È una grande occasione anche per la Chiesa

La profonda divisione sociale che la sinistra ed i 5 Stelle hanno portato nel Paese dopo anni di politiche sbagliate, dalla gestione dell’immigrazione al reddito di cittadinanza ed alla difesa dei diritti delle cosiddette minoranze Lgbtq+, ha contribuito ad accelerare anche il processo della secolarizzazione, ossia il progressivo allontanamento dai valori cristiani racchiusi nei tre pilastri storici, Fede, Religione e Chiesa.

Autoproclamatasi paladina dei deboli, la sinistra ha puntato per anni su una propaganda (con l’indiscusso appoggio dell’Unione Europea) concepita male e comunicata ancor peggio. Anziché unire, tale indottrinamento esasperato ha prodotto nella società tradizionale (termine descrittivo, non me ne vogliate) quasi un rifiuto dei concetti sacrosanti come inclusione, accoglienza ed equità (almeno davanti a Dio) intrinsechi nella Chiesa, ma sottratti dalla sinistra. E tutto ciò ha ancor più allontanato il popolo dalla religione, non riconoscendo più il clero né come guida né come difensore naturale dei deboli e degli emarginati.

Nel corso degli ultimi anni i governi succedutisi sono riusciti a mettere in atto un’accoglienza senza regole dei flussi immigratori che ha aumentato, anziché ridurre, la tratta degli esseri umani facendo lucrare trafficanti di uomini ed organizzazioni criminali. Il reddito di cittadinanza anziché aiutare i bisognosi ha creato per intere fasce sociali cosiddette deboli un disinteresse verso il mondo del lavoro. Le comunità LGBTQ+ si sono viste ancor più emarginate perché il messaggio che la sinistra faceva passare non era di uguaglianza, come dovrebbe essere, bensì di diversità e conseguente necessità di imposizione forzata di regole. E mentre il pontefice parlava, come è giusto che sia, di fratellanza, di lotta alle disuguaglianze e della povertà, principi profondamente radicati nella religione cristiana, nei cittadini cresceva quel pericoloso sentimento di rifiuto verso tali valori in quanto non corrispondenti alla realtà che li contornava.

Poi è arrivata Giorgia Meloni qui il suo” Dio, Patria, Famiglia”. È stata ferocemente criticata, aggredita, denigrata dagli intellettuali radical-chic nella loro solita confusione teorico-ideologica. A detta loro, quella della leader dei Fratelli d’Italia era un’affermazione che sapeva di dittatura. Secondo altri, Giorgia non poteva nemmeno parlare di famiglia in quanto ha una figlia senza essersi mia sposata, oltre ad una lunga serie di altre affermazioni contrastanti persino con le stesse teorie della sinistra. Ma lo scopo era colpire l’avversario, non essere obbiettivi.

Nonostante tutto, il messaggio di Giorgia è stato fortissimo e profondo. E’ arrivato nel cuore delle persone. Ha resuscitato la voglia di ritrovare quell’identità perduta per colpa del mondo globalizzato, recuperare i valori, i riferimenti, l’appartenenza. E ritrovare Dio, inteso come fede, come speranza nel futuro e, perché no, come religione. Perché parlare di Dio non è dittatura. È libertà, è spiritualità. Io sono nato e cresciuto in una dittatura. Quella comunista. La sì che era vietato parlarne di Dio, entrare nelle chiese, pregare.

Quel dichiararsi cristiana da parte di Giorgia Meloni, rappresenta anche una grande occasione della Chiesa per recuperare terreno, riavvicinarsi alla gente, rallentare la secolarizzazione e ritornare ad essere quel punto di riferimento spirituale smarrito nel caos propagandistico della sinistra degli ultimi anni. Lo sa bene il segretario di Stato Pontificio Parolin che pochi giorni fa ha già teso la mano al nuovo governo.

Per molti sarà difficile digerire un riavvicinamento tra lo Stato e la Santa Sede, in cui scorgeranno l’incubo del rafforzamento di quei valori cristiani storicamente radicati nella destra e odiati dalla sinistra. Solo gli intellettualmente onesti comprenderanno, invece, l’importanza storica di tale sintonia che potrà aiutare a trascrivere i valori cristiani in un contesto contemporaneo, equo e bilanciato, preservandoli per le future generazioni anziché condannarli all’oblio.

Durante quello che mi auspico possa essere un governo che durerà a lungo, la Meloni avrà davanti a sé innumerevoli sfide. Dalla gestione della crisi energetica alla rimessa in moto dell’economia fino alla valorizzazione del ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo. A ciò, però, va aggiunto anche un altro delicato compito, poco consono ai leader politici di oggi. Quello di far riavvicinare il proprio popolo a quei valori smarriti in anni di propaganda di sinistra, alla fede ed alle origini cristiane, sempre nello spirito della tolleranza, dell’accoglienza e della fratellanza. Sarà dura ma sono sicuro che Giorgia Meloni ce la farà.

*Kiril K. Maritchkov, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

L’Occidente e il valore delle libertà

La morte a 84 anni di Madeleine Albright giunge in un momento particolarmente complesso per l’Occidente. L’aggressione russa all’Ucraina riporta alla mente ferite mai del tutto rimarginate che hanno messo a dura prova l’apparato valoriale su cui si fondano le nostre democrazie liberali. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, quando l’appartenenza ad uno dei due blocchi si configurava come scelta obbligata e spesso oltremodo sofferta, perché indipendente dalla volontà dei popoli, la libertà di autodeterminarsi degli stati nazionali è stato il sentimento distintivo che più ha contribuito allo sgretolamento dell’Unione Sovietica. Questo concetto, apparentemente messo da parte, riemerge con tutte le sue contraddizioni e pone davanti ad un bivio l’Occidente, che mai nella sua storia è stato percorso da dubbi tali da rischiare di pregiudicarne il futuro.

Oggi sappiamo con certezza quanto la negazione delle legittime aspirazioni dell’uomo, come individuo e collettività, sia la più soffocante tra le forme di autoritarismo. Madeleine Albright, nei suoi anni da Segretario di Stato, ha dato prova di saper riconoscere quando la cappa opprimente dei regimi in crisi si trasforma nel pretesto per perpetrare i peggiori crimini, rivendicando il diritto all’impunità in nome di una particolare declinazione della legge del più forte. Oggi la Russia, vestiti i panni consunti della desueta eredità imperiale, mostra al mondo di non voler accettare il fallimento del proprio modello politico, erede mancato di uno altrettanto rovinoso e rivendica il diritto di decidere in nome e per conto di una nazione sovrana che non considera tale, un tempo persino sua “vassalla”, nella più totale indifferenza dei cambiamenti intercorsi dal crollo dell’Unione sovietica e delle aspirazioni del popolo ucraino.

Intendiamoci, spesso siamo noi occidentali a dare per scontata la natura stessa delle nostre istituzioni, delle quali mostriamo sempre più spesso di non apprezzarne la vetusta “normalità”, a cui però non abbiamo faticato ad abituarci. Non deve sfuggirci che quello stesso modello che viene criticato ingiustamente conserva una fortissima carica di attrattività, tanto più per chi non ha mai potuto beneficiare delle condizioni favorevoli in cui l’Europa è stata imbevuta, con la forza, dopo anni di conflitti.  Per qualcuno quindi, sarà sempre più facile ritenere che quella ucraina sia una pia illusione e che in ogni caso la collocazione geografica prevale su quella valoriale, dimenticando che quest’ultima, a differenza della prima, può pur cambiare. Anche per Croazia e Bosnia prima e Kosovo poi, si è dibattuto in Europa su una bizzarra forma di tacita accettazione delle aggressioni militari a danni di popolazioni inermi, un tempo facenti parte della ex Iugoslavia. Madeleine Albright ha dimostrato ai teorici della legge del più forte, che questa deve essere applicata sino in fondo, e non ipocritamente confinata alle dimensioni regionali di un’aggressione militare. Un concetto oggi più che mai valido, quando strani spiriti pacifisti manifestano la contrarietà all’invio di armi all’Ucraina, un modo vigliacco e pilatesco per consegnarla ipocritamente al proprio destino di vittima.

Oggi la Slovenia e la Croazia in poco più di vent’anni sono transitati a livelli di benessere mai sperimentati durante il lungo regime titino. Entrambe sono pienamente integrate nell’Unione Europea sia da un punto di vista valoriale che economico, se l’Occidente non avesse sostenuto a livello politico la volontà di affrancarsi da un regime ingombrante sulla via del tramonto, oggi non avremmo potuto dire lo stesso. In alcuni casi però, come quello del Kosovo, solo il supporto militare ha potuto scongiurare conseguenze simili a quelle della Bosnia, dove una sterile no fly zone non impedì all’ allora Repubblica Serba, capitanata da un personaggio tristemente noto come Radovan Karadzic, di portare avanti una lunga operazione di pulizia etnica. Senza l’intervento NATO in Kosovo avremmo potuto commemorare i morti della violenza prevaricatrice, a cui solo i bombardamenti hanno posto fine.

Sino a che punto è lecito rispondere con una forza soverchiante ad una che si pone in modo altrettanto schiacciante nei confronti della sua vittima designata ? Ben inteso, non è questo il caso dell’Ucraina, che ha dimostrato di resistere contro una potenza nucleare ben più di quanto noi Occidentali avessimo pronosticato, non solo grazie alle informazioni dei satelliti spia e alle armi leggere che giustamente affluiscono alle forze di Kiev. Il popolo ucraino appare ben più motivato e convinto delle proprie scelte e l’aggressione Russa, che è invece immotivata tanto quanto lo sono i suoi giovani coscritti sbandati, è destinata al fallimento anche sul piano tattico e non più solo su quello strategico.

L’occidente, che appare assalito dai sensi di colpa di un passato non troppo lontano, si percepisce come una civiltà in declino, ignorando però che sono gli imperi sulla via del tramonto che hanno bisogno di ricorrere alla violenza per riaffermare la propria primazia valoriale sui propri vicini. Se il modello del capitalismo democratico di ispirazione americana fosse un punto di arrivo di cui vergognarsi, non si comprende come mai la sua attrattività dopo un secolo sia intonsa e il complesso valoriale sotteso alla libertà economica e civile continui a rappresentare il faro per quei paesi che rivendicano il diritto di salire sul treno del progresso e delle libertà, come li intendiamo non senza le naturali contraddizioni negli Stati Uniti e in Europa.

È chiaro che queste aspirazioni utopistiche si scontrano con difficoltà spesso insormontabili: il Kosovo ancora oggi vive una condizione ibrida di tensione etnica e politica, molti paesi dell’ex Patto di Varsavia sono democrazie tutt’altro che mature come nel caso dell’Ungheria e della Polonia, Romania e Bulgaria d’altro canto rimangono ben lontane dagli standard di vita occidentali. La distanza che spesso intercorre tra le legittime aspirazioni e la capacità di realizzare gli obiettivi spesso è incolmabile, soprattutto quando si abbraccia un sistema politico ed economico radicalmente diverso da quello passato.

Calare un modello “di importazione” in una realtà con la propria identità nazionale senza rispettarne le singolarità, sconta diversi ostacoli che l’Occidente ha sperimentano rimediando concenti delusioni in Medio Oriente o creando inutili divisioni non rimarginate come in Nord Africa, dove semmai ci fossero vincitori non sono Europei. Le difficoltà però, se razionalmente ponderate, non devono essere addotte come ragioni che ostano ai grandi cambiamenti che ciclicamente la storia ripropone, tantopiù quando non sono indotte dall’esterno.

Se la volontà di autodeterminarsi nasce dalla rinata consapevolezza di un popolo sul suo collocamento storico, è giusto sostenerla sino in fondo. Non basta quindi neutralizzare le forze attaccanti come in Kosovo o fornire armi e supporto logistico come nell’Ucraina. Chi crede realmente nei valori dell’Occidente deve essere disposto a difenderli e promuoverli anche cessate le ostilità, con la stessa convinzione che porta i sostenitori del “capitalismo autoritario” alla Cinese a decantarne l’indubbio pregio di aver sottratto alla povertà un miliardo di contadini, ignorando però che questo ha avuto come prezzo il loro assoggettamento ad un regime leviatanico, a cui piace essere temuto più per la sua presunta efficienza che per le numerose crepe che l’Occidente in crisi di autostima finge di non vedere.

La competizione tra regimi che ha contraddistinto mezzo secolo di storia è destinata a tornare in auge, se gli Stati Uniti e l’Europa non riacquisteranno la necessaria consapevolezza sul proprio passato non sarà possibile difendere ad armi pari le vere istituzioni repubblicane, in patria e all’estero. Il Kosovo e l’Ucraina a suo modo rappresentano due esempi di affrancamento etnico e politico che il tempo ha potuto in parte attutire e che derivano da una nuova consapevolezza delle proprie capacità di autodeterminarsi. Sostenere un simile processo contro l’inevitabile reazione di paesi in declino permetterà di riacquisire fiducia anche nel nostro avvenire con una rinnovata unità di intenti.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

È IN GIOCO LA SICUREZZA NAZIONALE

Finalmente l’Europa si è svegliata e si tutela dagli investimenti cinesi e persino la Germania denuncia che la via della Seta è lo strumento del dominio globale di Pechino. Quando lo denunciammo noi, nel meeting internazionale della Fondazione Farefuturo, organizzato alla Camera proprio il giorno dell’arrivo trionfale a Roma del Presidente cinese, gli altri plaudivano agli accordi Italia-Cina sottoscritti dal governo Conte Lega-Cinque Stelle. Ecco il testo dell’intervento che in quella occasione fu svolto da Giulio Terzi di Sant’Agata

 

I) Le indicazioni fornite dalla “Relazione sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza – 2018”

Una seria valutazione della minaccia che grava sulla nostra sovranità nazionale nel caso specifico del processo di avvicinamento della Cina al quale la visita di Stato del Presidente Xi Jinping intende imprimere un decisivo impulso anche attraverso il Memorandum of Understanding e l’adesione italiana alla “Via della Seta”, deve muovere, io credo, da una attenta rilettura della Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza recentemente resa pubblica dai nostri servizi di intelligence. In particolare, vorrei rilevare come alcune osservazioni alle pagine 61, 62, 63, nonché alcuni riferimenti nel documento allegato, riguardino specificamente la Cina, tracciando un identikit senza nome ma con una chiarissima profilatura complessiva, che fornisce la proporzione esatta del problema che abbiamo dinanzi. Il Rapporto della nostra Intelligence dice quanto segue: – Le iniziative attuate dal Governo nel corso dell’anno, intese ad attrarre in Italia partner economici con una prospettiva di lungo periodo, sono valse a ribadire la valenza strategica, per il Sistema Paese, dell’afflusso di capitali stranieri in grado di concorrere allo sviluppo delle imprese italiane, sia finanziando programmi di ricerca e innovazione volti a mantenere adeguati livelli di competitività, sia favorendo l’accesso a know-how industriale e a nuovi mercati di sbocco. – L’attività intelligence ha risposto all’esigenza di cogliere i rischi legati all’ingresso nel tessuto economico nazionale di soggetti, capitali e prodotti stranieri, quello di “decifrare” eventuali proiezioni estere in contrasto con l’interesse nazionale, perché rispondenti a finalità extraeconomiche o in quanto volte a depredare le imprese-target, specie di tecnologie o marchi.

– L’azione informativa è stata diretta in primo luogo al comparto della difesa e dell’aerospazio, con particolare attenzione alla tutela del know-how e dell’integrità delle filiere.

– Pari attenzione è stata rivolta agli altri settori strategici cui fanno capo le attività di base indispensabili per garantire i servizi vitali e il benessere della collettività: telecomunicazioni e relative reti, terrestri e mobili, anche con l’obiettivo di preservare l’integrità e la sovranità dei dati; trasporti, specie per quel che attiene alle dinamiche proprietarie dei vettori e degli operatori infrastrutturali; energia, con riferimento sia alle implicazioni sul piano industriale delle operazioni di merger and acquisition, sia alla salvaguardia delle infrastrutture.

– Ha incluso nel perimetro di tutela: dalle infrastrutture di immagazzinamento e gestione dati a quelle finanziarie, dall’intelligenza artificiale alla robotica, dai semiconduttori alla sicurezza in rete in analogia con i meccanismi di tutela adottati da alcuni importanti partner occidentali.

– La ricerca informativa si è in particolare appuntata sui soggetti espressione di un controllo pubblico, diretto o indiretto, che per loro stessa natura rappresentano non di rado i vettori per perseguire finalità extraeconomiche. Nella medesima ottica di protezione, si è guardato ad operatori caratterizzati da opacità sia nella governance sia nelle strategie di investimento.

– Quanto alle modalità di azione degli attori ostili o controindicati, il monitoraggio intelligence ha rilevato iniziative tese a esfiltrare tecnologia e know-how (anche attraverso l’acquisizione di singoli rami d’azienda) o a conquistare nicchie di mercato pregiate, facendo emergere, in qualche caso, la tendenza alla strutturazione di manovre complesse finalizzate a guadagnare posizioni di influenza in segmenti del sistema economicofinanziario nazionale, ovvero a conquistare peso monopolistico in specifici settori di attività.

– Evidenze informative hanno fatto stato, poi, dei tentativi di operatori esteri di alterare il quadro competitivo attraverso il sistematico storno di capitale umano ad alta specializzazione in forza a imprese nazionali, la studiata marginalizzazione del management italiano (anche nell’ambito di partnership e joint venture) e il ricorso ad azioni di influenza esercitate attraverso consulenti e manager “fidelizzati”.

– L’attività a protezione del know-how tecnologico e innovativo delle imprese italiane ne ha registrato la persistente esposizione ad iniziative di spionaggio industriale, specie con modalità cyber agevolate dalla digitalizzazione pressoché integrale dei processi produttivi e più pervasive nei confronti delle piccole e medie imprese, come si dirà nell’allegato Documento di Sicurezza Nazionale.

– La filiera marittimo-logistica ed i suoi nodi critici – rappresentati da porti, aree retroportuali e punti intermodali che connettono economie locali e sistemi produttivi – in un’ottica intesa a rilevare vulnerabilità di sicurezza in grado di condizionarne funzionamento e sviluppo.

– Dal monitoraggio delle Tecniche, Tattiche e Procedure (TTP) utilizzate è emerso un accresciuto livello di complessità e sofisticatezza delle azioni, l’uso combinato di strumenti offensivi sviluppati ad hoc con quelli presenti nei sistemi target impiegati in modo ostile, nonché il “riuso” di oggetti malevoli (malware) allo scopo di ricondurne la matrice ad altri attori (cd. operazioni false flag).

– In tale contesto, lo sforzo più significativo posto in essere dal Comparto ha riguardato il contrasto di campagne di spionaggio digitale, gran parte delle quali verosimilmente riconducibili a gruppi ostili strutturati, contigui ad apparati governativi o che da questi ultimi hanno ricevuto linee di indirizzo strategico e supporto finanziario.

– Quanto alle finalità perseguite, gli attacchi hanno mirato, da un lato, a sottrarre informazioni relative ai principali dossier di sicurezza internazionale, e, dall’altro, a danneggiare i sistemi informatici di operatori, anche nazionali, attivi nello Oil&Gas, nonché quelli di esponenti del mondo accademico italiano, nell’ambito di una campagna globale mirante a profilare settori d’eccellenza di università e centri di ricerca.

– Sul fronte delle infrastrutture di attacco, i gruppi responsabili di azioni di cyber-espionage hanno proseguito nell’impiego di servizi IT commerciali (domini web, servizi di hosting, etc.), forniti da provider localizzati in diverse regioni geografiche, anche per rendere difficoltoso il processo di individuazione. Qui, l’attaccante ha colpito le infrastrutture tecnologiche degli obiettivi finali tramite la violazione preventiva di quelle dei fornitori, abusando sovente anche delle relazioni di fiducia connesse al rapporto contrattuale.

II) Le indicazioni contenute nel Rapporto IISS- Merics

La Dr.ssa Helena Legarda ha approfondito come nella sua ricerca di diventare una “superpotenza nella scienza e nella tecnologia” e nell’obiettivo di acquisire la capacità militare dominante, la Cina abbia intrapreso da tempo, e ulteriormente accelerato negli ultimi anni, un percorso per conseguire una completa integrazione civile-militare, e sviluppare tecnologie a doppio impiego “Dual – use”. Per l’Europa, l’incentivo ad essere competitiva e a tenere il passo con i rapidissimi progressi tecnologici della Cina, risiede nella capacità di proteggere i propri settori innovativi. Si tratta di esigenze imperative che riguardano allo stesso tempo l’ambito militare, commerciale ed economico.

 

III)      “Belt and Road Initiative” (BRI) e “Via della Seta

I risultati conseguiti dal Presidente Xi Jinping sul piano interno nel consolidare il sistema di potere guidato dal Partito Comunista Cinese. Un potere sempre più accentrato nella figura di un Presidente ormai svincolato da termini di mandato e, apparentemente, da qualsiasi apprezzabile forma di opposizione interna.  La trasformazione “neo imperiale” della potenza cinese avvenuta in questo decennio muta radicalmente i presupposti sui quali si erano basate le politiche Americane ed Europee dall’inizio della particolarmente sensibili nell’affermare lo Stato di Diritto e i principi della democrazia liberale nel mondo – come scritto nei Trattati europei – ripetere come verità rivelata che BRI e Via della Seta costituiscono “il Piano Marshall” di questo primo secolo del millennio, riprendendo pedissequamente gli argomenti e la propaganda di Pechino. Ciò dovrebbe preoccupare quanti dovrebbero essere sensibili alla contrapposizione valoriale, in termini di libertà e di dignità della persona, tra l’impostazione sostenuta alla fine del secondo conflitto mondiale, dal Segretario di Stato Marshall, e il “pensiero unico” affermato da Xi Jinping e dalla sua classe dirigente. Questa tendenza non è purtroppo nuova nel mondo politico e imprenditoriale italiano. C’è troppo spesso l’ansia di dimostrare di “essere i primi” nel cogliere facili opportunità in mercati estremamente complessi, e in Paesi dove regole del mercato, rispetto degli investitori stranieri, parità di trattamento e reciprocità passano sempre dopo, molto dopo, le priorità di un interesse nazionale interpretato in chiave marcatamente ideologica, nazionalista e persino “militarista”. Non dovrebbe l’Italia, con la necessità assolutamente vitale di tutelare il “Made in Italy” nelle imprese strategiche oltre che nei beni di consumo e nei servizi, dimostrarsi ben più sensibile al proprio interesse nazionale e alla esigenza di una oggettiva valutazione della “questione Cinese”? Si tratta di una narrativa sulla quale influiscono enormi interessi economici, pubblici e privati, di sicurezza, di influenza, di visione geopolitica, di tutela delle libertà, di privacy e sicurezza nella “rete”, di attaccamento a valori fondamentali – Stato di Diritto, libertà politiche e diritti umani – che ogni Europeo dovrebbe sentirsi ad ogni costo impegnato ad affermare. Ciò dovrebbe in particolare valere ai “tavoli” delle trattative multilaterali dove Governi e Istituzioni Europee decidono regole, comportamenti e composizioni di interessi nazionali su questioni di vitale importanza per i loro popoli. Molti commentatori occidentali hanno rilevato la notevole opacità, probabilmente voluta, della strategia di Pechino. Se “road” sembra riferirsi essenzialmente a vie d’acqua, e “cintura” a infrastrutture tra Cina e Europa che colleghino ferrovie, strade, telecomunicazioni – importantissima nel progetto cinese la dimensione Cyber – sono certamente molti i Paesi e Governi asiatici, mediorientali e africani, e non pochi i politici e gli imprenditori europei, ansiosi di accogliere finanziamenti cinesi “senza condizioni”: negoziati con Presidenza Clinton. Lo sviluppo prodigioso dell’economia cinese, i successi registrati – sia pure con le carte spesso truccate della sottrazione illegale dei dati ad aziende e ricercatori occidentali – in campo scientifico e tecnologico (intelligenza artificiale, quantum computing, spazio e armi di ultimissima generazione) è stata indotta e sostenuta da una globalizzazione con vantaggi pesantemente unidirezionali per la Cina.  Ciononostante sembra prevalere nel dibattito che si sta sviluppando nel nostro Paese sui grandi temi della BRI, della Via della Seta e in generale sul rapporto tra Europa e Cina una tendenza all’accoglienza entusiastica e incondizionata alle tesi di Pechino che magnificano i grandi vantaggi dei finanziamenti cinesi, la visione di una globalizzazione guidata Pechino, e persino la “superiorità” del modello sociale, politico e dell’ideologia cinese rispetto allo Stato di Diritto occidentale. Abbiamo persino ascoltato in alcuni dibattiti dello scorso agosto personalità politiche di grande esperienza di Governo e nelle Istituzioni Europee, che dovrebbero quindi essere metodi e interlocutori spesso assai disinvolti sotto il profilo della lotta alla corruzione, delle garanzie di sicurezza sociale e dei diritti dei lavoratori. Le considerazioni di natura economica, pur problematiche sotto diversi profili, assumono colori ancor più inquietanti ove si consideri invece che il disegno di Pechino fa parte di un progetto geopolitico per il “nuovo ordine mondiale” nel quale la Cina intenda assumere il ruolo di Superpotenza dominante. Un progetto che viene da lontano. Ma che assume ora una sua marcata assertività in dichiarazioni, documenti, iniziative diplomatiche e militari, oltre che commerciali e finanziarie, della Cina di Xi Jinping. Questa ultima ipotesi diventa ancor più realistica a causa dell’opacità del gigantesco impegno finanziario ostentato da Pechino in una quantità di occasioni. Qual é il “blueprint” della BRI e della Via della Seta, ci si chiede in Occidente e in molti Paesi interessati dell’Asia, dell’Africa e de Medio Oriente? Quali sono i motivi dei continui ampliamenti che Pechino propone ai suoi orizzonti, dall’iniziale contesto Eurasiatico e Africano (“Vie della Seta” terrestri e marittime) a quelli della “Via della Seta nel Pacifico”, della “Via della Seta sul ghiaccio” nell’Artico, e ora della “Via della Seta digitale” attraverso lo spazio cyber?   Le preoccupazioni aumentano quando si constata che la BRI si lega a un ormai definito “culto della personalità” di Xi. La stampa cinese ha ribattezzato l’iniziativa “cammino di Xi Jinping”. Si sollecitano apprezzamenti dei Governi stranieri, così da farli rimbalzare nella martellante propaganda interna. Un’analisi delle strategie e intenzioni di Pechino deve anzitutto riguardare i rapporti con i Paesi vicini. Gran parte dell’Asia deve ora riconoscere che il gigante cinese non può essere visto soltanto come un partner commerciale. Con la ricchezza e il successo si è diffusa la capacità di attrazione del modello cinese. Ciononostante sono numerose le riserve e non di rado le nette opposizioni a seguire i “desiderata” di Pechino: perfino da parte di Paesi  come Myanmar, considerati per decenni sottomessi politicamente e economicamente alla Cina. I valori aggregati di cui si continua a parlare per BRI e “Vie della Seta” sono certo imponenti ma non ancora tali da comportare un “dominio finanziario globale”.  Le preoccupazioni più immediate riguardano i condizionamenti che il Governo e gli enti statali cinesi sono perfettamente in grado di esercitare in Europa, e in Italia in particolare, ogni volta che Pechino intenda acquisire aziende di valore strategico per i nostri Paesi e per il “Made in Italy”: sempre a condizioni estremamente svantaggiose per il “sistema Italia”, sia sotto il profilo economico, sia per quanto riguarda la tutela dei dati informatici, la protezione delle tecnologie, e l’assenza di qualsiasi condizione di reciprocità. Se il quadro descrive quanto avvenuto nell’ultimo decennio in Occidente, senza che le più importanti economie del mondo si ponessero seriamente l’obiettivo di instaurare con Pechino regole del gioco eque, rispettose della legalità e degli accordi sottoscritti, se interessi pubblici e privati legati a convenienze del giorno per giorno hanno fatto sì che si sia lasciata a Pechino la mano completamente libera nello sfruttare i “mercati aperti” che lobbies e gruppi di potere in America e in Europa mettevano ben volentieri a loro disposizione, ben possiamo immaginare quanto sia avvenuto, stia avvenendo e ancora avverrà nelle economie più deboli del pianeta, governate in molti casi da autocrati o presidenti a vita, sorretti da ristrettissime “elites” locali, operanti di fatto al di fuori di qualsiasi controllo popolare, di trasparente informazione, e di legalità sanzionata. Nei mesi scorsi un think tank particolarmente autorevole nelle questioni dello Sviluppo Sostenibile – il “Centre for Global Development”- ha pubblicato una ricerca su otto paesi che sono ad alto rischio di “collasso finanziario” a causa dell’indebitamento contratto da quei Governi nella “Belt and Road Initiative” (BRI). Si tratta di Laos, Kyrgyzstan, Maldive, Montenegro, Gibuti, Tajikistan, Mongolia, Pakistan. In meno di due anni, la percentuale debito/ PIL è passata per effetto dei progetti cinesi BRI, rispettivamente (a cominciare dal Laos) da circa 50% al 70%; dal 23% al 74%; dal 39% al 75%; dal 10% al 42%; dall’80% al 95%; dal 55% all’80%; dal 40% al 58%; dal 12% al 48%. In Montenegro l’autostrada finanziata da Pechino configura il solito “patto leonino”, dato che l’ammontare del debito corrisponde a un quarto dell’intero PIL del paese; la ferrovia in Laos, alla metà del PIL annuo. Si è stimato che nel solo quadriennio 2000-2014 il Governo Cinese abbia finanziato progetti pari a 354 Mld $, tre quarti dei quali a tassi di mercato. Non solo Trump ha definito “predatorie” tali iniziative, ma la stessa Christine Lagarde – Direttore esecutivo del FMI- ha sottolineato la loro problematicità, auspicando che “la BRI viaggi esclusivamente dove è realmente necessario”. L’UE sta insistendo con Pechino affinché al centro della BRI e delle Vie della Seta siano poste regole precise su trasparenza, standard nel mercato del lavoro, sostenibilità del debito, appalti, ambiente. Nei primi mesi del 2018 tutti gli Ambasciatori UE a Pechino, eccettuato l’ungherese, hanno firmato un rapporto per Bruxelles nel quale hanno definito la BRI una sfida alle regole del libero mercato e una manna per i sussidi statali. Per parte sua Atene, che ha ceduto alla compagnia COSCO nel 2016 il porto del Pireo per 312 Mil $, ha bloccato l’UE nel prendere posizione sulla militarizzazione cinese degli isolotti nelle zone del Pacifico reclamate anche da Filippine, Vietnam, e oggetto della controversia con gli USA e tutti gli altri Stati della regione. L’UE ha appena lanciato un’iniziativa per l’esame degli investimenti cinesi. è atteso un Rapporto con precisa valutazione del rischio e dei diversi elementi da considerare per gli investimenti esteri in Europa, in particolare dalla Cina.

Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già Ministro degli Affari Esteri, al meeting “Il dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” Roma, 20 marzo 2019

25 Aprile, con un Paese in ginocchio

25 Aprile, è qui la festa. Di tutti e di nessuno. Giorno di commemorazione e di bandiere, di vincitori e di vinti, memoria di una stagione che cantó la libertà e il sangue. 76 anni dopo, oggi è il 25 Aprile di tutti, di tutti quelli che hanno voglia di liberazione, desiderio di libertà.

Sotto il cielo plumbeo dell’Occidente al tramonto, piegato dal male venuto dalla Cina, che cosa rimane di quel 25 Aprile?

Un Paese in ginocchio, la disperazione dei disoccupati, cinque milioni oltre la soglia della povertà, le interminabili file alle mense della carità, una gioventù smarrita e delusa.

E i morti, tanti morti più di ogni altro paese d’Europa. Trecento in media al giorno, tragedia infinita. Il male che rallenta ma non scompare.

Alle spalle la polvere delle occasioni perdute, i banchi a rotelle accatastati nel nulla, le mascherine del mistero, quelle che non sai se sono buone o col fetore di truffa, il piano antipandemico farlocco e le mille contraddizioni degli incapaci.

25 Aprile di lutto nelle acque del Mediterraneo. Ancora strage di migranti, di disperati che inseguono il miraggio di un’Italia che non c’è più, illusi anche da chi parla di ius soli, parole incomprensibili a chi sfida il destino delle onde, ma che a quegli occhi smarriti appaiono come il luccichio dell’oro. Invece è solo promessa falsa. Porti aperti, illusioni alimentate, scafisti padroni, e la strage continua.

25 Aprile di chiusure e coprifuoco.

Nel luogo dove solo le piazze dello spaccio non temono restrizioni neppure allo scoccare delle ore 22.

Oggi guardi intorno e vedi saracinesche abbassate, luci spente, desolazione.

Vaccinazioni a rilento, fallimento evidente dell’Unione Europea e dei ritardi del governo dei Giuseppi. E se oggi le vaccinazioni finalmente tendono a ingranare va dato atto a un militare, a un valente generale degli Alpini che potrebbe anche essere domani la risorsa di un Paese che risorge.

25 Aprile, accendi la tv e senti parlare ancora di quel comico che recita la parte del matto. Immagini sia un malato da ricoverare. Invece è fondatore, anima e motore di un movimento che esprime il gruppo più forte in parlamento. Anche se il parlamento non riflette più la volontà del popolo. Ma votare non si può, è pericoloso più della pandemia.

Italia triste e amara. Eppure… Eppure “una mattina mi sono svegliato…

con la voglia di cantare la libertà, la liberazione dalle ipocrisie dei politicamente corretti, dalle falsità dei traditori della volontà popolare, dal veleno immesso nel corpo della Nazione.

Una mattina mi son svegliato…

ancora un poco e la liberazione verrà.

 

*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

Hong Kong è la nuova Berlino Ovest

Come Berlino negli anni ’70, Hong Kong è diventata frontiera che divide il mondo libero dall’autoritarismo cinese. Non possiamo abbandonarla. Non possiamo abbandonare Joshua Wong e gli altri ragazzi finiti in carcere per la libertà. Il commento di Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia e vicepresidente del Copasir

Hong Kong oggi è come Berlino negli anni Sessanta. È li che si scommette il destino del mondo, il nostro futuro di libertà. Perché Hong Kong come Berlino è la cartina di tornasole di quello che sarà il nostro destino se la Cina dovesse dispiegare la sua supremazia nel mondo.
Se la Cina dovesse conculcare, come purtroppo sta facendo, le libertà e le prerogative di Hong Kong, sancite da accordi internazionali, vuol dire che conculcherà anche le nostre ove avesse la possibilità di farlo. Ed oggi sappiamo che tende a farlo come dimostrano le vicende di questi anni, di questi mesi. E come dimostra in modo drammatico l’evoluzione della situazione a Hong Kong: la repressione delle manifestazioni, l’espulsione di parlamentari dissidenti, cioè democratici, dalla Assemblea legislativa, la nuova e liberticida legge sulla sicurezza nazionale.
La postura della Cina con Xi Jinping è profondamente cambiata, rispetto al recente passato – quando tutti noi la consideravano come un grande promettente mercato e sicuramente un partner importante e millenario con cui crescere insieme; è profondamente cambiata, come dimostra la corsa al riarmo, la realizzazione di portaerei e sommergibili, le rivendicazioni territoriali e marittime, le ripetute minacce a Taipei, la costruzione di basi militari lungo la via della Seta, come a Gibuti, la politica del debito e degli appalti lungo il corridoio commerciale, gli investimenti in tecnologia dual use e nella costruzione della supremazia del 5G e della intelligenza artificiale, persino la politica sanitaria e le menzogne sulla pandemia, così come la corsa all’accaparramento delle materie prime e la penetrazione negli organismi internazionali.

Tutto sembra rispondere alla volontà di dominio consacrata anche in importanti modifiche costituzionali e legislative, di fatto espansioniste e imperialiste. Per questo, anche per questo, la “battaglia” di Joshua Wong e degli altri giovanissimi combattenti per la libertà, è eroica e va da noi sostenuta sino in fondo in ogni consesso istituzionale e in ogni ambito. Joshua combatte da quando aveva solo 13 anni, è stato arrestato più volte in sette anni, ha svegliato la sua generazione con la protesta degli “ombrelli”, sembrava che potesse “scuotere” anche la Cina, sino a quando il Covid non ha consentito di estendere il controllo totalitario in ogni ambito sociale. Ora dovrà scontare almeno 13 mesi di carcere ma la sua mite immensa forza d’animo non è stata piegata dalla minaccia delle sbarre.

Noi dobbiamo fargli capire che il mondo gli è vicino anche dentro quelle mura, perché lui lotta anche per noi e soprattutto per i nostri figli. Solo se il mondo prende coscienza della posta in palio sarà davvero possibile tutelare le libertà dei giovani di Hong Kong oggi, così da tutelare le nostre libertà domani.

Dobbiamo presentare mozioni in ogni assemblea a partire da quelle parlamentari, senza distinzione di parte, per impegnare il governo a porre la questione di Hong Kong e la libertà dei giovani arrestati e le prerogative sancite dai trattati internazionali come tema prioritario nei nostri rapporti diplomatici, nel contempo  dobbiamo scuotere l’opinione pubblica perché solo la manifesta solidarietà del mondo nei confronti dei giovani incarcerati può convincere le autorità cinesi che la politica imperialista non produce frutti perché allarma tutti.

L’unica cosa di cui Pechino ha davvero timore è l’opinione pubblica mondiale, proprio perché in Cina non esiste e non può esistere una opinione pubblica.

Noi siamo convinti che con la Cina, con il popolo e con il governo cinese si possa e si debba operare senza pregiudizi di alcun tipo ma anche senza alcuna sudditanza. Per questo speriamo che il mondo alzi oggi la voce a sostegno di Joshua Wong e degli  altri combattenti per la libertà  perché domani potrebbe essere troppo tardi. Hong Kong è come Berlino, siamo tutti cittadini di Hong Kong!

*Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo

Fonte Formiche.net