della doppia relazione Inglese con Europa e Stati Uniti.

Comportando una scelta irrevocabile a vantaggio della prima sia dal punto di vista economico che militare con la conseguente perdita della “special relationship” con Washington, a vantaggio di un disegno unificatore gollista soprattutto in politica estera.

Nel quadro della corsa agli armamenti, giunse da parte Americana a partire dal 1960 a controproposta dell’istituzione di una “Multi-lateral Force”. Il sistema prevedeva una condivisione dei sistemi missilistici Polaris da imbarcare sul naviglio di una flotta comune a guida NATO e sotto l’influenza degli Stati Uniti. Una proposta accolta favorevolmente dal Regno Unito per la sua naturale predilezione per la difesa via mare, ma anche dall’Italia che riteneva di poter contare essa stessa su una relazione privilegiata con gli Stati Uniti. L’occasione giunta con i lavori di ristrutturazione dell’incrociatore Garibaldi, divenuta la prima nave ad essere equipaggiata con un complesso sistema di lancio per missili balistici Polaris, suscitò molto interesse nell’ambito della NATO e apparve come la migliore soluzione per il futuro armamento del disegno MLF. Nonostante i promettenti avvii però il progetto non ebbe seguito, si può ritenere che la Multi-lateral force apparve come un superamento della proposta di un direttorio a tre interno al Patto Atlantico, tra Stati Uniti, Francia e Regno Unito, avanzato da De Gaulle nel 1958.  Un’idea profondamente osteggiata dall’Italia che ravvisava il rischio di una compromissione dell’influenza diplomatica faticosamente riguadagnata, in un momento di grande slancio e ottimismo. Anche in questo caso prevalse nell’amministrazione Kennedy la tendenza al mantenimento della coesione interna all’alleanza e al rispetto degli equilibri di tutti i paesi membri, una posizione su cui Parigi non poteva che dissentire.

Anche dal punto di vista politico le ambizioni e gli obiettivi Italiani e Britannici erano destinati a trovare delle importanti convergenze. Da parte di Roma era infatti esplicitato il massimo sostegno all’adesione del Regno Unito alla Comunità Economica Europea. Tali propositi confermati da un’importante visita di Fanfani e Segni e nel 1962, trovano una loro ragion d’essere nello scenario contemporaneo che vede il recesso di Londra dall’Unione Europea.

La presenza della Gran Bretagna era ritenuta all’epoca un necessario contraltare alle ambizioni della Francia gollista, soprattutto dal punto di vista militare. Non c’è da sorprendersi se oggi nel settantesimo anno di vita dell’Alleanza Atlantica, che è anche quello più difficile finora trascorso, emerga decisa l’ambizione di Parigi in merito al progetto mai concretizzatosi di una difesa comune. Oggi come ieri è il Patto Atlantico ad essere messo in discussione nelle sue fondamenta politiche e filosofiche. Dopo la Brexit la Francia rimarrebbe l’unica potenza nucleare nell’Unione, con gli Stati Uniti impegnati in un progressivo isolazionismo e beneficerebbe di un’importantissima funzione di indirizzo e controllo sull’industria della difesa e dello spazio grazie alla nomina a commissario al mercato interno europeo di Thierry Breton. Un parziale tentativo di riedizione del “Piano Fouchet”, naufragato nel lontano Aprile del 1962 davanti al portale di ingresso del traforo del Monte Bianco, sembra non essere un’ipotesi peregrina alla luce dei fatti. Le dichiarazioni pur filtrate d’altronde non lasciano trasparire un abbandono della tradizionale linea intergovernativa. In questo senso si colloca la proposta del Ministro dell’Economia Bruno Le Maire di investire il Consiglio europeo del potere discrezionale di disattendere le decisioni della Commissione in materia di concorrenza: secondo pilastro liberoscambista dopo l’unione doganale e motivo di connubio tra il “mondialismo” del Regno Unito e del suo Commonwealth e il “Regionalismo” della allora Comunità Economica Europea.

Un’altra importante ragione che spingeva a favore dell’ingresso inglese è da ricercarsi nel rafforzamento del rapporto con gli Stati Uniti, tramite appunto Londra, che della “special relationship” con Washington ha sempre beneficiato per ragioni storiche contingenti. Se Kennedy era un fautore dell’adesione britannica in prospettiva di un ridimensionamento Francese, l’Italia non poteva apprezzare le qualità sopravvenute in caso di rigetto della richiesta britannica. Profondamente legata all’America sul piano economico e militare, tanto che autorevoli fonti diplomatiche riferiscono la qualifica di “cavallo di Troia” statunitense nella CEE, è grazie al paternalismo degli Stati Uniti se Roma poteva sentirsi una nazione di rilievo sul piano internazionale. Un appoggio questo, spesso determinante nella risoluzione dei conflitti e delle crisi regionali, che Roma non ha mai smesso di cercare in tutti gli scenari in cui è direttamente coinvolta. Il conflitto civile libico è un caso emblematico di un atteggiamento remissivo e contraddittorio, frutto della mancanza di una salda e decisa leadership politica e dell’assenza di una sua autonoma proiezione. Così si sonda un asse tra Eni e BP nella speranza di rafforzare la cooperazione e si aspetta passivamente un intervento americano che faccia pendere la “pesatura delle anime” dei due contendenti a vantaggio delle ambizioni Italiane.

Un forte legame tra Roma e Londra infine avrebbe potuto contrapporsi efficacemente all’allora crescente rapporto dell’Asse franco-tedesco, rafforzando il fronte occidentale sotto la guida degli Stati Uniti di Kennedy che avrebbero garantito il fondamentale appoggio alla nascita del centro- sinistra. Evento spartiacque sarà nel Gennaio del 1963 il primo veto francese all’adesione inglese alla Comunità, cui seguirà in pochi giorni la stipula con l’omologo tedesco Adenauer del Trattato dell’Eliseo, primo frutto della collaborazione tra i due paesi. All’epoca toccò ad Ugo La Malfa abbozzare una risposta tanto coraggiosa quanto impulsiva a titolo personale: la realizzazione di un trattato italo-britannico da contrapporre a quello franco-tedesco con l’obiettivo di rafforzare la governance dell’Unione europea occidentale: organizzazione internazionale regionale di sicurezza militare e cooperazione politica, nata con il trattato di Bruxelles del 17 marzo 1948. Una proposta accolta con un misto di perplessità e bonaria accondiscendenza dal Foreign Office ma con freddezza e irritazione dal Presidente del Consiglio Fanfani che preferiva evitare uno scontro diretto con Parigi. Oggi il percorso delineato dal Trattato di Aquisgrana firmato il 22 gennaio 2019 tra la Francia del Presidente Emmanuel Macron e la Germania della Cancelliera Angela Merkel rilancia una visione bilaterale nella quale l’Italia non può trovare uno spazio con pari dignità politica. La presenza una clausola di reciproca difesa militare che prevede il ricorso ad “ogni possibile aiuto e sostegno”, compresi anche “strumenti militari è un chiaro sintomo delle patologie e delle insofferenze che scuotono la NATO con il rischio di renderla obsoleta per sovrapposizione. L’organo politico preposto: Il Consiglio di difesa e di sicurezza franco-tedesco, “che si riunirà regolarmente al massimo livello”, appare un surrogato del medesimo comitato interministeriale del Piano Fouchet, con la differenza fondamentale che i motivi che porteranno gli Stati Uniti di Trump ad osteggiarlo saranno più legati alla contabilità interna al Patto Atlantico che ad una reale volontà di reprimere la costituzione di una “force de frappe” atomica sotto l’egida Francese. Con l’addio del Regno Unito inoltre non ci saranno più limiti al dispiegamento di una comune attività di collaborazione e coordinamento in materia di politica estera ed economica che ridefinisce i contorni dell’Unione europea e rischia di trasformarla in un’architettura politica bilaterale assai poco gradita all’Italia di oggi come fu per quella di ieri.

Anche in questo caso la classe politica Italiana oscilla prudentemente tra una nuova apertura a Londra (e Washington) nel quadro di un accordo commerciale post-Brexit e l’inseguimento del tradizionale tandem dell’Unione. Un asse al quale giustapporre una cura degli interessi nazionali sufficiente ad elidere l’impressione di un suo rapido depauperamento a favore di ingerenze esterne contingenti, un’Unione nell’Unione esistente naturaliter dal punto di vista storico e culturale tra due nazioni si fanno interpreti di un preciso ordine degli assetti di interessi da regolare ai quali l’Italia non potrà risultare estranea e verso cui occorrono risposte autorevoli e ponderate per scongiurare quanto più si teme e si va evocando, cioè la completa irrilevanza in politica estera che come un virus si diffonde al mondo economico e produttivo con conseguenze fatali.

*Giovanni Maria Chessa, collaboratore Charta minuta

Mercuri: in pericolo gli interessi italiani in Libia

In vista del meeting del 5 marzo prossimo organizzato dalla Fondazione Farefuturo in collaborazione con il settore esteri di Fratelli d’Italia dal titolo “ Italia vs Francia: addio Libia?” abbiamo raggiunto la dottoressa Michela Mercuri esperta di Libia e Medio Oriente, per fare una panoramica della situazione attuale.

 

E’ notizia di questi giorni che Il presidente di Tripoli e l’uomo forte della Cirenaica si sono incontrati ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti sotto l’egida ONU per sottoscrivere un accordo per porre fine ad un periodo di transizione e indire nuove elezioni. Il Vicepresidente del Copisar, il senatore Adolfo Urso, ha parlato “di una grave sconfitta per le ambizioni del governo Conte”. Lei da esperta dell’area crede che questo accordo possa realmente pregiudicare i nostri interessi in Libia?

L’incontro è stato “sponsorizzato” da due dei principali alleati di Khalifa Haftar: Francia ed Emirati Arabi. Parigi, supportando l’avanzata del generale, sta cercando di realizzare le sue ambizioni egemoniche nel Paese. Abu Dhabi, principale finanziatore di Haftar, lo appoggia sia per controbilanciare il peso del Qatar, che sostiene la fratellanza musulmana di Tripoli, sia per assurgere al ruolo di attore regionale dominante. Da questo punto di vista l’incontro tra Serraj e Haftar non cambia gli equilibri interni che si sono delineati negli ultimi giorni, con il generale sempre più influente e oramai padrone di quasi tutto il Paese. Non è dunque questo accordo a pregiudicare il nostro ruolo in Libia, quanto piuttosto gli eventi che lo hanno preceduto e che non siamo stati in grado di limitare, gettando al vento il lavoro svolto durante la conferenza di Palermo. Detta in altri termini: in poco più di tre mesi abbiamo perso Serraj, il nostro alleato sul terreno che non controlla le numerose fazioni che stanno mettendo a ferro e fuoco la capitale, abbiamo perso influenza anche con alcuni attori locali, con cui Haftar sembra aver raggiunto accordi e abbiamo regalato alla Francia la primacy sul dossier Libia. Al momento, dunque, al di là di questo (ipotetico) accordo che cambia la forma ma non la sostanza della situazione interna, credo che gli interessi italiani nel Paese siano in serio pericolo.

 

Abbiamo già assistito ad annunci su possibili elezioni. L’anno scorso al summit di Parigi del 29 maggio il presidente Emmanuel Macron riuscì a strappare una data ai recalcitranti Fayez Sarraj e Khalifa Haftar: elezioni nazionali entro il 10 dicembre 2018. Come tutti sappiamo queste elezioni non ci furono e l’Italia fu in grado di indire un altro summit, questa volta a Palermo il 12 e 13 novembre 2018, dal quale sembrò uscire una reale road map. Sul campo però Haftar ha continuato la sua “concquista”. A questo punto questo accordo le sembra credibile? O è in realtà una semplice formula “tappabuchi” utilizzata dalla diplomazia? 

Partiamo da un presupposto: le elezioni politiche in un contesto frammentato e instabile come quello libico non possono essere considerate la soluzione per il consolidamento di un qualche status quo. Sarebbe necessario invertire la prospettiva: non elezioni per stabilizzare la Libia, ma tentare di stabilizzare la Libia prima di indire elezioni. Per questo il “Piano Marshall” proposto – o quasi imposto- da Macron, che prevedeva elezioni nel dicembre del 2018, era a dir poco discutibile, come sottolineato sia da Ghassan Salamè sia dall’allora ambasciatore italiano in Libia Giuseppe Perrone. La road map di Palermo, molto più realisticamente, prevedeva un processo di pacificazione e un percorso istituzionale propedeutico alla tornata elettorale, ma anche in quel caso senza alcun documento e senza date certe. Durante il vertice di Abu Dhabi si è parlato, di nuovo, di un’intesa per indire le elezioni. E’evidente che Haftar e i suoi alleati in questo momento abbiano tutto l’interesse a spingere per delle elezioni che probabilmente saranno loro favorevoli in termini di risultati. Nonostante ciò, però, anche questa volta c’è solo una dichiarazione estremamente generica, manca una data e una “pianificazione istituzionale”. Propenderei, dunque, per la solita “formula tappabuchi” o, se vogliamo, “un contentino”. Qualunque sia il valore delle dichiarazioni emerse ad Abu Dhabi, ribadisco, però, che senza una preliminare stabilizzazione del quadro interno le elezioni saranno solo il preludio per nuovi scontri.

 

Il Presidente Conte assicura  che “Parigi è informata. I nostri due Paesi hanno continuato a lavorare a tutti i livelli sul dossier libico, dall’intelligence in poi, non c’è divergenza sulla necessità di pervenire quanto prima alla stabilizzazione della Libia”. Al momento con Parigi c’è convergenza di obiettivi e un aggiornamento costante”. In realtà molti osservatori giudicano la scelta del luogo e la tempistica come un “strappo” organizzato da Macron per sottrarci l’influenza nella nostra ex-Colonia. Lei crede che il nostro governo possa contare su una reale collaborazione dell’Eliseo per stabilizzare il Paese?

Il Premier Conte si è trovato nella scomoda posizione di fare buon viso a cattivo gioco, ma credo sia consapevole della nostra posizione di inferiorità e soprattutto che non è possibile collaborare con Parigi, se non stando alle sue regole e dunque in una posizione di “gregari”. Basta guardare ai fatti. Quasi in concomitanza con l’offensiva dell’esercito di Haftar i Mirage dell’aviazione francese hanno colpito incessantemente l’area fra la Libia e il Ciad per sostenere militarmente il generale nella sua avanzata per il controllo del Paese. L’8 novembre Macron ha invitato a Parigi importanti esponenti di spicco di Misurata, la città Stato che oramai è una sorta di terzo potere in Libia, mentre pochi giorni fa alcuni funzionari dei servizi segreti della Dgse avrebbero effettuato una missione a Tripoli per dialogare con Serraj. È evidente che Parigi sta portando avanti una sua strategia per assurgere al ruolo “di stabilizzatore del Paese” senza alcun coordinamento con l’Italia ma soprattutto con la comunità internazionale. In questo contesto, l’incontro di Abu Dhabi è solo l’ennesimo atto della partita dell’Eliseo contro l’Italia. Non vedo, dunque, margini di collaborazione, per lo meno al momento.

 

Anche la Federazione Russa, sembra essere molto attiva a sostegno di Haftar e alcuni osservatori sono preoccupati di questo attivismo. Lei pensa sia possibile un accordo che, sulla base della collaborazione di ENI e Rosneft, possa tutelare i nostri interessi e stabilizzare il Paese o vede in questo un ulteriore pericolo per l’Italia?

Se è vero che la Russia è un altro noto sponsor di Haftar vi sono, però, alcuni elementi che potrebbero farci propendere per una visione più “ottimistica” e che sono in parte legati alle questioni energetiche. Solo per fare alcuni esempi, nel dicembre del 2016 Eni ha concordato il passaggio a Rosneft di una quota del 30% della concessione di Shorouk, nell’offshore dell’Egitto, nella quale si trova il giacimento di Zohr.. Il fondo sovrano qatariota Qatar Investment Authority (Qia) ha acquisito, poco più di un mese dopo, il 19,5% del capitale di Rosneft grazie al sostegno economico di Intesa san Paolo. Esistono legami importanti tra i due “colossi energetici” che potrebbero fungere da base per una maggiore convergenza anche sulla questione libica. Ci sono però altri aspetti che ritengo degni di nota. Mosca sembra voler assurgere al ruolo di attore indispensabile per tentare di dipanare la complessa questione libica, agganciando anche il governo di Tripoli. Il Cremlino ha tutto da guadagnare, in termini di immagine, patrocinando un ravvicinamento tra Tripoli e Haftar, per ristabilizzare un’area che l’occidente ha gettato nel caos intervenendo militarmente nel 2011. Anche per questo Putin si è mostrato molto collaborativo con l’Italia durante il vertice di Palermo inviando il primo ministro Medvedev ma, cosa più importante, “intercedendo” nei confronti di Haftar per perorare la causa del summit e favorire la sua partecipazione. Ci sono poi le questioni economiche. Il primo ottobre scorso, il ministro dell’economia del governo di unità nazionale ha comunicato che Tripoli acquisterà 1 milione di tonnellate di grano dalla Russia per un totale di 700 milioni di dollari. Sul tavolo ci sono, poi, importanti progetti di cooperazione nel settore delle costruzioni ferroviarie e altri affari miliardari.  La Russia, dunque, ha molti interessi da sviluppare nell’Ovest. L’Italia potrebbe creare un asse con Putin sfruttando i suoi contatti sul terreno, specie a Tripoli, dove abbiamo da poco riaperto la nostra ambasciata, facendo perno anche sugli importanti rapporti con gli attori locali maturati dall’Eni nel corso degli anni. Mosca resta un attore su cui puntare.

Sembra quindi, che al governo italiano manchi una realpolitk sul caso Libia e che i francesi ne stiano approffittando per portare avanti sul campo la loro strategia iniziata nel 2011.

*Intervista con Michela Mercuri, opinionista sulla politica di Mediterraneo e Medio Oriente di Mario Presutti, collaboratore Charta minuta

Francia vs Italia: addio Libia?

La Conferenza di Palermo sulla Libia è stata celebrata dal Premier Conte come un grande successo italiano per la stabilizzazione della nostra ex Colonia. Ma è davvero cosi? Dalle ultime notizie si potrebbe dire che la Total avanza mentre l’Italia guarda!

In Libia non è solo in gioco il prestigio internazionale dell’Italia e la tutela degli interessi delle tante società che operano nel territorio libico ma è in gioco la nostra sicurezza nazionale. Lo scontro tra due governi rivali: uno guidato dall’uomo forte della Cirenaica Haftar, sostenuto dalla Francia nonché dalla Russia e dagli Emirati Arabi, l’altro il cosiddetto Governo di Accordo Nazionale, sostenuto dall’ONU e dal governo Italiano, presieduto da Fayez al-Sarraj ha trasformato questa area in un centro di anarchia in prossimità delle coste italiane. Tale situazione dovrebbe suggerire al nostro governo di considerare ogni opzione sul campo.

Ma facciamo un passo indietro. Anzi due. La Libia come entità statuale è una creazione recente essendo sorta dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il Paese sotto la guida del re Idris I al Senussi prese le sembianze di una monarchia costituzionale a “ispirazione federale”, confermando il ruolo delle tribù quali autorità politiche a livello locale. Ma a causa della neutralità assunta dal monarca nel 1967 durante la Guerra dei sei giorni, alla fine si giunse  ad un colpo di Stato militare guidato da Gheddafi, che portò alla proclamazione della Repubblica. A sostegno del nuovo regime intervenne Gamal Nasser e il suo Egitto che mandò i sui funzionari a partecipare attivamente alla riorganizzazione dello stato libico. Ne uscì un’organizzazione fortemente centralizzata, ideologizzata  con l’obbiettivo di rivoluzionare la struttura tribale del potere nel Paese. A tale scelta interna corrispose sul piano internazionale la ricollocazione della Libia sul fronte del panarabismo, che mise fine alla politica filo-occidentale della fase monarchica.

Per consolidare la legittimità del suo potere, Gheddafi rinfocolò l’ostilità anti-italiana, essendo questo un tema di riscossa molto gradito a tutti i gruppi tribali del Paese. A questo seguì un caso unico nei rapporti di un Stato europeo e una sua ex colonia: l’istituzione della “giornata della vendetta”, che sanciva la commemorazione annuale dell’espulsione degli italiani, e la rivendicazione di un nuovo risarcimento per i danni arrecati alla Libia a partire dal 1911. Tra sfide plateali e trattative sottobanco con Roma il Colonnello continuò a consolidare il suo potere interno  e sebbene teorizzò lo smantellamento della società libica tradizionale fu molto attento nel compensare il primato delle tribù della Tripolitania nelle posizioni di governo e negli apparati amministrativi redistribuendo anche una discreta ricchezza con i sussidi statali che elargiva su tutto il territorio. Dopo la fase calda del 1969-1970, fecero seguito le intese stipulate dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti nel 1972, che garantirono il ritorno di alcune società italiane in territorio libico. La funzione “stabilizzante” della Libia di Gheddafi non fu mai rinnegata dal governo italiano neanche durante la crisi diplomatico-militare del 1986. Dopo questo evento, la Libia rimase sostanzialmente isolata e trovò nell’Italia il suo unico interlocutore occidentale. Il primo tentativo volto a chiudere definitivamente il contenzioso ereditato dall’epoca coloniale fu avanzato dal primo governo di Romano Prodi nel 1998 anche se non fu mai ratificata dal parlamento perché non prevedeva alcun cenno ai beni confiscati agli italiani nel 1970. Come si può notare un elemento di continuità della nostra politica estera è sempre stata avere una “relazione privilegiata” con la nostra ex colonia. Nel 2003 con l’incontro del presidente Silvio Berlusconi ci fu la svolta nelle relazioni tra Libia e Italia. Accordi poi confermati dal secondo governo Prodi e ribaditi anche in un incontro del novembre 2007 tra il ministro degli Affari esteri Massimo D’Alema, il suo omologo Abdelrahm Shalgam e il rais.  All’intensificarsi delle relazioni politiche seguirono anche l’intensificarsi dei rapporti commerciali ponendo l’italiana ENI in una posizione di forza difficilmente attaccabile nel settore del gas libico.

Nel 2011, poi, abbiamo assistito inermi alle cosiddette “Primavere Araba” che di primavera alla fine non ebbero quasi niente. Quella libica in particolare si caratterizzò subito con connotati distinti. Infatti i clan opposti ai Gheddafi sostenuti dalla Francia in particolar modo ma anche da UK, Turchia, Qatar, Emirati Arabi e  alla fine anche dalla Clinton cavalcarono l’effetto snowballing delle proteste indotte e si riunirono in un Consiglio Nazionale di Transizione. Gheddafi alla fine fu ucciso il 20 ottobre catturato solo grazie ai bombardamenti francesi. La Francia infatti, si appellò al “principio di ingerenza umanitaria” formulato nel 1999 per la missione in Kosovo, per bombardare il Paese. Inoltre gli Stati Uniti con la presidenza Obama spostarono l’attenzione dal Medio-Oriente al quadrante Asia-Pacifico con il “pivot to Asia” e lasciarono di fatto campo libero ai loro alleati nelle zone non considerate più strategiche. L’Italia nel periodo compreso tra febbraio e l’aprile 2011 ebbe un atteggiamento orientato alla prudenza. Questo tentennamento italiano si confrontò e scontrò con l’atteggiamento spregiudicato della Francia e dell’UK  che portò alla fine una guerra civile a 300Km da Lampedusa. L’ONU varò a quel punto la missione “Usmil” nata con l’obbiettivo di stabilizzare il paese e traghettarlo verso un rilancio economico. Nel frattempo il nuovo inquilino della Casa Bianca, Trump, non offrì alcuno appoggio concreto, se non di facciata, al presidente al-Sarraj che di fatto ha avuto difficoltà persino a controllare la capitale Tripoli. La posizione del governo italiano è quella di continuare a sostenere il Governo di Accordo Nazionale presieduto da al-Serraj così come confermato dal Premier Conte in questi giorni, a Sharm el-Sheik a margine del primo summit UE-Lega Araba. Sul campo però, la situazione ci sta sfuggendo di mano.

E’ notizia del 12 febbraio che l’Esercito Nazionale Libico di cui Haftar è comandante, ha annunciato di aver preso il controllo del più importante giacimento petrolifero libico. Dopo aver occupato Sheba, e il campo petrolifero di Sharara, ha occupato anche l’area gestita da ENI “El Feel” senza bisogno di combattere. Haftar sostenuto dalla Russia e dalla Francia sta cercando con il suo esercito di riportare l’ordine nella regione ed ergersi a unificatore della Nuova Libia in vista delle prossime elezioni. Il  momento è molto delicato perché per la prima volta sembra esserci una road map molto concreta: Conferenza Nazionale, referendum e emendamenti costituzionali e infine elezioni. Tutto questo entro l’anno. Le mosse del Generale Haftar rischiano di bloccare tutto questo processo e  rischiano anche di estromettere l’ENI  a favore della francese TOTAL.  Il governo italiano quindi, sembra essere preso in contropiede dalle mosse dell’uomo forte della Cirenaica anche se il nuovo ambasciatore, Giuseppe Buccino, si è messo subito al lavoro incontrando nei giorni precedenti l’inviato dell’ONU, Salamé, e il generale Haftar per colloqui sugli sviluppi della situazione nella regione meridionale del Fezzen. Il problema però è che il Governo di Accordo Nazionale è privo di un reale e incisivo supporto da parte del governo italiano e quindi Haftar continua l’avanzata senza una adeguata resistenza. Si può dire quindi che gli obbiettivi strategici della Francia, che come abbiamo visto nel 2011 iniziò a sottrarre all’Italia l’influenza sulla Libia, sembrano andare avanti senza nessun ostacolo concreto.  Sarebbe opportuno a questo punto che il governo italiano agisca  immediatamente prima che Haftar sfrutti l’imminente Conferenza Nazionale della Libia per mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto. E’ necessario quindi, rendersi conto che l’Italia ha bisogno di garantirsi gli approvvigionamenti energetici (prendiamo dalla Libia 1/5 del fabbisogno petrolifero e 1/3 di quello di gas), ed è necessario mantenere la Libia unita evitando una “balcanizzazione”. L’Italia si trova ad un bivio: o concede un reale supporto, anche strategico/militare,  ad al-Serraj e alle locali tribù Tebu (che sono in ottimi rapporti con l’Italia e sono le uniche che si sono realmente opposte ad Haftar) oppure sarà il caso di cambiare strategia.

Per fare questo il nostro Paese deve necessariamente dialogare con gli attori internazionali che sostengono Haftar e dunque principalmente con la Francia e la Russia. Se con Macròn è attualmente molto complesso immaginare un dialogo non solo per l’atteggiamento che l’Eliseo ha avuto nei nostri confronti fin dal 2011 ma anche visto gli ultimi scontri diplomatici a causa del caso “sui gilet gialli”. Con Putin invece,  potrebbero esserci maggiori possibilità di collaborazione. Le preoccupazioni di una parte degli osservatori, che vedono il coinvolgimento di Putin paragonabile a quello in Siria e del tutto pretestuoso perché Mosca in questo caso, da grande esclusa del dopo Gheddafi, intende solo far valere i propri interessi nell’ambito di una mediazione piuttosto che nel proseguimento di una escalation militare. Si potrebbero sfruttare i buoni e consolidati rapporti con la Russia in funzione anti francese per cercare un obbiettivo comune strategico sulla Libia, e riportare Haftar a più miti consigli. Altro elemento importante è l’alleanza tra i due giganti degli idrocarburi, ENI e Rosneft, che potrebbe esserci molto utile. Per anni ENI con il suo cane a sei zampe, è stata una sorta di monopolista dell’estrazione libica e la Russia avrebbe tutto l’interesse a non andare contro un partner fondamentale per il gas nel Mediterraneo, visto anche l’intreccio egiziano.

Alla luce di questo l’Italia potrebbe sfruttare il suo capitale di fiducia con alcuni attori tripolini  per mediare un accordo intra-libico con Mosca.  In questo modo si potrebbe spingere, grazie all’asse con Putin, la comunità internazionale a stabilizzare il Paese, cosa per noi strategica non solo a tutela dei nostri interessi economici ma anche per impedire un asse fra Mosca e Parigi che per noi sarebbe un colpo durissimo.

Almeno ché l’Italia non intenda inviare soldati a sostegno di al-Saraj è indispensabile trovare subito un accordo diplomatico con la Russia. Se il governo invece continuerà a lusingarsi delle vuote parole di Trump sulla Libia e a non capire il neo-isolazionismo statunitense, allora possiamo dire addio al gas e al petrolio libico e aspettarci con l’arrivo dell’estate nuove ondate migratorie dalla Libia. Infatti sullo sfondo di questo rebus di interessi geopolitici resta la questione migratoria per noi cruciale, sia in termini di ordine pubblico che in termini umanitari, e sulla quale dobbiamo agire con prospettiva e coraggio.

In conclusione, non possiamo sottrarci alle responsabilità che derivano dalla Libia né tanto meno ignorare che in quel Paese c’è in ballo una questione di sicurezza nazionale quindi tutte le opzioni dovrebbero essere prese in considerazione. Il rischio altrimenti, è subire come nel 2011, scelte di altri paesi che evidentemente sono a noi ostili. Ogni riferimento alla Francia è puramente voluto.

*Mario Presutti, collaboratore Charta minuta

 

Il laboratorio sovranista? Strategico per il centrodestra (e per il Paese)

Se la scelta era quella di introdurre temi forti in questa smaliziata campagna elettorale, Giorgia Meloni e Matteo Salvini ce la stanno mettendo tutta per alzare l’asticella dei contenuti. Professori no-euro, clausola di supremazia, controllo migranti: l’area identitaria e sovranista del centrodestra si candida a essere il laboratorio vivo della coalizione. Non solo culturale, ma emozionale. Esattamente così. Perché al netto delle cesure dettate dal politicamente corretto, tra i temi maggiormente sentiti tra i più urgenti dalle cosiddetta gente comune, molti fanno capo al rapporto che le istituzioni continentali hanno mal tarato con la popolazione europea soprattutto meridionale.
Un cortocircuito che il ventre del Paese ha avvertito prima ancora degli indici di Borsa. Nella nuova polarizzazione del linguaggio politico, è qui che si gioca la partita elettorale: nella divaricazione sopra-sotto che ha segnato tutte le recenti competizioni occidentali. Tutto questo mentre Silvio Berlusconi fa la spola tra l’Italia e Bruxelles in cerca di una nuova verginità istituzionale – in parte dovuta – in vista di un argine al grillismo. In quest’ottica arriva la sponsorizzazione di Antonio Tajani, presidente Ppe dell’europarlamento, quale premier in pectore di marca forzista.
C’è tuttavia un’idiosincrasia da denunciare. E sta tutta nella comunicazione attuale dell’ex Cavaliere. Suvvia, se il rimedio al populismo dei Cinque Stelle è declinato in una sventagliata di promesse televisive dal fiato corto, c’è di che preoccuparsi. E seriamente. Se la campagna elettorale si risolve in una fiera di meme da condividere sui social, anche quei partner europei che vedono in Berlusconi il possibile traghettatore della post Brexit avrebbero di che riflettere. Dopo la lunghissima crisi non ancora conclusa dell’eurozona, non si può parlare di Ue e Bce come se nulla fosse accaduto. Comunque si giudichi la questione banche nell’ultimo decennio, e a qualsiasi livello, sul campo restano solo imbarazzi che coinvolgono a vario titolo la politica italiana.
E prima ancora che gli economisti sappiano declinare gli scenari futuri, la scelta di Matteo Salvini di candidare Claudio Borghi nell’uninominale a Siena (probabilmente contro il ministro Pier Carlo Padoan) e nel proporzionale ad Arezzo, zona Banca Etruria, arriva all’immaginario degli italiani. Segnale chiaro e netto sia contro le incertezze di Di Maio sul referendum sulla moneta unica, sia verso il giglio magico di Matteo Renzi.
Parlare di clausola di supremazia – sulla scorta del modello tedesco – in questa fase è tutt’altro che una boutade da parte della Meloni: si tratta semmai di una vera e propria esigenza dettata dal quadro internazionale. Dinnanzi “all’America first” di Donald Trump e al rinnovato (e non annunciato lungo tutta la sfida con la Le Pen) sciovinismo della Francia di Emmanuel Macron, l’Italia deve ritrovare un suo ruolo sia in Europa che nel Mediterraneo senza rinunciare ai propri quadri di riferimento e ai suoi doveri come nazione.
Il primato della Costituzione repubblicana sul “ce lo di chiede l’Ue” e la difesa degli interessi del sistema paese rispetto dalle politiche aggressive dei nostri storici alleati, non servono a servono a esasperare il dibattito, tutt’altro. Si tratta semmai di scelte strategiche – e quindi politiche – da disegnare senza ipocrisie. In gioco c’è la sopravvivenza della nostra industria pesante e la capacità delle imprese italiane di competere liberamente nel mercato globale contro i colossi emergenti quali India e Cina. Una guerra fatta di numeri le cui vittime si contano in perdite di posti di lavoro. Nulla di più concreto: nulla di più reale.
*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta