IL GRANDE MEDIO ORIENTE È ANCHE ITALIA

Questo saggio dell’ambasciatore Gabriele Checchia,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

A chi gli chiedeva valutazioni sulle crisi ai suoi tempi in atto nello scacchiere mediterraneo, il compianto Fernand Braudel era solito rispondere: «…quando mi si parla di Mediterraneo, ho bisogno di pensare la totalità». Il grande storico francese intendeva in tal modo porre in luce come una lettura delle dinamiche mediterranee disancorata dalla dimensione geo-politica ben più ampia all’interno della quale il Mediterraneo in senso stretto si colloca (dall’Africa sub-sahariana oggi tornata prepotentemente di attualità con la pressione esercitata dai flussi migratori verso l’Europa, all’area del Golfo la cui rilevanza strategica è sin troppo evidente…) rischi di rivelarsi di scarsa utilità per chi voglia avvalersene ai fini della messa a punto di strategie di natura politico/diplomatica/securitaria.

Ecco perché soprattutto da parte statunitense – sostanzialmente a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso – si è ritenuto opportuno affiancare, se non in molti casi sostituire, al concetto di Mediterraneo allargato quello di «Grande Medio Oriente». Se le due formulazioni coincidono in generale sulla direzione dell’«allargamento» verso zone tradizionalmente considerate propaggini naturali del bacino mediterraneo, esse si differenziano per la prospettiva con la quale guardano alle aree in questione. Nel Mediterraneo allargato il baricentro è da individuare nel bacino mediterraneo mentre Golfo Persico e Caucaso ne costituiscono la turbolenta periferia; nella formula del «Grande Medio Oriente» è il bacino mediterraneo a giocare un ruolo secondario poiché il centro del sistema è spostato più a est, nella Penisola arabica e nel Golfo Persico con tendenza a proiettarsi verso l’ancora più lontano scacchiere indo-pacifico. Di tale interrelazione tra le due aree prova evidente è fornita proprio in queste settimane dalle complesse dinamiche e reazioni di vario segno innescate nell’insieme dello scacchiere dalla eliminazione da parte statunitense, lo scorso 3 gennaio, del generale Qassem Suleimani, di fatto il numero due del regime iraniano (nonché la figura più vicina alla Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei).

Eliminazione che – pur se notoriamente avvenuta in risposta alle gravi provocazioni e attacchi da parte di Teheran nei confronti degli interessi statunitensi e occidentali nella regione – ha colto di sorpresa anche molte capitali «alleate» (tra cui la nostra) aprendo questioni non secondarie: ad esempio in termini di livello auspicabile (doveroso?) di concertazione per il futuro tra Washinton e gli «alleati» in particolare in aree – come quella del «Mediterraneo allargato/ 187 Grande Medio Oriente» – nelle quali contingenti di Paesi alleati sono impegnati a vario titolo sul terreno in diversi, e sovente contigui teatri, nel segno di condivisi valori e obiettivi. Basti pensare per quanto riguarda il nostro Paese, e per tornare a un tema che ho già evocato, ai circa 800 nostri militari ancora dispiegati in Afghanistan con cappello Nato seppur in missione «no combat», ai poco meno di 1000 schierati in Iraq nel quadro della coalizione anti-Daesh a titolo bilaterale o multilaterale (nonostante la sospensione in atto delle attività addestrative, sulla scia della vicenda Suleimani e delle minacciate ritorsioni da parte iraniana), agli oltre 1000 da tempo dispiegati nel Libano meridionale nel quadro della missione UNIFIL II. Tutto ciò in un momento nel quale – a ulteriore conferma della particolare complessità della presente congiuntura missione – poco più a «ovest» gli interventi su fronti opposti di Turchia e Russia in Libia (solo in parte – e non si sa per quanto tempo… – riassorbiti dalle decisioni adottate in occasione della Conferenza di Berlino dello scorso gennaio) stanno evidenziando come siano in gioco in quell’area interessi di straordinario rilievo: vale a dire non solo le grandi commesse legate al petrolio e al gas ma anche, se non soprattutto, la individuazione di chi – sullo sfondo del «disimpegno» statunitense da quel teatro – sarà chiamato a esercitare l’egemonia sul bacino mediterraneo. E perciò stesso, maggiore capacità di influenza, se non di vero e proprio condizionamento, sulle economie che vi si affacciano (Italia in primis).

Su uno sfondo di tale problematicità, fluidità e rilevanza, il nostro Paese per la sua collocazione geografica – ma anche per sua identità e storia di Nazione da sempre refrattaria a visioni manichee delle relazioni tra Stati e culture – è inevitabilmente (naturaliter, direbbe Tertulliano) chiamato a svolgere un ruolo di «fulcro» o quantomeno di catalizzatore degli sforzi in atto, o da avviare, per una «stabilizzazione sostenibile» dello scacchiere. Vocazione legittimata altresì – mi sembra doveroso osservare – da un ulteriore fattore tutt’altro che secondario: vale a dire dal prestigio maturato in questi ultimi decenni anche a livello internazionale dalle nostre Forze Armate impegnate in missioni della più varia natura (da quelle Ue a quelle onusiane a quelle in ambito Nato) nei più diversi teatri, con senso del dovere, professionalità e risultati oggetto di unanime apprezzamento. In altri termini, credo spetti all’Italia far valere al meglio il proprio tradizionale ruolo di «media potenza regionale» consapevole, certo, dei propri limiti (è questo un segno di maturità specie se raffrontato al velleitarismo di altri importanti attori europei…) ma anche delle proprie potenzialità: a cominciare da quella di credibile (ben più di altri, a condizione di sapere come muoversi…) «facilitatore» di dialogo tra interlocutori con agende sovente divergenti ma per così dire obbligati – salvo voler davvero mettere a repentaglio la pace 188 e la sicurezza nella Regione – a ricercare modalità di coesistenza foss’anche nel segno di un minimo comun denominatore al ribasso.

Penso, ad esempio, alla preziosa azione di ricucitura che il nostro Paese (e la nostra diplomazia) potrebbero svolgere, ove del caso, per scongiurare un non impossibile emergere di difficoltà nelle relazioni tra la Nato e l’Unione Europea qualora la Turchia a guida AKP decidesse, per qualsivoglia motivo, di far venir meno il necessario «consensus» in ambito atlantico sulla opportunità di andare avanti nel percorso da tempo avviato di accresciuta collaborazione tra le due Organizzazioni. O, ancora, al contributo che da parte italiana si potrebbe fornire, ove ciò fosse auspicato da parte statunitense, alla ricerca di un «modus vivendi» tra gli Stati Uniti e un Iran a guida Khamenei nella ancor più difficile fase apertasi con l’uscita di scena di Qassem Suleimani e le successive ritorsioni della Repubblica islamica attraverso le milizie ad essa fedeli in Iraq, in primis Kataib Hezbollah. Mi concentrerò dunque proprio su quella estensione a est e a sud-est del Mediterraneo che configura, nella accezione comune, il «Grande Medio Oriente».

Cercherò di evidenziare taluni versanti che ritengo di prioritario rilievo per la tutela dal nostro interesse nazionale, lasciando ad altri l’analisi nel dettaglio di crisi in atto a ovest di tale scacchiere: come quella in Libia, di perdurante gravità, e con rilevanti implicazioni per il nostro Paese. Da un punto di vista di ordine generale non vi è dubbio che nostro precipuo interesse, anche in termini di contenimento della minaccia terroristica, sia proprio la ricerca di quella «stabilità sostenibile» che ho sopra evocato. Il progressivo emergere di una regione mediterranea, nel senso più ampio del termine, sicura e stabile è infatti indispensabile sia per l’Italia che per l’Europa nel suo complesso della quale il nostro Paese costituisce, per così dire, la frontiera avanzata. È sfida complessa ma da raccogliere per almeno due ordini di motivi: il primo, cui ho già fatto cenno, connesso alle implicazioni che la maggiore o minore stabilità e affermazione di una buona governance nell’area (seppure con le specificità dettate dai singoli e assai diversificati contesti socioculturali) riveste sotto il profilo della nostra sicurezza; il secondo, legato alla nuova rilevanza strategica che la Regione in parola è in questi anni venuta acquisendo.

Oltre che per le sue implicazioni di sicurezza, l’odierno Mediterraneo allargato e la sua propaggine rappresentata dal Grande Medio Oriente è infatti venuto guadagnando, da qualche anno a questa parte, crescente rilievo anche come «piattaforma di connessione globale»: il raddoppio del canale di Suez, le ricadute dell’allargamento di quello di Panama, le recenti scoperte energetiche nelle sue acque orientali (il c.d. «Levantine basin») e l’ambizioso progetto – dalle implicazioni non necessariamente rassicuranti… – di «Via della Seta» spregiudicatamente 189 portato avanti dall’attuale dirigenza cinese, fanno infatti del Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente uno snodo cruciale sul piano infrastrutturale, dei trasporti e delle reti logistiche. Se questi sono dunque alcuni dei versanti suscettibili di beneficiare di un contributo del nostro Paese in un’ottica di stabilità regionale è doveroso porsi anche il quesito di quali siano i settori da curare in via prioritaria ai fini della tutela del nostro «interesse nazionale» in senso stretto, nonché quello degli strumenti e/o delle «policies» più idonee al perseguimento di tale obiettivo. Tre mi sembrano i terreni cui rivolgere speciale attenzione.

Il primo è quello relativo, appunto, alla sicurezza nell’accezione più ampia del termine: dal ritorno, dunque, di accettabili condizioni di stabilità e governance condivisa in Siria (e per certi versi in Iraq dove continuano gli scontri tra le milizie sciite pro-iraniane e le forze statunitensi colà presenti in funzione anti-Daesh) al contrasto al terrorismo che proprio nell’area in parola trova da tempo una delle principali fonti di reclutamento. Sarà pertanto essenziale che il nostro Paese continui a figurare tra i principali provider di sicurezza nella Regione attraverso gli strumenti già in atto (e altri che dovessero essere in prospettiva posti in essere a livello internazionale): dal nostro tradizionale contributo di primo piano alla missione UNIFIL II nel Libano meridionale; all’Iraq, dove – in aggiunta al nostro significativo ruolo di co-presidenza del Gruppo di lavoro per il contrasto al finanziamento del Daesh – figuriamo tra i principali contributori di truppe alla «coalizione anti-Daesh», oltre che in prima linea nell’addestramento delle forze di sicurezza e polizia irachene (nonostante la recente sospensione, per i noti motivi, di tali attività di formazione che c’è da augurarsi possano al più presto riprendere).

Sotto tale profilo appare dunque condivisibile la proposta avanzata dal ministro Di Maio di una riunione a Roma – in tempi per quanto possibile ravvicinati e non appena superata la drammatica pandemia del corona virus – per un punto della situazione, e uno scambio di vedute su come ulteriormente procedere, tra i ministri degli Esteri degli 84 Paesi membri della coalizione: coalizione la cui area di interesse andrebbe però, ad avviso italiano, estesa alla turbolenta regione del Sahel. Sempre in relazione alla regione del Sahel, dalla quale continua a provenire buona parte dei flussi migratori che investono il nostro Paese e l’Europa, sarà indispensabile per l’Italia continuare a battersi a Bruxelles, e in ogni appropriata istanza, per una sostanziale modifica delle regole sull’asilo europeo (in sostanza per modificare in senso per noi meno penalizzante il Regolamento di Dublino), nonché per dare impulso ai rimpatri assistiti. In sostanza nostro obiettivo – non facile da raggiungere ma da perseguire con determinazione – deve essere quello 190 di fare sì che l’Europa cominci a muoversi in materia di asilo in base a risorse e norme chiare ed equilibrate oltre che con interventi rapidi ed efficaci.

Basterebbe, a comprovare l’urgenza di una nostra forte azione in Europa volta a far sì che il tema del contenimento dell’immigrazione illegale figuri tra le priorità della nuova Commissione – oltre che del Consiglio e dell’Europarlamento – la situazione drammatica che continua a registrarsi al confine tra Turchia e Grecia e l’esito sinora interlocutorio (a essere ottimisti) dei contatti ad alto livello in corso tra l’Unione europea e la Turchia per la ricerca di una soluzione concordata al problema. Da una angolazione più generale, un segnale indubbiamente incoraggiante – frutto anche delle sollecitazioni in tal senso che sta da tempo rivolgendo alla Commissione Europea il nostro Paese – appare l’indicazione di una prossima proposta della stessa Commissione per un superamento del Regolamento di Dublino fornita dal commissario agli Affari Interni, Ylva Johansson, in occasione di una sua recente visita ad Atene per valutare da vicino la difficile situazione in quel Paese.

Tornando al dramma siriano sarà per noi indispensabile continuare a fornire sostegno ai processi politici rivolti a individuare soluzioni «non militari» alle diverse crisi in atto nell’area promuovendo – sempre di concerto con i nostri partner e alleati a cominciare dagli Stati Uniti – un «dialogo inclusivo» e la ownership degli attori locali: come nel caso del conflitto siriano (sempre avendo come «stella polare» la Ris. 2254 del Consiglio di Sicurezza del dicembre 2015) e di quello yemenita. Un ruolo all’altezza delle nostre potenzialità per la soluzione della crisi siriana così come la prosecuzione delle importanti iniziative da noi già avviate a supporto dei rifugiati nei Paesi limitrofi ci potrà/dovrà tra l’altro consentire di essere adeguatamente posizionati allorché decollerà – ciò che prima o poi non potrà non avvenire – la ricostruzione di quel martoriato Paese. In termini di valore aggiunto arrecato dal nostro Paese all’ individuazione di una soluzione politico- diplomatica alla crisi siriana, da noi da sempre caldeggiata, va certamente registrata in positivo la riunione a Roma nei mesi scorsi, su iniziativa della Farnesina, tra il Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per la Siria e gli Inviati Speciali dei Paesi dell’Unione Europea coinvolti nel «dossier» (Italia, Belgio, Germania, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito oltre al Servizio Europeo di Azione Esterna e al Segretario della Santa Sede per i rapporti con gli Stati, Monsignor Gallagher).

Si è trattato di un ulteriore esempio della nostra tradizionale vocazione a operare come un ponte «discreto» (ma non per questo meno efficace…) tra l’Europa e lo scacchiere mediterraneo nel suo complesso. È linea sobria ma pro-attiva alla quale ritengo indispensabile che il nostro Paese continui a ispirarsi – indipendentemente da chi sia di volta in volta al governo – trattandosi di una delle 191 carte migliori tra quelle a nostra disposizione per far valere in positivo la «specificità» italiana nella presente fase della storia mondiale: fase nella quale le ruvide logiche della riemersa geo-politica e competizione dura tra Stati rendono ancor più importante il ruolo di «attori» (come il nostro Paese) da sempre noti e apprezzati per la loro capacità di interlocuzione a 360 gradi. Secondo le stime della Banca Mondiale gli investimenti che si renderanno necessari per consentire il ritorno della Siria a condizioni più o meno normali anche sotto il profilo delle infrastrutture (fermo restando che si tratterà di una Siria comunque diversa, anche per la ben più marcata presenza e capacità di influenza di Mosca di fatto già in atto) si collocheranno in una forchetta compresa tra i 300 e i 400 miliardi di dollari Usa. Ne deriverà, va da sé, la possibilità di importanti ritorni anche per le nostre imprese molte delle quali da anni presenti e altamente apprezzate nella regione.

Da ultimo, dovrà proseguire la nostra azione a Bruxelles, da tempo avviata, perché sia l’Unione europea che la Nato – in quest’ultimo caso anche attraverso una adeguata valorizzazione dell’«hub per il sud» presso il JFC di Napoli dall’Italia fortemente voluto – assegnino la dovuta priorità allo scacchiere mediterraneo nell’accezione più ampia del termine. In ambito Ue, sarà invece essenziale continuare a vigilare affinché – anche attraverso vincoli di natura giuridica come il c.d. ring-fencing – i fondi previsti dalla Commissione per il «Vicinato meridionale» non siano deviati verso altre regioni del mondo. Quanto all’Iran – altro attore che resta ineludibile, ci piaccia o meno, nella Regione – è mia opinione che sia ormai irrealistico, dopo il ritiro americano dall’intesa «5 più 1» sul nucleare e le più recenti decisioni della dirigenza iraniana sulla scia della vicenda Suleimani, immaginare un mantenimento in vita – magari con qualche marginale ritocco – dell’ accordo del 2015. Credo sia invece nostro precipuo interesse prendere atto del suo venir meno, di fatto se non di diritto, e lavorare di concerto con i nostri principali alleati – a cominciare proprio dagli Stati Uniti – alla individuazione di formule innovative che, da un lato, facciano salvo l’obiettivo di impedire alla Repubblica Islamica di dotarsi dell’arma atomica; dall’altro, incentivino Teheran a comportamenti più responsabili e, auspicabilmente, alla sottoscrizione di un nuovo accordo migliorativo di quello del luglio 2015. Va detto che, sotto tale profilo, la netta affermazione del fronte dei «conservatori» in occasione delle elezioni parlamentari tenutesi in quel Paese lo scorso 21 febbraio non rappresenta un segnale che induce a ben sperare quanto alle possibilità di ripristino, per lo meno nel breve/medio periodo, di un dialogo costruttivo con quella dirigenza.

Sarà poi non meno importante continuare ad adoperarsi – ciò che la nostra diplomazia sta già attivamente facendo – per pervenire a un ancoraggio del nostro Paese a quel nucleo ristretto di «partner» europei (Francia, 192 Regno Unito e Germania: il cosiddetto formato «E3») che tanta parte ebbe a suo tempo nel raggiungimento dell’intesa con Teheran sul «Joint Comprehensive Plan of Action» (JCPOA). È formato che – al di là degli infruttuosi tentativi di salvare l’accordo dopo il ritiro statunitense e del mancato decollo dello strumento INSTEX quale contrappeso alla reintroduzione delle sanzioni da parte di Washington – appare, almeno a oggi, destinato comunque a permanere quale prioritario foro di coordinamento per la definizione delle policies europee nei confronti dell’Iran. Il secondo terreno per noi cruciale, in termini di tutela dell’interesse nazionale nell’area del «Grande Medio Oriente», è quello degli approvvigionamenti energetici, larga parte dei quali proviene proprio dallo scacchiere in parola. In tale prospettiva da parte italiana particolare attenzione dovrà essere a mio avviso rivolta ai seguenti aspetti: in primo luogo – tenendo presente che il gas rappresenta per il nostro Paese la principale fonte energetica ancor più nella prospettiva di una completa «decarbonizzazione» – al mantenimento dei migliori rapporti possibili con ciascuno dei Paesi attraverso cui corre il c.d. «Corridoio Meridionale del Gas» la cui entrata in funzione è prevista per l’ottobre 2020: dall’Azerbaijan (attualmente il nostro principale fornitore) a Georgia, Turchia, Grecia e Albania dalla quale il «corridoio» approderà in Puglia grazie alla «Trans Adriatic Pipeline».

In tale contesto sarà importante – pur senza rinunziare a far valere ogni qualvolta necessario i nostri principii e, se del caso, le nostre ragioni… – fare il possibile per mantenere le migliori relazioni possibili con una Turchia che mira anch’essa ad affermarsi come «hub» regionale per le infrastrutture del gas ma che potrebbe avere comunque interesse a cooperare con noi, al di là del segnale non incoraggiante per l’Italia e per la nostra Eni rappresentato dall’intesa conclusa lo scorso 28 novembre tra Ankara e Tripoli per la delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive (ZEE). Una Turchia assertiva che resta per giunta – e resterà a lungo, indipendentemente da chi ne sia di volta in volta in volta alla guida – nostro primario «partner» commerciale e industriale oltre che attore geo-politico pro-attivo e ineludibile (come anche gli eventi di queste settimane dimostrano) sia nello scacchiere del «Mediterraneo allargato» che in quello, ancor più vasto, del «Grande Medio Oriente».

Non minore attenzione andrà riservata alla qualità delle relazioni con i Paesi dai quali verranno convogliati verso l’Europa, via Italia, i flussi di gas naturale provenienti dal recentemente scoperto «Bacino del Levante» (Cipro, Israele, Libano ed Egitto). I nostri tradizionalmente buoni se non eccellenti rapporti con ciascuno di essi – a cominciare dallo Stato ebraico – rappresentano naturalmente un atout non secondario rafforzato, nel caso del Libano, dalla gratitudine che quella dirigenza e opinione pubblica nutrono nei nostri confronti per il ruolo di primo piano storicamente svolto dall’Italia nel quadro della missione UNIFIL (della 193 quale un nostro ufficiale, seppur sotto il «cappello» onusiano, ricopre attualmente il comando).

Per il nostro Paese si tratterà tra l’altro di giocare al meglio le carte che ci derivano dalle nostre buone relazioni con tutti gli attori coinvolti per evitare che il citato accordo tra Ankara e Tripoli in tema di delimitazione delle rispettive ZEE comporti ricadute negative per il futuro del gasdotto Eastmed (progettato da Israele, Cipro e Grecia e da noi appoggiato): gasdotto che dovrebbe in teoria, alla luce dei citati sviluppi, sottostare al nullaosta di Ankara per poter approdare sulle coste greche e poi italiane.

Sarà infine essenziale – come rilevato tra i primi dall’Ambasciatore Terzi in un sua riflessione sul tema di alcuni mesi orsono – contribuire a vigilare affinché sia preservata la libertà di navigazione in arterie cruciali ai fini del nostro approvvigionamento in petrolio e in «gas naturale liquefatto» (GLN): a cominciare dallo Stretto di Hormuz, vero e proprio «collo di bottiglia» marittimo dal quale transita tra l’altro circa il 40% del greggio mondiale, tenendo presente che il nostro Paese acquista dal piccolo ma influente Qatar poco meno dell’80% del nostro fabbisogno complessivo in GLN. Va dunque valutata positivamente la decisione di principio di recente adottata dal nostro Paese di prendere parte, con altri partner europei, alla missione di pattugliamento condiviso dello Stretto in parola, nel quadro della «coalizione di volenterosi» tra europei che, proprio con tale obiettivo, ha di recente visto la luce su iniziative francese. Il terzo e ultimo versante da presidiare e consolidare è quello di natura economica e di collaborazione industriale con i Paesi del «Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente»: mi limiterò a ricordare due dati: il primo è che, dopo l’Europa, il bacino del Mediterraneo (nel quale si concentra il 20% del traffico marittimo mondiale) costituisce la prima zona di penetrazione diretta delle nostre imprese; il secondo, è che – nello strategico e per molti versi trainante settore della difesa – la sola area del Golfo ha assorbito tra il 2016-2018 circa il 50% delle nostre esportazioni di armamenti.

Si tratterà, in sostanza, di continuare ad adoperarsi – anche attraverso un dialogo costante con i Paesi costieri dell’Oceano Indiano interessati alle prospettive offerte dalla «blue economy» – per rilanciare e rendere irreversibile la vitalità del Mediterraneo come piattaforma di connettività economica, energetica e infrastrutturale tra Europa, Asia e Africa. Traguardo arduo ma non impossibile, ove sorretto da una adeguata volontà politica a supporto delle nostre «eccellenze» imprenditoriali. Volontà politica di sostegno che dovrà manifestarsi con ancor più vigore – anche facendo ricorsi a strumenti innovativi e da definire – non appena sarà possibile trarre conclusioni attendibili sul prezzo che anche l’Italia inevitabilmente pagherà in termini di perdita di punti di Pil a seguito della crisi innescata a livello mondiale anche sul terreno economico/finanziario dalla pandemia, ancora in atto, del «coronavirus». Tale azione ad ampio raggio richiede 194 però, perché possa essere coronata da successo, la consapevolezza di un elemento fondamentale: e cioè del fatto che – col ritorno della «realpolitik» e del primato della geo-politica rispetto alla logica delle «appartenenze» tipico del periodo della guerra fredda – è (e resterà credo a lungo indispensabile) sapersi muovere sulla scena internazionale, come Italia e come «sistema-Paese», con quella spregiudicatezza e determinazione delle quali da sempre danno prova sulla scena internazionale altri attori a noi geograficamente e culturalmente vicini, Francia in primis. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’approccio di quella dirigenza al «dossier» libico o, ancora, la ricerca di un rapporto comunque privilegiato con la Federazione Russa (sotto tale ultimo profilo lo stesso può dirsi della Germania), attore ormai imprescindibile nella ridefinizione in atto degli equilibri medio-orientali.

È politica, quella sopra evocata, che dovrà naturalmente essere condotta senza venire meno al rispetto dei nostri obblighi «atlantici» ed europei come, ripeto, stanno da tempo mostrando di sapere fare – in ambito europeo – Francia e Germania. D’altra parte un solido rapporto con gli Stati Uniti – indipendentemente da chi sieda di volta in volta alla Casa Bianca – è e resterà per noi imprescindibile, non solo sotto il profilo della sicurezza, ma anche quale sponda essenziale per contenere in ambito europeo le riaffioranti velleità del direttorio franco-tedesco. Senza contare l’importanza che un solido rapporto con gli Stati Uniti continuerà a rivestire per il nostro Paese quale importante fattore di «traino tecnologico» ancor più in una fase, come quella attuale, nella quale la competizione tra le imprese europee di eccellenza nel campo delle alte tecnologie sta diventando sempre più serrata e con un esito sovente legato proprio alla individuazione di un adeguato «partner» sul versante statunitense. Ed è proprio con un richiamo al contesto europeo che mi piace concludere riprendendo la considerazione svolta di recente da un nostro acuto osservatore, da sempre attento e sensibile al tema dell’interesse nazionale: quella cioè secondo la quale il primo mattone della politica estera europea resta, almeno a oggi, l’azione nazionale.

Ciò che presuppone che ciascun Stato-membro «si sia già posto propri obiettivi strategici e vi abbia dedicato risorse…». In sostanza, se vorremo davvero perseguire anche in ambito europeo il nostro «interesse nazionale», non potremo – al di là dell’impegno per un salto di qualità che potrà essere posto dagli alti rappresentanti per la politica estera e di sicurezza comune di volta in volta in carica – astenerci dal considerare l’Unione Europea per quello che ancora è: vale dire un livello «supplementare» delle politiche estere e di sicurezza nazionali e non già un loro sostituto.

*Gabriele Checchia, ambasciatore, già rappresentante permanente d’Italia presso la Nato

Gabriele Checchia: Affinché un “nuovo” Libano veda la luce

Già consigliere diplomatico del Ministero della Difesa e ambasciatore all’Ocse e alla Nato, dal 2006 al 2010 Gabriele Checchia ha guidato l’ambasciata italiana a Beirut.

D: Il Libano ha avuto una discreta ripresa dopo la guerra civile terminata nel 1990 anche se non sono mancate altre tensioni, la capitale Beirut è vista come hub mediorientale finanziario e turistico, per l’Italia è un importante partner commerciale. Lei che ha vissuto il Paese da ambasciatore, può darmi una panoramica?
R: Il Libano è Paese ricco delle sue diversità e di grande dinamismo, perlomeno fino ad epoca recente. È un hub che molti hanno considerato anche stanza di compensazione delle tensioni mediorientali, in un’area tormentata, dove soggetti che non potevano esporsi insieme in pubblico trovavano la possibilità di dialogare sottotraccia. Le vicende drammatiche degli ultimi giorni provano però che la situazione oggi non è più la stessa. Negli anni in cui ho avuto il privilegio di rappresentare l’Italia in Libano, dal 2006 al 2010, la situazione era certamente tesa e complessa ma il Paese continuava ad apparire terreno di coesistenza, nonostante le circa 18 diverse confessioni religiose che caratterizzano la popolazione in un duplice senso di appartenenza confessionale e nazionale che da quasi due anni sta mostrando tutti i suoi limiti. Osservando i movimenti di questi ultimi mesi, percepisco una volontà di parte della popolazione – soprattutto dei giovani – di andare verso una società più laica, che non significa rinunciare alla fede ma porre una distinzione più netta fra sfera pubblica e sfera religiosa in un Paese che è una risorsa importante per il Medio Oriente e per il mondo. Giovanni Paolo II non a caso definiva il Libano “Paese messaggio”: voleva significare messaggio di convivenza possibile tra Oriente ed Occidente, tra Islam e Cristianesimo, e ciò è stato per secoli – ad eccezione degli anni della guerra civile tra il 1975 e il 1990 -. A prova della tradizione di convivenza tra le differenti confessioni religiose, sulla base patto non scritto del 1943 che è l’anno di nascita dell’attuale Repubblica libanese, si ebbe una ripartizione delle cariche istituzionali tra cristiani e musulmani: ai cristiani va la presidenza della Repubblica e il capo di stato maggiore, ai sunniti la presidenza del consiglio, agli sciiti la presidenza del Parlamento. Tuttavia dopo gli Accordi di Ta’if, che posero fine alla guerra civile, si andò verso un ridimensionamento della componente cristiana a favore di quella musulmana con un potenziamento del ruolo del presidente del consiglio rispetto al presidente della Repubblica in un contesto in cui la componente cristiana, seppur minoritaria, conserva un peso specifico al di là di quello numerico perché è quella che garantisce di più l’ancoraggio all’Occidente; e la preoccupazione di molti osservatori, tra cui il Papa ed il patriarca maronita, è il profilarsi – sulla scia delle drammatiche vicende in atto – di un ulteriore esodo dei cristiani dal Libano. È rischio che a mio avviso va assolutamente scongiurato, poiché ne soffrirebbe non solo il Libano, ma l’intera Regione mediorientale. Ritengo che il nostro Paese, che gode in Libano di uno straordinario e meritato prestigio, debba fortemente impegnarsi a tal fine.

D: In uno Stato così strategico nel Medio Oriente cosa implica la convivenza tra i cristiani, i musulmani sciiti e i musulmani sunniti?
R: Implica la possibilità di andare avanti per costruire un futuro insieme nel rispetto reciproco, un Islam ed un Cristianesimo orientale in grado di convivere e dunque non basare le proprie relazioni sullo scontro. L’assetto istituzionale pensato da Ta’if va in questo senso proprio per garantire un equilibrio. Tuttavia l’ingresso sulla scena libanese di Hezbollah, all’ inizio degli anni ’80, ha in qualche misura alterato l’equilibrio tra le tre principali confessioni religiose, disponendo Hezbollah non solo di una legittima rappresentanza politica e parlamentare, ma anche per sua stessa ammissione di un vastissimo arsenale. E non a caso il patriarca Rai, nell’omelia dello scorso 5 luglio, ha osservato come Hezbollah (con una forza armata pari, se non superiore, a quella dell’esercito libanese) rappresenti un vero e proprio assedio alla libera decisione nazionale. E questa disparità nelle regole del gioco che avviene da anni, provocata dalla componente sciita che potremmo definire Hezbollah – Siria – Iran, ha provocato un’insofferenza confermata dalle proteste degli ultimi mesi e di questi giorni. Nella mia esperienza ho tra l’altro potuto personalmente constatare che nonostante Hezbollah, anche all’interno del mondo sciita libanese vi sia una parte (cosiddetta quietista) desiderosa di uscire da queste logiche basate sui rapporti di forza ed andare verso una via più laica.

D: L’assassino dell’ex premier Rafiq al-Hariri come ha segnato il Paese e l’area mediorientale?
R: È stato un drammatico attentato che ha fatto da catalizzatore ad un’ondata di protesta popolare che ha poi portato alla fuoriuscita delle truppe siriane dal territorio libanese, dopo quasi trent’anni di occupazione. Dopo tanti anni di invadenza del regime siriano si è pensato che la cosiddetta primavera di Beirut potesse costituire davvero una svolta decisiva nella storia del Paese, sono prevalse tuttavia altre dinamiche caratterizzate da una spaccatura all’interno dei cristiani tra i favorevoli all’aggancio occidentale e i favorevoli a coltivare come alleato principale l’asse Siria-Iran. Nonostante la liberazione dall’egemonia del regime siriano sono dunque rimaste irrisolte molte questioni in sospeso a partire dalla pesante presenza di Hezbollah, e soprattutto delle sue armi, come fattore di condizionamento della libera dialettica democratica.

D: Come sono i rapporti attuali tra Israele e Libano, considerando i confini sigillati?
R: I rapporti sono difficili, non esistono relazioni diplomatiche perché il Libano non riconosce Israele e tra i due Paesi non è mai stato firmato un trattato di pace. Il “confine” è una linea armistiziale che il Libano non riconosce come proprio confine meridionale, c’è la linea blu tracciata nel 2000 dalle Nazioni Unite per certificare l’avvenuto ritiro delle forze israeliane. Restano rapporti molto tesi perché Israele vede nel Libano meridionale un avamposto iraniano, a ridosso dei propri confini settentrionali, attraverso Hezbollah e la gran maggioranza dell’opinione pubblica e del mondo politico libanese vedono in Israele il solo responsabile di ripetuti interventi militari e occupazioni del Paese. Ci sono stati episodi recenti che descrivono tali tensioni: l’attacco di due droni israeliani a Beirut nel settembre del 2019 e le reazioni di Hezbollah con lanci di razzi anti carro contro una base nel nord della Galilea. Alle difficoltà sui confini terrestri si aggiungono difficoltà sui confini marittimi: il mancato accordo sulla delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive ha conseguenze sensibili; gli Stati Uniti si erano posti come mediatori circa due anni fa, ma ad oggi non si è raggiunto nulla e ciò ha ricadute negative sulla possibilità che i due Paesi hanno di mettere a profitto i giacimenti di gas che sono a largo delle loro coste. Dinnanzi a questo contesto non possiamo non menzionare il ruolo prezioso svolto da Unifil 2, la missione istituita nel 2006 con la Conferenza di Roma, guidata quasi ininterrottamente da comandanti italiani, che ha contribuito ad assicurare la pace nel Libano meridionale ed ha evitato che il confronto israeliano-libanese (dal 2006 ad oggi) superasse i livelli di guardia.

D: L’intero Governo si è dimesso. Quali scenari potrebbero aprirsi ora nel Paese?
R: Si tratta di uno sviluppo per molti versi prevedibile alla luce delle forti pressioni popolari in tal senso, in atto sin da prima della tragica doppia esplosione al porto di Beirut, ma da questa certamente rilanciate tanto da divenire insostenibili per il Primo Ministro Diab. Questi non ha potuto che prendere atto, devo dire con dignità e con una forte denuncia delle diffuse pratiche di corruttela – in larga misura causa della drammatica congiuntura attuale-, della situazione determainatasi e trarne le logiche conseguenze.
La dimissione dell’Esecutivo così fortemente sollecitata dalla piazza avviene in un momento particolarmente critico per il Paese che si trova a dover affrontare crisi acute su un triplice piano (economico, sociale e sanitario) coniugate a forti pressioni della Comunità Internazionale (delle quali si è fatto esplicito interprete il Presidente Macron nel corso della sua visita di giovedì scorso a Beirut) a mettere infine in atto le riforme economiche e di “goverance” indispensabili a sbloccare gli importanti aiuti finanziari promessi al Libano da ultimo in occasione della Conferenza di Parigi (la Conferenza “CEDRE”) dell’aprile 2018 così come il pacchetto messo a punto dal FMI e gli ulteriori aiuti promessi dalla Conferenza dei donatori dei giorni scorsi.
E tuttavia le dimissioni del Gabinetto Diab non garantiscono affatto la formazione di un nuovo e soprattutto credibile Esecutivo in tempi brevi per almeno due ordini di motivi: il primo è che il Presidente della Repubblica, Michel Aoun, sembra orientato a prendere tempo prima di avviare consultazioni politiche vincolanti puntando – questa almeno è l’impressione di molti commentatori libanesi – a una previa intesa programmatica tra le principali forze politiche (anche quelle ostili all’asse siro-iraniano, e di conseguenza al ruolo svolto da Hezbollah sulla scena politica libanese e sul terreno, che si trovano attualmente all’opposizione); il secondo è che la Costituzione in vigore non fissa al Primo Ministro designato alcuna scadenza per presentare la lista dei Ministri e il programma. Vi è dunque il rischio concreto che la formazione del nuovo governo possa prendere tempi lunghi come del resto già più volte avvenuto, nonostante la drammaticità del momento.
Molti tra i manifestanti chiedono poi elezioni legislative anticipate (così come i principali partiti di opposizione: dal partito cristiano filo-occidentale Kataeb al Partito socialista progressista di Walid Joumblatt). È strada questa anch’essa dalle implicazioni non prevedibili. Elezioni anticipate che avessero luogo in assenza di una previa e tutt’altro che scontata modifica della attuale legge elettorale basata su circoscrizioni ripartite per quote “confessionali”, potrebbero infatti riprodurre un quadro non troppo dissimile dall’attuale in termini di rapporti di forza parlamentari. E dunque non consentire quel ricambio dei vertici e la uscita di scena dei tradizionali “capi clan” per fare posto a figure indipendenti espressione della società civile, con tanta insistenza richiesto da tutti quanti desiderano un Libano finalmente sottratto alle logiche confessionali e allo strapotere per così dire dei “soliti noti”.
Una legge elettorale basata su un sistema “deconfessionalizzato” (oltre che su un tetto alle spese oggi non previsto e sulla istituzione di un credibile ed effettivo organo di supervisione dell’intero processo) troverebbe però nell’attuale Parlamento resistenze pesanti a cominciare da quella di Hezbollah e dei suoi alleati/satelliti, e dunque avrebbe allo stato a mio avviso ben poche possibilità di vedere la luce.
In sostanza, e per concludere, con le dimissioni dell’Esecutivo Diab si apre certamente una pagina nuova ma esse appaiono anche come un forse inevitabile salto nel buio indispensabile perché qualcosa cambi. L’evoluzione del dibattito parlamentare aiuterà senza dubbio a comprendere che piega prenderanno gli eventi. Una strada che potrebbe rivelarsi fruttuosa (ma, come ho sopra accennato, a mio parere non facilmente percorribile) potrebbe essere quella di dar vita in tempi stretti a un governo “neutrale” composto di tecnocrati, incaricato – tra l’altro – della messa a punto di una nuova legge elettorale di taglio “non confessionale” e di assicurare il corretto svolgimento di elezioni legislative anticipate sulla base di tale nuova normativa. È quanto auspica del resto, in dichiarazioni riprese dal quotidiano francofono “L’Orient le Jour”, il leader druso Walid Joumblatt, oggi all’opposizione e certamente tra i politici libanesi più acuti. È sua convinzione che votare sulla base dell’attuale legge elettorale non porterebbe a modifiche sostanziali negli equilibri (potrebbe a mio aversi tutt’al più aversi un travaso di voti all’interno dell’elettorato cristiano dalla Corrente Patriottica Libera/CPL, parte essenziale dell’attuale maggioranza e vicina all’asse Siria-Iran, alle formazioni cristiane come il Kataeb e le Forze Libanesi da sempre critiche verso tale appiattimento sulle posizioni di Damasco e Teheran). Si tratterebbe però di uno spostamento di voti non in grado di incidere sugli equilibri complessivi.
Concludo quindi con un auspicio: quello che, anche nella gravissima situazione attuale, i libanesi sappiano dar prova di quella creatività, scatto d’orgoglio e capacità di sopravvivenza come popolo e come Paese che hanno in così tante occasioni dimostrato in passato, e che da queste dolorose giornate possa alla fine emergere una classe dirigente rinnovata all’altezza delle aspettative di quanti con tanta determinazione si stanno battendo affinché un “nuovo” Libano veda la luce.

Il Libano resterà ostaggio di Hezbollah

A una settimana di distanza dalla catastrofica doppia esplosione del 4 agosto, Beirut non finisce ancora di contare i suoi morti (almeno 160), feriti (più di 6 mila), sfollati e senza casa (300 mila abitanti, un quarto degli abitanti). Il dolore dei libanesi è ancora più grande del cratere che la conflagrazione ha lasciato dietro di sé nella zona del porto, ed è stato il dolore, misto a rabbia, disperazione e a un senso di profonda umiliazione, a rimettere in moto, dopo un rallentamento dovuto al Covid-19, il movimento trasversale di protesta che dallo scorso ottobre chiede a gran voce un cambio di classe dirigente, la fine del sistema di corruzione, maggiore laicità e sviluppo economico, all’ombra del cedro che campeggia al centro della bella e colorata bandiera nazionale.
Sordi alle legittime rivendicazioni della popolazione, per la prima volta unita nella protesta a prescindere dalla religione e dal partito di appartenenza (seppure con qualche rilevante eccezione), la classe “dirigente” al cui vertice si trovano banchieri, uomini d’affari e gli immarcescibili “zaim” locali (i signori della guerra civile, poi divenuti capi tribal-confessionali e leader politici in doppio petto), ha certamente sentito il rumore assordante delle esplosioni, risuonato come campana a morto non solo per coloro che hanno effettivamente perso la vita. La corda del patibolo utilizzata dai manifestanti per impiccare, simbolicamente, le sagome dei vari “zaim”, insieme alla “presa” dei ministeri degli esteri, economia, energia e ambiente, indicano chiaramente che, al cospetto della “rivoluzione”, la classe “dirigente” ha esaurito ogni spazio di manovra (e manipolazione).
A prescindere dalle dinamiche (errore umano o un attacco aereo d’Israele, le principali ipotesi su cui si dividono i libanesi) è un fatto che da quasi 7 anni, i presidenti, i governi, i ministri, le varie autorità “competenti”, comprese quelle attuali, sapevano delle 2,750 tonnellate di ammonio di nitrato giacenti al porto di Beirut. Innegabili, pertanto, sono le responsabilità della classe “dirigente”, accusata di avere le mani sporche del sangue della popolazione libanese, oltre che di continuare ad affamarla respingendo le richieste di riforme e di chiarimenti circa la gestione economico-finanziaria degli ultimi decenni avanzate dalla comunità internazionale, come condizione per elargire nuovi aiuti volti a impedire il definitivo collasso del paese.
Alla luce del grado di corruttela siderale di cui la classe “dirigente” libanese ha dato prova, senza manifestare la benché minima disponibilità al cambiamento, le donazioni in arrivo dall’estero giungeranno direttamente nelle mani delle organizzazioni che sul territorio si occuperanno del salvataggio e della ricostruzione di Beirut, bypassando le istituzioni e la politica, così da evitare nuove dispersioni di fondi. O almeno è questa oggi l’intenzione manifestata dai paesi donatori.
Com’era prevedibile, le esplosioni hanno determinato l‘implosione del fragile esecutivo a trazione Hezbollah, sostenuto dai “cristiani” che fanno capo al presidente, Michel Aoun, e al contestato genero, Gebran Bassil. Sulla scia delle dimissioni di deputati e ministri (informazione, ambiente, giustizia, finanze), il premier Hassan Diab ha optato egli stesso per un passo indietro, dopo che aveva già dato ad Aoun la propria disponibilità a lasciare l’incarico. Diab, docente universitario e sunnita al pari del suo predecessore Saad Hariri (secondo la prassi), era in cerca di una via d’uscita personale che lo mettesse al riparo dall’ignominia e prima delle dimissioni aveva ventilato l’ipotesi di elezioni anticipate, parlando della necessità di un nuovo mandato popolare, in modo da andare incontro, per la prima volta, alle rivendicazioni della “rivoluzione”.
Ma le decisioni in materia politico-istituzionale non possono essere prese senza l’avallo di Hezbollah, che in parlamento resta la forza di maggioranza relativa e non intende cedere le redini del governo senza adeguate garanzie che il Libano non intraprenda un corso sfavorevole all’agenda dell’organizzazione-partito fondamentalista, legata a doppio filo al regime khomeinista iraniano.
L’eccezione di cui sopra si riferisce proprio ad Hezbollah, contro il cui strapotere già ad ottobre si era scagliata in rivolta la gran parte della società civile. Nasrallah, in risposta, aveva assunto un atteggiamento sostanzialmente ostile alla “rivoluzione”, lanciando ripetutamente nelle strade e nelle piazze di Beirut, in tandem con il presidente della Camera, Nabil Berri, le proprie truppe di giovani provenienti dai quartieri sciiti e incaricati di picchiare i manifestanti e bruciarne le tende e le postazioni.
La milizia, gli armamenti, le intimidazioni, la violenza e il terrorismo di Hezbollah hanno scavato un crescente fossato tra il Libano e il mondo circostante, aggravando ulteriormente la situazione economica e sociale per via delle sanzioni. Lo stato di belligeranza e inimicizia con Israele non è messo in discussione da nessun partito, ma l’imposizione dell’inganno della cosiddetta “resistenza”, in nome e per conto di Teheran, si è trasformato in una gabbia che tiene in “ostaggio” l’intera popolazione libanese (sciiti inclusi), come ribadito nelle manifestazioni seguite all’esplosioni del 4 agosto.
Chiamato direttamente in causa per lo stretto controllo esercitato dai suoi uomini sul porto, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha negato qualsiasi coinvolgimento e responsabilità nella tragedia. D’altro canto, che Hezbollah abbia finora disposto del porto come deposito di materiale a uso militare e per la conduzione di altri “affari” è un dato acquisito presso i libanesi (e non solo), comprovato dalla scoperta, effettuata il 9 agosto dalla squadra di salvataggio giunta dalla Francia, di un labirinto di gallerie sotterranee che collega il porto a Dahieh, roccaforte di Hezbollah a Beirut.
Ciononostante, la morsa di Hezbollah sul Libano molto difficilmente si attenuerà. Non è infatti intenzione dell’Iran ridimensionare il ruolo del suo avamposto sul Mediterraneo, né Nasrallah è disposto a farsi indietro. Nell’incapacità di andare allo scontro, con Hezbollah occorrerà pertanto sempre e comunque negoziare. Ed è quanto sembra stia facendo la Francia.
Il presidente Emmanuel Macron si è precipitato nella capitale dell’ex colonia francese immediatamente dopo l’esplosione, in una visita volta a rilanciare il ruolo di Parigi quale protettrice e “mère du Liban”, infondendo coraggio e fiducia in una popolazione a dir poco sgomenta. Al contempo, la sostanza della proposta avanzata da Macron è risultata particolarmente deludente agli occhi della protesta. Il governo di unità nazionale che secondo l’Eliseo dovrebbe succedere all’esecutivo Diab, poggerebbe infatti nuovamente sulla collusione “settaria” tra le varie anime della classe “dirigente” che ha condotto il paese al disastro e che la “rivoluzione” vorrebbe ‒ forse troppo ingenuamente ‒ spazzare via. Inoltre, come accaduto nelle altre esperienze di governo di unità nazionale del passato, Hezbollah continuerebbe a esercitare una funzione predominante.
Con ogni probabilità, tuttavia, sarà questa la strada che verrà intrapresa, sulla base di un accordo che offre ampie garanzie ad Hezbollah (e all’Iran) riguardo sia al mantenimento della sua “posizione” egemone in Libano, che alle indagini sulle esplosioni e all’attesa sentenza del Tribunale internazionale per l’assassinio di Rafik Hariri, prevista il 18 agosto.
Gli esperti francesi inviati da Macron hanno dichiarato, in maniera lampo, che non vi sono prove che lascino pensare che la doppia esplosione “non” sia stata provocata da un incidente: una conclusione “morbida”, forse per mettere a tacere le speculazioni sul coinvolgimento di attori esterni e per preparare il terreno a indagini ufficiali che confermeranno la tesi della “negligenza”, senza però puntare il dito sui principali esponenti della classe “dirigente” libanese, Hezbollah compreso (malgrado le denunce secondo cui, in questi giorni, il lavoro delle squadre di salvataggio internazionali è stato rallentato per evitare che emergessero tracce della “gestione” del porto da parte dei miliziani sciiti).
La contrapposizione tra la “rivoluzione” e l’inamovibile establishment è così destinata a nuove escalation e il record di oltre 700 feriti negli scontri post-esplosioni tra i manifestanti e le forze di sicurezza, dicono che sangue e sofferenze attendono i libanesi anche nel prossimo futuro.