Una risposta comune dell’Occidente alla crisi ucraina

In una fase della vita internazionale complessa, in rapida evoluzione  e per più di un motivo inquietante ( basti pensare, sul versante dell’Indo-Pacifico ,alle perduranti minacce della Repubblica Popolare cinese all’indirizzo della democrazia taiwanese) , le tensioni in atto tra Kiev e i suoi partner occidentali, da un lato, e Mosca dall’altro –  con correlati  movimenti / ammassamenti di truppe ai confini – non possono che accrescere il livello delle nostre preoccupazioni.

Anche perché tali tensioni  si collocano  sullo sfondo di un rapporto tra gli Stati Uniti e il Cremlino che resta difficile e improntato a diffidenza reciproca, per una pluralità di motivi. Motivi che vanno, per non citarne che alcuni :  dalla persistenza , in seno alla dirigenza e a larghi settori della popolazione russa, di quel “complesso dell’accerchiamento” che da secoli accompagna e condiziona le scelte di Mosca in politica estera – e che è per certi versi l’equivalente di quel che è per la Turchia Repubblicana, altro orgoglioso e sospettoso ex- impero…- il “complesso di Sèvres” –  alle inconciliabili tesi  , di  Mosca e di Washington,  circa l’esistenza di un “impegno”  americano a non procedere ad allargamenti della NATO verso est ( impegno che il Cremlino asserisce essere stato preso ai più alti livelli all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso: ciò che Washington nega) ;   alle confliggenti posizioni delle due Capitali in relazioni a crisi regionali di peso come quella siriana e quella libica nonché con riferimento, ad esempio, alla delicata questione del “nucleare iraniano”; alla perdurante aspettativa di Putin di vedere nuovamente riconosciuto al suo Paese, da parte   americana  , quello “status” di potenza globale a suo tempo negatogli, con formulazione oggettivamente poco felice..( “la Russia è una potenza regionale”)  , dall’allora Presidente Obama; alle accuse di molti Paesi occidentali al Cremlino, USA in primis,   di interferenze anche per via cibernetica nelle  proprie consultazioni  elettorali e nei processi democratici interni.

Di tale perdurante e  acceso confronto ad ampio spettro le rinnovate tensioni in atto  tra Washington e Mosca relativamente alla “questione ucraina” con richieste incrociate di “garanzie” – per il Cremlino essenziale quella che l’Ucraina mai sarà ammessa a far parte  della NATO, per la Casa Bianca quella che la Federazione Russa in nessuna circostanza  violerà  i confini e la sovranità di quel Paese – rappresentano per così dire il punto di fissazione e, al tempo stesso, un potenziale moltiplicatore , ove la via diplomatica  non riesca in tempi stretti a imporsi come strada maestra e senza subordinate… per uscire dalla crisi.

Sotto tale profilo il colloquio di martedi scorso di ben due ore , seppur in tele-conferenza, tra il Presidente Biden e il suo omologo russo non può che essere registrato positivamente, al di là del suo esito non risolutivo ( ma nessuno pensava lo sarebbe stato). Nel merito, si apprende dal comunicato finale diffuso dalla Casa Bianca, Biden ha tenuto a esprimere “ le profonde preoccupazioni degli Stati Uniti e degli alleati europei per l’escalation delle forze armate che stanno circondando l’Ucraina”.

Ha aggiunto, con un passaggio improntato a condivisibile  fermezza che “ deve essere chiaro gli Stati Uniti e gli alleati europei risponderanno con forti sanzioni e altre misure nel caso  di una ulteriore escalation militare ”. Egli ha poi  voluto   ribadire, come era lecito attendersi e in linea con la posizione degli alleati europei a cominciare dal nostro Paese, il sostegno degli Stati Uniti alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina   ( sostegno – merita ricordare a fronte delle attuali forti pressioni/intimidazioni di Mosca nei confronti di Kiev – che la stessa Federazione Russa non aveva   mancato di assicurare nel dicembre 1994 attraverso la sottoscrizione –   insieme con Stati e Uniti e Regno Unito seguiti poi da Cina e Francia – del cosiddetto “Memorandum di Budapest”   ) .

Accordo con il quale le potenze in parola – in cambio dell’accettazione da parte di Kiev dello smantellamento dell’enorme scorta di armi nucleari che aveva ereditato a seguito della dissoluzione  dell’URSS  e della sua adesione al Trattato di non-proliferazione –  si impegnavano, all’ articolo 1, a “ rispettare  l’indipendenza , la sicurezza e l’integrità territoriale dell’Ucraina entro i suoi attuali confini” ( impegno che da parte ucraina si era ovviamente tenuto  a ricordare a Mosca , pur se purtroppo senza esito, già nel 2014: all’epoca cioè della annessione russa della Crimea..).

La Casa Bianca  ha tenuto tuttavia significativamente a precisare , all’indomani della videoconferenza , che tra le opzioni di sostegno all’Ucraina oggetto di esame non rientra quella militare,  e che l’articolo 5 del Trattato istitutivo dell’Alleanza – la reciproca difesa tra alleati nel caso di un attacco di una Parte terza a uno di essi –  “ non si può applicare all’Ucraina che membro della NATO non è ”.

Osservo per inciso che il Presidente americano – ciò che non è dato secondario- ha peraltro tenuto ieri a rassicurare personalmente l’omologo ucraino Zelensky quanto al fatto che, si legge nel relativo comunicato della Casa Bianca, “ il sostegno statunitense alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina non conoscerà cedimenti “, rinnovando però in pari tempo la sua aspettativa di una soluzione diplomatica “ anche attraverso un rilancio delle trattative tra Kiev e Mosca , attualmente in stallo”.

Tornando al suo colloquio di martedi scorso con Putin  Biden ha poi voluto sottolineare   di essere stato molto chiaro con quest’ultimo, “che ha ricevuto il messaggio”, circa il  fatto che gli Stati Uniti adotterebbero “sanzioni mai viste” nel caso di un’invasione da parte di Mosca dell’Ucraina. Tra queste, secondo indiscrezioni che circolano a Washington riprese da autorevoli organi di stampa, figurerebbe anche l’ulteriore sospensione della realizzazione del gasdotto Nord Stream 2 : prospettiva di rinnovata  messa in “stand-by” del progetto ( progetto  al quale il nuovo Ministro degli Esteri tedesco, la verde Annalena Baerbock , è peraltro da sempre contraria) che avrebbe già ricevuto il tacito avallo del nuovo Esecutivo a Berlino.

Si tratterebbe in sostanza  di scelta che potrebbe essere utilizzata come sanzione, in caso di ingresso di forze russe in Ucraina;  in modo , si osserva, da togliere a Mosca  l’arma del ricatto del gas nei confronti dell’Unione Europea.

Da parte sua, Putin ha ribadito – nel corso della sua conversazione da remoto con Biden – la richiesta all’Ucraina di una piena messa in atto delle intese firmate a Minsk nel 2015 sotto l’egida di Parigi, Berlino e Mosca : a cominciare dalla concessione della prevista “autonomia regionale” alle regioni a maggioranza russofona facendone una precondizione per il ritiro delle forze filo-russe dal Donbass.  E’ richiesta cui, come noto, le componenti nazionaliste ucraine continuano ad opporsi impedendo l’adozione in Parlamento di  misure nel senso indicato nonostante le aperture  suo tempo manifestate dal Presidente Zelensky. Putin ha inoltre, a quanto è dato sapere, rinnovato a Biden  la richiesta di un “ impegno formale” da parte americana  che l’Alleanza Atlantica, dopo l’ingresso nel 2004 delle Repubbliche Baltiche, non si estenderà  ad altre Repubbliche ex-sovietiche a cominciare da Ucraina e Georgia. Domanda per evidenti motivi – anche di natura giuridica, non prevedendo il Trattato di Washinton o altri strumenti internazionali in vigore l’avallo di stati terzi a scelte “sovrane” dell’Alleanza- difficilmente ricevibile. Né – a essere onesti e al di là delle ricorrenti recriminazioni di Mosca –  paiono  al momento sussistere le premesse per raggiungere, sul tema dell’ adesione di Kiev alla NATO, la richiesta  unanimità in seno a un Consiglio Atlantico composto ormai da ben 30 Paesi membri con sensibilità e priorità geo-politiche non  necessariamente convergenti.  Anche perché , merita ricordare, a oggi non esiste alcun invito formale ad Ucraina ( e Georgia), da parte  degli stati membri, ad aderire alla NATO.

E tutto questo senza contare le stringenti condizioni poste, per l’ingresso di nuovi membri, dall’articolo 10 dello stesso  Trattato istitutivo ( Trattato di Washington dell’aprile 1949). A cominciare da quella secondo la  quale lo Stato invitato ad aderire deve essere in grado di “ promuovere i principi alla base del Trattato di Washington “ nonché – condizione  che mi sembra ancor più rilevante, e di difficile realizzazione, nel caso di specie – di “contribuire alla sicurezza dell’area  nord-atlantica”.

Come sopra accennato di tali fattori di complessità ( per non parlare di vera e propria criticità) la dirigenza russa non può non essere consapevole. Mi sento pertanto di concordare con quanti sostengono che l’insistenza di Mosca sui suoi timori di una prossima adesione all’Alleanza Atlantica di Ucraina ( e Georgia) possa essere  in realtà l’espressione, più che di una reale e a mio avviso infondata inquietudine , di una volontà del Cremlino di avvalersi di ogni carta possibile – anche di quelle oggettivamente meno spendibili ….- per rafforzare la propria mano negli  attuali e futuri negoziati a  tutto campo con Washington.

In tale ottica negoziale e di messa in guardia degli Stati Uniti credo vada letto anche il gioco al rialzo di Putin che  , il giorno successivo alla video-conferenza con  l’omologo americano , si è così espresso, dopo aver definito “provocatoria” l’accusa che il suo paese voglia attaccare la vicina Repubblica ucraina : ”….sarebbe criminale stare a osservare passivamente gli sviluppi di una possibile adesione dell’Ucraina alla NATO”. Aggiungendo che entro pochi giorni da parte russa sarebbero stati inviati a Washington “ i dettagli di quello che Mosca chiede” a titolo di garanzia. Allo stesso spirito  di tattica negoziale c’è da augurarsi ( ma è ,appunto, solo un auspicio..) rispondano le gravi affermazioni, di ieri, del vice-Ministro degli Esteri russo Rybakov spintosi a definire le tensioni che si registrano al confine orientale dell’Ucraina , delle quali sarebbe a suo avviso esclusivamente responsabile l’Occidente e la dirigenza di Kiev, “una minaccia all’ordine mondiale, paragonabile a quelle dei momenti più gravi della guerra fredda”.

Altrettanto preoccupanti le parole di Putin sempre ieri – due giorni dopo dunque la sua videoconferenza con Biden che si poteva sperare avrebbe  favorito  quanto meno  un  abbassamento dei toni –  secondo le quali “la situazione del conflitto nel Donbass è molto simile a un genocidio” ; cosi come inquietante suona la pressoché contestuale affermazione del Capo di Stato Maggiore russo secondo cui “ la situazione si sta aggravando e qualsiasi tentativo di Kiev di risolvere la crisi del Donbass con l’uso della forza sarà stroncato”.  Il percorso per un effettivo e durevole riavvicinamento tra Washington e Mosca sul tema Ucraina e per il superamento delle attuali tensioni resta, dunque, decisamente in salita né il colloquio da remoto  tra i due Capi di Stato ( con l’indiretto riconoscimento alla Russia, ciò che Putin notoriamente auspicava, di un ruolo di potenza globale ) appare aver davvero contribuito  almeno per ora – ma i fatti diranno- a raffreddare la crisi.   Anche se da parte americana- si apprende da autorevoli fonti interne all’Amministrazione riprese oggi tra gli altri dal “Guardian” – si intende proseguire nei contatti con la controparte russa per cercare insieme una via di uscita.

Non a caso – a conferma della serietà e delicatezza della questione ( e , penso, anche per non ripetere il grave errore e danno d’immagine rappresentato dal caotico ritiro statunitense dall’Afghanistan senza alcun previo coordinamento con gli alleati europei) – Biden ha tenuto  , subito dopo la conclusione della sua videoconferenza con Putin, a intrattenersi telefonicamente con i “leader” dei principali Paesi alleati europei, tra i quali il Presidente Draghi ( nel cosiddetto “formato    Quint ”: Francia Regno Unito, Germania, Italia più Stati Uniti) e altri contatti nello stesso formato sono previsti per i prossimi giorni .  Per informarli personalmente  dell’esito della sua discussione con Putin e consultarsi su come ulteriormente procedere, a pochi giorni dal Consiglio Affari Esteri UE del 13 dicembre e dal Consiglio Europeo  di tre giorni dopo : appuntamenti nel corso dei quali il tema Ucraina e quello di  eventuali nuove sanzioni nei confronti di Mosca occuperanno  certamente spazio importante.

Su tale sfondo, di per sé quanto mai  delicato, la dura reazione di Mosca ( e Pechino) alla tenuta  del       “  vertice  delle democrazie” convocato da Biden  al momento in corso in modalità virtuale  e che si chiuderà oggi – con Russia e Cina tra i Paesi non invitati – introduce  un ulteriore fattore di tensione . Tensione anticipata e alimentata , nei giorni scorsi, anche  dall’ articolo a firma congiunta degli Ambasciatori a Washington di Russia  e Cina nel quale si accusano gli Stati Uniti di “ dividere il mondo in buoni e cattivi, sulla base di loro criteri”.

Altro appuntamento diplomatico importante , di qui alla prossima settimana, è il confronto anche sul tema Ucraina e dei rapporti con Mosca che il Segretario di Stato Biden –  affiancato dall’influente  Sottosegretario Victoria Nuland – avrà a Liverpool con i suoi omologhi del G7 da oggi  a domenica.        Sarà  a mio avviso anche un  modo per cominciare a dare attuazione da parte americana – sul piano della necessaria previa concertazione con i principali alleati e partner occidentali –   all’appello lanciato da Biden a Putin  al termine della  video-conferenza di due giorni orsono : “ torniamo alla diplomazia e facciamo lavorare i nostri consiglieri”. Appello che, a voler essere ottimisti, lascia in qualche misura la porta aperta alla speranza  di una soluzione per via negoziale pur a fronte di ostacoli  che restano, senza dubbio, assai difficili da superare….

E  proprio per questo motivo la coesione dell’Occidente – in particolare    nel quadro  atlantico ed europeo : i due pilastri della nostra politica estera –  mi sembra più che mai indispensabile, rifuggendo dalla tentazione di fughe in avanti nei rapporti con Mosca  ( magari per il perseguimento di benefici   di breve periodo ad esempio sul terreno economico o energetico )  che qualche Capitale europea  ancora forse coltiva.

Da convinto “atlantista” – consapevole però al tempo stesso del peso geo-politico e della  capacità di condizionamento della Federazione Russa, ancor oggi ineludibile potenza euro-asiatica,  sulla scena internazionale e regionale – sono però in pari tempo dell’avviso  che il convincimento dei Paesi della “vecchia Europa” ( dalla Francia, alla Germania all’Italia)  in merito alla necessità continuare ad adoperarsi per mantenere aperto un qualche  canale di interlocuzione  con Mosca resti, in via di principio, corretto. A condizione  , naturalmente, che i comportamenti russi – con riferimento, ad esempio,  alla vicenda ucraina o a interferenze nei processi elettorali e nel gioco democratico di  paesi terzi – non rendano  tale strada  impraticabile. E i segnali che giungono in queste ore da Mosca , con le pesanti minacce alla sicurezza e integrità territoriale di uno stato sovrano come l’Ucraina , non inducono  all’ottimismo.

E’ dialogo , quello che ho sopra evocato, che andrà condotto con fermezza – in stretto coordinamento con i nostri alleati d’oltre- oceano ( Canada e Stati Uniti) –  e con un chiaro disegno politico di lungo periodo: avendo a mente tra l’altro la necessità di fare il possibile per evitare che il riavvicinamento in corso tra Mosca e Pechino si trasformi in un asse durevole e strutturato – seppur dettato, almeno per la parte russa, da motivi tattici – che si risolverebbe in una perdita secca per l’Occidente nel suo complesso. E per le democrazie nostre alleate anche di area asiatica .

L’importante è in sostanza, a mio avviso, definire un obiettivo per il raggiungimento del quale può  rivelarsi necessario  proseguire un dialogo con la Federazione Russa sui vari teatri di crisi: dal Mediterraneo allargato al futuro dell’Afghanistan e dell’Asia Centrale alla crisi libica a  quella siriana.

Per tornare all’obiettivo di fondo cui ho sopra accennato penso, ad esempio,  al traguardo di rilievo mondiale del raggiungimento della “stabilità strategica”, al rinnovo in tale prospettiva del Trattato START sulla riduzione degli armamenti nucleari strategici ( venuto a scadenza lo scorso febbraio)  e, infine,  al contributo che il Cremlino potrebbe offrire alla realizzazione del condivisibile auspicio statunitense, e della NATO, che il cosiddetto “NEW START” possa coinvolgere anche la Repubblica Popolare cinese :  da tempo impegnata, come noto,  in un impressionante e inquietante  potenziamento del proprio arsenale convenzionale e nucleare .

E’  linea del resto, quella del dialogo  con Mosca in presenza delle appropriate condizioni ,  che il nostro Paese – naturalmente all’interno della  inequivoca scelta atlantica ed europea da noi effettuata da decenni e opportunamente ribadita più di recente,  e con forza, dal Presidente Draghi – da sempre caldeggia al pari di Francia e Germania. Approccio che dovremo continuare a perseguire –  sempre che , ripeto, le iniziative di Mosca sul terreno non la rendano impraticabile – attraverso  una interlocuzione costante col nostro imprescindibile alleato statunitense. Interlocuzione che dovrà  essere  in grado però , più di quanto  non sia sinora avvenuto, di far valere anche il nostro “interesse nazionale” non necessariamente convergente con quello di Parigi e Berlino: due capitali tradizionalmente assai attente a calcolare i ritorni politici ed economico/commerciali di ogni loro azione di politica estera, anche  sul terreno dei contatti col nostro principale alleato .

In sostanza, quello che auspico è un’ Italia membro convinto dell’Alleanza atlantica – e fedele agli obblighi che ne derivano –  non pregiudizialmente chiusa però all’esigenza per l’Occidente di mantenere aperto per quanto possibile il dialogo con Mosca, nel segno di interessi di portata più generale ( come quelli, per non citarne che alcuni,  del controllo e della riduzione delle armi di distruzione di massa e del contenimento delle ambizioni cinesi su scala mondiale) . La duplice via della deterrenza e del dialogo con Mosca  , ma solo in presenza delle necessarie  condizioni, è del resto quella che la stessa NATO persegue , esplicitamente ribadita, da ultimo, nelle conclusioni del vertice alleato di Bruxelles dello scorso 14 giugno . Un’ invasione russa del territorio ucraino, indipendentemente da come Mosca tentasse poi di  giustificarla, si rivelerebbe evidentemente ostacolo non superabile sulla via della prosecuzione del dialogo ;  e tale da innescare da parte americana  la presa in considerazione di altre opzioni, tra le quali quella di un accresciuto sostegno anche sul versante  delle forniture militari agli alleati più a ridosso del confine russo ( oltre che , va da sé, in termini di invio di ulteriore equipaggiamento difensivo all’Ucraina).

*Gabriele Checchia, responsabile per le Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

 

Libia, Afghanistan…fallimento del modello “state building”?

Con questo articolo di Emmanuel Gout sul futuro dell’Europa, continua la collaborazione tra la Fondazione Farefuturo e la Fondazione francese Geopragma . Gout è nel Comitato scientifico della nostra Fondazione e membro del COS in Geopragma. 
L’articolo viene pubblicato in contemporanea dalla due fondazioni. 

Il Ministro degli Affari Esteri Di Maio aveva, ad inizio agosto, appena concluso il suo viaggio diplomatico in Libia per tentare di ridare all’Italia un ruolo da protagonista, quando, molto più ad oriente, precipitava la fine del regime afghano. Poco più di due settimane dopo fuggiva di fatto il presidente Ghani – ultima marionetta americana – una fuga meno discreta del re Luigi XVI…

Poco in comune però tra la rivoluzione francese portatrice di ideali di libertà e di diritti, e il regime talebano che avevamo potuto osservare anni fa, come parentesi Jihadista , tra l’invasione sovietica e lo sbarco americano dell’inizio secolo. Sono tornati, forse diversi – sarà da giudicare sui fatti – e il capo del partito dello stesso ministro degli affari esteri, Conte,  invita al dialogo con questa possibile nuova versione talebana, versione XXI secolo.

In premessa, non c’è dubbio che un “fondamentale” della diplomazia è di mantenere il dialogo, un filo conduttore con tutti, in particolare con i potenziali nemici. In tal senso, Conte ha probabilmente ragione, come lo fanno Cina, Russia, Emirati…che mantengono la loro ambasciata…ma la vigilanza e la coerenza con i propri valori devono essere una priorità nel stabilire o mantenere il dialogo.

Certo che la storia afghana è soprattutto la storia di un fallimento, quello dello “state building”, una versione politically correct della colonizzazione. Si prendono modelli e principi occidentali, politici, culturali, religiosi, economici e si pensa potere applicarli dovunque senza pensare alla realtà delle identità e dei popoli, convinti di un potenziale “tutto si compra”. Già la tappa successiva si mette in ordine di marcia, e mentre la fuga è in atto, fioriscono le minacce di prossime sanzioni, di privare il paese di una banca centrale e così di far valere la nostra forza di convincimento, ormai umiliata, fallita sul terreno. L’analisi dei benefici – illusori – del sistema “sanzione” dovrebbe invece spingerci ad identificare altre vie a supporto delle nostre politiche internazionali.

Peggio, sono centinaia di miliardi andati in fumo – non per tutti – e soprattutto centinaia di vita di soldati europei e americani che oggi si domandano perché sono morti. Domani saranno nuovi flussi migratori in Europa – certo non finiscono negli USA – flussi che interpellano doveri umanitari e capacità del nostro vecchio continente a gestire questa crisi.

In Afghanistan, il sistema “tribale”, di “clan”, di etnie,  sono una componente essenziale del paese, in Libia il sistema tribale è LA componente del paese. In Afghanistan era nato un embrione di stato, fantoccio e corrotto, ma  la progressiva urbanizzazione della società consentiva premesse di cambiamenti culturali, in particolare per le donne.

In Libia non esistono tradizione di uno stato articolato, strutturato e lo stesso Gheddafi sapeva di dover gestire le diverse realtà tribale per meglio presidiare il paese e la “sua rivoluzione”. La Libia è rimasta lacerata dell’intervento voluto dalla presidenza Sarkozy. Oggi in alcun casi le tribu sono diventate mafie locali che “gestiscono” il dramma dei flussi migratori.

In Afghanistan, gli USA, aprendo direttamente negoziati con i taliban – senza alcun rappresentanza del loro neo stato afghano – hanno consegnato di fatto il paese ai talebani (tra l’altro anche le armi), sostenuti dal Pakistan. Ci sarà sicuramente da riflettere sulla gestione americana dell’Afghanistan, dalle torri gemelle ad oggi.

In Libia, oggi sul terreno diplomatico, dopo l’ultimo tentativo fallito del maresciallo Haftar di prendere Tripoli, i protagonisti sono più i Turchi e i Russi, che gli Italiani o i Francesi. Si profilano elezioni programmate dal mondo occidentale per fine anno. Lo stesso Haftar corre dietro alla riconquista di una legittimità internazionale, validando il processo delle elezioni caldeggiate dal suo rivale di Tripoli.

In Afghanistan, si profila l’organizzazione di una possibile resistenza, dal numero due di Ghani al figlio di Massud; c’è da scommettere che il fossoyeur della Libia, Bernard Henri Lévy, si farà, insieme a quest’ultimo,  presto fotografare.

La lezione viene quindi di non credere che la nascita di un stato non radicato, improvvisato,  possa essere una garanzia per l’occidente e per i diritti stessi delle persone.

L’Italia è davanti una sfida quasi epocale della sua diplomazia: paesi che hanno avuto legami stretti con l’Italia, parte della Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia e in fine come già detto la Libia sono in situazione di forte instabilità: conflitti, elezioni, crisi economiche, migratorie… Non bastano le diplomazie dell’ENI o di Leonardo, occorre che l’Italia, paese della cultura degli equilibri possa ritrovare un ruolo da protagonista, lontano da manicheismi distruttori o di soli interessi economici. 

L’Italia, alleato fedele degli USA, ha sempre saputo mantenere un legame forte con la Russia. Dispone quindi di una storia diplomatica in grado di potere pensare ad un suo rinascimento, solo se la quotidianità della politica italiana potrà lasciare spazio ad una nostra visione della diplomazia e i principali protagonisti essere all’altezza del ruolo dell’Italia nel mondo.

*Emmanuel Goût, componente il Comitato scientifico Fondazione Farefuturo e componente del COS in Geopragma

 

GLI INTERESSI DIMENTICATI

Questo saggio di Ernesto Galli della Loggia,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20.” della Fondazione Farefuturo

 

Oggi più che mai è assolutamente necessario definire quale sia il nostro interesse nazionale proprio a partire dagli orientamenti della politica estera. Alcune domande esigono una risposta che non possiamo più rinviare e che devono essere date nella piena consapevolezza della classe dirigente del Paese. Perché il rango internazionale dell’Italia ha subito il tracollo drammatico di cui è testimone così evidente in queste settimane la crisi in Libia? Perché la nostra politica estera è sempre di più la politica estera di un Paese di seconda fila, al cui Presidente del Consiglio negli incontri internazionali viene riservato non a caso proprio un posto del genere? Che cosa è successo che ci sta consegnando sempre di più ad una situazione di sostanziale irrilevanza? Vi sono naturalmente cause generalissime che riguardano tutto il quadro italiano.

In particolare queste tre: a) la crescente dose d’impreparazione e d’incultura della classe politica, perlopiù ignorantissima di storia e di geografia e anche perciò incapace di mettere a fuoco i nostri veri interessi nazionali; b) l’immagine perennemente debole politicamente, e quindi di non grande affidamento, di ogni governo italiano; c) e infine un’opinione pubblica disabituata da sempre a pensare la realtà vera dei rapporti internazionali, quindi oscillante di continuo tra faziosità ideologiche e fanciulleschi utopismi a sfondo buonista. Dopo la fine della Guerra fredda e il conseguente venir meno dell’importanza che la Penisola aveva avuto per mezzo secolo in quanto frontiera dell’Occidente con il blocco sovietico (da cui l’obbligatorio legame di stretta alleanza con gli Stati Uniti), non siamo stati capaci d’immaginarci alcun ruolo, alcuna priorità, alcuna linea d’azione nostri. In particolare non abbiamo capito che il progressivo concentrarsi del potere dell’Unione europea nelle mani di Germania e Francia ci stava inevitabilmente sbarrando la strada verso i due teatri tradizionali della nostra politica estera. Cioè verso i Balcani – dove infatti ben presto l’influenza economico-politica e culturale tedesca si sarebbe dimostrata imbattibile – e verso l’Africa – dove fin dai tempi dell’Eni di Mattei la Francia era impegnata a contenderci lo spazio e a insidiare quello che avevamo già ottenuto (per esempio in Libia).

E però, invece di cercare di contrastare questa deriva diciamo così oggettivamente antitaliana dell’Unione a trazione franco-tedesca (in realtà con Berlino vera padrona e Parigi sua vassalla) – magari cercando di costituire un fronte mediterraneo con Spagna e Grecia eventualmente appoggiato da una Gran Bretagna memore dei suoi trascorsi in quel mare – abbiamo fatto di tutto – in omaggio al nostro cieco super europeismo e anche perché gravati dalle condizioni paralizzanti dei conti pubblici – per restare agganciati comunque al duo Parigi-Berlino. Con il bel risultato che oggi vediamo in Libia e altrove. In realtà, la deriva egemonica franco-tedesca nella Ue avrebbe dovuto indurci, se avessimo voluto conservare un ruolo nelle nostre tradizionali aree d’influenza almeno in Medio Oriente e in Africa (divenuta vieppiù cruciale a causa del fenomeno migratorio), a pensare per la nostra politica estera scelte innovative e coraggiose. Se non altro a pensarle, a metterle allo studio, e semmai a farne trapelare qualcosa nei modi opportuni per vedere se così fosse eventualmente possibile spingere i nostri concorrenti europei a qualche passo indietro. Quali scelte? È evidente che in un quadro internazionale difficile e in cui l’impiego della forza ha guadagnato prepotentemente la ribalta l’Italia da sola ha una stazza troppo leggera per ambire a un ruolo significativo: anche solo per difendere i propri interessi.

Ha bisogno di un partner forte, quanto più possibile forte. Ora, non potendo questo partner essere l’Unione europea per le ragioni dette sopra – perché l’Unione europea vuol dire Francia e Germania, le quali si prefiggono innanzi tutto di tutelare i loro interessi e non i nostri – la scelta si restringe di fatto agli Stati Uniti. È vero che muoversi in questa direzione aprirebbe per l’Italia scenari inediti e in certa misura con più di un’incognita, ma è meglio allora non fare nulla, mi chiedo, accettare la nostra emarginazione e sperare magari in un miracolo che faccia cambiare il corso delle cose? È anche vero che oggi come oggi nel teatro geografico che più c’interessa la posizione degli Stati Uniti appare ondivaga, oscillante tra tentazioni di disimpegno e affondi improvvisi. Sta di fatto però che nella politica americana alcuni punti fermi sono comunque ravvisabili: l’inevitabile rivalità-contrasto strutturale con l’espansionismo russo, un consolidato buon rapporto con il fronte islamico tradizionalista e anti-iraniano, una permanente, forte intesa di fondo con Israele, Paese che rappresenta sì un alleato importante e potente degli Usa e in tutta la grande area mediterranea medio-orientale è anche il solo fidato, ma è un alleato che per ben noti motivi Washington è obbligata a tenere diciamo così in ombra, sempre in qualche modo dietro le quinte. La «presentabilità» e l’accredito di cui l’Italia invece bene o male ancora gode nell’insieme del mondo arabo, la sua posizione geografica di assoluto valore strategico unitamente al suo forte legame con la Santa Sede, e da ultimo la sua qualità di terzo Paese dell’Unione europea e quindi di potenziale importante sponda con Bruxelles, appaiono altrettante premesse utili per consentire di stringere un rapporto significativo con gli Stati Uniti più stretto e concertato di quello attuale.

Un rapporto che molto probabilmente sarebbe in grado di dare alla nostra politica estera quelle possibilità di movimento nonché quell’orientamento di fondo che da tempo le mancano. E con ciò un ruolo finalmente definito e proficuo. Una tale scelta non equivarrebbe però – è facile obiettare – ai soliti «giri di valzer»? non ci esporrebbe cioè all’accusa tante altre volte mossaci di praticare politiche per conto nostro, diverse e in un certo senso alle spalle dei nostri alleati europei? Ora mi pare che su questo punto sarebbe il caso una buona volta di chiarirsi le idee. Sono state forse scelte prese consultando qualcuno quelle (pur gravide di conseguenze) che la Francia viene facendo da anni nella crisi sirio-mediorientale o nell’Africa occidentale? E chi mai ha consultato Berlino quando ad esempio ha deciso di costruire il gasdotto Nord Stream che in pratica rafforza enormemente la dipendenza energetica sua e dell’intera Europa occidentale dalla Russia di Putin? E quale dovrebbe essere la nostra risposta all’espansionismo della Turchia di Erdogan che minaccia i nostri interessi vitali in Libia, nel Mediterraneo Orientale, persino nel Golfo Persico, ad  esempio per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico? Dai fatti recenti, è evidente che una nostra risposta non sia coincidente con la linea franco-tedesca.  La verità è che esiste una cosa che si chiama interesse nazionale, e finché non ci sono patti liberamente sottoscritti che esplicitamente impegnino a certi comportamenti, è inevitabile – in certo senso anche giusto – che ogni Paese si senta libero d’interpretare il suddetto interesse nel modo in cui meglio crede. Come di fatto in realtà accade: perché mai allora l’Italia solamente dovrebbe fare eccezione?

 

*Ernesto Galli della Loggia, storico e accademico italiano

Paolo Quercia: “solo se contiamo nel Mediterraneo, contiamo in Europa”

Docente di Studi Strategici, Paolo Quercia è direttore del Center for Near Aboard Strategic Studies (CeNASS).

D. Quali sono i principali avvenimenti e mutamenti in corso nella area Mediterranea d’interesse dell’Italia?
R. Sono enormi, ed ormai in corso da molti anni. Essi stanno creando un nuovo gorgo geopolitico in cui naufragano le vecchie certezze sull’euromediterraneo, sulla sicurezza regionale, sul ruolo dell’Europa e delle sue vecchie potenze coloniali. Il fattore primo, il motore di questi eventi, è stato l’intervento militare in Iraq, che ha avviato il processo di destrutturazione del Medio Oriente. La crisi economica, le primavere arabe, le sfide poste dall’assertività della Turchia di Erdogan e della Russia di Putin si sono aggiunte negli anni. La mancata reazione dell’Occidente a questi cambiamenti – ed in alcuni casi l’averli addirittura promossi o esasperati – ha gettato la regione nel disordine. Ricordiamo che le regioni geopolitiche non esistono in natura, ma sono delle creazioni storico-strategiche. Sono concetti sempre in movimento, perchè in movimento sono le forze sociali ed economiche che le sottendono. Ed aggi abbiamo il vecchio concetto di Mediterraneo che si sta frantumando. L’Italia è massimamente interessata a che il processo di spezzettamento del Mediterraneo non vada avanti; purtroppo nell’ultimo decennio, ad iniziare dal conflitto libico del 2011, l’Italia ha avuto un ruolo internazionale passivo ed è iniziato il nostro processo di marginalizzazione. Oggi subiamo l’inerzia degli alleati, l’aggressività dei vicini e la malizia di tanti altri attori grandi e piccoli, dalle milizie libiche fino a Malta, passando per alcune ONG che operano in mare con una propria agenda che non tiene conto della nostra sicurezza.

D. Negli ultimi anni l’Italia, che è la porta europea nel Mediterraneo, sembra aver dimenticato il proprio “estero vicino”. L’assenza di protagonismo dell’Italia, in quella che in passato è stata la propria area cuscinetto d’influenza, quanto può costarci nell’immediato futuro?
R. Faccio questo lavoro da venti anni ormai. E sono sufficientemente vecchio per ricordare i fiumi di retorica che sono stati versati dagli addetti ai lavori in Italia sul Mediterraneo come “ponte”, sul soft-power europeo, sull’esportazione della democrazia, sulla modernizzazione dell’Islam, sul potere benefico degli accordi di libero scambio, sulla società civile, sull’immigrazione come fattore di sviluppo, sulla cooperazione, sulle primavere arabe, sul mediterraneo allargato e su tanti altri concetti post-moderni. La dura realtà di oggi è che la post-modernità non è arrivata nel Mediterraneo, ma nel frattempo abbiamo distrutto o fortemente danneggiato quel poco di modernità, anche imperfetta, che era stata creata. Scricchiolano ed implodono gli Stati – che non abbiamo voluto aiutare e sostenere adeguatamente per fare il loro lavoro di sovranità e di costruzione del bene comune – mentre avanzano gli attori non statuali, le forze “private” che si appropriano delle funzioni statuali che collassano. In alcuni casi prendono il volto delle organizzazioni criminali, di milizie armate delle città-stato, delle mai scomparse tribù, del jihadismo, ma anche delle società di sicurezza private. Nuove forme di sovranità post-moderna costruite su antichi paradigmi pre-moderni ma attualizzati alle nuove logiche della globalizzazione. E questi attori non statuali sono le pedine con cui avanzano gli attori esterni, nuove potenze che si muovono con logiche sempre più predatorie, non con logiche di vicinato né di sicurezza regionale. Un gioco alla portata di tutti, anche attori medio o piccoli che vedono nella distruzione degli Stati deboli del Mediterraneo un occasione di far avanzare le loro agende geopolitiche. E’ la ricetta per un caos geopolitico che ci accompagnerà per anni. In questo contesto l’Italia ha dimenticato che tra le sue tante debolezze abbiamo una forza enorme da giocare, quella della nostra posizione geopolitica, baricentrici nel Mediterraneo che dividiamo in quattro parti e che ci vede essere un estero vicino per tutti gli Stati del mediterraneo. Ma se gli Stati implodono, se noi rinunciamo a giocare il nostro ruolo, se altri attori giocano sporco, questa posizione centrale diviene una vulnerabilità e ci troveremo presto ad essere noi stessi travolti dall’instabilità che si sta generando nel Mediterraneo.

D. La cinetica della Turchia come la possiamo interpretare?
R. Difficile tema. In parte una reazione a questa destrutturazione, in parte una causa di essa. Con la Turchia abbiamo molti interessi comuni e siamo portati a convergere su molti dossier. Ma Erdogan, per motivi interni e regionali, sta spingendo molto sulla questione della identità non occidentale della Turchia, sull’islamismo politico, sulla politica estera muscolare. In questo modo ci mette in difficoltà. Per di più, in Libia ed in Somalia sta chiaramente puntando a scalzare la nostra influenza decrescente per nostre colpe. E’ legittimo ma storicamente doloroso. A sua discolpa c’è da dire che Ankara ha subito molti degli errori ed omissioni geopolitiche commesse dall’Occidente nel Medio Oriente e nel Mediterraneo – dalla guerra in Iraq alle primavere arabe – ed ha deciso di passare al contrattacco, ossia di andare da sola, riscoprendo una nazionalismo islamista che mette in crisi la sicurezza regionale nel Mediterraneo e che rende più difficili essere buoni vicini. C’è però da dire che Ankara non ha tutte le colpe. Anche l’effetto dell’Unione Europea sulla Turchia, con tutte le sue contraddizioni, non è stato interamente positivo ed ha paradossalmente favorito l’ascesa nel Paese prima dell’islamismo politico e poi della sua radicalizzazione. Ma in questo gioco nulla è scontato e definitivo. La Turchia negli ultimi dieci anni ha fatto numerose piroette geopolitiche. E anzi tanto può essere influenzato anche dall’Italia se torniamo a fare una politica estera nel Mediterraneo. Penso ad esempio che in Libia, se avessimo una politica più assertiva su questo dossier, potremmo costruire diversi interessi comuni e far emergere spazi di collaborazioni che oggi non appaiono. E a quel punto potremmo usare la nostra influenza su Ankara anche nelle tensioni nel Mediterraneo Orientale. Se perdiamo terreno in Libia, sarà invece Ankara a costruirsi una potere di interferenza sull’Italia e sulla politica interna italiana.

D. La Libia, oltre ad essere il principale porto di partenza di rifugiati e migranti economici, è luogo strategico per i nostri interessi economici ed in particolar modo quelli energetici. Il Governo Conte II aveva parlato di istituire una figura specifica delegata a seguire le vicende nell’area, crede sarebbe stata utile?
R. Parliamo dell’inviato speciale per la Libia. Certo che sarebbe stato utile, direi fondamentale. Ma andava scelto mesi se non anni fa. È stato annunciato ma non nominato. Arrivati a questo punto però, penso che sarebbe meglio un inviato per le questioni strategiche del Mediterraneo – Sahel. Questo perchè sulla Libia c’è bisogno non solo di un maggior coordinamento, ma anche di riscoprire il significato politico e geopolitico del dossier. La Libia non è solo una questione di terrorismo, migranti ed energia. Dentro il dossier libico ci sono le chiavi del nostro ruolo non solo nel Mediterraneo ma nella stessa Europa. Perché solo se contiamo nel Mediterraneo, contiamo in Europa. E per come si stanno mettendo le cose, contiamo nel Mediterraneo se contiamo in Libia. Se giochiamo bene le nostre poche carte in Libia possiamo velocemente recuperare posizioni in Europa, dove ormai contiamo molto, molto poco. E possiamo farci rispettare meglio nei rapporti politici nella regione, che saranno sempre più spigolosi, anche tra alleati. Se invece sbagliamo le mosse in Libia, rischiamo di diventare noi la Libia d’Europa. Io credo che dovremmo smettere di trattare il dossier libico come un dossier del ministro degli interni o di sicurezza. Non perché non ci siano problemi di questa natura, ma perchè nelle questioni internazionali gli approcci funzionalisti nel lungo periodo non pagano. La politica estera o è politica a 360 gradi o non è. Perlomeno questo è il mio approccio nel caso dell’Italia, dove la politica estera dovrebbe essere prioritaria ed è l’elemento fondamentale non solo per la costruzione e tutela dell’interesse nazionale ma anche come elemento caratterizzante l’identità nazionale. Le altre questioni, pure importanti, sono strumenti non obiettivi. Anche per questo ritengo che nel caso delle crisi sistemiche, come quella libica, serva una figura del governo dedicata costantemente a seguire le tante sfaccettature del dossier.

D. C’è ancora tempo affinché l’Italia acquisisca un ruolo primario in territorio libico?
R. Il tempo rimasto è poco, anche perché molte cose andavano fatte subito dopo il conflitto, nel 2012 e nei due, tre anni seguenti. Abbiamo invece galleggiato, e il non aver avuto un ruolo assertivo in quegli anni ha lasciato ampi spazi vuoti che sono stati colmati da altri Paesi, Turchia e Russia in primo luogo. Dobbiamo tornare nei prossimi anni a giocare un ruolo ampio di politica estera nel Nord Africa e nel Mediterraneo. E questo non può che essere fatto a partire dalla Libia, sul cui processo di pacificazione e ricostruzione sono collegati numerosi altri dossier, interni e internazionali. Non è solo una responsabilità storica, visto che Libia l’abbiamo creata noi italiani, ma anche una necessità geopolitica.

De Felice: rischiamo altra invasione dalla Libia

“L’arrivo della bella stagione incoraggia gli scafisti a riprendere il loro ignobile e lucroso traffico di esseri umani. Occorre attivare l’organizzazione nazionale per la crisi in Libia prima che si verifichi qualche altra tragedia in mare”.  Non è la dichiarazione da talk show di un esponente politico in cerca di  consenso, ma la tesi dell’ammiraglio di Divisione Nicola De Felice che fino a tre mesi, era,  dalla base di Augusta, il comandante di  Marisicilia.

L’alto ufficiale, romano di nascita,  vanta un curriculum di tutto rispetto. Studi approfonditi sul diritto marittimo e sulla strategia navale, ha partecipato a numerose missioni all’estero, dal Libano al Kossovo. E’ stato a Parigi, inviato come consulente operativo del programma missilistico Italo-Francese”Fsaf”. Già comandante di importanti unità della Marina Militare come le fregate “Orsa” e “Scirocco” e del cacciatorpediniere “Francesco Mimbelli”, De Felice conosce da vicino il problema dei flussi migratori che incalzano da Sud per essere stato addetto per la Difesa dell’ambasciata italiana a Tunisi e dal 2015 al 2018 il numero uno della Marina in Sicilia.

 

Ammiraglio, con la fine dell’inverno è prevedibile che riprenda con maggiore intensità il traffico  di migranti tra il Nordafrica e le coste siciliane?

“Certamente. E un dato che abbiamo sempre registrato. Il  verificarsi di un rinnovato flusso di migrazione illegale via mare dalla Libia e dalla Tunisia nei prossimi mesi è alquanto probabile. Il tempo buono ed il mare calmo – nonché la peggiorata instabilità della situazione in Libia – invoglieranno i trafficanti di esseri umani a rinnovare le loro intenzioni riavviando – di conseguenza – l’ignobile mercato degli schiavi, in versione XXI secolo”.

 

Con quali strumenti si può contrastare un fenomeno che sembra senza soluzione?

“Gli strumenti già ci sono, occorre la volontà politica di utilizzarli. L’Italia può organizzare una ‘strategia diretta’ di doppio blocco navale, responsabilizzando l’Onu  per una più efficace gestione della crisi umanitaria in Africa e gli Stati di bandiera delle navi che solcano il Mediterraneo per il rispetto di chi deve assicurare asilo politico secondo i dettami della Legge del Mare delle Nazioni Unite e del Trattato Ue di Dublino, art. 13. Questo consente di raggiungere l’obiettivo di stroncare sul nascere un fenomeno che tanti morti ha provocato in mare”.

E’ un problema politico e umanitario allo stesso tempo…

“Le condizioni politiche, sociali, economiche ed umanitarie in quell’area geografica risultano oramai inaccettabili. Non si può più fare finta di nulla.  Siamo di fronte ad una minaccia per gli interessi italiani ed anche internazionali. La Libia, in particolare, non è in grado di garantire in proprio le funzioni istituzionali di un’organizzazione statuale, prima fra tutte quella della sicurezza. Nel mese di maggio le condizioni politiche in Europa potrebbero essere più favorevoli e molti sono gli avvicendamenti che si attendono entro l’anno, a partire dall’Alto Rappresentante degli Affari Esteri e della Sicurezza dell’Ue, del Presidente della Commissione Europea, del semestre di Presidenza del Consiglio Europeo ed anche alla Bce. Inoltre, c’è un generale italiano chairman del Comitato Militare europeo”.

 

Finora l’Europa non sembra aver mostrato grande attenzione per un fenomeno che interessa, in particolare l’Italia e la Sicilia…

“E’ vero. Anche che la crisi in Libia non è avvertita in Europa nello stesso modo che in Italia, ma il protrarsi per un così lungo periodo potrebbe espandersi in altri domini. Non interpretata correttamente, la crisi libica  può causare delle prese di posizione imprevedibili  da parte dei numerosi attori coinvolti. Consideriamo il caos che caratterizza la Libia e i numerosi clan che si sono formati e si muovono dopo il vuoto di potere scaturito dall’intervento voluto dalla Francia nel 2011”.

 

Quali organismi dovrebbero attivarsi per affrontare in primavera l’emergenza immigrazione e gestire la crisi in Nord Africa?

“In ambito nazionale, la responsabilità della gestione della crisi risale all’Organizzazione nazionale per la gestione delle crisi, che definisce la composizione e le attribuzioni degli organi decisionali e del consesso interministeriale di supporto, per l’adozione delle misure di prevenzione, risposta e gestione delle situazione di crisi, ai sensi del DPCM del 5 maggio 2010. L’organizzazione posta in essere determina le misure necessarie da attuare, sia come Nazione che come Stato facente parte di organizzazioni quali l’Onu, la Nato, l’Ue, l’Osce o coalizioni che maturino analoga volontà di cooperare, da creare ad hoc ovvero permanenti. Il Comitato Politico Strategico (CoPS) di tale organizzazione valuta gli elementi di situazione e gli eventuali provvedimenti da sottoporre all’approvazione del Consiglio dei Ministri dando l’indirizzo strategico all’approccio della crisi. Il CoPS interagisce con gli attori esterni, in particolare con il Consiglio Europeo e con il Consiglio Atlantico, con le ambasciate dei Paesi dell’aerea. Se si fosse perseguita l’applicazione di tale organizzazione nel caso della nave “DICIOTTI”, non saremmo giunti al paradosso di vedere indagato un Ministro del governo”. Terenzio, nell’Adelphoe, diceva: “Saggezza non è vedere solo quello che ci sta tra i piedi, ma anche intuire le cose che ci stanno lontane nello spazio e nel tempo”.

*Intervista con Nicola De Felice, di Giampiero Cannella, giornalista

Negri: l’Italia ha perso ogni peso politico internazionale

Raggiungiamo telefonicamente Alberto Negri senior advisor sul Medio Oriente e Nord Africa dell’ISPI per capire come l’Italia abbia reagito nei confronti del vertice di Abu Dhabi tra al-Sarraj e Haftar.

 

L’attivismo della Francia rischia di isolare l’Italia. È di pochi giorni infatti l’annuncio dell’ONU sull’accordo tra al-Sarraj e Haftar sulle elezioni. Lei crede siamo arrivati davvero alla svolta in Libia?

Credo che dobbiamo partire da una considerazione: all’attivismo della Fracia corrisponde quasi sempre una passività dell’Italia basti vedere che nelle settimana precedenti quando il generale Haftar ha preso il controllo dei pozzi dell’ENI nel Sud della Libia, nessuno qui ha fatto neanche una dichiarazione come se fosse un non evento. Chiaramente la passività italiana conduce a delle svolte. L’Incontro di Abu Dhabi che c’è stato tra al-Sarraj e Haftar è il primo e probabilmente ci sarà un altro incontro a Parigi.  In questo incontro negli Emirati, non sono state indicate le date dell’elezioni e questo significa che forse Haftar ha ancora spazi di manovra per guadagnare ulteriore terreno. Bisogna però capire anche quali sono i progetti di Haftar e della Francia. Se il loro progetto è arrivare a un compresso con Serraj questo è possibile. Ma probabilmente non è tanto semplice con le altre fazioni di Tripoli. Non è detto che i francesi in qualche modo vogliano arrivare ad un accordo con Sarraj che escluda le altre fazioni per poi avere campo libero di dare il via libero ad una vera e propria azione militare anche nei confronti della capitale libica.

 

L’Italia e il suo rapporto, a volte privilegiato, con le tribù libiche è sempre stato considerato un nostro vantaggio in questo Paese. Lei pensa che il nostro governo abbia giocato bene le sue carte ?

Da quando è scoppiata la questione libica nel 2011, sento in Italia sempre lo stesso ritornello: siamo il paese più informato sulla Libia. Strano però che quando fu deciso il bombardamento della Libia nel 2011 nessuno ci abbia fatto neppure una telefonata. Talaltro fu presa una decisione fatale perché dopo i bombardamenti franco-inglesi e statunitensi non  ci siamo limitati in qualche modo a contenere i danni ma ci siamo addirittura accodati ai bombardamenti della NATO. Quindi dire che abbiamo dei rapporti privilegiati oggi, sembra anche un po’ paradossale, quasi ironico. Noi eravamo il Paese che aveva il miglior rapporto con Libia. Eravamo il suo principale partner commerciale. Avevamo l’interfaccia con Gheddafi. Ma allo stato attuale dire che abbiamo un rapporto privilegiato con Libia mi sembra abbastanza limitante, forse anche ottimistico. A Tripoli non va dimenticato che non ci siamo solo noi come potenza straniera, e ciascuna di esse fa il suo gioco come ad esempio la Turchia. Senza considerare che l’ascesa del Generale Haftar ci ha in un certo senso, confinati con un governo tripolino che pur essendo riconosciuto dalla comunità internazionale in realtà nelle mani di Saraj è una sorta di ectoplasma.

Dalla nostra ex-Colonia oltre ad arrivare buona parte del nostro fabbisogno energetico, arrivano anche numerosi clandestini. Lei pensa che con le annunciate elezioni la situazione umanitaria possa migliorare?

Diciamoci la verità. Sulle elezioni non c’è ancora nessun accordo sulla data e non sappiamo neanche il modo con cui saranno svolte. Ho l’idea che questa sia una dichiarazione più politica che non effettiva. In realtà il flusso dei migranti si è fermato con la misura della chiusura dei porti. Che ha in qualche modo contribuito a rallentare il fenomeno. Un provvedimento che naturalmente è stato giudicato dalle parti politiche in maniera molto diversa a volte opposta. Forse non è una soluzione perché noi siamo come Italia a capo di quella famosa Operazione “Sophia” che prevede tra l’altro perfino incursioni a terra sulla costa libica per contrastare il traffico dei migranti. Ne ha vista qualcuna lei? Io non ne ho mai vista nessuna! Come sempre quindi, noi usiamo un atteggiamento difensivo, calcolatorio del problema dei migranti ma non attacchiamo l’origine del problema. Questo infatti, non è un problema soltanto italiano ma di tutta l’Europa. Inoltre ritengo che sia inaccettabile avere dei campi profughi in Libia che sono dei veri e propri lager. Questo è un problema che si riproporrà periodicamente per noi e per tutta la comunità internazionale. Anche perché è bene ricordarlo a otto anni dalla caduta di Gheddafi, la Libia non ha ancora riconosciuto la convenzione di Ginevra sui rifugiati. Questo significa che chiunque entra in territorio libico, anche se ha diritto alla protezione umanitaria, è automaticamente considerato un clandestino. Quindi l’Italia e tutta la Comunità Internazionale dovrebbero premere perché la Libia aderisca a questa Convenzione Internazionale.

 

Quali spazi di manovra oggi per il nostro Governo per garantire nono solo la sicurezza energetica ma sopratutto la sicurezza nazionale che è a rischio visto il caos libico?

I nostri governi, non soltanto questo, hanno fatto quello che potevano fare sul fronte dei migranti cercando di tamponare l’effetto di una delle più devastanti ondate migratorie che si siano mai viste nel Mediterraneo dal dopoguerra in poi. Da questo punto di vista i governi italiani stanno lavorando e hanno lavorato. Ma il problema è un altro: L’Italia ha perso ogni peso politico internazionale. Quindi non è più in grado di indirizzare, in qualche modo, quello che accade oggi in Libia. La cosa è stata evidente anche dopo il vertice EU-Lega Araba di Sharm el-Sheikh, Praticamente il generale al-Sīsī (presidente dell’Egitto) è stato investito del ruolo di custode del Sud del Mediterraneo. Con il quale però il nostro Paese è in rotta di collisione per il caso Regeni. Ma anche sulla Libia essendo al-Sīsī, sostenitore di Haftar ed interessato ad avere un’influenza molto estesa in Cirenaica. Quindi noi non affrontiamo solo la Francia nel rebus libico. Oltretutto non affrontiamo quello che è il problema fondamentale. In Libia non c’è solo il problema delle risorse energetiche, il problema è la questione politica. Infatti l’avanzata di Haftar sostenuta dal fronte Russia-Francia-Egitto significa che si punta a quei “fratelli mussulmani” e a quei gruppi islamisti che sono molto attivi in Tripolitania e nella stessa capitale. Perché questi sono risultati perdenti dalle “Primavere Arabe”. Quindi un vasto fronte internazionale vuole eliminarli definitivamente dall’area. Questo è il problema politico. In Libia non c’è soltanto un problema di migranti, di petrolio ma c’è anche questo problema prettamente politico che l’Italia evita di affrontare ed esaminare.

 

L’Italia decidendo di non affrontare i nodi politici all’origine della questione libica rischia nuovamente di ritrovarsi al seguito di accordi fatti da altre potenze. Ricordiamo che la Fondazione Farefuturo ha organizzato un meeting giorno 5 marzo prossimo, di approfondimento dal tema “Francia VS Italia: addio Libia?”. Sarà certamente un’occasione importante per approfondire questi temi complessi ma che riguardano la nostra sicurezza nazionale.

*Intervista con Alberto Negri senior advisor Ispi, di Mario Presutti, collaboratore Charta minuta

 

 

Mercuri: in pericolo gli interessi italiani in Libia

In vista del meeting del 5 marzo prossimo organizzato dalla Fondazione Farefuturo in collaborazione con il settore esteri di Fratelli d’Italia dal titolo “ Italia vs Francia: addio Libia?” abbiamo raggiunto la dottoressa Michela Mercuri esperta di Libia e Medio Oriente, per fare una panoramica della situazione attuale.

 

E’ notizia di questi giorni che Il presidente di Tripoli e l’uomo forte della Cirenaica si sono incontrati ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti sotto l’egida ONU per sottoscrivere un accordo per porre fine ad un periodo di transizione e indire nuove elezioni. Il Vicepresidente del Copisar, il senatore Adolfo Urso, ha parlato “di una grave sconfitta per le ambizioni del governo Conte”. Lei da esperta dell’area crede che questo accordo possa realmente pregiudicare i nostri interessi in Libia?

L’incontro è stato “sponsorizzato” da due dei principali alleati di Khalifa Haftar: Francia ed Emirati Arabi. Parigi, supportando l’avanzata del generale, sta cercando di realizzare le sue ambizioni egemoniche nel Paese. Abu Dhabi, principale finanziatore di Haftar, lo appoggia sia per controbilanciare il peso del Qatar, che sostiene la fratellanza musulmana di Tripoli, sia per assurgere al ruolo di attore regionale dominante. Da questo punto di vista l’incontro tra Serraj e Haftar non cambia gli equilibri interni che si sono delineati negli ultimi giorni, con il generale sempre più influente e oramai padrone di quasi tutto il Paese. Non è dunque questo accordo a pregiudicare il nostro ruolo in Libia, quanto piuttosto gli eventi che lo hanno preceduto e che non siamo stati in grado di limitare, gettando al vento il lavoro svolto durante la conferenza di Palermo. Detta in altri termini: in poco più di tre mesi abbiamo perso Serraj, il nostro alleato sul terreno che non controlla le numerose fazioni che stanno mettendo a ferro e fuoco la capitale, abbiamo perso influenza anche con alcuni attori locali, con cui Haftar sembra aver raggiunto accordi e abbiamo regalato alla Francia la primacy sul dossier Libia. Al momento, dunque, al di là di questo (ipotetico) accordo che cambia la forma ma non la sostanza della situazione interna, credo che gli interessi italiani nel Paese siano in serio pericolo.

 

Abbiamo già assistito ad annunci su possibili elezioni. L’anno scorso al summit di Parigi del 29 maggio il presidente Emmanuel Macron riuscì a strappare una data ai recalcitranti Fayez Sarraj e Khalifa Haftar: elezioni nazionali entro il 10 dicembre 2018. Come tutti sappiamo queste elezioni non ci furono e l’Italia fu in grado di indire un altro summit, questa volta a Palermo il 12 e 13 novembre 2018, dal quale sembrò uscire una reale road map. Sul campo però Haftar ha continuato la sua “concquista”. A questo punto questo accordo le sembra credibile? O è in realtà una semplice formula “tappabuchi” utilizzata dalla diplomazia? 

Partiamo da un presupposto: le elezioni politiche in un contesto frammentato e instabile come quello libico non possono essere considerate la soluzione per il consolidamento di un qualche status quo. Sarebbe necessario invertire la prospettiva: non elezioni per stabilizzare la Libia, ma tentare di stabilizzare la Libia prima di indire elezioni. Per questo il “Piano Marshall” proposto – o quasi imposto- da Macron, che prevedeva elezioni nel dicembre del 2018, era a dir poco discutibile, come sottolineato sia da Ghassan Salamè sia dall’allora ambasciatore italiano in Libia Giuseppe Perrone. La road map di Palermo, molto più realisticamente, prevedeva un processo di pacificazione e un percorso istituzionale propedeutico alla tornata elettorale, ma anche in quel caso senza alcun documento e senza date certe. Durante il vertice di Abu Dhabi si è parlato, di nuovo, di un’intesa per indire le elezioni. E’evidente che Haftar e i suoi alleati in questo momento abbiano tutto l’interesse a spingere per delle elezioni che probabilmente saranno loro favorevoli in termini di risultati. Nonostante ciò, però, anche questa volta c’è solo una dichiarazione estremamente generica, manca una data e una “pianificazione istituzionale”. Propenderei, dunque, per la solita “formula tappabuchi” o, se vogliamo, “un contentino”. Qualunque sia il valore delle dichiarazioni emerse ad Abu Dhabi, ribadisco, però, che senza una preliminare stabilizzazione del quadro interno le elezioni saranno solo il preludio per nuovi scontri.

 

Il Presidente Conte assicura  che “Parigi è informata. I nostri due Paesi hanno continuato a lavorare a tutti i livelli sul dossier libico, dall’intelligence in poi, non c’è divergenza sulla necessità di pervenire quanto prima alla stabilizzazione della Libia”. Al momento con Parigi c’è convergenza di obiettivi e un aggiornamento costante”. In realtà molti osservatori giudicano la scelta del luogo e la tempistica come un “strappo” organizzato da Macron per sottrarci l’influenza nella nostra ex-Colonia. Lei crede che il nostro governo possa contare su una reale collaborazione dell’Eliseo per stabilizzare il Paese?

Il Premier Conte si è trovato nella scomoda posizione di fare buon viso a cattivo gioco, ma credo sia consapevole della nostra posizione di inferiorità e soprattutto che non è possibile collaborare con Parigi, se non stando alle sue regole e dunque in una posizione di “gregari”. Basta guardare ai fatti. Quasi in concomitanza con l’offensiva dell’esercito di Haftar i Mirage dell’aviazione francese hanno colpito incessantemente l’area fra la Libia e il Ciad per sostenere militarmente il generale nella sua avanzata per il controllo del Paese. L’8 novembre Macron ha invitato a Parigi importanti esponenti di spicco di Misurata, la città Stato che oramai è una sorta di terzo potere in Libia, mentre pochi giorni fa alcuni funzionari dei servizi segreti della Dgse avrebbero effettuato una missione a Tripoli per dialogare con Serraj. È evidente che Parigi sta portando avanti una sua strategia per assurgere al ruolo “di stabilizzatore del Paese” senza alcun coordinamento con l’Italia ma soprattutto con la comunità internazionale. In questo contesto, l’incontro di Abu Dhabi è solo l’ennesimo atto della partita dell’Eliseo contro l’Italia. Non vedo, dunque, margini di collaborazione, per lo meno al momento.

 

Anche la Federazione Russa, sembra essere molto attiva a sostegno di Haftar e alcuni osservatori sono preoccupati di questo attivismo. Lei pensa sia possibile un accordo che, sulla base della collaborazione di ENI e Rosneft, possa tutelare i nostri interessi e stabilizzare il Paese o vede in questo un ulteriore pericolo per l’Italia?

Se è vero che la Russia è un altro noto sponsor di Haftar vi sono, però, alcuni elementi che potrebbero farci propendere per una visione più “ottimistica” e che sono in parte legati alle questioni energetiche. Solo per fare alcuni esempi, nel dicembre del 2016 Eni ha concordato il passaggio a Rosneft di una quota del 30% della concessione di Shorouk, nell’offshore dell’Egitto, nella quale si trova il giacimento di Zohr.. Il fondo sovrano qatariota Qatar Investment Authority (Qia) ha acquisito, poco più di un mese dopo, il 19,5% del capitale di Rosneft grazie al sostegno economico di Intesa san Paolo. Esistono legami importanti tra i due “colossi energetici” che potrebbero fungere da base per una maggiore convergenza anche sulla questione libica. Ci sono però altri aspetti che ritengo degni di nota. Mosca sembra voler assurgere al ruolo di attore indispensabile per tentare di dipanare la complessa questione libica, agganciando anche il governo di Tripoli. Il Cremlino ha tutto da guadagnare, in termini di immagine, patrocinando un ravvicinamento tra Tripoli e Haftar, per ristabilizzare un’area che l’occidente ha gettato nel caos intervenendo militarmente nel 2011. Anche per questo Putin si è mostrato molto collaborativo con l’Italia durante il vertice di Palermo inviando il primo ministro Medvedev ma, cosa più importante, “intercedendo” nei confronti di Haftar per perorare la causa del summit e favorire la sua partecipazione. Ci sono poi le questioni economiche. Il primo ottobre scorso, il ministro dell’economia del governo di unità nazionale ha comunicato che Tripoli acquisterà 1 milione di tonnellate di grano dalla Russia per un totale di 700 milioni di dollari. Sul tavolo ci sono, poi, importanti progetti di cooperazione nel settore delle costruzioni ferroviarie e altri affari miliardari.  La Russia, dunque, ha molti interessi da sviluppare nell’Ovest. L’Italia potrebbe creare un asse con Putin sfruttando i suoi contatti sul terreno, specie a Tripoli, dove abbiamo da poco riaperto la nostra ambasciata, facendo perno anche sugli importanti rapporti con gli attori locali maturati dall’Eni nel corso degli anni. Mosca resta un attore su cui puntare.

Sembra quindi, che al governo italiano manchi una realpolitk sul caso Libia e che i francesi ne stiano approffittando per portare avanti sul campo la loro strategia iniziata nel 2011.

*Intervista con Michela Mercuri, opinionista sulla politica di Mediterraneo e Medio Oriente di Mario Presutti, collaboratore Charta minuta

Francia vs Italia: addio Libia?

La Conferenza di Palermo sulla Libia è stata celebrata dal Premier Conte come un grande successo italiano per la stabilizzazione della nostra ex Colonia. Ma è davvero cosi? Dalle ultime notizie si potrebbe dire che la Total avanza mentre l’Italia guarda!

In Libia non è solo in gioco il prestigio internazionale dell’Italia e la tutela degli interessi delle tante società che operano nel territorio libico ma è in gioco la nostra sicurezza nazionale. Lo scontro tra due governi rivali: uno guidato dall’uomo forte della Cirenaica Haftar, sostenuto dalla Francia nonché dalla Russia e dagli Emirati Arabi, l’altro il cosiddetto Governo di Accordo Nazionale, sostenuto dall’ONU e dal governo Italiano, presieduto da Fayez al-Sarraj ha trasformato questa area in un centro di anarchia in prossimità delle coste italiane. Tale situazione dovrebbe suggerire al nostro governo di considerare ogni opzione sul campo.

Ma facciamo un passo indietro. Anzi due. La Libia come entità statuale è una creazione recente essendo sorta dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il Paese sotto la guida del re Idris I al Senussi prese le sembianze di una monarchia costituzionale a “ispirazione federale”, confermando il ruolo delle tribù quali autorità politiche a livello locale. Ma a causa della neutralità assunta dal monarca nel 1967 durante la Guerra dei sei giorni, alla fine si giunse  ad un colpo di Stato militare guidato da Gheddafi, che portò alla proclamazione della Repubblica. A sostegno del nuovo regime intervenne Gamal Nasser e il suo Egitto che mandò i sui funzionari a partecipare attivamente alla riorganizzazione dello stato libico. Ne uscì un’organizzazione fortemente centralizzata, ideologizzata  con l’obbiettivo di rivoluzionare la struttura tribale del potere nel Paese. A tale scelta interna corrispose sul piano internazionale la ricollocazione della Libia sul fronte del panarabismo, che mise fine alla politica filo-occidentale della fase monarchica.

Per consolidare la legittimità del suo potere, Gheddafi rinfocolò l’ostilità anti-italiana, essendo questo un tema di riscossa molto gradito a tutti i gruppi tribali del Paese. A questo seguì un caso unico nei rapporti di un Stato europeo e una sua ex colonia: l’istituzione della “giornata della vendetta”, che sanciva la commemorazione annuale dell’espulsione degli italiani, e la rivendicazione di un nuovo risarcimento per i danni arrecati alla Libia a partire dal 1911. Tra sfide plateali e trattative sottobanco con Roma il Colonnello continuò a consolidare il suo potere interno  e sebbene teorizzò lo smantellamento della società libica tradizionale fu molto attento nel compensare il primato delle tribù della Tripolitania nelle posizioni di governo e negli apparati amministrativi redistribuendo anche una discreta ricchezza con i sussidi statali che elargiva su tutto il territorio. Dopo la fase calda del 1969-1970, fecero seguito le intese stipulate dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti nel 1972, che garantirono il ritorno di alcune società italiane in territorio libico. La funzione “stabilizzante” della Libia di Gheddafi non fu mai rinnegata dal governo italiano neanche durante la crisi diplomatico-militare del 1986. Dopo questo evento, la Libia rimase sostanzialmente isolata e trovò nell’Italia il suo unico interlocutore occidentale. Il primo tentativo volto a chiudere definitivamente il contenzioso ereditato dall’epoca coloniale fu avanzato dal primo governo di Romano Prodi nel 1998 anche se non fu mai ratificata dal parlamento perché non prevedeva alcun cenno ai beni confiscati agli italiani nel 1970. Come si può notare un elemento di continuità della nostra politica estera è sempre stata avere una “relazione privilegiata” con la nostra ex colonia. Nel 2003 con l’incontro del presidente Silvio Berlusconi ci fu la svolta nelle relazioni tra Libia e Italia. Accordi poi confermati dal secondo governo Prodi e ribaditi anche in un incontro del novembre 2007 tra il ministro degli Affari esteri Massimo D’Alema, il suo omologo Abdelrahm Shalgam e il rais.  All’intensificarsi delle relazioni politiche seguirono anche l’intensificarsi dei rapporti commerciali ponendo l’italiana ENI in una posizione di forza difficilmente attaccabile nel settore del gas libico.

Nel 2011, poi, abbiamo assistito inermi alle cosiddette “Primavere Araba” che di primavera alla fine non ebbero quasi niente. Quella libica in particolare si caratterizzò subito con connotati distinti. Infatti i clan opposti ai Gheddafi sostenuti dalla Francia in particolar modo ma anche da UK, Turchia, Qatar, Emirati Arabi e  alla fine anche dalla Clinton cavalcarono l’effetto snowballing delle proteste indotte e si riunirono in un Consiglio Nazionale di Transizione. Gheddafi alla fine fu ucciso il 20 ottobre catturato solo grazie ai bombardamenti francesi. La Francia infatti, si appellò al “principio di ingerenza umanitaria” formulato nel 1999 per la missione in Kosovo, per bombardare il Paese. Inoltre gli Stati Uniti con la presidenza Obama spostarono l’attenzione dal Medio-Oriente al quadrante Asia-Pacifico con il “pivot to Asia” e lasciarono di fatto campo libero ai loro alleati nelle zone non considerate più strategiche. L’Italia nel periodo compreso tra febbraio e l’aprile 2011 ebbe un atteggiamento orientato alla prudenza. Questo tentennamento italiano si confrontò e scontrò con l’atteggiamento spregiudicato della Francia e dell’UK  che portò alla fine una guerra civile a 300Km da Lampedusa. L’ONU varò a quel punto la missione “Usmil” nata con l’obbiettivo di stabilizzare il paese e traghettarlo verso un rilancio economico. Nel frattempo il nuovo inquilino della Casa Bianca, Trump, non offrì alcuno appoggio concreto, se non di facciata, al presidente al-Sarraj che di fatto ha avuto difficoltà persino a controllare la capitale Tripoli. La posizione del governo italiano è quella di continuare a sostenere il Governo di Accordo Nazionale presieduto da al-Serraj così come confermato dal Premier Conte in questi giorni, a Sharm el-Sheik a margine del primo summit UE-Lega Araba. Sul campo però, la situazione ci sta sfuggendo di mano.

E’ notizia del 12 febbraio che l’Esercito Nazionale Libico di cui Haftar è comandante, ha annunciato di aver preso il controllo del più importante giacimento petrolifero libico. Dopo aver occupato Sheba, e il campo petrolifero di Sharara, ha occupato anche l’area gestita da ENI “El Feel” senza bisogno di combattere. Haftar sostenuto dalla Russia e dalla Francia sta cercando con il suo esercito di riportare l’ordine nella regione ed ergersi a unificatore della Nuova Libia in vista delle prossime elezioni. Il  momento è molto delicato perché per la prima volta sembra esserci una road map molto concreta: Conferenza Nazionale, referendum e emendamenti costituzionali e infine elezioni. Tutto questo entro l’anno. Le mosse del Generale Haftar rischiano di bloccare tutto questo processo e  rischiano anche di estromettere l’ENI  a favore della francese TOTAL.  Il governo italiano quindi, sembra essere preso in contropiede dalle mosse dell’uomo forte della Cirenaica anche se il nuovo ambasciatore, Giuseppe Buccino, si è messo subito al lavoro incontrando nei giorni precedenti l’inviato dell’ONU, Salamé, e il generale Haftar per colloqui sugli sviluppi della situazione nella regione meridionale del Fezzen. Il problema però è che il Governo di Accordo Nazionale è privo di un reale e incisivo supporto da parte del governo italiano e quindi Haftar continua l’avanzata senza una adeguata resistenza. Si può dire quindi che gli obbiettivi strategici della Francia, che come abbiamo visto nel 2011 iniziò a sottrarre all’Italia l’influenza sulla Libia, sembrano andare avanti senza nessun ostacolo concreto.  Sarebbe opportuno a questo punto che il governo italiano agisca  immediatamente prima che Haftar sfrutti l’imminente Conferenza Nazionale della Libia per mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto. E’ necessario quindi, rendersi conto che l’Italia ha bisogno di garantirsi gli approvvigionamenti energetici (prendiamo dalla Libia 1/5 del fabbisogno petrolifero e 1/3 di quello di gas), ed è necessario mantenere la Libia unita evitando una “balcanizzazione”. L’Italia si trova ad un bivio: o concede un reale supporto, anche strategico/militare,  ad al-Serraj e alle locali tribù Tebu (che sono in ottimi rapporti con l’Italia e sono le uniche che si sono realmente opposte ad Haftar) oppure sarà il caso di cambiare strategia.

Per fare questo il nostro Paese deve necessariamente dialogare con gli attori internazionali che sostengono Haftar e dunque principalmente con la Francia e la Russia. Se con Macròn è attualmente molto complesso immaginare un dialogo non solo per l’atteggiamento che l’Eliseo ha avuto nei nostri confronti fin dal 2011 ma anche visto gli ultimi scontri diplomatici a causa del caso “sui gilet gialli”. Con Putin invece,  potrebbero esserci maggiori possibilità di collaborazione. Le preoccupazioni di una parte degli osservatori, che vedono il coinvolgimento di Putin paragonabile a quello in Siria e del tutto pretestuoso perché Mosca in questo caso, da grande esclusa del dopo Gheddafi, intende solo far valere i propri interessi nell’ambito di una mediazione piuttosto che nel proseguimento di una escalation militare. Si potrebbero sfruttare i buoni e consolidati rapporti con la Russia in funzione anti francese per cercare un obbiettivo comune strategico sulla Libia, e riportare Haftar a più miti consigli. Altro elemento importante è l’alleanza tra i due giganti degli idrocarburi, ENI e Rosneft, che potrebbe esserci molto utile. Per anni ENI con il suo cane a sei zampe, è stata una sorta di monopolista dell’estrazione libica e la Russia avrebbe tutto l’interesse a non andare contro un partner fondamentale per il gas nel Mediterraneo, visto anche l’intreccio egiziano.

Alla luce di questo l’Italia potrebbe sfruttare il suo capitale di fiducia con alcuni attori tripolini  per mediare un accordo intra-libico con Mosca.  In questo modo si potrebbe spingere, grazie all’asse con Putin, la comunità internazionale a stabilizzare il Paese, cosa per noi strategica non solo a tutela dei nostri interessi economici ma anche per impedire un asse fra Mosca e Parigi che per noi sarebbe un colpo durissimo.

Almeno ché l’Italia non intenda inviare soldati a sostegno di al-Saraj è indispensabile trovare subito un accordo diplomatico con la Russia. Se il governo invece continuerà a lusingarsi delle vuote parole di Trump sulla Libia e a non capire il neo-isolazionismo statunitense, allora possiamo dire addio al gas e al petrolio libico e aspettarci con l’arrivo dell’estate nuove ondate migratorie dalla Libia. Infatti sullo sfondo di questo rebus di interessi geopolitici resta la questione migratoria per noi cruciale, sia in termini di ordine pubblico che in termini umanitari, e sulla quale dobbiamo agire con prospettiva e coraggio.

In conclusione, non possiamo sottrarci alle responsabilità che derivano dalla Libia né tanto meno ignorare che in quel Paese c’è in ballo una questione di sicurezza nazionale quindi tutte le opzioni dovrebbero essere prese in considerazione. Il rischio altrimenti, è subire come nel 2011, scelte di altri paesi che evidentemente sono a noi ostili. Ogni riferimento alla Francia è puramente voluto.

*Mario Presutti, collaboratore Charta minuta

 

Lactalis: Francia attacca nel silenzio dei media

Quello che più colpisce in questa vicenda è il silenzio dei mass media nazionali e sopratutto delle istituzioni. Forse non è una notizia che una azienda riorganizzi la propria struttura, sposti la sede da un luogo ad un altro, oppure decida di indirizzare l’attività finanziaria in maniera diversa. In effetti sono tutte operazioni legittime.
Ma questo silenzio non comunque giustificabile quando si tratta del più grande marchio italiano del settore del latte.
Mi riferisco a Parmalat, a Galbani e alle altre aziende del settore di proprietà di Lactalis. Forse a monte di ciò c’è il rimorso degli errori fatti dall’imprenditore italiana e dai governi di allora quando, dopo il disastro di Tanzi, non ci fu la volontà o la possibilità di aggregare interessi nazionali intorno al grande gruppo di Collecchio.
Che dire un modo di non risvegliare le coscienze di chi, imprenditoria e politica, non colsero una grande occasione. Possiamo dire che quello che è stato è stato, ma oggi la situazione sta nuovamente cambiando.

E’ notizia, infatti, di qualche giorno fa che l’azienda francese Lactalis, che anni addietro ha rilevato Parmalat, starebbe per varare una profonda riorganizzazione dell’impresa parmense, che secondo molti sarebbe un vero e proprio smantellamento. Il tutto articolato in tre fasi: abbandonare la quotazione in Borsa, spostare il quartier generale dell’azienda da Collecchio a Laval in Francia e, infine, prevedere la nascita di 9 divisioni gestite da manager francesi. Se fosse così, è chiaro che di Parmalat in Italia resterebbe ben poco con pesantissime ripercussioni per la nostra economia nazionale. A guardare con sospetto a questo progetto sono in particolare gli allevatori nostrani, che temono alla fine di essere tagliati fuori dal grosso indotto che Parmalat genera con le sue produzioni. Un timore rafforzato dalle dichiarazioni dei giorni scorsi del presidente Marcon, il quale ha promesso agli allevatori francesi che il latte sarà pagato tenendo conto dei costi di produzione. Da qui il rischio che Lactalis sia obbligata a comprare più latte francese, con un evidente danno per i nostri produttori.

A fronte di tutto questo, un assordante silenzio. Vero non ci sono grandi margini di manovra di fronte a queste decisioni, ma il dubbio che dietro ci possano essere altre motivazioni sorge spontaneo. Sopratutto dovuto al momento in cui questa decisione arriva, in un momento in cui i rapporti fra Roma e Parigi sono sicuramente tesi.
A questo poi si aggiungono altre cose che possono far supporre un attacco commerciale della Francia nei confronti della nostra nazione.
L’attacco alla Libia di Gheddafi, non per liberare il paese dal tiranno, ma molto più probabilmente per stroncare gli interessi commerciali dell’Italia con la Libia.
La nazionalizzazione dei cantieri navali di Marsiglia, dove la nostra Finmeccanica ha grandi interessi. La conquista commerciale di grandi aziende italiane con la complicità di governi a guida PD che con la scusa della razionalizzazione hanno svenduto ai francesi gioielli industriali importanti per il paese.
Insomma la Francia ci attacca e noi non ci stiamo difendendo.

 

*Patrizio La Pietra, Senatore, Fratelli d’Italia

Attenti alla nuova guerra fredda economica e ai rapporti con la Cina

“È in atto una nuova guerra fredda che si combatte sulla supremazia tecnologica ed economica”. Il senatore Adolfo Urso (Fratelli d’Italia) ne è convinto, eppure il vicepresidente del Copasir (il comitato di controllo sull’intelligence), 61 anni e una lunga esperienza politica, lamenta una scarsa consapevolezza del mondo politico. Riguardo al governo, inoltre, sottolinea un’inversione di rotta sugli investimenti esteri oltre a porsi qualche domanda sui rapporti con la Cina.

Senatore Urso, garantire la sicurezza di uno Stato non significa solo prevenire atti di terrorismo. C’è un nemico nascosto di cui il cittadino difficilmente si accorge. Com’è la situazione sul fronte cibernetico?
In Italia e nel mondo c’è sempre più attenzione su aspetti che in passato non erano così significativi. Anche nella scorsa legislatura il Copasir si occupò di cyber: oggi sono possibili attività di conoscenza che in passato erano impossibili, parliamo sia di penetrazione per acquisire brevetti che di guerra economico-finanziaria. C’è una competizione globale per acquisire patrimoni di conoscenza che prima era meno importante o impossibile.

Più di un mese fa presentò una proposta di legge per istituire una commissione d’inchiesta su quei Paesi e aziende straniere interessati al patrimonio tecnologico e finanziario italiano. Ne parlò anche in un’intervista a Formiche.net.  Ha avuto riscontri dal mondo politico?
L’emergenza dovrebbe essere evidente a tutti i politici perché fu espressa nello scorso febbraio nella Relazione annuale dei servizi segreti al Parlamento: tra i rischi-Paese è evidenziata innanzitutto l’azione predatoria di entità statuali per appropriarsi del nostro patrimonio scientifico, di conoscenza, tecnologico dei principali asset industriali e finanziari. Da quella relazione ho preso le mosse per proporre una commissione bicamerale di inchiesta per valutare quello che sta accadendo e soprattutto per capire se gli strumenti legislativi nazionali, europei e anche internazionali siano adeguati. Eppure non c’è piena consapevolezza del fenomeno.

Su questi temi che segnali arrivano dal governo?
Il governo italiano si è astenuto al Coreper, il comitato dei rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri dell’Unione europea, nella votazione riguardo al Regolamento sullo screening degli investimenti esteri in Europa. In quella sede l’astensione equivale al voto contrario. Il precedente governo, invece, aveva sollecitato quel regolamento con Germania e Francia proprio per monitorare meglio l’attività di imprese straniere interessate a investimenti in Europa nei settori strategici: l’obiettivo è consentire alle nazioni di tutelarsi meglio. L’Italia già lo fa abbastanza, ma i paesi europei più piccoli non hanno gli strumenti adeguati e così quello che noi respingiamo dalla porta potrebbe rientrare dalla finestra. Alla fine, comunque, il regolamento è stato approvato e consentirà ai singoli paesi di avere informazioni più tempestive in modo da assumere, nella propria sovranità, misure a protezione delle proprie imprese e tecnologie. Rilevo, però, che l’Italia da una posizione nettamente favorevole è passata a un’astensione che significa voto contrario.

La Commissione europea ha appena lanciato un allarme sull’attività di disinformazione che sarebbe attuata dalla Russia con un investimento di 1,1 miliardi di euro l’anno e 1.000 persone impegnate. Pur nella delicatezza del suo incarico, può commentare questa denuncia ufficiale?
È noto a tutti che la tecnologia consente campagne di questo tipo da parte di diversi attori, anche statuali, e sappiamo che in passato ci sono state attività di spionaggio perfino tra alleati. Una campagna di ascolto e informazione o disinformazione è uno degli strumenti più diffusi. Occorre rendere edotti i cittadini, avviare campagne di controllo e di protezione. Per esempio pensiamo alla fatturazione elettronica che sarà obbligatoria dal 1° gennaio: ho letto pareri di esperti secondo cui il sistema previsto consentirebbe potenzialmente di carpire informazioni di cittadini e imprese. Basti pensare al recente attacco hacker agli indirizzi Pec delle Poste. Non è stata fatta un’adeguata attività di prevenzione nella costruzione di questo sistema. Il tema costituisce il fronte dell’oggi e del futuro: i dati sensibili di cittadini, imprese, Stati.

È una guerra con altre armi.
Il tema meno evidente e più importante è quello della supremazia economica. Siamo di fronte a una nuova guerra fredda che si combatte sulla supremazia tecnologica ed economica, come evidenzia lo scontro pubblico tra Usa e Cina che in realtà è tra Occidente e Oriente. Di questo non c’è sufficiente consapevolezza da noi nonostante che l’Italia sia terreno di scontro perché è terreno di incontro: pensiamo alla via della seta marittima o in genere al Mediterraneo. L’Italia rischia dunque di diventare preda di questa nuova guerra fredda.

Può fare un esempio concreto?
La vicenda della Permasteelisa riportata dal Sole 24 ore. È un’azienda italiana con sede a Vittorio Veneto, da qualche anno di proprietà giapponese, che è leader mondiale nella realizzazione di pannelli di vetro e acciaio. La Commissione per gli investimenti esteri negli Stati Uniti (Cfius) ha bloccato il passaggio ai cinesi della Grandland con cui erano in trattative da tempo. L’autorità americana ha competenza giuridica perché l’azienda italiana ha uno stabilimento negli Usa. La motivazione ufficiosa è il timore che i cinesi inseriscano dei microchip nei pannelli avviando uno spionaggio su scala globale.

Su questa vicenda il 20 novembre lei presentò un’interrogazione ai ministri Luigi Di Maio ed Enzo Moavero Milanesi sottolineando tra l’altro che la posizione italiana sul regolamento europeo sugli screening degli investimenti era cambiata radicalmente all’indomani del viaggio in Cina del ministro per lo Sviluppo economico.
Sono temi davvero poco compresi, ma è la punta dell’iceberg perché parliamo di vetri, non di armi o di tecnologia militare. Nel complesso, non ho capito qual è l’atteggiamento del governo tra l’astensione sullo screening e i rapporti con la Cina.
Parliamo di temi più “mediatici”. La sconfitta militare dell’Isis, anche se certo non definitiva, fa pensare che il rischio in Occidente venga più dai lupi solitari che da cellule organizzate: è corretto?
È normale che ci sia preoccupazione verso il lupo solitario, anche perché la sconfitta dell’Isis porta con sé il rischio dei foreign fighters che sono tornati o del loro potenziale rientro in Europa. Le ultime azioni e le attività di prevenzione dimostrano che si è attenti soprattutto ai singoli.

Com’è il livello dei rapporti internazionali sull’antiterrorismo?
Si sta operando al meglio, lo dimostrano i fatti su prevenzione e contrasto, anche sul fronte del finanziamento al terrorismo. L’attività dei nostri sistemi di sicurezza è da 10 e lode.

C’è una maggiore speranza per un accordo in Libia?
C’è finalmente più consapevolezza che occorre agire in fretta e con determinazione affinché si vada verso un accordo che porti alla stabilizzazione. Anche la conferenza di Palermo, per quanto deludenti siano stati i risultati rispetto alle aspettative, ha aperto un “file” che va sviluppato.

Non si parla più di deradicalizzazione, della necessità di organizzare meglio la società italiana per arrivare a cogliere segnali importanti. C’è la possibilità che il Parlamento riprenda il tema della legge Manciulli-Dambruoso della scorsa legislatura?
Oggi più che mai bisogna contrastare il veicolo culturale del terrorismo. Sicuramente sì, dobbiamo discutere in Parlamento e certo non al Copasir. La minaccia terroristica da fenomeno localizzato in uno stato è diventata generale, il contrasto alla radicalizzazione dev’essere molto più efficace e presente, saper cogliere i segnali è il modo migliore per debellarla.

*Adolfo Urso, senatore FdI

 

Intervista di Formiche.net al Senatore Adolfo Urso