Perché in Italia attecchisce la disinformazione

Nelle ultime settimane anche l’Italia, come altri Paesi dell’Alleanza Atlantica, è stata bersaglio di diverse attività di disinformazione e più in generale di infodemia, riconducibili agli apparati del governo russo impegnati nella guerra all’Ucraina.

L’Italia in particolare sembra essere diventata uno degli obiettivi preferiti dalla Russia, che ha individuato ormai da anni il nostro Paese come una sorta di anello debole del fianco occidentale. In base ad una mai celata simpatia per Putin e in generale gli “uomini forti”, unita ad una particolare affinità con l’universo russofono, il mancato riposizionamento di ampi strati dell’opinione pubblica è apparso tangibile e ha fatto interrogare molti sulle ragioni alla base di una simile permeabilità infodemica.

Il tema andrebbe affrontato da due punti di vista differenti: il primo è inevitabilmente legato alla crisi del modello editoriale praticato in Italia, mentre il secondo alle tendenze anti-occidentali di una parte della classe dirigente. Il nostro Paese vive ormai da anni immerso in una lunghissima crisi della carta stampata e delle televisioni, in particolare quella pubblica, che oltre ad aver accusato enormi perdite dal punto di vista economico, soffrono anche una progressiva erosione del proprio bacino di lettori, che ne riduce enormemente l’autorevolezza e alimenta nicchie di polarizzazione. Questo fenomeno, le cui radici affondano a circa 30 anni fa con l’avvento di Mani Pulite, ha portato (unico caso nei paesi del G7) ad un’abdicazione de facto dal ruolo di guida dell’opinione pubblica dei quotidiani più importanti, a cui non è seguito un riposizionamento di nuovi editori che ne colmasse il vuoto. Il risultato è che oggi la mancanza di fiducia verso la stampa tradizionale, intesa anche come la riconosciuta veridicità delle notizie, pregiudica ogni tentativo di questa di orientare o promuovere una linea di pensiero che rappresenti in modo credibile agli occhi dei lettori il posizionamento dell’Italia nello scacchiere della crisi in Ucraina. Lo stesso problema si è verificato in passato con la sfiducia verso i vaccini e l’ascesa del populismo giustizialista di Beppe Grillo e del Movimento 5 stelle, dove addirittura alcuni editori, sia vicini alla destra che alla sinistra, sono scesi in campo consapevolmente come sostenitori di ogni tesi che si ponesse in modo contrario a tutti gli indirizzi scientifici consolidati.

Questa bizzarra declinazione del pluralismo è ancora più visibile nelle televisioni che hanno accolto e coccolato di buon grado i più disparati ospiti “anti sistema” contendendoseli per pochi punti di share in prima e seconda serata. Ci sono reti che hanno impostato la loro linea editoriale, unico caso in Occidente, addirittura all’equidistanza tra Russia e Ucraina, nonostante fosse inequivocabile sin dalle prime ore dell’invasione che Kiev fosse stata brutalmente aggredita. Questo format si è purtroppo ripetuto anche nel manifesto della recente marcia della pace, che è uno dei più chiari esempi dell’ambiguità che si vuole vedere tra vittima e carnefice. Anche questo rientra nella definizione surrettizia di libertà di espressione che è stata abilmente forgiata per poter permettere agli opinionisti di turno di propagandare senza contraddittorio tesi false, destinate ad essere ripetute e pubblicizzate spesso per la sola vendita di spazi pubblicitari. Non ci è dato sapere se gli “esperti” siano al libro paga di Mosca ma lo stesso copione è andato in scena durante la campagna vaccinale e oggi sappiamo con certezza che la Russia ha inteso screditare l’efficacia dei preparati occidentali a vantaggio di prodotti come Sputnik, che rimangono sensibilmente inferiori nonostante il generoso “contributo genomico” raccolto dai Russi in provincia di Bergamo.

La crisi del giornalismo e il suo asservimento alle logiche della raccolta pubblicitaria da parte degli editori si accompagna al fiume carsico del pensiero antioccidentale. Osserva bene Angelo Panebianco quando rileva la sua trasversalità: dall’estrema destra alla sinistra, passando per il cattolicesimo sociale, sia che venga declinato come irrazionale vicinanza a Putin, ostilità alla NATO o pacifismo di stampo religioso c’è sempre un motivo valido per esprimere tutta la propria contrarietà alle posizioni del blocco occidentale. Il “partito della resa altrui” si arricchisce di nuovi membri sia per l’opposizione all’invio di armi che per l’asserita inutilità delle sanzioni. Anche in questo caso l’Italia è un unicum nel panorama europeo. Se in Francia la classe politica in generale e lo stesso Presidente Macron hanno assunto toni più concilianti verso un negoziato con Mosca, senza arrivare mai a confondere il ruoli di aggredito e aggressore, in Italia i sostenitori di Putin hanno evitato di rimangiarsi il proprio giudizio positivo o cambiare posizione come nel caso di Melenchon e Marine Le Pen. Questo ha alimentato una paradossale commedia degli equivoci che ha visto protagonisti in particolare Salvini, Conte e una parte significativa della sinistra: falchi nel posizionare l’Italia fuori dalle alleanze tradizionali ma colombe nel riconoscere che Mosca è colpevole di una ingiustificata aggressione nei confronti dell’Ucraina, che ha invece tutto il diritto ad essere aiutata a resistere sul campo.

Questi pregiudizi giocano a vantaggio di qualsiasi potenza straniera che può insinuarsi agilmente in particolare tra le maglie dell’informazione televisiva, è facile in contesti di crisi belliche passare dal macchiettismo degli aspiranti Masaniello a vere e proprie minacce alla sicurezza nazionale. Interventi deliranti come quelli di Lavrov, avvenuti senza contraddittorio o format televisivi che rilanciano opinionisti alternativi dalla dubbia autorevolezza, condizionano fortemente l’opinione pubblica e un paese ostile potrebbe con facilità sfruttare l’indecisione e i timori legati alle conseguenze del conflitto, per esempio sul potere d’acquisto della classe media, per fare pressione sulla politica a vantaggio di un appeasement che quantomeno garantisca lo status quo delle relazioni.

L’Italia, impoverita culturalmente e politicamente dal crollo del sistema partitico è oggi più che mai in balia di messaggi fuorvianti diffusi con consapevole leggerezza dietro il paravento del pluralismo o della libera informazione. Quando la disinformazione diventa dezinformatsiya, assume i connotati di una strategia preordinata a destabilizzare, confondere il pensiero dei cittadini e orientarlo emotivamente a proprio vantaggio. L’avvento di internet e dei social network ha cambiato ulteriormente il fondamento delle tattiche russe e l’inserimento a febbraio della fabbrica dei troll di San Pietroburgo nella lista delle entità sanzionate non è di per sé sufficiente ad arrestare il flusso infodemico con cui Mosca cerca di mantenersi a galla.

Il paradosso più grande è che le enormi difficoltà che attraversa la Russia, sia nel campo bellico che in quello economico, non vengono né raccontate né percepite adeguatamente in Italia, così a farne le spese è in ultima analisi la posizione dell’Ucraina. Non c’è infatti altro paese in cui l’idea che Kiev sia un fantoccio americano provocatore abbia preso piede come in Italia, con alcuni opinionisti che non si sono limitati a descrivere una fantomatica equidistanza, ma ne hanno addirittura ribaltato i ruoli addebitando all’Ucraina le cause dell’aggressione. Purtroppo per Mosca il perdurare del conflitto, gli insuccessi militari e l’inaspettata forza della resistenza hanno obbligato a ripensare al ruolo della dezinformatsiya. Non più diretta a promuovere la narrazione di una rapida conquista indolore come nel caso della Crimea ma a cementificare in Russia e all’estero l’idea stessa di un conflitto che va evolvendosi verso una sanguinosa guerra d’attrito. L’Italia e l’Occidente hanno oggi l’opportunità di guardare in faccia la realtà e valutare con i propri occhi i costi del tragico fallimento criminale di Putin che trascinerà i suoi stessi connazionali in una spirale di povertà economica e sopraffazione politica che non ha eguali al mondo.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Le incertezze di una guerra alle porte dell’Europa

Il protrarsi delle ostilità in Ucraina da parte della Russia rappresenta oggi un evento singolare e di eccezionale gravità, quanto ad effetti sul piano economico e umanitario, destinato a mettere alla prova le previsioni formulate nei paesi occidentali sullo scoppio e l’andamento del conflitto. Ben prima che si materializzasse la decisione dell’uso della forza, una progressiva escalation politica e poi militare ha spinto i vari governi e le cancellerie, sino agli Stati Uniti, a concepire soluzioni in grado di sciogliere insieme alla Russia il nodo gordiano alla base del conflitto, che appare invece ancora più stretto dopo mesi di frustranti e infruttuose trattative. La crisi, che è ormai assurta alla dimensione di una guerra di aggressione condotta su più fronti ai danni dell’Ucraina, con l’esplicito obiettivo del suo annichilimento politico e territoriale, non figurava come una priorità nelle agende dei principali leader e ora sconta il vuoto di chi potrebbe quanto meno candidarsi a governarla. La decisione della Russia di raggiungere manu militari i propri obiettivi, con un impeto novecentesco, ha colto alla sprovvista chi prefigurava una sostanziale condizione pacifica dell’Europa, non più teatro di offensive su larga scala contro una nazione sovrana, ma anche chi all’opposto immaginava un’operazione tanto rapida quanto di successo per Mosca. Nessuna delle due previsioni si è avverata e oggi . È evidente che l’andamento del conflitto sin dalle prime ore ha tradito le aspettative di chi confidava in una facile vittoria, lasciano spazio ad una serie di valutazioni sulle conseguenze del protrarsi delle ostilità sul piano militare ed economico.

Se è vero che l’Ucraina ha scontato sin dalle prime ore una radicale asimmetria sul piano tattico, le forze armate Russe non sono state in grado di sfruttare la loro superiorità per una serie di fattori: in primis contrariamente alla narrazione diffusa l’esercito di Kiev non somiglia più ad una compagnia di sbandati, ricordo sbiadito del 2014. Dopo 8 anni di combattimenti nel Donbass e un piano di riarmo con il supporto dei paesi occidentali, l’Ucraina schiera delle truppe altamente motivate e ben equipaggiate, con una notevole esperienza bellica sostenuta in patria, sia in teatri urbani che in campo aperto, a cui si è aggiunto il prezioso contributo dell’addestramento americano in tecniche di combattimento in grado di ostacolare azioni offensive come quelle Russe. Gli ultimi mesi inoltre hanno visto un grande afflusso di aiuti militari, specialmente armi anticarro e antiaeree, che a fronte del costo relativamente esiguo sono in grado di infliggere perdite rilevanti e neutralizzare mezzi ben più dispendiosi e soprattutto difficilmente sostituibili ad un ritmo accettabile, se il conflitto dovesse perdurare per diverse settimane. L’esercito Russo al contrario oltre ad essere parso demotivato e smarrito, è sembrato incapace di sfruttare appieno le proprie dotazioni, finendo impantanato in clamorosi errori logistici ripetuti nel corso del tempo, che chiamano in causa l’intera catena di comando. Ci si potrebbe chiedere legittimamente come le decine di migliaia di coscritti inviati al fronte da Mosca dalla tundra siberiana possano prendere l’iniziativa, in una guerra che se è vero che è apparsa tanto insensata alle gerarchie Bielorusse da farle desistere dal partecipare alle operazioni, è altrettanto intuibile quanto possa interessare ai nativi dalle aree più remote del Paese. Meno inclini a fraternizzare con gli Ucraini con cui si scontrano per la prima volta, anche per differenze linguistiche ed etnoculturali, ma non per questo meno restii dei loro connazionali a combattere per conquistare Kiev, che dista pur sempre 5000 chilometri dalla Buriazia. Le débâcle dei primi giorni pongono la questione di quante siano effettivamente le truppe russe addestrate secondo i criteri dell’Alleanza Atlantica. Probabilmente meno di diecimila: un numero di gran lunga insufficiente per prevalere senza rinforzi, contro un nemico che padroneggia il terreno alla perfezione e che sembra disposto a resistere sino in fondo anche in contesti urbani.

L’impatto delle sanzioni economiche invece, è destinato a produrre i suoi effetti nel medio e lungo periodo, ma non è escluso che misure più radicali come una rimozione pressoché totale della Russia dal sistema di pagamenti SWIFT o l’embargo americano sugli idrocarburi, in particolare il petrolio, possano risultare insostenibili già nell’immediato. Decapitare un flusso di cassa di 800 milioni di dollari che giornalmente si riversano nell’erario di Mosca per garantire quel minimo livello di benessere accettabile dal popolo Russo, potrebbe avere contraccolpi altrettanto severi in Europa per la ormai arcinota dipendenza energetica, ma anche gli stessi Stati Uniti verrebbero investiti da una ulteriore fiammata inflazionistica “indotta” dalla crescita del prezzo dell’energia. Mosca potrebbe incorrere in una crisi del debito sovrano, come già accaduto in diverse circostanze ai tempi di Yeltsin, e potrebbe tentare di rimborsarlo in rubli anche in presenza di altri compratori dei suoi titoli di stato, come la Cina e in misura nettamente minore l’India. In assenza di altri paesi esportatori di greggio, l’Arabia Saudita (che sconta notevoli incomprensioni con la Casa Bianca) e l’OPEC rimangono maldisposte ad incrementare la produzione di petrolio e con il Venezuela e l’Iran ben lontani da un accordo politico maturo con gli USA, è facilmente intuibile le ripercussioni che una simile mossa avrebbe sulla ripresa post-covid e sulla tenuta sociale, che nelle democrazie occidentali è sicuramente più a rischio rispetto ad un paese autoritario come la Russia e di quest’ultimo particolare a Mosca sono ben consapevoli. È importante tenere a mente che il prezzo del petrolio si colloca intorno al 6% del PIL in Italia e la soglia della recessione si materializza al 7%, non è difficile intuire che ad Aprile la congiuntura diventerà negativa se il trend fosse confermato.

L’incognita rimane tuttavia comprendere come incideranno i due fattori, militare ed economico in rapporto all’arco di tempo di un conflitto che sembra voler durare abbastanza a lungo da dissanguare l’aggressore. Il supporto ancorché indiretto della NATO gioca un ruolo fondamentale nel contribuire ad infliggere notevoli perdite ai Russi, sia nelle divisioni corazzate che nelle forze aeree, così da distruggere le residue speranze di un blitzkrieg vittorioso. Una situazione di logoramento non potrà avvenire a queste condizioni, perché sarebbe per la Russia semplicemente insostenibile da un punto di vista economico sopportare intensità di un conflitto troppo alte per un paese che conta meno di un decimo della spesa militare degli Stati Uniti e poco più del Regno Unito, non potendo già adesso che impiega la quasi totalità degli effettivi nelle operazioni, rimpiazzare la totalità delle perdite senza sguarnire o depauperare le proprie forze armate al di fuori dell’Ucraina.

Uno stallo destinato a prolungarsi nei prossimi giorni che potrebbe aprire giocoforza lo spazio delle trattative, uno scenario ancora incerto con diversi attori che si affacciano con aspiranti ruoli di mediazione. In Europa Macron, Presidente di turno del Consiglio dell’UE, tiene i fili con il Cremlino forse per emulare il suo predecessore Sarkozy che dalla medesima posizione negoziò nel 2008 il cessate il fuoco in Georgia con Putin e Saakashvili. La Germania paga le consuete contraddizioni energetiche con la Russia, alimentate a vario titolo dagli ultimi cancellieri e si trova a dover prendere frettolosamente le distanze da un passato recentissimo. Se alcune voci autorevoli rimpiangono la leadership di Angela Merkel, ne dimenticano le sue responsabilità nel comportamento ambivalente che Berlino ha in un certo senso imposto all’Europa sulle forniture di gas naturale e nei tentennamenti mostrati davanti ad una crisi che dura ormai da 8 anni e che è parsa per tutto questo tempo una sorta di commedia degli equivoci, oscillante tra proclami internazionalisti e arrocchi mercantilisti. La Turchia gioca una sua partita autonoma dalla NATO, non applicando le sanzioni alla Russia con cui mantiene buoni rapporti, ma vendendo droni all’esercito Ucraino e ribadendo la propria primazia sugli stretti. Erdogan prova ad apparire come l’unico leader abbastanza equidistante da entrambi i contendenti sia da un punto di vista geografico che politico, così da poter promuovere una svolta, quantomeno apparente, nelle trattative in corso ed alimentare una presunta fama di risolutore di conflitti. I legami economici con la Russia poi pendono a suo favore e le recenti intese con Mosca in Siria trovano la diplomazia turca preparata a raggiungere un accordo. Anche Israele sembra apparentemente in grado di inserirsi e sfruttare i legami etnici e culturali che la legano ad ambedue le parti, ma l’eventualità di un successo sconta i limiti di una mediazione forse ancora non matura dal punto di vista temporale, che appare ancora oggi incerta e difficile da concretizzare. Chi si staglierà nei prossimi giorni come possibile paciere è la Cina: maggiore sarà la durata le conflitto, maggiori saranno le difficoltà Russe che potrebbero facilitare una soluzione orientale dalla quale Mosca uscirebbe doppiamente sconfitta. Sul piano militare perché costretta ad invocare l’intervento salvifico di Pechino da una guerra che non sembrerebbe più in grado di controllare autonomamente e su quello economico dove si troverebbe a brandelli, a fronte di conquiste territoriali dal discutibile valore strategico, con la certezza di finire nell’orbita cinese su interni settori produttivi: banche, energia e semiconduttori.

La reazione di Putin dinanzi ad un insuccesso militare, ancorché momentaneo, che si presenterebbe come l’anticamera di quella che fu la guerra in Afghanistan per l’Unione Sovietica, potrebbe spingere la Russia ad innalzare l’intensità dello scontro con uno scenario diametralmente opposto ad una trattativa lampo. Una vittoria di Pirro non è da escludere se l’impegno di Mosca fosse tale da rendere le forze Russe così soverchianti rispetto a quelle Ucraine, da portarle ad una sconfitta sicuramente dolorosa per entrambi o quantomeno da imporre una trattativa a senso unico che ha come precondizione la conquista delle grandi città, a cominciare dalla capitale. Se le perdite fossero eccessive persino in questo scenario, il modello che Putin potrebbe adottare è quello di Grozny, il che presupporrebbe rinunciare al combattimento urbano classico per radere al suolo con l’artiglieria le principali città ucraine in una sorta di riedizione della guerra in Cecenia, nella misura ritenuta sufficiente ad imporre un cessate il fuoco a Kiev, che si ritroverebbe a patire numerosissime vittime civili senza l’evacuazione con i corridoi umanitari. Facile intuire le finalità dal lato Russo di una misura apparentemente rivolta a mettere al riparo i civili, che darebbe il via libera al fuoco indiscriminato dell’artiglieria sui centri abitati, per altro già in corso in sprezzante contrasto con le convenzioni internazionali. Le perdite economiche sarebbero in quest’ultimo caso enormi, Mosca non risulterebbe in grado di colmarle ricostruendo i centri abitati e le infrastrutture. Ciò che rimarrebbe dell’Ucraina somiglierebbe ad una striscia di terra di nessuno devastata che ben si presta alla teoria dello stato cuscinetto più orientato verso l’annichilimento che l’equidistanza.

Un’escalation con il clima arroventato diventerebbe così più probabile, Le tensioni latenti, unite a quelle che un’ulteriore crescita del livello dello scontro sul piano economico e militare possono innescare, formano un mix esplosivo in grado di ipotecare sostanzialmente ogni residua aspettativa di pace nel breve periodo. Le modalità di escalation e di de-escalation sono speculari e spesso non dipendono fino in fondo dalla volontà dei contendenti: la NATO per esempio potrebbe anche istituire una no fly-zone nell’ovest del paese per assicurare il deflusso dei profughi ma al di là dell’aspetto provocatorio, le difficoltà dell’aviazione Russa, martoriata dagli stinger e spinta al volo notturno, renderebbero una  simile misura inutile contro gli attacchi portati avanti con artiglieria e missili cruise, che i caccia sarebbero difficilmente in grado di intercettare. Si aprono allora interessanti prospettive rispetto alla dichiarazione Russa di cobelligeranza, è qui che potrebbero nascere i presupposti per un’improvvisa accelerazione del conflitto: in assenza di un’invasione dal confine Bielorusso, che finora non ha avuto seguito, una Russia esausta con caccia e tank braccati da Kiev con le armi NATO, potrebbe pensare di colpire i trasferimenti degli aiuti militari al confine qualora risultassero così decisivi per le sorti del conflitto da portarla alla sconfitta. Questo in che misura possa interessare i membri dell’alleanza atlantica ancora non è chiaro e ovviamente dipenderebbe dall’area geografica interessata da un potenziale attacco. L’articolo 5 del trattato non contribuisce a sciogliere i dubbi e la stessa definizione di “attacco armato” si presta a diverse interpretazioni in assenza di una prassi applicativa. Lo stesso accadrebbe con la messa a disposizione dell’Ucraina delle infrastrutture aeroportuali in Polonia, avendo la Russia distrutto la quasi totalità degli aeroporti di Kiev, e di alcuni vecchi caccia MIG da trasferire, la cui utilità però appare dubbia in considerazione della scarsa importanza che l’aviazione ha avuto in questo conflitto. Contrariamente a quanto si crede, i bombardamenti aerei hanno avuto un impatto relativamente ridotto rispetto al loro potenziale e anche per i diversi errori di Mosca nelle prime fasi del conflitto l’Ucraina sembra conservare ancora una piccola parte delle proprie difese aeree che non ha esitato ad impiegare con successo.

Anche le sanzioni infine potrebbero influire su scenari inaspettati: non sarebbe difficile immaginare le conseguenze che una rimozione totale della Russia dallo SWIFT unita all’embargo dagli idrocarburi produrrebbero sulla leadership Russa, che appare sotto pressione in tutti i casi e che per questo potrebbe essere portata a compiere scelte avventate. La debolezza è spesso una caratteristica connaturata agli Stati autoritari e il paradosso di un Putin sempre più debole potrebbe essere il rafforzamento interno delle forze armate, non più semplice strumento di proiezione di una flebile potenza imperiale ma ormai le vere indiziate di questo conflitto, che le ha viste finora prevalere sul blocco di potere dei servizi di sicurezza che in Russia è da sempre dominante. La vera incognita potrebbe presto riguardare il ruolo nascosto dei generali, pronti a tessere la trama di uno scontro interno al Cremlino dove a prevalere sarebbero i falchi più che le colombe.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

 

 

 

LASCIATE STARE L’AL BANO NAZIONALE!

E’ notizia di queste ore che Albano Carrisi è stato inserito nella cosiddetta black list dal ministero della Cultura ucraino, in base alle richieste del Consiglio di Sicurezza e Difesa nazionale dell’Ucraina, dei servizi di sicurezza ucraini e del Consiglio della Tv e Radio nazionali. In sostanza il cantante famoso per le sue canzoni come “Felicità”, “Libertà”, “Bella” e tante altre, per il regime di Kiev non è altro che un individuo considerato una minaccia alla sicurezza nazionale.

Scorgendoci sulle piattaforme social, appare evidente che il pubblico sia quasi divertito da questo accostamento tra intrattenimento e geopolitica. Si ride. Si sorride. Quasi increduli che un “un bicchiere di vino con un panino” possano essere considerati una minaccia per un governo che aspira a entrare nell’Unione Europea. Questa notizia, tra il lieve e il grave in realtà nasconde una questione non più rinviabile per il nostro Paese.

Parliamo di un paese che noi sosteniamo, paese che finanziamo, paese nostro amico, paese con il quale abbiamo importanti legami culturali, se non altro per la numerosa comunità ucraina presente in Italia, paese cristiano. L’Ucraina che noi amiamo e per la quale abbiamo addirittura introdotto dannose sanzioni economiche ad un nostro importante partner commerciale come le Russia. Può avere dunque, questo paese, una black list con diversi nomi italiani? Può continuare ad aspirare ad entrare nell’Unione Europea avendo e utilizzando “liste” in cui vengono inseriti nomi di cittadini italiani (e non solo) soltanto per aver detto un’opinione o come nel caso di AL BANO per avere vantato un’amicizia con il Presidente Putin? E’ Possibile che il nostro ministro degli esteri Moavero non chieda immediati chiarimenti all’ambasciatore ucraino in Italia? Possibile che si continui a far finta che in Ucraina non ci sia un pericoloso problema che riguarda i dubbi metodi utilizzati dal governo ucraino per fronteggiare una ipotetica propaganda filo-russa? Possibile che i nostri concittadini debbano essere inserti arbitrariamente in questa black list? Ma soprattutto è possibile tollerare che uno dei maggiori simboli della nostra cultura nazional-popolare possa essere umiliato in questo modo senza che il governo intervenga?

A tal proposito visto che l’Ucraina non sembra essere riconoscente verso il nostro Paese, sarebbe anche ora che Salvini dia una plausibile spiegazione sul motivo per il quale in campagna elettorale ha promesso di togliere il regime di sanzioni alla Federazione Russa e invece il governo italiano continua a sostenere le proroghe. Il prossimo appuntamento utile sarà il 31 luglio. Avrà Salvini il coraggio di mettere il veto sulla proroga di queste inutili sanzioni? C’è un tessuto produttivo che attende e merita una risposta. Se poi nel frattempo, riusciamo a chiedere spiegazioni al governo ucraino su queste inaccettabili black list sarebbe una cosa utile non solo a tutela dei nostri concittadini, ma anche della nostra dignità come Paese sovrano.

*Mario Presutti, collaboratore Charta minuta